"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

189 | marzo 2022

97888948401

“Amor che move”

Una conversazione con Manuele Gragnolati su Pasolini e il Medioevo

a cura di Silvia De Laude

English abstract

Manuele Gragnolati insegna Letteratura Italiana Medievale a Parigi (Sorbonne Université). È Senior Research Fellow presso il Somerville College di Oxford, vice-direttore dell’ICI di Berlino (Berlin Institute for Cultural Inquiry) e vice-presidente della “Société Dantesque de France”. La sua prima monografia (Experiencing the Afterlife. Soul and Body in Dante and Medieval Culture, Notre Dame 2005) esplora il significato della corporeità nella cultura del XIII e XIV secolo, un tema su cui è tornato più volte, concentrandosi in particolare sulla Commedia, sulla filosofia scolastica e sulla letteratura didattico-spirituale in volgare. Ha scritto un commento alle rime di Dante (Rime giovanili e della Vita Nuova, cura, saggio introduttivo e introduzioni alle rime di Teodolinda Barolini, note di Manuele Gragnolati, Milano 2009) , e pubblicato pochi anni dopo la raccolta di saggi Amor che move. Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante, Milano 2013.

Si è occupato di soggettività e autorialità (dalla Vita Nuova al presente), ma anche di riscritture e appropriazioni moderne di testi medievali, di teorie femministe e queer. Il suo ultimo libro è scritto a due mani con Francesca Southerden, Possibilities of Lyric. Reading Petrarch in Dialogue, che si conclude con un epilogo della poetessa Antonella Anedda (ICI Berlin Press, Berlin 2020). Sempre con Francesca Southerden ed Elena Lombardi è curatore di un’opera imprescindibile e, per come è stata concepita, anche rivoluzionaria, uscita giusto un anno fa nel mese di marzo (The Oxford Handbook of Dante, Oxford 2021). Ci vediamo per dar forma a questa intervista nel novembre del 2021 a Parigi, dove si sta celebrando il centenario del poeta Andrea Zanzotto, che è un altro dei ‘suoi’ autori.

Silvia De Laude | Comincerei dal tuo secondo libro, Amor che move (2013), che ha come sottotitolo Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante. “Amor che move” è ovviamente una citazione dantesca (da Paradiso XXXIII, nientemeno), ma il libro non è uno studio su come il Medioevo o diciamo pure Dante agiscano sull’opera di Pasolini e della Morante: niente a che vedere, insomma, con un “Medioevo secondo Pier Paolo Pasolini”, o un “Medioevo secondo Elsa Morante”. Già nell’Introduzione illustri cosa intendi quando parli di “lettura per diffrazione” (diffractive reading). C’entrano almeno una suggestione dell’epistemologa e studiosa della scienza Donna J. Haraway (in Testimone_Modesta@_FemaleMan@_incontra–OncotopoTM. Femminismo e tecnoscienza, a cura di Liana Borghi, Feltrinelli, Milano 2000), e il fenomeno ottico della diffrazione, secondo il quale “delle onde luminose che incontrano un oggetto non danno luogo a un’ombra che ripete con precisione la forma dell’oggetto ma producono un pattern di diffrazione complesso che dipende tanto dalle onde quanto dall’oggetto”. In che modo secondo te un approccio di questo tipo può essere utile alla lettura di autori come Dante, e Elsa Morante e, nel nostro caso, Pasolini?

Manuele Gragnolati | In Amor che move mi interessava esplorare le diverse figurazioni espresse o prodotte, di volta in volta, dall’intreccio di desiderio, corporeità e linguaggio nei testi di tre amatissimi autori della letteratura italiana che mi sembravano particolarmente interessanti da questo punto di vista: la Vita Nuova e la Commedia di Dante, la Divina Mimesis e di Pasolini e Aracoeli, l’ultimo romanzo di Morante. Il mio obbiettivo non era tanto quello, sicuramente interessante e in parte già raggiunto dalla critica, di approfondire le influenze di un autore sull’altro, come non lo era contribuire alla storia dell’emergere di una concezione moderna di identità e della sua crisi e decostruzione nel XX secolo. Mi interessava piuttosto creare una costellazione di testi che si potessero illuminare a vicenda, nelle loro somiglianze e nelle loro differenze, e che interagissero tra di loro al di là del loro legame apparente o di un senso unidirezionale di influenza, fonte o genealogia. È quello che ad esempio fa magistralmente Ann Carson quando fa dialogare a dispetto di spazio e tempo il lirico corale dell’antica Grecia Simonide di Ceo con il poeta novecentesco rumeno di lingua tedesca Paul Celan, mettendoli a fuoco l’uno con l’altro: “With and against, aligned and adverse, each is placed like a surface on which the other may come into focus” (Economy of the Unlost: Reading Simonides of Keos with Paul Celan, Princeton 1999, VIII). O quando, partendo da una domanda posta implicitamente da una lirica di Saffo (“What is it that love dares the self to do?”), esplora le affinità sorprendenti nei testi della poetessa greca, della mistica medievale Margherita Porete e della filosofa novecentesca Simone Weil, con l’obbiettivo di capire il rapporto paradossale tra l’esigenza di scomparire dal testo che comporta l’esperienza dell’estasi e l’impresa di raccontare il divino (“Decreation: How Women Like Sappho, Marguerite Porete and Simone Weil Tell God”, in Decreation: Poetry, Essays, Opera, New York 2005, 155–83).

In realtà, diversamente dagli autori e dalle autrici presi in considerazione da Carson, gli autori che ho analizzato in Amor che move sono legati tra di loro: non solo condividono tutti la stessa lingua, ma Pasolini e Morante hanno anche avuto un lungo e intenso rapporto di amicizia e condivisione artistica. Ed entrambi conoscono bene l’opera di Dante, con la quale si confrontano lungo il corso di tutta la loro produzione – Pasolini in maniera frontale e Morante in maniera più obliqua. Così la Divina Mimesis ha la forma di un rifacimento della Commedia e Petrolio dialoga in diversi modi importanti col poema dantesco; e a sua volta, Aracoeli dialoga tanto con l’opera di Pasolini (sul quale è tra l’altro modellata la figura del suo narratore-protagonista) quanto con quella di Dante. Ma, rifacendomi a Haraway (e a Carson) ho voluto segnalare che, come dicevo prima, non mi interessavano solo le fonti o le influenze di un testo su un altro ma anche, e soprattutto, le prospettive che si aprivano attraverso la costruzione di dialoghi incrociati che facessero interagire i testi anche quando i legami tra di essi sono meno diretti o evidenti (ad esempio leggendo la Divina Mimesis, che è un rifacimento della Commedia, non attraverso di essa ma dalla prospettiva della Vita Nuova) e procedessero in tutte le direzioni (non solo ad esempio analizzando come il plurilinguismo dantesco abbia ispirato quello pasoliniano ma anche utilizzando l’estetica queer di Petrolio e di Aracoeli per comprendere meglio la testualità del Paradiso dantesco). Molteplici sono i tipi di diffrazione sperimentati nei vari capitoli del libro, ad esempio l’uso del concetto di performance per leggere tanto l’identità dell’autore nella Vita Nuova quanto il rapporto tra anima e corpo nella Commedia; l’operazione testuale della Vita Nuova per entrare in quella della Divina Mimesis e di Petrolio; o l’analisi incrociata del rapporto tra il linguaggio, la memoria e il concetto di resurrezione del corpo in Aracoeli e nella Commedia; o, ancora, l’esame del rapporto tra sessualità e forma del testo nella Divina Mimesis e in Petrolio come griglia per capire l’estetica di Aracoeli e del Paradiso. Si potrebbe dire che ogni capitolo si concentra su un testo specifico e getta le basi per un’analisi che viene portata avanti in quello successivo, che a sua volta si concentra su un altro testo. Così Il percorso inizia con la Vita Nuova, si sposta alla Divina Mimesis e a Petrolio e, passando per l’Inferno e il Purgatorio, arriva ad Aracoeli e si conclude con il Paradiso. Per tornare alla lettura per diffrazione proposta da Haraway e alla volontà di fare interagire i testi al di là dei legami apparenti di parentela, mi sono lasciato ispirare dall’obbiettivo di matrice femminista di produrre una nuova “coscienza critica”, che non sia interessata a riprodurre e rinforzare sistemi di sapere (e di potere) già consolidati ma cambi la prospettiva e cerchi di produrre qualcosa di nuovo: “I modelli di diffrazione registrano la storia di interazione, interferenza, rinforzo e differenza. La diffrazione riguarda una storia eterogenea, non gli originali. A differenza delle riflessioni, le diffrazioni non spostano il medesimo altrove, in una forma più o meno distorta, originando in tal modo industrie di metafisica. Al contrario, la diffrazione può essere la metafora per un altro tipo di coscienza critica alla fine di questo sofferto millennio cristiano, una coscienza impegnata strenuamente a fare una differenza invece che ripetere la Sacra immagine del medesimo” (290). È un tentativo che ha colto bene Antonella Anedda quando nella sua recensione ad Amor che move (“Testo a fronte” 51, 2014) parla dello scardinamento che il libro ha operato di un’idea di critica “statica, lineare, autoreferenziale”, scegliendo invece un modello di discorso aperto, mobile, “inquirente”.

SDL | Nel primo capitolo di Amor che move, ossia Identità d’autore. La performance della “Vita Nuova”, c’è un discorso molto interessante sulla costruzione dantesca di un’identità d’autore, che ha come tappa decisiva la Vita Nuova, in cui Dante riprende, con un commento che le riconduce a una narrazione unitaria, liriche composte in precedenza. Le reinventa, quindi, in funzione dell’immagine di sé come auctor che vuole trasmettere. È un tema, quello della reinvenzione di sé attraverso una nuova combinazione dei propri testi, che diversi studiosi hanno affrontato nel considerare l’opera di Pasolini. Penso per esempio all’ultimo libro di Gian Maria Annovi, che ha collaborato anche a un precedente numero pasoliniano di “Engramma”: Pier Paolo Pasolini Performing Authorship, New York 2017. Anche tu, per la Vita Nuova, parli di performance autoriale…

MG | Grazie, Silvia, della domanda, che mi permette di soffermarmi brevemente su quanto avevo accennato prima, quando dicevo che uno dei primi spostamenti o diffrazioni operati nel libro è stato quello di leggere la Divina Mimesis, prima, e Petrolio, poi, attraverso le lenti della Vita Nuova e non solo della Commedia, che rappresenta il modello più esplicito dei testi pasoliniani. Così, nei primi tre capitoli del libro esploro la figura dell’autore nella Vita Nuova, nella Divina Mimesis e in Petrolio e, riferendomi alle teorie di studiosi quali John L. Austin e Judith Butler, metto in luce la dimensione performativa con cui il testo di Dante fa nascere l’autore moderno e i testi di Pasolini lo distruggono. Come dicevi, il primo capitolo, “Identità d’autore. La performance della Vita Nuova” esplora il libello dantesco dalla prospettiva della doppia esistenza e doppia temporalità delle sue liriche, che furono inizialmente composte secondo la consuetudine dell’epoca nella forma di rime indipendenti l’una dall’altra e solo in un secondo tempo raccolte e organizzate in maniera innovativa in un racconto unitario in prosa. Alle liriche la Vita Nuova aggiunge una narrazione in prosa, creando un’autobiografia esemplare che, nel raccontare un’evoluzione paradigmatica, spesso cancella il significato originario delle liriche e lo sostituisce con uno diverso. Sebbene quindi solo raramente la Vita Nuova introduca delle varianti testuali nelle vecchie liriche, essa ne attua comunque una vera e propria riscrittura. Questa riscrittura può essere pensata nei termini di una “performance dell’autore” magistralmente riuscita in due sensi: non solo perché compiuta da un autore che mette in scena il proprio passato come un itinerario ideale che porta al controllo sul desiderio e a un nuovo modo di fare poesia – una specie di Bildungsroman si potrebbe forse dire; ma anche nel senso più forte che attraverso la presentazione stessa di questa narrazione si forma un nuovo autore che, combinando l’esemplarità e l’autorevolezza dell’auctor medievale con un carattere personale e individualizzato, rappresenta una delle prime istanze di autorialità in senso moderno, poi ulteriormente perfezionata nella Commedia.

I due capitoli successivi indagano il confronto ininterrotto di Pier Paolo Pasolini con Dante e lo prendono in esame in relazione alla sua riflessione su cosa significa essere un autore nel XX secolo. Dopo una discussione della lettura gramsciana che negli anni cinquanta Pasolini aveva dato di Dante come modello della contaminazione plurilinguistica con cui l’autore borghese poteva avere accesso alla soggettività del tanto ammirato e desiderato sottoproletariato delle borgate romane, il secondo capitolo, intitolato “Rifare e disfare Dante. Dalla Mortaccia alla Divina Mimesis”, si concentra in particolare sull’opera pasoliniana che più esplicitamente si presenta come una riscrittura di Dante. Iniziata e abbandonata intorno alla metà degli anni sessanta per poi essere ripresa dall’autore poco prima della morte e pubblicata nella sua forma finale e incompleta nel 1975, anche La Divina Mimesis ha, come le liriche della Vita Nuova, una testualità stratificata e una temporalità multipla ma, a differenza della Vita Nuova, le esibisce invece di sintetizzarle o mascherarle, disintegrandosi in frammenti incompleti che si accumulano senza unità e presentandosi come una serie di progetti non realizzati. In questo modo La Divina Mimesis non solo fa vedere e quindi scardina il meccanismo performativo che nella Vita Nuova aveva dato luogo alla nascita dell’autore moderno e del controllo che questi esercita sul testo, ma anche mette provocatoriamente in scena il proprio fallimento.

Il terzo capitolo, “Una performance queer. Petrolio e l’orgoglio del fallimento”, esplora il significato profondo di tale messa in scena e, mettendolo in relazione a Petrolio, il romanzo iniziato da Pasolini nel 1972 e interrotto con la sua morte nel 1975, lo lega a una declinazione particolare di desiderio e di sessualità. In particolare, con Petrolio Pasolini prende una posizione che leggo come queer nel senso della definizione radicale proposta da Lee Edelman, vale a dire, una posizione che rifiuta una forma di temporalità legata all’ideologia di progresso e associata al “futurismo riproduttivo” della (etero)normatività, a favore invece di una ripetizione e di una negatività non teleologiche e legate a una forma di sessualità sovversiva e non-riproduttiva. L’analisi di Petrolio mostra che la dimensione desiderante e intersoggettiva sottesa agli ideali pasoliniani degli anni Cinquanta si trasforma negli anni Settanta nella rivendicazione di una sessualità masochista che si traduce, dal punto di vista formale, nella scelta del “non riuscito”. Entrambi i testi pasoliniani attuano, dunque, una modalità di quella che, in dialogo con Freud, Leo Bersani ha chiamato“sublimazione artistica” e che non consiste nel trascendere il desiderio (secondo il concetto tradizionale di sublimazione), ma nel riprodurlo nella forma del testo: come Petrolio propone una testualità che procede caoticamente all’infinito senza mai arrivare da nessuna parte e dà all’impegno la forma paradossalmente disperata dell’irrisione e della parodia, così la decisione di pubblicare un testo incompleto e a quel punto anche “fuori tempo” come La Divina Mimesis può essere interpretata come un gesto provocatorio che dice di no all’ordine normativo e capitalista del progresso, della linearità e della loro estetica. (Sono poi tornato sul carattere paradossale dell’impegno pasoliniano negli anni ’70 in un saggio scritto insieme a Christoph Holzhey per il volume Petrolio 25 anni dopo: (Bio)politica, eros e verità nell’ultimo romanzo di Pier Paolo Pasolini a cura di Carla Benedetti, Manuele Gragnolati e Davide Luglio, Macerata 2020, in cui abbiamo approfondito il legame tra sessualità, etica ed estetica e in particolare il significato politico di una sessualità masochista che non solo provoca un gioioso spossessamento di sé ma anche libera il soggetto dalle implicazioni nefaste con il potere).

SDL | Dimenticavo di dire che con Almut Sauerbam tempo fa hai curato una raccolta di saggi sulla performatività dei testi medievali (Aspects of the Performative in Medieval Culture, Berlin-New York 2010. E un’altra, con Sara Fortuna e Jürgen Trabant (Dante’s Plurilingualism. Authority, Knowledge, Subjectivity, Oxford 2010).

MG | Effettivamente, tutta questa prima parte del libro è strettamente legata a questi due volumi che esplorano il linguaggio nel medioevo da diversi punti di vista: il primo è il risultato di un progetto comparatistico dell’Università di Oxford (dove ero professore di letteratura italiana prima di passare a Sorbonne Université) sul tema della performance nel Medioevo e proprio in quell’occasione avevo incominciato a riflettere sul rapporto tra carattere performativo del linguaggio e autorialità; mentre, come dice il titolo, il secondo volume è il risultato di un convegno fatto all’ICI Berlin (che da ormai quindici anni mi accompagna e mi plasma intellettualmente) sul tema del plurilinguismo dantesco, che è stato un modello importantissimo per Pasolini e di cui, anche grazie a Gramsci e a Contini, ha dato un’interpretazione e una declinazione geniale.

SDL | Mi viene in mente per cambiare discorso (ma non troppo) una pagina molto intelligente di Walter Siti, nel saggio L’opera lasciata sola, nell’ultimo dei nostri Meridiani (Tutte le poesie, II, Mondadori, Milano 2003), che sarà riproposto proprio nel marzo 2022 da Rizzoli col titolo Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini. Dice pressappoco così. Proprio perché spremeva ogni momento della sua vita, Pasolini la trasformava in una cosa di carta ma non definitivamente. Questo rifiuto di un punto di non-ritorno trova espressione, fra l’altro, nell’idea di opere “trans-testuali”, pubblicate separatamente ma secondo l’intenzione dell’autore da leggere insieme, come se appartenessero a un unico indice (cioè a un unico progetto). Basta pensare alla raccolta di versi in friulano La nuova gioventù (1975), palinodia e sfregio inferto alla Meglio gioventù (1954) ma anche, in un filone diversissimo, agli Scritti corsari, opera multigenere che comprende intervento sulla politica e la società e, insieme, recensioni letterarie, da leggere (secondo l’intenzione dell’autore) insieme agli interventi più propriamente politici. Nella Nota introduttiva agli Scritti corsari (te ne rileggo un passo), Pasolini chiede al lettore un “necessario fervore filologico” (il “fervore meno diffuso del momento”, aggiunge). Il fervore (e sappiamo cosa significhino fervor e fervore, nei testi medievali) che consiste nell’accettare di essere “rimandato anche altrove che alla serie di scritti contenuti nel libro”: “La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone le sostanziali unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze (ossia ricerche o ipotesi abbandonate). È lui che deve sostituire le ripetizioni con le eventuali varianti (o altrimenti accepire, per dirla con un termine pasoliniano, le ripetizioni come delle appassionate anafore).” “Altrove” dove, secondo te?

MG | Non lo so, dovreste dircelo tu e Walter Siti! Ma l’importanza attribuita al lettore mi ricorda quanto dicevo a proposito del fatto che, proprio nelle opere che maggiormente si confrontano con Dante, Pasolini mette esplicitamente in discussione l’autorialità moderna che “inizia” proprio con Dante e che attribuisce all’autore il controllo sul testo e sulla sua ricezione. In questo senso è esemplare l’operazione della Vita Nuova a cui accennavo poco fa: mentre secondo la modalità tipica del medioevo le rime circolavano liberamente ed erano spesso inviate ad altri poeti perché le interpretassero, il libello dantesco crea una nuova figura dell’autore che, proprio sulla base della propria autorevolezza conoscitiva e morale che gli deriva, tra l’altro, dalla possibilità di controllare il proprio desiderio erotico, ne fissa il significato una volta per tutte. Anche grazie alla rivendicazione della forza del desiderio e della sua impossibilità a essere dominato, Pasolini fa esplodere questa figura e il controllo che esercita, restituendo al lettore il compito di portare a termine l’opera, che rimane programmaticamente frammentaria.

SDL | La quarta edizione della Scuola del Centro Studi Pasolini di Casarsa si è aperta quest’anno con un intervento di Marco Antonio Bazzocchi su Pasolini e il Decameron, che presentiamo in questo numero di “Engramma”. Tu ti sei occupato più di scrittura lirica, ma che idea ti sei fatto di Pasolini e Boccaccio? Approfitto di questa conversazione per chiederti una cosa. La tradizione manoscritta in questo caso non dà certezze, ma ti pare concepibile che il Decameron sia stato scritto, presumibilmente fra il 1348 e il 1352, già con la sua struttura di cento novelle divise in giornate ‘a tema’, con la cornice, la peste ecc.? A differenza di Dante nella Vita Nuova, per riprendere un esempio che ti è caro, Boccaccio nel Decameron scriverebbe ex novo, sia pure attingendo al ricco patrimonio novellistico offerto dalla tradizione orientale e di ascendenza greco-latina, dagli exempla e anche dall’oralità (per le storie di Firenze, come quella di Guido Cavalcanti e il suo bon mot alla jeunesse dorée della città)… Se fosse così, avremmo una conferma clamorosa dell’importanza della cornice, che curiosamente nel film di Pasolini (Il Decameron) è un motivo del tutto secondario. La stessa marginalizzazione della cornice avviene nei Racconti di Canterbury – film di cui tratta in questo numero di “Engramma” Roberto Chiesi. È una questione che ti sei posto?

MG | Veramente non ancora: per quanto riguarda la letteratura medievale ho lavorato di più sulla poesia che sulla prosa e, per il momento, il Decameron di Boccaccio è un’opera che ho insegnato ma mai veramente approfondito come ricercatore, così come del resto il film di Pasolini. Ma quello che mi ha sempre colpito del Decameron pasoliniano è che, almeno a prima vista, manca proprio quell’organizzazione unitaria che la cornice sembra dare all’opera di Boccaccio e la mia idea è sempre stata, in linea con quanto dicevo prima a proposito di Petrolio, che Pasolini si stesse opponendo alla rigidità della forma chiusa e della sua ideologia, tanto più in un film che vuole celebrare la vitalità del corpo e della sessualità. (Sarà il contrario con Salò, dove la perfezione “dantesca” della struttura e della forma veicolerà la violenza mortifera del fascismo e del potere sui corpi). Proprio in questi mesi sta portando a termine la sua tesi di dottorato sul Decameron pasoliniano Eliza Muresan, una studiosa dell’École des hautes études en sciences sociales di Parigi, e la sua proposta critica è che l’assenza della cornice nel film di Pasolini sia tanto importante quanto la sua presenza lo è nel testo di Boccaccio, e abbia una valenza democratica, da una parte evidenziando (ancora maggiormente rispetto a Boccaccio) il ruolo che la Fortuna gioca nelle vicende umane e, dall’altra, contribuendo a porre al centro della narrazione il mondo popolare e la sua vitalità: con la scomparsa della cornice, si perde il controllo che questa esercita sull’opera e sulla realtà e scompaiono tanto il mondo aristocratico-cortese rappresentato dalla brigata quanto l’elogio delle qualità umane che sono prerogativa delle classi agiate e privilegiate. In questo senso è interessante che, anche quando si distingue una classe superiore, essa indossi abiti di feltro, un materiale che all’epoca di Boccaccio era considerato popolare e non sofisticato. Ma non solo: all’eliminazione della cornice corrisponde un rimescolamento dei codici letterari e storici che permette una migliore comunicazione e un’osmosi più fluida tra passato e presente. Da qui, secondo Muresan, nasce un’altra cornice, che è quella del tournage vero e proprio, in cui si realizza una forma di democratizzazione ulteriore a livello dei ruoli dell’équipe nella misura in cui Pasolini considera il costumista Danilo Donati come un vero e proprio co-autore: è come se in questo film in costume, liberati dalle maglie e dal filo narrativo tradizionali, le azioni e le parole umane si intrecciassero inestricabilmente come le fibre del feltro e come la vita stessa.

SDL | L’ultima edizione della scuola Pasolini di Casarsa era dedicata come sai a Pasolini e la cultura medievale da Dante a Boccaccio. Mancava nel titolo, e non è mai stato fatto a Casarsa, il nome di Petrarca, l’altra ‘corona’ del nostro Trecento. Ovviamente si capisce perché. Dante è anche il plurilinguismo, l’indiretto libero ecc. ecc. (temi di cui oltretutto lo stesso Pasolini si è occupato in sede critica, per esempio nel saggio famoso La volontà di Dante a essere poeta, del 1965, confluito poi in Empirismo eretico). Certo, è difficile immaginare uno scrittore più diverso da Pasolini di Petrarca. Ma qualche riflessione si potrebbe fare, se si considera oltre al resto il ruolo di primo piano svolto nella formazione di Pasolini dal saggio di Contini Preliminari sulla lingua di Petrarca. Cos’era, secondo te, Petrarca per Pasolini (magari coinvolgendo nel discorso i pochi versi iperpertrarcheschi che Pasolini ricorda come i suoi primi)? E ancora: quando Pasolini parla, riprendendo Contini, di plurilinguismo vs monolinguismo, lo fa ricordando Dante e Petrarca, identificati da Contini come iniziatori e ‘campioni’ dei due filoni? Come sai, è un argomento (comprensibilmente, ripeto) trascurato dall’infinita bibliografia su Pasolini. Mi viene in mente giusto un articolo (con ottimi spunti) di Flavio Santi, “Das Petrarkische” in Pasolini, uscito su “Italianistica”, 34, settembre-dicembre 2005…

MG | Che bella domanda e che difficile rispondere! Ho trovato molto interessante l’articolo di Santi, che riconosce come Pasolini abbia forgiato il proprio linguaggio poetico su Petrarca e come addirittura nella prima poesia in friulano Casarsa fosse percepita come una sorta di Vaucluse ma come, a partire dalla fuga dal Friuli e l’incontro con Roma, il nuovo linguaggio poetico e la visione sul mondo che esprime, rinuncino alla selettività petrarchesca e si aprano al plurilinguismo dantesco, al sermo humilis e alla contaminazione degli stili e delle voci. Tutto questo è vero e lo dicevi anche tu. E in questa ottica Santi nota come, in contrapposizione alla vitalità e alla libertà della scelta dantesca, quella petrarchesca appaia “una lingua di potere, integrata, conservativa, museale” (101), a cui, a sua volta, corrispondono delle implicazioni politiche e ideologiche conservatrici che arrivano fino a fare di Petrarca “il campione di una concezione irreale, idealistica e perciò retorica del mondo, l’istitutore della norma, che non è solo linguistica ma anche sessuale, il fondatore dell’eterosessualità” (100–101). Sono osservazioni acute che colgono a pieno come l’estetica e la poetica abbiano delle valenze politiche, in Pasolini, così come mi verrebbe da dire nel caso di qualsiasi autore e/o autrice.

Allo stesso tempo mi chiedo se das Petrarkische non possa a volta operare più in profondità, quasi inconsapevolmente, nel senso che si potrebbe individuare una sorta di “corrispondenza di amorosi sensi” tra un autore come Petrarca che mette in scena una soggettività divisa e contradditoria e un autore come Pasolini che sceglie la contraddizione come cifra della propria poetica e della propria soggettività, quello “scandalo del contraddirmi” tra impegno politico e irrazionalità del sentimento che non sembra così lontano dalla tensione, costante nell’opera petrarchesca, tra attaccamento al mondo terreno e anelito verso l’ideale divino. (Tra l’altro mi fa piacere ricordare che proprio questa cifra dell’autocontraddizione è al centro di un volume di saggi, dal titolo appunto, The Scandal of Self-Contradiction che ho curato insieme a Luca Di Blasi e a Christoph Holzhey e che mi ha anche aiutato a concettualizzare meglio alcune categorie come l’erranza, l’inversione e la non-linearità – ma anche la passività e l’apertura – che sono state importantissime nella lettura della poesia petrarchesca che insieme a Francesca Southerden abbiamo fatto nel volume Possibilities of Lyric menzionato sopra). E, solo come ultima suggestione, mi chiedo anche se, soprattutto attraverso la mediazione dei sonetti shakespeariani, il modello lirico di matrice petrarchesca non ritorni nella postura dell’amante non corrisposto che si trova prepotente nell’Hobby del sonetto (la raccolta scritta nei primi anni Settanta dopo l’“abbandono” di Ninetto), dove, servirebbe, paradossalmente, a esprimere un desiderio omosessuale.

SDL | L’ultima volta che ti ho sentito parlare in pubblico (alla Triennale di Milano, il 27 di luglio, di quest’anno, hai dialogato su Dante e il mistero con Ersilia Vaudo, astrofisica, Chief Diversity Officer all’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e curatrice della 23ª Esposizione Internazionale della Triennale Unknown Unknowns. An Introduction to Mysteries, che verrà inaugurata nel maggio del 2022. Puoi spiegare cosa intendevi per “mistero” in Dante? Durante la tua conferenza mi è capitato spesso di pensare a Pasolini…

MG | Dialogare con Ersilia Vaudo intorno al mistero era stata una bellissima occasione per pensare a Dante da una prospettiva per me insolita e quindi particolarmente interessante. Purtroppo la memoria mi gioca sempre più spesso dei brutti scherzi e fatico a ricordare esattamente i dettagli della nostra conversazione ma, anche perché incomincio a conoscermi un po’, mi sembra di potere dire che siamo partiti dall’idea che Dante non è l’autore monolitico che viene generalmente considerato. Sempre di più infatti – e qui si vede forse l’influenza che la mia lettura di Pasolini ha esercitato sulla maniera in cui leggo Dante – mi interessa fare vedere che la grandezza o l’interesse della Commedia non risiede in un suo presunto aspetto totalizzante o in una presunta coerenza interna in cui tout se tient e che tutto spiega con autorità. Tutt’altro. Uno degli scopi che mi prefiggo quando mi occupo di Dante, è insistere che si tratta invece di un autore sorprendente e meno “dominante” alla maniera in cui viene generalmente letto, un autore che spesso solleva domande invece che risolverle, e che nel corso del tempo si trova in situazioni di vulnerabilità e compie scelte “minoritarie” a prima vista poco evidenti. Ad esempio proprio la tanto celebrata scelta del plurilinguismo e della commistione degli stili può essere considerata da questa prospettiva e accostata alla condizione di estrema vulnerabilità e apertura in cui Dante si trova dopo l’esilio. Ma per tornare al mistero, nell’incontro alla Triennale facevo notare che da una parte la Commedia è un poema sulla conoscenza che si propone di risolvere i grandi misteri del tempo ma dall’altra, iniziando dall’episodio del Limbo nel IV canto dell’Inferno, passando per i Cieli di Giove e di Saturno nei canti XVIII-XXII del Paradiso e arrivando sino all’Empireo nel penultimo canto del poema, non cessa di sollevare il problema della giustizia divina senza riuscire a risolverlo. Non posso in questa sede entrare nei dettagli di una questione affascinante e importantissima per la struttura etica di tutto il poema, ma cercavo di ricordare che, se la Commedia rappresenta una investigazione straordinaria sulla natura umana e sui misteri dell’universo e del divino ed è un testo che, in maniera altrettanto straordinaria, riesce a mettere insieme numerosissimi campi del sapere, dalla filosofia alla teologia, dalla medicina al diritto, dalla letteratura alla linguistica alla politica, è anche un testo che riconosce che c’è qualcosa che sfugge alla conoscenza dell’uomo. È dunque un testo che riconosce i limiti della ragione e, al contempo, vuole celebrarla; o anche viceversa, un testo che vuole celebrare la ragione e, al contempo, riconoscerne i limiti. Questi due aspetti coesistono e anche in questo senso la Commedia è un testo che continua a sfidarci, a farci pensare, abbracciando la complessità. Forse è questo aspetto che ti ha ricordato Pasolini!

English abstract

The article reports a conversation of Silvia De Laude with the scholar Manuele Gragnolati about Pasolini and Medieval Literature, starting from the book Amor che move. Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante (2013).

keywords | Pasolini; Dante; Morante.

Per citare questo articolo: “Amor che move”. Una conversazione con Manuele Gragnolati su Pasolini e il Medioevo, a cura di Silvia De Laude, “La Rivista di Engramma” n. 189, marzo 2022, pp. 213-225. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.189.0009