"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

193 | luglio 2022

97888948401

L’indicibile rappresentabile

Su Wittgenstein e Klee

Enrico Palma

English abstract

Le cose non si possono afferrare o dire tutte
come ci si vorrebbe di solito far credere;
la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili,
si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato,
e più indicibili di tutto sono le opere d’arte,
misteriose esistenze la cui vita,
accanto alla nostra che svanisce, perdura.
Rainer Maria Rilke (1929)

1 | P. Klee, Grenzen des Verstandes, olio su tela, München, 1927, Pinakothek der Moderne, 56,44x41,50 cm.

Una delle più grandi acquisizioni del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein è aver mostrato, o addirittura dimostrato, che esiste una regione dell’essere a noi preclusa, che ciò che conta davvero sapere e risolvere non è alla nostra portata e che gran parte dei nostri sforzi teoretici, forse tutti, è destinata al fallimento e all’assurdo. C’è un grande senso di serenità tra le gelide e implacabili proposizioni di quest’opera, tale almeno per chi sappia leggerle e riconoscere in esse, com’era chiaro a Wittgenstein stesso, un’impalcatura saliti sulla quale si possa vedere rettamente il mondo.

Nella quotidianità spesso frustrante, dolorosa e angosciante, ci si arrabatta nel tentativo di assegnare un senso alle cose, al loro durare, venire meno ed eclissarsi, alla difficoltà di esserci e della continua e strenua lotta per garantire noi stessi. Eppure, come notato dal filosofo anglo-austriaco, soprattutto per chi abbia un’indole profondamente filosofica, e dunque portata per natura a domandare sulle cose ultime, possono essere altre le ragioni delle crisi spirituali e delle tribolazioni della mente. Domande che afferrano fin nel profondo e a tal punto da rischiare di sconvolgerci e da farci dubitare della legittimità del nostro essere al mondo. Molto probabilmente Wittgenstein avrebbe chiamato tali interrogativi col nome di demoni.

Dalla sua biografia può infatti desumersi come tratto fondamentale la gravità del pensiero. Faceva a meno di libri inessenziali e si vantava persino di non aver mai letto Aristotele in vita sua, poiché questo sforzo per nulla avrebbe inciso sui suoi problemi e su ciò che gli stava a cuore. L’attività filosofica, ancorché di psicologia, matematica e prassi linguistica, aveva a che vedere con quello che già nel Tractatus egli aveva definito come chiarificazione, pulizia e assoluzione. La filosofia avrebbe dovuto difatti assolvere i suoi peccati: come dimostra il famoso episodio in cui, nell’attesa di essere ricevuto da Russell, rispose al maestro, che lo sentiva andare e venire come un ossesso per il corridoio esterno al suo studio, battendo forte i piedi sul pavimento e farfugliando balbettii incomprensibili, che il suo pensiero era rivolto parimenti e con la stessa dedizione sia alla logica che ai suoi peccati (Monk 1990). Da cogliere quindi nella sua filosofia, legata indissolubilmente alla sua esistenza tormentata e indefessa, è un bisogno viscerale di risposte certe.

Un senso del Tractatus può infatti essere così riassunto: ciò a cui vorremmo ardentemente rispondere, le famose domande che in forme differenti sono sempre ritornate nella storia della filosofia con gli stessi nomi ma con significati diversi, ovvero se si vuole le grandi domande della metafisica su Dio, anima e mondo, è in realtà ineffabile. Dopotutto:

Di una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda (Tractatus, proposizione 6.5: Wittgenstein [1921] 1964, 108).
[Zu einer Antwort, die man nicht aussprechen kann, kann man auch die Frage nicht aussprechen].

Che senso ha, allora, fare filosofia, porsi le domande, affannarsi nella ricerca di risposte a cui non perverremo mai? Appunto quello di smettere di domandare e di vivere coerentemente con l’acquisizione raggiunta, che il senso ultimo delle cose è tacere su di esso e arrestarsi dinanzi alla porta dorata del suo tempio. Wittgenstein lo mostra, o per meglio dire l’esibisce, attraverso l’isomorfismo metafisico tra linguaggio e realtà di cui il pensiero si fa medium. In una delle più intriganti proposizioni del libro, la 5.6, il filosofo afferma:

I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo (Tractatus, proposizione 5.6: Wittgenstein [1921] 1964, 88).
[Die Grenzen meiner Sprache bedeuten die Grenzen meiner Welt].

Il linguaggio che io parlo e comprendo, se correttamente inteso, mi suggerisce cosa è dicibile e cosa non lo è, cosa descrive il mondo e cosa lo trascende fuorviandolo.

C’è un enorme senso di tragedia in questa posizione, comprendere cioè che quello che conta davvero sapere nella vita è a noi precluso, gettati come ci troviamo in un mondo che non possiamo sondare fino in fondo. Ma c’è anche una grande saggezza, un invito a una nuova pratica esistenziale. Vivere nella rilassatezza del non dover più domandare significa penetrare il segreto del mondo con altri mezzi, con un atteggiamento diverso e un afflato più spirituale che razionale, più mistico che intellettuale. La filosofia di Wittgenstein, almeno all’altezza del Tractatus, è un gesto intellettuale, estremamente rigoroso e puntuale, volto a gettare questo stesso atteggiamento per poi riversarsi su un tipo di considerazione delle cose che prescinda da esso. Voglio dire, insomma, sollevarsi dal peso a volte troppo grave della domanda, della fatica che Wittgenstein mostra essere insensato fare per cose alle quali non possiamo arrivare a causa di limiti intrinseci al nostro essere e alla nostra capacità di pensare. Va comunque chiarito che non si tratta di una rinuncia, di una scelta di comodo, quasi di un voltare le spalle alla nostra identità più propria di esseri pensanti, bensì di una scelta argomentata e necessaria, un tentativo di vivere il mondo all’interno di limiti più sostenibili e meno angosciosi. Infatti afferma:

La risoluzione del problema della vita si scorge allo sparire di esso (Tractatus, proposizione 6.52: Wittgenstein [1921] 1964, 108).
[Die Lösung des Problems des Lebens merkt man am Verschwinden dieses Problems].

Wittgenstein invita a non pensare alla morte, al fatto che dopo la vita terrena ci possa essere un’altra vita, a una bilancia celeste in cui verranno pesate le anime dei defunti e giudicate le nostre colpe, che possa esistere un essere supremo decisore delle nostre esistenze. È una grande benedizione della vita, una totale accettazione di essa nei limiti in cui ci è data. Se si vuole, è una lezione molto antica, tanto che in molti hanno tentato di accostare, con ragione, Wittgenstein alla scuola stoica o all’epicureismo, ma non per questo meno originale, poiché la genialità del Tractatus sta proprio nella grandissima precisione concettuale attraverso la quale arrivare all’obiettivo: silenzio, ma un silenzio in cui sentire di più.

Ma a cosa si riduce, se così si può dire, l’insegnamento wittgensteiniano? Utilizzare il Tractatus per comprendere tutto questo e poi letteralmente buttarlo via. Vale la pena ricordare la fondamentale proposizione 6.54, e la sua bellezza:

Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo essere asceso su esse.) Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo (Tractatus, proposizione 6.54: Wittgenstein [1921] 1964, 109).
[Meine Sätze erläutern dadurch, daß sie der, welcher mich versteht, am Ende als unsinnig erkennt, wenn er durch sie – auf ihnen – über sie hinausgestiegen ist. (Er muß sozusagen die Leiter wegwerfen, nachdem sieht er die Welt richtig)].

Suggerisco però una strada alternativa e wittgensteiniamente anche legittima, perché se l’interdizione di impronta persino parmenidea era di non parlare, o di parlare, rilevando una qualche paradossalità di fondo, “non per costruire nella regione del non-senso una nuova fortezza metafisica, ma per esercitare una vigorosa proibizione a entrarvi” (Gargani 1973, 42), si potrebbe invece insistere interpellando una figura. E la figura alla quale chiedo un chiarimento, e che verrà chiarita a sua volta dal venire accostata al Tractatus, può esserne la rappresentazione più fedele e allo stesso tempo l’accumulazione concettuale più densa.

Si tratta del quadro, custodito nella Pinakothek der Moderne di München, del 1927 di Paul Klee intitolato Grenzen des Verstandes (Limiti della comprensione), il quale, illuminato in particolare dalle ultime proposizioni dell’opera wittgensteiniana, può essere interpretato al meglio aprendo uno scenario ermeneutico, è il caso di dire, di frontiera (un tentativo simile, cioè un confronto tra Klee e Wittgenstein, è stato fatto, seppure con argomentazioni diverse da quelle qui tentate, da Heinrich 2019).

Proprio come Wittgenstein, anche Klee era un pensatore essenziale: allo stesso modo del filosofo che voleva significare l’indicibile delimitando chiaramente il dicibile, il pittore intende rappresentare l’invisibile esprimendo essenzialmente il visibile. Con una frase programmatica della sua speculazione figurativa:

L’arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile (Klee [1920] 2004, 13).
[Kunst gibt nicht das Sichtbare wieder, sondern macht sichtbar].

Solo così si riescono a cogliere alla radice il fascino dell’opera kleeiana e le ragioni per cui molti filosofi e scrittori si sono fatti coinvolgere dai suoi quadri e disegni. L’arte, per Klee, deve rappresentare ciò che la realtà in se stessa non è in grado di esprimere, e tale è il compito della raffigurazione. Strade, alberi, angeli, volti, bambini, profili cittadini sono raffigurati in modo da rappresentare il concetto predominante che l’artista vi coglie, ovvero la linea, il colore, il tondeggiare di un viso, la stilizzazione dell’esperienza (Di Giacomo 2011, 51-58).

Nel quadro si possono rappresentare, in una sorta di immagine-movimento, attraverso gli elementi formali (il punto, la linea, lo spazio-superficie complesso), alcuni degli accadimenti della natura nel suo dispiegarsi temporale: il fluttuare del fiume (linea ondeggiante), la nebbia della notte (piano vaporoso), il guardarsi indietro lungo il cammino percorso (l’intrico delle linee della riflessione). Questo giunge nel dipinto non in prospettiva, ma tutto insieme, ordinato secondo l’intuizione e l’inventiva dell’artista che ritrae ciò che accade nella natura. La prospettiva dapprima si deforma, si sgretola ma infine si appiattisce, strutturando il dipinto in due dimensioni, nelle quali tutto sembra acquistare la medesima dignità. La prospettiva si annulla perché mondo e osservatore, tra di loro mediati dall’opera, spingono entrambi in direzione del quadro appiattendosi sulla superficie della tela. In definitiva: l’opera compie lo sforzo di attirare da una parte la natura verso di sé, appiattendo la profondità, e dall’altra l’osservatore, ricucendo la distanza veritativa con il mondo. In tutto questo, l’opera è il tramite ontologico tra mondo e spettatore per cui il visibile esprime l’invisibile e l’indicibile viene significato. È ciò che Klee chiama complesso equivalente di scrittura-immagine raccontata.

A proposito di questa tecnica di racconto in immagini scritte in un codice di punti, linee e piani di colore, e piuttosto che fornire una mera descrizione del quadro in oggetto, propongo dunque l’accostamento con il Tractatus. Anche considerando una brillantissima nota wittgensteiniana che spiana la strada a Klee: “In arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buono del non dire niente” (Wittgenstein [1977] 1980, 54).

In quel quadro c’è un volto umano, o vagamente antropomorfico, generato da linee spezzate che costituiscono i tratti del viso. Sembrano pareti architettoniche, sezioni di volumi attraversate da una lama, la geometria dei solidi applicata alla materia organica e biologica. Si riconoscono però due occhi, un naso, i capelli, forse anche le labbra. Si percepisce comunque una vibrazione costante che attraversa l’intrico ragionato di linee e segmenti. L’idea che restituisce è quella di un’umanità totalmente sostanziata dal calcolo, da impostazioni rigide e schematiche, metallica e depurata dalla carne. In altri termini, una gabbia. È come se l’umanità di questo volto fosse stata privata del suo tratto più proprio, e vi fosse rimasto solo il basamento cogitativo, direi altrimenti l’esoscheletro della riflessione che soggiace a ogni organicità possibile. Oppure, che si sia indossata una sorta di elmo meccanico che amplifichi le possibilità stesse del pensiero, alludendo a un concetto diverso e anch’esso più esteso di potenza mentale. Senonché, Klee dà un’indicazione molto forte e ineludibile, scavando infatti un solco nel quale risulta impossibile non camminare, il limite. Il pensiero umano ha un limite e, come il volto della creatura che ci guarda, si spezza per riprendere da capo.

Dall’ombra, sul lato destro del volto, dal luogo del quadro del maggiore groviglio, le linee a un certo punto si semplificano, come se un percorso possibile non fosse andato spezzato impattando contro il limite, bensì salendo verso l’alto. Staccandosi dal profilo del volto, si erge infatti una scala. Una scala che si interrompe su un piano sospeso e che poi riprende fino a una sfera: sembra una cosa molto vicina alla somma idea platonica, il Bene, ciò che fa essere tutte le altre idee anche se “non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza trascende l’essenza” (Pl., R. VI 509B). Essa sta in cima, un luogo a cui aspirare e tendere, il simbolo della perfezione e del senso universale a cui all’umano non è consentito arrivare, poiché, come Klee raffigura, limitato. Klee rappresenta dunque in quella sfera ciò che l’umano non può comprendere. La conoscenza vera, l’ineffabile e l’indicibile a cui il nostro linguaggio e la nostra comprensione non possono pervenire, sta lì in alto, inafferrabile, allo stesso modo in cui Wittgenstein aveva affermato che ciò che contava raggiungere è per noi impossibile. Talché, seguendo la metafora kleeiana, per l’uomo scaleno urge una semplificazione.

Dove la comprensibilità dell’intero è perfetta nell’armonia della linea curva che si chiude su se stessa e gode di un senso in sé determinato, l’umano è destinato alla linea spezzata, a quella che si perde e si frantuma. L’umano è tale essenza: limite che si spezza rappresentando con ciò il suo stesso limite. E tutto ciò è confermato da una strepitosa affermazione di Klee, una delle sue più famose e citate, nonché certamente convergente con gli esiti del Tractatus:

Nella cerchia superna, dietro la pluralità delle interpretazioni possibili, resta pur sempre un ultimo segreto – e la luce dell’intelletto miseramente impallidisce (Klee [1920] 2004, 20).
[Im obersten Kreis steht hinter der Vieldeutigkeit ein letztes Geheimnis und das Licht des Intellekts erlischt kläglich].

C’è dunque anche in Klee una meditata consapevolezza che esiste un ineffabile, e il pallore del quadro in oggetto, la sua forma, il suo monito, ne sono le più esemplari delle interpretazioni e rappresentazioni.

In quest’opera c’è tutta la poetica del Tractatus: il sentimento del limite, la raffigurazione che qualcosa al di là del limite esiste e che tale dimensione di verità ci è preclusa, la scala che bisogna usare (nella metafora wittgensteiniana lo stesso Tractatus) per vedere il mondo nel modo corretto. Ma la scala, nel quadro di Klee, arriva alla sfera? Arriva a lambirla anche per lo spessore di un solo punto o non la sfiora nemmeno? O anch’essa è un segno del carattere asintotico di ogni sapere, toccare un punto con l’intuizione e poi corromperla con lo scadimento che, in questo orizzonte filosofico, significa la spiegazione comprendente in parole?

La seconda scala, quella più piccola e più in alto, dal tratto più sottile e meno distinta, forse per via di una resa prospettica o della volontà da parte di Klee di rappresentare la caducità della salita, si interrompe, nonostante dalla sfera scendano, o salgano, altri due segmenti che sembrano sorreggere la scala stessa, come se venisse sostituita con un ponte ideale, l’idea per cui un contatto almeno superficiale con questo intero è garantito e possibile.

Se la raccomandazione di Wittgenstein era di gettare la scala che le proposizioni del suo Tractatus avevano costruito, per guardare il mondo nell’unico modo in cui andrebbe visto, e cioè come un tutto limitato di cui non abitiamo che una parte espressa dall’unico linguaggio sensato delle scienze naturali, qual è nondimeno la percezione del mondo redento di cui ci parla Wittgenstein? Per meglio dire: c’è nel quadro di Klee, intensificato dalla filosofia wittgensteiniana, una rappresentazione di tale mondo visto correttamente? O c’è solamente una metafora di irraggiungibilità e di perfezione intangibile? Tutte queste domande sono meritevoli di risposta ma ci allontanano da un’interpretazione che tenga conto in modo armonico e del testo e della figura. Bisogna concepire l’intrico dedalico delle linee che descrivono quel volto, come detto, proprio come una gabbia, quasi una prigione da mito platonico, la fuga dalla quale è consentita appunto dalla consapevolezza di quel limite che, venendo compreso come cifra ontologica, esistenziale e spirituale del mondo, scatena e rende l’intrico meno fitto, la gabbia meno soffocante, il piano più disteso, la linea più libera e tendente alla rotondità della sfera.

Il senso complessivo del testo e della figura, in sintesi, potrebbe essere tale: c’è davvero dell’irraggiungibile, dell’ineffabile e dell’incomprensibile, e la prova della sua esistenza è data dal fatto che sentiamo che una dimensione tale deve esserci anche se non possiamo dirne alcunché. Delimitando chiaramente il dicibile, Wittgenstein ha in qualche modo mostrato l’indicibile, che in fondo sono le questioni su cui la filosofia, l’arte e la religione si sono interrogate dalla notte dei tempi; rappresentando l’essenzialità del visibile, Klee ha mostrato allo stesso modo l’invisibile, concettualizzandolo in una sfera a cui arrivare tramite una scala, vero trait d’union delle due opere. Cosa resta allora da fare? Quale direzione indicano queste due opere? Wittgenstein, in modo del tutto coerente, forte della consapevolezza di aver risolto in definitiva i problemi della filosofia e che ogni suo sforzo futuro non avrebbe potuto più aggiungere alcunché, com’è noto andò a fare il maestro elementare in un piccolo paese montano dell’Austria, salvo poi sentire nuovamente il richiamo della filosofia e riconoscere di aver guardato ai problemi filosofici in modo troppo ristretto.

In realtà, come anche notato da uno degli interpreti più acuti del pensatore anglo-austriaco, un nome illustre quale Pierre Hadot, Wittgenstein non cambiò mai opinione riguardo alle tesi delle ultime proposizioni del Tractatus. Semmai, a cambiare fu il mutamento di prospettiva sulle questioni linguistiche, da una logica del linguaggio a una pragmatica, a un’antropologia e a un cognitivismo del linguaggio, quando il linguaggio stesso, piuttosto che un dire e un nominare, diventa radice di possibilità plurime di un fare. Per Wittgenstein, la questione della verità e della comprensione rimase insomma sempre nel modo in cui viene raffigurata nel dipinto di Klee.

È davvero sorprendente, e importante da segnalare, che alla base della riflessione storico-filosofica di Hadot ci sia proprio la filosofia wittgensteiniana, in particolare l’esito mistico del Tractatus. Hadot si era avvicinato alla filosofia del pensatore austriaco quando in Francia era pressoché uno sconosciuto. Ancora più sorprendente è che il concetto di esercizio spirituale deriverebbe dapprima dalla masticazione delle ultime proposizioni dell’opera giovanile di Wittgenstein e in secondo luogo dalla nozione altrettanto celebre di Sprachspiel, per cui la ricerca filosofica diventa un’indagine della prassi quotidiana. Wittgenstein avrebbe perciò influito in modo determinante nella formulazione di ciò che Hadot ha definito come “un’attività, quasi sempre di ordine discorsivo, sia razionale o immaginativa, destinata a modificare in sé o negli altri il modo di vivere o di vedere il mondo”, l’esercizio (Hadot [2004] 2007, 12). In ciò il Tractatus, a dispetto di quanto possa affermare il suo stesso autore con la proposizione 4.112:

La filosofia è non una dottrina, ma un’attività (Tractatus, proposizione 4.112: Wittgenstein [1921] 1964, 49).
[Die Philosophie ist keine Lehre, sondern eine Tätigkeit]

È certamente un auspicio a fare della filosofia una prassi, ma anche una dottrina da imparare e assimilare al punto da trasformare il nostro essere in modo totale (Marconi 2019, 58). Se delle proposizioni circa il senso della vita o su ciò che è più alto possono formularsi, queste non modificano alcunché del mondo, che rimane inalterato, eccetto il limite, che viene appunto collocato da Wittgenstein nel soggetto non metafisico e di cui Klee ci ha fornito la raffigurazione del volto. Quando ovviamente per metafisica si intenda qualunque asserzione che “verta su tratti non contingenti del mondo come un tutto, o del rapporto linguaggio/mondo (quindi, anche affermazioni sul senso della vita ecc.)” (Frascolla 2017, 289).

Se all’inizio si era detto che in questa visione della realtà, ben più estrema di ogni noumeno possibile poiché ciò non può essere pensato non può nemmeno essere detto né tantomeno rappresentato, giaceva un senso immane di tragedia e un sentimento di gravità esistenziale così profondo da svuotare la vita di qualunque significatività possibile, forse adesso comprendiamo come la cosa sia molto più ragionevole e intuitiva, come la gabbia abbia assottigliato le sue sbarre, come la visione di questo mondo su cui Wittgenstein invita a salire colui che veramente lo comprende sia una scelta saggia. Forse, scendendo di grado ma salendo di intensità conoscitiva, potremmo parlare insieme alla tragedia di tristezza, insieme alla tristezza di malinconia, e insieme alla malinconia, per ultima, di una sottilissima sensazione, di una Einfühlung con l’Intero, una placida rassegnazione a ciò che non possiamo né capire né ottenere, che se compresa fino alla radice ci libera, ci redime e ci assolve.

Questi due autori intendono la salvezza in modo persino più sottile della rottura del limite che ci appartiene e ci fa soffrire, ovvero del ritorno all’intero dal quale proveniamo e verso cui proviamo una nostalgia inconscia. Un intero che è oltre noi e che è dicibile con il silenzio, raffigurabile con una sfera, praticabile con la consapevolezza di una necessaria coordinazione mistica con il mondo limitato filosoficamente. Dice Wittgenstein:

Il senso del mondo deve essere fuori di esso (Tractatus, proposizione 6.41: Wittgenstein [1921] 1964, 106).
[Der Sinn der Welt muß außerhalb ihrer liegen].

Pare un’espressione quasi didascalica rispetto al quadro di Klee in cui il Senso ultimo e risolutivo, che potrebbe sciogliere il dramma della vita di non poter contare appunto su questo Senso, viene fatto coincidere con quella sfera, con questo Sole dirimente. L’inesprimibile, il mistico, rimane perciò ineliminabile, ma dalle riflessioni di Hadot si può desumere che se nel Tractatus il mistico non può essere detto bensì solo sentito, come sarà chiaro nelle Philosophische Untersuchungen, può essere agito, significato. La filosofia è un esercizio spirituale poiché, secondo Wittgenstein, essa chiarisce e cura i fraintendimenti che provoca il linguaggio parlato e agito. Il linguaggio ci mostra entro quali limiti possiamo pensare il cosmo e come il quotidiano ci nasconda l’essenza delle cose. La filosofia di Wittgenstein è dunque in questo solo senso pensabile come un’estasi mistica: cercare di rivelare l’aporia nel tentativo di esprimere quel che non si può e ciò nonostante, pur tacendo, parlarne in modo proprio per rasserenare lo spirito e vivere bene. È per questa ragione che Wittgenstein stesso poté parlare, come del resto anche Klee a proposito della sua arte, del Tractatus come di un libro etico (Perissinotto 2017, 60).

Cerco di aiutarmi, in conclusione, con un altro filosofo, quel Walter Benjamin che tributò a Klee una vera e propria venerazione e al quale dedicò uno dei suoi testi più famosi forse dell’intera storia intellettuale del Novecento, la IX tesi sul concetto di storia sull’Angelus Novus (Benjamin 1999, 35-37). Nel suo altrettanto impervio Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, snodo importantissimo per una filosofia del linguaggio in senso mistico e non logicistico, Benjamin scrive:

Vive, in ogni tristezza, la più profonda tendenza al silenzio, e questo è infinitamente di più che incapacità e malavoglia di comunicare. Ciò che è triste si sente interamente conosciuto dall’inconoscibile (Benjamin [1916] 1962, 68).
[Es ist in aller Trauer der tiefste Hang zur Sprachlosigkeit, und das ist unendlich viel mehr als Unfähigkeit oder Unlust zur Mitteilung. Das Traurige fühlt sich so durch und durch erkannt vom Unerkennbaren].

Guardare il testo e la figura scelti potrebbe rattristare ma anche rasserenare, perché ci sono cose che non si possono capire e che bisogna comunque accettare come tali continuando a pensare e ad agire. La filosofia e l’arte intese come sforzo teoretico integrato delimitano il dicibile e il comprensibile, in una ragionevolezza vitale che ripiega all’interno del limite e se ne appaga, allontanando le sirene di un oltre negato a noi e che pensato in modo ostinato e anche folle ci fa soffrire, ci danna sempre di più. Wittgenstein e Klee, acquisito il limite della comprensione, alludono quindi a un sentimento, quel mystisches Gefühl che ci rimette a noi stessi e ci fa sentire la vita e il mondo in modo più profondo, esattamente come un inesprimibile, invisibile ma esistente battito di luce.

Riferimenti bibliografici
  • Benjamin [1916] 1962
    W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo [Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen, in Medienästhetische Schriften, Frankfurt a.M. 2002] trad. it. R. Solmi, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino 1962.
  • Benjamin [1942] 1999
    W. Benjamin, Sul concetto di storia [Über den Begriff der Geschichte, in Gesammelte Schriften, I/2, Frankfurt a. M. 1974], a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino 1999.
  • Di Giacomo 2011
    G. Di Giacomo, Introduzione a Klee, Roma-Bari 2011.
  • Frascolla 2017
    P. Frascolla, Il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein. Introduzione alla lettura, Roma 2017.
  • Gargani 1973
    A. Gargani, Introduzione a Wittgenstein, Roma-Bari 1973.
  • Hadot [2004] 2007
    P. Hadot, Wittgenstein e i limiti del linguaggio [Wittgenstein et les limites du langage, Paris 2004], a cura di B. Chirussi, Torino 2007.
  • Heinrich 2019
    R. Heinrich, Rechnen und Zeichen – Klee und Wittgenstein, “Aesthetics Today”, 2017, 309-318.
  • Klee [1920] 2004
    P. Klee, Confessione creatrice e altri scritti [Schöpferische Konfession, in Tribüne der Kunst und Zeit, herausgegeben von K. Edschmid, Berlin 1920], trad. it. F. Saba Sardi, Milano 2004.
  • Marconi 2019
    D. Marconi, Il «Tractatus», in D. Marconi (a cura di), Guida a Wittgenstein, Roma-Bari 2019, 15-58.
  • Monk 1990
    R. Monk, Wittgenstein. Il dovere del genio [Wittgenstein. The duty of genius, New York 1990], trad. it. P. Arlorio, Milano 1991.
  • Perissinotto 2017
    L. Perissinotto, Wittgenstein. Una guida, Milano 2017.
  • Rilke [1929-1933] 1980
    R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta. Lettere a una giovane signora. Su Dio [Briefe an einer jungen Dichter. Briefe an einen junge Frau. Über Gott, Frankfurt a. M. 1929-1933], trad. it. L. Traverso, Milano 1980.
  • Wittgenstein [1921] 1964
    L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, [Tractatus logico-philosophicus, 1921, ora in Werkausgabe. Band I, Frankfurt a. M. 1984], trad. it. A.G. Conte, Torino 1964.
  • Wittgenstein [1977] 1980
    L. Wittgenstein, Pensieri diversi [Vermischte Bemerkungen, Frankfurt a. M. 1977], a cura di M. Ranchetti, Milano 1980.
English abstract

This essay compares Ludwig Wittgenstein’s Tractatus logico-philosophicus with Paul Klee’s Grenzen des Verstandes to explore the respective work of philosophy and painting as mutually illuminating, as creative acts that project a clarifying light onto one another in the shared theoretical and artistic sensibilities of their authors. The last propositions of the Tractatus on the limits of language, of the utterable and of human understanding, provide insight into painting as an absolutely non-didactic modality. Meanwhile, Klee’s painting acts as a clarification of what is expressed in Wittgenstein’s philosophical work. The essay shows how both Wittgenstein and Klee have contributed to describing a mystical feeling of reality in an ineffable and unspeakable world that is expressed through the definition of limits in an existential praxis that projects feeling rather than understanding, action rather than knowing.

keywords | Wittgenstein; Klee; Reason; Limit; Silence.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo: Enrico Palma, L’indicibile rappresentabile. Su Wittgenstein e Klee, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 91-104 | PDF di questo articolo
To cite this article: Enrico Palma, L’indicibile rappresentabile. Su Wittgenstein e Klee, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 91-104 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.193.0003