"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

192 | giugno 2022

97888948401

Ade e Barbablù. Una genealogia?

Nicola Giaccone*

English abstract

1 | Testa di Ade in terracotta, da Morgantina, IV secolo a.C., Museo archeologico di Aidone (Enna). 

Questo lavoro intende proporre un confronto tra la testa fittile di Ade proveniente dal santuario di San Francesco Bisconti a Morgantina [Fig. 1] e il personaggio della celebre fiaba di Perrault. Il trait d’union, in apparenza superficiale, è dato da una caratteristica che ricorre in entrambi: il colore della barba. L’analisi partirà dall’esame di questo motivo iconografico della testa di Morgantina, rintracciandone lo sviluppo diacronico. Successivamente se ne discuteranno i rapporti con la favola, delineando un ipotetico rapporto.

La testa fittile di Morgantina è stata recentemente restituita all’Italia dal Getty Museum di Los Angeles, dove era stata illegalmente esportata (Greco, Raffiotta 2020, 201-220; Raffiotta 2013, 169-189). Si tratta di un gioiello della coroplastica siceliota, ascrivibile al IV secolo a.C., proveniente dal santuario extraurbano di San Francesco Bisconti, dedicato a Demetra e Persefone (Ferruzza 2016, 208-213). La testa si caratterizza per una folta capigliatura e una sontuosa barba, entrambe rese con grosse ciocche rifinite a stecca, che conservano tracce della cromia originaria. In particolare, la chioma era dipinta di rosso, mentre la barba presenta ancora tracce di blu (o azzurro, per essere più precisi). Le superfici mosse di questi elementi contrastano magnificamente con le superfici lisce della fronte, del naso e degli zigomi, contribuendo all’espressione intensa del dio, sottolineata dal leggero inarcamento del labbro superiore. L’identificazione con la divinità dell’Oltretomba è suffragata da considerazioni archeologiche relative al luogo e al contesto del ritrovamento (il santuario delle divinità ctonie; l’associazione del reperto con una testa di Persefone, probabilmente rinvenuta nello stesso momento), nonché da elementi iconografici (Ferruzza 2016, 209-212). Uno stringente parallelo iconografico è rappresentato dalla testa di divinità infera barbata proveniente dal santuario etrusco di Campo della Fiera a Orvieto (Stopponi 2014, 83-87). L’esemplare etrusco presenta dei tratti che lo accomunano alla testa siceliota: è dotato di una capigliatura particolarmente folta, a grosse ciocche, che anche in questo caso conservano tracce di colorazione rossa; simili sono anche la struttura piuttosto snella del volto, il naso diritto e gli occhi dal contorno regolare.

Tornando alla testa da Morgantina, di particolare interesse per questa trattazione è la singolare colorazione della barba. Prima di inoltrarsi nella valutazione di questo aspetto, è necessario stabilire alcune premesse metodologiche. La semantica del colore nelle diverse culture è un argomento alquanto problematico, dato che è questione dibattuta la misura in cui il linguaggio di una data comunità umana influenzi la classificazione, la struttura e la comunicazione degli aspetti del mondo reale (tra cui naturalmente il colore): è la cosiddetta ipotesi della relatività linguistica di Sapir-Whorf (Biggam 2012, 17-20). Non si può pertanto stabilire se ciò che oggi viene definito come blu avesse la stessa corrispondenza presso le culture antiche e la Francia del XVII secolo. In realtà gli studi più recenti (Berlin, Kay 1969) hanno contribuito a ridimensionare il relativismo di Sapir e Whorf, anche se tuttora non è stato raggiunto un consenso unanime degli studiosi (Biggam 2012, 19-20). Occorrerà dunque usare estrema cautela nell’accostare i lessici cromatici di culture ed epoche diverse. 

Un aiuto in tal senso può essere fornito dai dati archeologici: possiamo avere dubbi sul termine che i Greci utilizzassero per descrivere il colore della barba della testa di Morgantina, cionondimeno esso appare alla nostra percezione come appartenente alla gamma del colore blu/azzurro; lo stesso ragionamento si potrà applicare alle altre testimonianze archeologiche che verranno presentate di seguito. Se quindi gli antichi selezionarono quello che a noi appare come lo stesso colore (o pertinente alla stessa gamma di colore), possiamo ragionevolmente inferire, almeno con un certo grado di probabilità, che volessero utilizzare proprio quel determinato colore, comunque lo chiamassero.

Più complicato sarà il confronto lessicale, cosa che costringerà a operare scelte drastiche nella trattazione seguente, come nel caso dei termini greci κυάνεος e γλαυκός. Queste parole non sono infatti traducibili con gli stessi colori: con la prima si possono indicare tanto il blu chiaro quanto il nero, mentre la seconda può essere resa talora con il verde, talora con il grigio, il blu e persino il giallo e il bruno (Pastoureau [2000] 2017, 23-27). Per tale motivo sarà più prudente espungere dal nostro confronto tutti i numerosi passi della letteratura greca che associano questi termini ad ambiti inferi, dato che non è possibile stabilire di quale colore si tratti di volta in volta.

Un’argomentazione di carattere tecnico-archeologico, tuttavia, aiuterà a valutare meglio questa ambiguità cromatica, perlomeno riguardo le testimonianze archeologiche. Infatti se da un punto di vista lessicale i termini greci riferibili alla gamma del blu possono riferirsi a colori completamente diversi, archeologicamente è ben attestato il fatto che il pigmento blu fosse difficile da reperire, visto che veniva ricavato dal lapislazzuli, una pietra considerata preziosa nell’antichità, in ragione della sua provenienza dal lontano Afghanistan e della complessità della sua lavorazione. Altri sostituti, ricavati da piante (indaco) o minerali (azzurrite) non avevano la stessa qualità e stabilità del pigmento ricavato dal lapislazzuli (Pastoureau [2000] 2017, 16-23). Ne consegue che se i Greci avessero voluto dipingere una barba del colore che per noi corrisponde al nero, avrebbero potuto ottenere questo risultato in maniera incomparabilmente più semplice rispetto alla tinta del blu: il nero è uno dei primi colori a essere padroneggiati tecnologicamente dall’uomo (Luzzatto, Pompas 2010, 43-45). Ma non lo fecero: nella trattazione che seguirà si faranno riferimenti a opere d’arte o artigianato contraddistinte da barbe che a noi appaiono incontrovertibilmente blu/azzurre. Un punto metodologicamente imprescindibile del presente lavoro è che l’associazione del colore blu con le barbe di singoli reperti archeologici abbia un significato, considerata la difficoltà nell’ottenere questo pigmento rispetto al più ovvio nero. A paragone dei termini greci, meno problematico è il latino caeruleus, considerando che lo stesso Pastoureau gli riconosce, dopo un’iniziale oscillazione semantica, una specializzazione nella gamma dei blu (Pastoureau [2000] 2017, 26).

È stata già richiamata la valenza simbolica del colore blu, che richiama l’idea di eternità (visto il chiaro parallelismo con il cielo), ma anche di potere e ricchezza; ciò rendeva naturale, dunque, una connessione con gli dei (Ferruzza 2016, 212; Luzzatto, Pompas 2010, 130-142). Ma i colori, in quanto simboli appartenenti a un immaginario, potevano ricoprire più di un significato presso una stessa cultura (Luzzatto, Pompas 2010). Quindi il blu aveva, talora, connotazioni più specifiche, denotando un legame con il mondo ctonio. Il precedente forse più famoso è il mostro tricorpore (anch’esso battezzato Barbablù) pertinente al frontone dell’Hekatompedon sull’Acropoli di Atene [Fig. 2], databile intorno al 570-560 a.C. (Stewart 1990, 114-115; Bejor, Castoldi, Lambrugo 2013, 115-116): la parte superiore del mostro, dalla vita in su, è costituita da tre figure antropomorfe dotate di barbe blu; la parte inferiore è invece anguiforme: quest’ultimo dettaglio, nella cultura greca, rimanda puntualmente a una caratterizzazione ctonia (Burkert [1977] 2003, 105, 373, 392). Colore blu (in particolare della barba) e sfera ctonia appaiono legati, perciò non stupisce ritrovare la stessa associazione nella bella testa di Morgantina pochi secoli dopo. Ma è possibile rilevare altri confronti che rafforzano questo legame. Infatti in alcuni dei pinakes di epoca severa conservati al Museo Nazionale di Locri Epizefiri che raffigurano il ratto di Persefone, Ade è rappresentato con la barba dipinta di blu. Un’ulteriore conferma di come tale dato iconografico avesse ottenuto una certa fortuna nel mondo greco. Ma il rapporto tra questo colore e il mondo dell’Oltretomba è attestato anche in altre culture: con tutta probabilità si tratta di un lascito di civiltà più antiche, dato che presso gli Egizi il blu era associato ai rituali funerari e alla morte (Pastoureau [2000] 2017, 22-23). Nell’arte etrusca diverse divinità degli Inferi sono caratterizzate da incarnati azzurri, per esempio nella Tomba dei Demoni Azzurri e nella Tomba dell’Orco a Tarquinia (databili rispettivamente al V e al IV sec. a.C.). Qui però il colore delle carni fa riferimento piuttosto al disfacimento dei corpi che segue il decesso, come indicato da Marcattili nel suo lavoro dedicato a tale aspetto della pittura funeraria etrusca (Marcattili 2012, 69-78). Tuttavia Marcattili precisa il significato più generale del blu: “Il blu ceruleo o il blu ciano, dunque, colori simbolici del passaggio e del lutto, secondo un simbolismo che si è trasmesso e/o affermato anche nei secoli successivi” (Marcattili 2012, 75); non a caso l’autore (Marcattili 2012, 71, 72, 74) riferisce allo stesso colore le vesti del lutto, i cavalli di Pluto (Ovid., Fast. IV, 446) e la barca di Caronte (Verg., Aen. VII, 346).

2 | Frontone dell’Hekatompedon sull’Acropoli di Atene, 570-560 a.C. ca.

Come tutti i tratti iconografici, l’associazione blu-Ade non si ripresenta sistematicamente, anzi sembra essere un motivo decisamente sporadico dalla fine del V secolo a.C. in poi, tant’è vero che è già assente nell’affresco del ratto di Persefone a Vergina (Bejor, Castoldi, Lambrugo 2013, 350), mentre mancano attestazioni nell’arte romana. Si potrebbe ipotizzare che il motivo antinaturalistico della barba blu non abbia trovato posto in quel processo di progressiva umanizzazione della divinità messo in atto dall’arte ellenistica e romana. Si tratterebbe quindi di un elemento iconografico antichissimo, più adatto ai simbolismi dell’arcaismo (come nel caso del Barbablù dell’Acropoli), diventato via via minoritario fino a scomparire del tutto, per lo meno nella nostra documentazione. In realtà residui di questa arcaica semantica del blu si possono rintracciare anche nella cultura romana, presso la grande letteratura: infatti Virgilio parla di Aletto “dai crini cerulei” (Verg., Aen. VII 346). Una divinità femminile infera, dunque, ancora caratterizzata dal blu, stavolta della capigliatura (ma si ricordino anche gli esempi richiamati sopra da Marcattili riguardo i cavalli di Pluto e la barca di Caronte). Qualcosa di questa lunga tradizione dovette quindi sopravvivere anche in epoca romana, nonostante manchino ulteriori esempi: del resto i danni del tempo infieriscono con maggiore gravità proprio sui colori e raramente lo studioso riesce a percepirne le tracce nella documentazione artistica arrivata sino a noi. In effetti, anche i casi sopra discussi vanno considerati come fortunate occorrenze di un motivo che non dovette mai essere molto diffuso.

Se ora passiamo al personaggio di Perrault, sarà bene richiamare brevemente la trama della favola: un ricco signore cerca moglie, ma la sua peculiare barba fa fuggire qualsiasi donna. Si racconta tuttavia che avesse già avuto delle mogli, sparite senza che se ne sapesse più nulla. L’uomo si sposa finalmente con la figlia di una gentildonna sua vicina e, in un primo momento, tutto sembra andare per il meglio. Un giorno però deve assentarsi a causa di alcuni affari e lascia alla moglie le chiavi che aprono le stanze della casa, colme di ricchezze. Barbablù le dice che è libera di usarle tutte per girare a suo piacimento, a eccezione di una, che apre un piccolo stanzino: se dovesse trasgredire, la collera del marito sarà terribile. La giovane non resiste alla tentazione e, all’interno dello stanzino, scopre i cadaveri delle mogli precedenti, uccise dal marito. La chiave, cadendo per terra, si macchia di sangue e la protagonista, sconvolta, richiude la porta. La donna cerca di pulire le tracce di sangue, ma la chiave è fatata e non è possibile pulirla del tutto. In questo modo il marito, al suo ritorno, capisce che la moglie ha disubbidito. Preso dalla collera, decide di ucciderla come ha fatto con le mogli precedenti. La fiaba si conclude con il provvido arrivo dei due fratelli della giovane, che uccidono il malvagio Barbablù, permettendo alla sorella di cominciare una nuova vita (Perrault [1697] 2002, 34-47).

Sono stati condotti innumerevoli studi su questa fiaba, rintracciandone gli antecedenti ora in personaggi storici (come Gilles de Rais), ora in tradizioni più o meno moderne, ora nelle profondità dell’inconscio. Al di là della questione sulle origini e sulle possibili fonti di ispirazione, l’interesse per tutte le tematiche che riguardano questo testo è particolarmente vivo, segno indubitabile di una grande attualità (recenti due importanti iniziative sul tema all’Università di Pisa: il seminario “Barbablù europei”, 31 ottobre 2018, e il convegno internazionale “Barbablù. Trasposizioni del mito in letteratura e nelle arti”, 9-11 ottobre 2019). Si vuole proporre ora un’ulteriore prospettiva negli studi su tale favola. Il colore della barba associa, a occhi moderni, il Barbablù seicentesco con la divinità infera di epoca greca, ma l’elemento, di per sé, è isolato e poco coerente. Possibile quindi che dietro Barbablù si nasconda Ade? Indubbiamente ci si può chiedere se il colore blu sia realmente rilevante in questa comparazione. Innanzi tutto nel lessico francese del XVII secolo non si trova, riguardo al blu, quell’incertezza terminologica che si riscontra nell’Antichità (Pastoureau [2000] 2017, 114-121): il colore scelto da Perrault sarebbe effettivamente il blu. Un dubbio legittimo è se il nome “Barbebleu” possa essere la storpiatura allitterante di un nome diverso, che nulla abbia a che spartire con il colore. Si potrebbe trattare, quindi, di un caso simile alla favola di Cenerentola, in cui secondo alcuni interpreti la scarpetta di “vetro” deriverebbe dal fraintendimento del francese “vair” (in italiano “vaio”), omofono di “verre” (“vetro”). Si deve rilevare però come nel caso di Barbablù gli studiosi non abbiano sinora identificato alcun termine francese che possa dare origine a un tale equivoco. Resta la possibilità che la scelta del colore blu per la barba sia meramente casuale. Per escludere, almeno con un certo margine di ragionevolezza, il fattore aleatorio, proveremo ora ad analizzare la fiaba in alcune sue componenti, per far affiorare possibili punti di contatto con il mito antico.

Alcuni elementi della favola fanno riflettere: il colore della barba è un dato importante; rende il protagonista “laid” e “terrible”, facendo fuggire le fanciulle al solo vederlo (Perrault [1697] 2002, 34); più che a un minaccioso signore di campagna, sembra di trovarsi di fronte a un personaggio ancora più inquietante, cui la barba conferisce un carattere extra-umano. Non è infatti un colore umano, una semplice bizzarria cromatica realmente possibile nel mondo reale, ma una caratteristica che induce autentico terrore e, fattore fondamentale, definisce il nome stesso del personaggio.

Le chiavi di casa e soprattutto la chiave dello stanzino cui è interdetto l’accesso sembrano particolarmente allusive: una metafora dell'accesso agli Inferi? Infatti nello stanzino sono presenti i cadaveri delle mogli precedenti, ricreando una specie di piccolo mondo dei morti. È uno spazio cui è proibito accedere, esattamente come raccontava la mitologia greca a proposito del regno di Ade: solo i più grandi eroi poterono entrarvi, al prezzo di grandi pericoli (tra gli altri, Eracle e Orfeo). Non a caso, la chiave che apre lo stanzino è diversa da tutte le altre, è magica: essa consente l’accesso agli “Inferi” della fiaba.

Quando poi Barbablù scopre la disubbidienza della moglie, emerge prepotentemente il carattere del protagonista come “dispensatore di morte”, insensibile alle suppliche della moglie: “avait le cœur plus dur qu’un rocher”, “aveva il cuore più duro di una pietra” (Perrault [1697] 2002, 40) e ripete due volte “il faut mourir”, “dovete morire” (Perrault [1697] 2002, 40, 42). Ciò si aggiunge alla precedente scoperta che il marito aveva già ucciso più volte, anche se non è specificato il numero delle mogli assassinate. Un assassino seriale, sordo alle preghiere, che indica la morte come destino ineluttabile (“dovete morire”): questo ritratto non si attaglia anche a Ade? Certo, Ade non è un vero assassino, la metafora è piuttosto quella del Signore della Morte, ma l’insensibilità alle suppliche e l’ineluttabilità della morte è qualcosa che si ritrova anche nell’immaginario greco.

Infine, nel mito, il contrasto fra Demetra e Ade si risolve con un’eterna ciclicità: la figlia Persefone trascorrerà una parte dell’anno con sua madre nell’Olimpo e il resto con il marito negli Inferi, originando così il ciclo di morte e rinnovamento della vegetazione. Nel mito greco, lo stesso “personaggio”, Persefone, si recava periodicamente nell’Oltretomba (a significare metaforicamente la sua morte). Nel testo di Perrault, le mogli assassinate da Barbablù non conservano forse qualcosa di questa periodicità, che viene interrotta dal rassicurante happy end favolistico introdotto dall’ultima moglie? Queste anonime mogli (come anonima è la protagonista femminile) sembrano la moltiplicazione del medesimo personaggio, quello dell’ultima moglie. Nel mito l’alternanza Persefone sull’Olimpo/Persefone negli Inferi che si ripete per l’eternità corrisponde alla ciclica nascita/morte della vegetazione del mondo terreno. Nella fiaba lo schema matrimonio/uccisione della moglie si ripete con analoga fissità, con la differenza che il personaggio femminile (per esigenze narrative) cambia a ogni matrimonio, fino alla rottura del ciclo con l’ultima moglie: questo perché la favola è ormai slegata dal mito della vegetazione ed è piuttosto condizionata dalla necessità del buon finale. Ma in sostanza si può vedere come l’alternanza di vita e morte caratterizzi entrambi gli intrecci.

Nel motif-index di Aarne-Thompson-Uther la favola di Barbablù è classificata tra i "Supernatural Adversaries", a riprova che il protagonista maschile non è un comune signorotto di campagna. L’impiego nella fiaba dei motivi dello sposalizio con un essere soprannaturale, del mondo dei morti (dove sono confinate le mogli defunte), della chiave magica, della morte “periodica” della moglie, sono coerenti con una interpretazione non solo soprannaturale, ma specificamente infera di Barbablù. Se la lettura proposta per l’Antichità dell’associazione barba/colore blu coglie nel segno, sorge il sospetto che anche nella favola francese questo motivo non sia casuale. Ciò non significa che si possa far automaticamente derivare Barbablù dal mito antico. Il mito e la fiaba sono separati da più di mille anni e non siamo attualmente in grado di specificare quale fu la storia formativa del testo di Perrault: se cioè fu un’invenzione colta, una rielaborazione di un racconto popolare o che altro. Non sappiamo insomma quali furono le fonti di Perrault e il quadro qui tracciato non permette di stabilire in che modo, esattamente, un Ade dalla barba blu entrò in una fiaba francese del tardo Seicento. Certo è possibile che alla definizione del personaggio della favola abbiano concorso anche altre influenze, decisamente più recenti. Abbiamo visto però che alcuni elementi iconografici delle creature dell’Oltretomba pagano arrivarono al mondo romano. È possibile che alcuni tratti dell’Ade greco, il Plutone romano, siano sopravvissuti al Cristianesimo e che siano stati trasfigurati in qualche racconto popolare, attraversando i secoli?

Bibliografia 
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English abstract

This contribution investigates the connection between the iconography of a terracotta head of Hades from Morgantina and the famous tale by Perrault. Such a link is found in the blue beard. The article examines the symbolic meaning of the colour blue in Ancient Greece as well as other ancient cultures, and particularly its association with the Greek underworld. A careful analysis of the archaeological documentation allows the reconstruction of deities’ iconography in connection with the chthonic world. It also reveals a symbolic character of the blue colour never adequately highlighted hitherto. The comparison of these results with Perrault’s tale gives a new possible insight into the origin of Bluebeard, providing greater depth to the cultural roots of this early-modern myth.

keywords | Hades; Bluebeard; Perrault.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

*Desidero ringraziare Anna Anguissola e Domitilla Campanile per i preziosissimi scambi di idee che ho potuto avere con loro sull’argomento. Naturalmente è mia la responsabilità di eventuali errori.

Per citare questo articolo: N. Giaccone, Ade e Barbablù. Una genealogia?, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 83-93 | PDF di questo articolo
To cite this article: N. Giaccone, Ade e Barbablù. Una genealogia?, “La Rivista di Engramma” n. 192, giugno 2022, pp. 83-93 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.192.0013