"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

193 | luglio 2022

97888948401

La memoria di un gesto che raccoglie il visivo in un segno. I taccuini della storia dell’arte

Recensione del volume: Emanuele Pellegrini, La memoria in tasca, De Luca, Roma 2021

Silvia De Min 

English abstract

Sul ginocchio che tiene piegato, un giovane poggia un libretto in cui appunta qualcosa. Difficile dire dove sia seduto e cosa stia scrivendo. Forse l’autore, l’orafo e incisore fiorentino Maso Finiguerra (XV secolo), tratteneva in quell’immagine il momento prezioso in cui un garzone raccoglieva gli insegnamenti di una giornata passata alla bottega del maestro d’arte. È la copertina, aperta alle interpretazioni, del libro La memoria in tasca. Taccuini, immagini, parole di Emanuele Pellegrini (De Luca, Roma 2021). Il carattere suggestivo di questa immagine, che isola il soggetto e lascia vuoto lo sfondo, ci introduce alla lettura di uno studio che moltiplica le ipotesi proprio rispetto a quel gesto di scrittura, al supporto che lo trattiene e al contesto in cui avviene, qui solo ipotizzabile. Considerato ora un compagno di viaggio, ora un collettore di idee, ora uno strumento di lavoro su cui annotare le osservazioni dal vivo, il taccuino è il protagonista di questo saggio denso e dalla scrittura agevole.

Nonostante Pellegrini si soffermi su alcuni taccuini esemplari, non è il contenuto specifico degli stessi ad essere posto al centro dell’analisi, quanto alcuni motivi chiave della storia del “piccolo libretto”, come Leonardo chiamò per primo il taccuino, raccomandandone l’uso. Alcuni di questi motivi chiave sono: il “carattere aperto e mobile” del taccuino, che si rivela un vero e proprio “laboratorio permanente”; le ibridazioni tra taccuino e altre forme di scrittura privata, come i diari, o la prossimità con scritture d’arte, come i manuali, le storie, i cataloghi; infine – ed è su questo che ci soffermeremo in questa presentazione – il rapporto tra parole e immagini la cui natura, nelle pagine di un taccuino, non è mai scontata.

Per comprendere la varietà dei materiali presi in esame e delle problematiche messe in evidenza, ripercorriamo, a grandi linee, lo sviluppo complessivo del saggio, il quale accompagna il lettore in un percorso cronologico che, proprio in virtù di alcune costanti nell’uso del taccuino, non esita a sottolineare punti di contatto tra epoche distanti.

Il primo capitolo ci racconta in che modo si affermi e si diffonda l’uso del taccuino rispetto al mutamento dei supporti che, fin dall’antichità, venivano utilizzati per l’annotazione. Dal Papiro di Artemidoro, la cui datazione oscilla tra I sec. a.C. e I sec. d.C., fino alle pagine sciolte attribuibili a Pisanello (XV secolo), passando per il Livre de portraiture di Villard de Honnecourt della prima metà del XIII secolo, la storia dei primi potenziali taccuini parla del mondo delle botteghe, dei passaggi di mano in mano, dei viaggi raccolti in pagine che, proprio per il loro uso pratico, presentano problemi conservativi sui quali questo studio riflette. A cambiare le sorti del taccuino sarebbe stata la diffusione della carta che, data la più immediata reperibilità, finisce per accogliere schizzi che perdono progressivamente il carattere normativo, per diventare personali aides mémoires o appunti di creatività. Ma cosa dire in questa prima fase del rapporto tra parole e immagini?

Prendiamo il celebre esempio del Livre di Villard, il quale conserva testimonianze figurative che sono sicuramente riproduzioni di oggetti artistici. Un viaggio in Ungheria è all’origine del Livre, ma non è possibile sapere se i disegni del taccuino siano stati eseguiti durante il viaggio, se siano copie di opere viste dal vero o se siano frutto dell’immaginazione del loro autore. Non si sa nemmeno se Villard lavorasse in ambito artistico ma, se così fosse, si tratterebbe di uno dei più antichi esemplari giunti integri fino a noi di artist notebook. Pellegrini non cerca risposte a domande che restano necessariamente aperte, ma suggerisce un metodo d’analisi che considera il Livre come un esempio antico di una questione semplice che attraverserà l’intera storia dei taccuini: riprodurre un oggetto artistico significa attuare vere e proprie strategie di lettura dell’immagine. Su questo tipo di supporto vengono d’altra parte messi in atto veri e propri processi di astrazione: “Appuntare su una pergamena un oggetto attraverso un’immagine non significa copiarla direttamente per come essa è, bensì estrarre una grammatica visiva di base” (da pagina 41). I presupposti spesso chiamati in causa dai più recenti studi di cultura visuale sono qui già tutti presenti: il disegno testimonia della moltiplicazione dei punti di vista su un oggetto, dei movimenti dell’occhio, della selezione di dettagli messi in risalto rispetto ad altre parti del disegno più rarefatte, dei processi di sintesi operati dallo sguardo.

L’immagine copiata sul taccuino è sintomo di un desiderio di conoscenza e l’integrazione del testo rispetto alle immagini, vera e propria novità del Livre, ha natura didascalica esplicativa, con l’aggiunta di informazioni non riproducibili in forma grafica, precisando per esempio nomenclature, luoghi, date. Parole e immagini si legano tra loro e si spalleggiano nelle spiegazioni degli oggetti, in una compresenza che, a questa altezza cronologica, sembra essere imprescindibile.

La pratica di appunti sul taccuino affianca, tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo, il libro di modelli (modelbook) e, successivamente, il libro di schizzi (notebook), passaggio fondamentale proprio di quel processo di liberazione dal modello che porta poi al disegno appuntato sul taccuino come atto creativo autonomo, spesso legato al viaggio (travel notebook). Cambiano le situazioni, cambia il rapporto dell’artista con la società e il taccuino, mondo composito, è una presenza costante che testimonia di questi cambiamenti. Il piccolo strumento di lavoro trattiene ciò che può sembrare più effimero e labile: lo sguardo dell’artista sul mondo. In questo senso lo studio dei taccuini consente di riflettere sulle pratiche compositive degli artisti, tra tradizione e invenzione. Si colgono gli effetti della contaminazione tra modelli, schizzi e osservazioni sul mondo naturale; si comprende l’attenzione rivolta a un dettaglio che – come è ben raccontato nel caso di Pisanello – corrisponde a quel “particolare minuto in cui si rivela [all’artista] l’ingranaggio del mondo” (a pagina 53); si segue sulla pagina antica il movimento dell’occhio attorno a un oggetto che ci racconta, ancora oggi, la curiosità dell’artista e la capacità di moltiplicare la visione; si afferrano i tratti veloci, le sintesi visive per fissare idee compositive d’insieme e, ancora, l’appunto di qualche parola didascalica.

1 | Pisanello, Studio di impiccati e due figure femminili, quarto decennio del sec. XV, Londra, British Museum.

Il taccuino, proprio a cavallo tra i due secoli, avrà sempre più carattere ibrido e i disegni di manufatti del passato possono essere affiancati da disegni di altro tipo: vedute, mappe, elementi naturali, animali. La natura miscellanea del taccuino è propria anche di una sorta di sottogenere, che si diffonde nel XV secolo, e che prende il nome di taccuino di antichità proprio perché principalmente, ma non esclusivamente, accoglieva appunti sui resti dell’antichità di cui artisti e eruditi andavano in cerca nei viaggi di formazione sempre più comuni nell’Europa della prima età moderna.

Di questi taccuini parla il secondo capitolo, ponendo al centro dell’analisi proprio il rapporto tra parola e immagine che, nel corso del XV secolo, si sviluppa in modo nuovo. Se le didascalie esplicative continuano ad affiancare le copie dell’antico aggiungendo al disegno elementi utili all’identificazione, esse si accompagnano sempre più spesso a qualche parola scritta con intento interpretativo. La pratica di una presa dal vivo che sottintende questo tipo di appunto, del resto, attraversa i secoli, da Pisanello a Van Eyck, da Gentile Bellini a Holbein fino all’esempio straordinario di Delacroix per il quale parola e disegni sono costantemente legati “nel gioco di ridefinizione dell’immagine sul filo della memoria, di rielaborazione delle impressioni raccolte durante il giorno e registrate velocemente per parole e schizzi a grafite nel quaderno più piccolo” (a pagina 101).

Ma soprattutto, ritornando al XV secolo, Pellegrini si sofferma sulla possibilità di operare delle sostituzioni tra immagini (schizzi) e parole (singola parola o breve frase).

È una fase importante durante la quale l’immagine si libera dalla copia pura e, nel tentativo di catturare i tratti salienti dell’oggetto durante l’osservazione in loco, parti di disegni possono essere sostituite da parole che rimandano agli stessi. La parola si sostituisce al tratto e, rinviando a un’immagine precisa, sembra poter garantire l’evidenza mnemonica che l’appunto dal vivo deve sempre garantire (molto interessante è, in questo senso, lo studio dei taccuini e della pratica compositiva tout court di Giuliano da Sangallo). Se la parola si propone dunque come uno “strumento descrittivo sintetico” (a pagina 83), essa rivelerà rapidamente la possibilità di aggiungere qualcosa a ciò che viene disegnato. Accanto alla segnalazione di collocazioni e alla definizione dei soggetti, fanno infatti capolino i primi giudizi qualitativi. Nella continuità tra parola e immagine, cioè, il taccuino inizia ad accogliere tentativi di comprensione e di espressione del gusto che vanno oltre la pura descrizione e la parola, anche per gli artisti, si rivela utile allo studio e alla penetrazione di altre opere d’arte.

Pellegrini racconta il caso dei Commentarii di Lorenzo Ghiberti, scultore fiorentino, scritti tra il 1447 e il 1455. Senza cercare di comprendere quale fosse la destinazione d’uso di questo scritto (libro di bottega, memoria personale, scritto per la pubblicazione…), ad interessare è proprio l’assenza di disegni e un uso della parola che rivela l’“affinamento della strumentazione verbale a disposizione dell’osservatore e la graduale sostituzione del linguaggio grafico con quello verbale anche da parte degli artisti” (a pagina 90). La parola racconta l’opera d’arte rievocando chiaramente una pratica ecfrastica che, praticata fino ad allora dalle scuole di retorica o da critici formati all’uso della lingua per annotare forme e colori, sembra diventare in questo frangente vero e proprio strumento d’analisi nelle mani di uomini del mestiere.

Un altro esempio straordinario della convergenza tra parole e immagine sono i diari di un viaggio nelle Fiandre di Dürer compiuto tra 1520 e 1521, in cui l’artista fa riferimento a un suo taccuino che potremmo oggi considerare, visto l’uso della punta d’argento, un vero e proprio album di disegni. Nonostante costituisca un’eccezione, si tratta qui di un caso interessante di netta separazione tra spazio della parola e spazio dell’immagine, “quasi la stoffa del trattatista avesse reso prudente una accentuata commistione tra grafica e parola se non governata dal suo inserimento in un genere (il trattato ad esempio) e da uno scopo preciso (una pubblicazione)” (a pagina 116).

Nel corso del XVI secolo, diario e taccuino conoscono una vera e propria ibridazione di forme, raccontata molto bene dal testimone di Pontormo, scritto tra il 7 gennaio 1554 al 6 ottobre 1556. L’artista annotava la propria vita quotidiana e non mancava di appuntare anche qualcosa inerente al suo lavoro. Proprio parlando del ciclo di affreschi della chiesa di San Lorenzo a Firenze (distrutti nel 1700), Pontormo poteva sospendere la parola lasciando spazio a un’immagine sommaria che riportasse le parti di affresco eseguite tal giorno: questo “esercizio grafico su se stesso” (a pagina 118), i piccoli disegni che affiancano le parole come “descrizioni in immagine di un’immagine”, sono significativi del potere sintetico del disegno, vero e proprio supporto memoriale in un processo di sintesi visiva. Il taccuino, lì dove converge con la scrittura diaristica, può quindi anche essere studiato come fonte in cui l’artista appunta la propria opera con funzione mnemonico-narrativa di un personale percorso artistico.

2 | Jacopo da Pontormo, Diario, 1554-1556, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

Con il terzo capitolo la scrittura personale, spesso privata, dei taccuini viene mostrata nel suo potenziale di apertura a terzi, quando cioè ad essere annotati sono i principi di trasmissione del sapere visivo, quando “insegnare a disegnare può significare insegnare a vedere” (a pagina 120).

Pellegrini osserva, nel corso del XVII secolo, una convergenza di pratiche tra il libro di modelli, che raccoglie i procedimenti grafici per lo studio delle parti anatomiche (dettagli del corpo) e il taccuino.

Quest’ultimo si presta a essere un “canovaccio” di esempi che, da strumento di studio personale dell’artista, si riscopre strumento potenzialmente condivisibile all’interno della bottega, fino a distinguersi come punto di partenza per la composizione di trattati destinati a un pubblico più ampio. Cambiano gli obiettivi e i lettori e, di conseguenza, il grado di finitura di testo e immagini è maggiore. Come si vede dall’esempio del taccuino di viaggio (Venezia-Parigi e ritorno) dell’architetto vicentino Vincenzo Scamozzi, gli appunti relativi alle soluzioni formali o strutturali degli edifici sono precisi, articolati e immediatamente comprensibili e l’organizzazione dei materiali – testo e figure – sulla pagina dei taccuini cambia rispetto a quest’apertura di pubblico e segue forse la direzione suggerita dal Trattato di architettura di Serlio. Il taccuino, in alcuni casi presentati, sembra una vera e propria “bozza di libro” (così a pagina 138), a conferma di una tendenza che si sviluppa nel corso del XVII secolo e che vede una vicendevole ispirazione, anche per le soluzioni grafiche da adottare, tra taccuini e trattatistica.

Dimensioni pubblica e privata si intersecano nello straordinario esempio del taccuino di Rubens, andato perduto in un incendio del 1720 ma di cui rimangono testimonianze scritte, copie manoscritte e fogli sciolti. Patrimonio dell’artista e della sua bottega, il taccuino doveva avere una funzione didattica rivelata dal ricorso a griglie geometriche, a stilizzazioni e schemi funzionali alla lettura di un’opera, capaci di svelarne i meccanismi di forza, l’”intima struttura” (a pagina 148). La parola affiancava le immagini spiegando uno schema grafico, fornendo istruzioni in vista dell’esito finale, ma anche riportando passi della letteratura classica che integravano il contenuto visivo. Allievo di Rubens fu Van Dyck il cui taccuino di bottega, non di attribuzione certa, testimonia proprio del processo di apprendimento “da maestro a allievo e da taccuino a taccuino” (a pagina 151).

A conferma però della versatilità del carnet e del suo legame originario con la dimensione del viaggio, Pellegrini si sofferma anche su un secondo taccuino di Van Dyck, un taccuino ben lontano dalle finalità didattiche.

Proprio durante un viaggio in Italia tra 1621 e 1627, l’artista appuntò osservazioni su opere d’arte viste in loco e ricordi di luoghi e persone, quasi sempre attraverso rapidi disegni fatti dal vivo, capaci di catturare velocemente la realtà. Dinnanzi alle opere d’arte, l’artista cercava di fissare l’idea compositiva, lo schema, la grammatica formale di base. Questo processo di lettura dell’opera in forma grafica, che probabilmente aveva appreso nel corso della frequentazione di Rubens, consentiva di retrocedere al grado zero della forma osservata, grado zero che sarebbe poi potuto diventare un punto di partenza per un’idea originale.

Il taccuino testimonia, in questo modo, il passaggio intermedio tra l’osservazione di un’opera esistente e un processo ideativo autonomo.

A portare alle estreme conseguenze questa tendenza “latente da secoli e ben percepibile in Rubens e Van Dyck” (pagina 169) sarà Joshua Reynolds, di cui Pellegrini ripercorre due taccuini di viaggio: il primo legato a un Grand Tour italiano tra 1750 e 1752 e il secondo steso trent’anni dopo, nel 1781, durante la visita delle Fiandre. L’artista, forse più libero perché non imbrigliato da comportamenti accademici, nonostante fosse provvisto della capacità di copiare perfettamente un oggetto, sembrò non seguire mai un intento mimetico di riproduzione delle opere d’arte, ma cercò piuttosto dei modi molto personali di appuntare la visione d’insieme. Gli schizzi, schematici e elementari, testimoniano per la prima volta in modo palese, quasi sfacciato, non tanto un’esigenza documentativa quanto conoscitiva, persino riflessiva. “Reynolds mette a nudo la meccanica linguistica interna all’opera”, scrive Pellegrini (pagina 169) in riferimento al caso straordinario dell’Adorazione dei Magi di Rubens.

Questo modo più libero di appuntare l’immagine si accompagna a un modo nuovo anche di usare la parola, presente anch’essa nei taccuini di Reynolds: sempre più libero da obblighi didattici, anche il testo diventa strumento personale di lettura dell’opera d’arte. La pagina del taccuino inizia a raccogliere impressioni, suggestioni e idee. Tornato alla sua dimensione personale, libero dalle costrizioni grafiche della stampa, il taccuino si ritrova ad essere, nel corso del XVIII secolo, uno strumento di incontro libero tra parole e immagini, luogo di possibilità espressive e di creatività. È in questo senso che esso conoscerà la propria fortuna nel XIX secolo.

Rispetto alla convergenza di parole e immagini nelle modalità di lettura del reale, il quarto capitolo apre al procedere affine riscontrabile nei taccuini di scienziati, uomini di cultura, viaggiatori, tutti coloro cioè che non avevano né una formazione né un interesse prettamente rivolti all’ambito artistico. Anche nei taccuini di studiosi che potevano scegliere di usare le parole per effettuare una descrizione precisa si riscontra infatti l’uso di brevi inserzioni grafiche.

Pagine di diario fittamente scritte possono ad esempio ospitare particolari figurativi appuntati senza soluzione di continuità e, soprattutto, senza alcuna pretesa mimetica. Pellegrini si sofferma sull’esempio di un taccuino come quello di Réaumur, celebre scienziato francese del XVIII secolo, che giunge ad esiti simili a quelli già incontrati con Reynolds: la riflessione scritta è accompagnata da schemi grafici che riducono al grado zero l’opera d’arte (nel caso di Reynolds) o l’oggetto di natura (nel caso di Réaumur), definendo in tal modo il punto di partenza dell’indagine ulteriore. A Réaumur, d’altra parte, conscio forse dei suoi limiti espressivi nella pratica del disegno, capitava di collaborare con disegnatori professionisti in vista della diffusione dei suoi studi (accompagnati da immagini) a un pubblico più ampio.

Sono gli anni in cui, anche in ambito artistico, tendono ad accentuarsi la distinzione tra professionisti e amatori e “dietro il linguaggio visivo e il linguaggio verbale si vanno definendo professioni e strumenti di lavoro che si adattano a esigenze di ricerca diversificate” (pagina 198). Sempre più spesso i compiti si dividono e il Journal di viaggio dell’Abbé de Saint-Non (Voyage Pittoresque Ou Description Des Royaumes De Naples Et De Sicile), amateur e incisore, per esempio, è un classico della letteratura di viaggio accompagnato da disegni eseguiti da Fragonard. L’artista, su commissione, segue Saint-Non e i due acquisiscono sul campo parole e immagini. I disegni sarebbero diventati incisioni nell’opera stampata apparsa tra 1781 e 1786 ed è estremamente interessante che, nel passaggio dal disegno all’incisione, Saint-Non decidesse di conservare i caratteri di schizzo perché lo trovava eloquente di un tratto legato al viaggio che, come la parola, diventa un vero e proprio atto critico rispetto al visivo.

Il XVIII è del resto il secolo in cui si moltiplicano le riflessioni teoriche su limiti espressivi e punti di convergenza tra arte poetica e arte visiva. Diderot scrive i Salons, com’è noto una delle più importanti opere di critica d’arte settecentesca, quasi ostentando una parola bastevole alla descrizione dell’opera; nascono i cataloghi delle esposizioni che, senza ausilio grafico, riportano le informazioni essenziali sulle opere esposte; e persino la prima storia dell’arte italiana, la Storia pittorica dell’Italia di Luigi Lanzi, viene pubblicata senza immagini. Gli uomini di lettere, i philosophes tendono sempre più ad affidarsi esclusivamente alla parola, mentre accade che, nello stesso contesto dei Salons, Gabriel Jacques de Saint-Aubain, artista e disegnatore, trattenga in carnet di soli schizzi e disegni le opere esposte.

3 | Gabriel Jacques de Saint-Aubin, Salon del 1765, Piedistallo della statua di Luigi XV, Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques.

Se durante il secolo dei Lumi si riscontra una maggior presa coscienza delle diverse potenzialità di linguaggio visivo e verbale di fronte a un oggetto-immagine, le possibilità della compresenza del doppio linguaggio vengono in effetti esplorate il secolo successivo. Pellegrini ripercorre allora le vicende delle scritture delle prime storie delle arti in Europa costituite da testo e corredo iconografico nel XIX secolo: dalle Historie de l’Art di Seroux d’Agincourt, che affidava ad artisti la riproduzione delle immagini, ma si assumeva l’onere di scegliere i dettagli da riprodurre e di montare testo e immagini, alle riflessioni di Goethe che, nel 1828, scriveva che “il concetto vivo si compone di parola e immagine” (così a pagina 215). Goethe, interessato com’era dalla forma della realtà esterna, ricorreva allo schizzo come ad uno strumento per penetrare questa realtà e come una rivelazione delle possibilità creatrici dello sguardo. D’altra parte, parola e immagine rimangono distinte nella pratica e nelle pagine di Goethe. Nonostante egli non scrivesse taccuini ma carte conservate separatamente le une dalle altre, Pellegrini suggerisce di notare, nelle descrizioni di monumenti e dettagli visivi, una semplificazione del discorso:

La lingua si asciuga, la frase di abbrevia, per seguire la cadenza pausata dell’occhio e aumentare la sua aderenza all’oggetto […]. È il periodare di un taccuino di lavoro, lo stesso periodare che ritroveremo nei taccuini dei grandi conoscitori ottocenteschi e anche in un libro fortunatissimo come il Cicerone di Jacob Burckhardt (pagina 219).

Il quinto e ultimo capitolo del saggio conclude lo studio sui taccuini esplorando proprio il XIX e il XX secolo. Nell’Ottocento il taccuino diventa il supporto prediletto all’elaborazione di veri e propri metodi di lettura delle opere d’arte e Pellegrini suggerisce la traccia che conduce all’elaborazione della storia dell’arte moderna: la compenetrazione di parole e immagini nei taccuini di Cavalcaselle che leggeva gli oggetti artistici decostruendo le immagini e ingrandendo in immagine particolari sui quali poi si sarebbe fermata la parola; i taccuini molto scritti di Charles Eastlake in cui piccoli schizzi si allineano alle righe del testo che risulta così ininterrotto; o ancora la pratica del disegno di dettagli propria di Giovanni Morelli che molto ci parla del metodo di attribuzione delle opere da lui elaborato. Sono tutti esempi di come proprio i taccuini trattengano e testimonino abitudini di lettura delle immagini che sono i punti di partenza di un’elaborazione di pensiero e di studio sviluppata poi ulteriormente nelle storie e nelle estetiche.

Testo e figura continuano ad affiancarsi nei taccuini di artisti e studiosi, quasi a sancire la necessità del doppio linguaggio anche quando, nel corso del XX, ai disegni si aggiungono le possibilità delle riproduzioni fotografiche che evidentemente competono con essi per quanto riguarda la copia dal vero. Se nei taccuini degli anni ’10 Adolfo Venturi appunta le indicazioni sui particolari da riprodurre in fotografia, Burckhardt, professore che tra i primi usò la fotografia come strumento per la didattica della storia dell’arte, riconobbe comunque “l’insostituibilità del processo disegnativo per la comprensione dell’opera” (alla pagina 264). Su questi temi, su nuove forme di mediazione tra lo sguardo e le forme dell’oggetto artistico osservato, si conclude e si apre il saggio di Pellegrini. Un saggio meditato, la cui lettura è accompagnata dalle bellissime riproduzioni visive e dalla scelta di affidare ad un apparato di note molto dettagliato, posto a conclusione di ogni capitolo, il corredo di studi e approfondimenti sottesi a queste pagine.

Nonostante ogni taccuino faccia storia a sé, vi è una costante, che attraversa i secoli e giunge fino ad oggi, su cui vorremmo terminare la nostra lettura del saggio. Si tratta dell’idea che l’osservazione in loco comporti l’assunzione di uno stile di scrittura di natura “sincopata”, fatto di frasi brevi, di particolari accentuati, fedele a un certo modo di appuntare l’immagine. Il taccuino conterrebbe allora il nucleo originario di una vera e propria “scrittura del visivo”, un linguaggio tecnico inerente alle arti figurative che, per la libertà e la freschezza che lo contraddistinguono, offe la possibilità di aprire finestre su altre forme espressive, dalla letteratura al cinema, dall’ékphrasis al teatro.

English abstract

The article discusses Emanuele Pellegrini's book La memoria in tasca (Memory in a Pocket, 2021) which traces the history of the notebook, from papyrus to contemporary form, as a working tool and travel companion characterised by an open and adaptable character. Focusing on the relationship between text and image, one of its central aspects, it asks how their relationship changes over the course of the notebook’s history and to what extent the word influences the image and vice versa in the notation practice of live observation. How do text and image complement each other? What relationship does their interaction have with memory practices?

keywords | Emanuele Pellegrini; Notebook; Sketchbook; Memory; Words and Images; History of Drawing.

Per citare questo articolo: Silvia De Min, La memoria di un gesto che raccoglie il visivo in un segno. I taccuini della storia dell’arte. Recensione del volume: Emanuele Pellegrini, La memoria in tasca, De Luca, Roma 2021, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 231-242 | PDF di questo articolo
To cite this article: Silvia De Min, La memoria di un gesto che raccoglie il visivo in un segno. I taccuini della storia dell’arte. Recensione del volume: Emanuele Pellegrini, La memoria in tasca, De Luca, Roma 2021, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 231-242 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.193.0004