"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

194 | agosto 2022

97888948401

A cosa servono, ancora, i miti greci?

Appunti dal Seminario di Trani, 21-22 maggio 2022

a cura di Antonietta Magli

English abstract

What’s Hecuba to him, or he for Hecuba,
that he should sweep for her?
William Shakespeare, Hamlet, II, 2
 

Teatro dei Borgia, dopo una lunga e intensa attività di teatro d’arte in ambito politico, si è trovato a interrogarsi sull’utilità del ricorso ai miti greci, ai loro stilemi narrativi, ai loro rituali performativi, ai loro interrogativi etici, alla loro ermeneutica esistenziale. Dal dialogo con Engramma è scaturita la domanda: servono ancora i miti greci per dire il nostro presente? Dopo una serie di incontri e conversazioni, lezioni e seminari, a Bari, a Brescia, a Venezia e in altri luoghi, Gianpiero Borgia per Teatro dei Borgia e Monica Centanni per Engramma hanno organizzato il seminario che si è svolto in Piazza Mazzini, sotto la Tensostruttura dei Borgia, il 21 e 22 maggio 2022. Al Seminario di Trani hanno partecipato: Domenico Bizzarro, Alberto Camerotto, Cardenia Casillo, Giorgiomaria Cornelio, Elena Cotugno, Christian Di Domenico, Ilaria Grippa, Olimpia Imperio, Antonietta Magli, Daniele Nuccetelli, Cristina Pace, Maria Grazia Porcelli, Victor Rivera Magos, Daniela Sacco, Luca Matteo Rossi, Giulia Zanon, Francesca Zitoli e Marco Curci (in calce, i partecipanti). Di seguito, alcuni appunti tratti dalle registrazioni degli interventi: alcune parti del dibattito sono andate perdute, di altre lo scambio era troppo frammentario per poter essere riprodotto in scrittura. Ma tutto quanto si legge di seguito è riportato rispettando la prosodia e lo stile – circolare aperto libero – con cui si è svolto l’incontro.

 

sabato 21 maggio 2022, mattina

Monica Centanni | Sembra che Hermes non sia molto d’accordo con questo seminario. Sono intervenuti diversi elementi di disturbo, tutti tipici dei dispetti di Hermes. Voli cancellati dopo 6 ore di attesa in aeroporto (per questo Piermario Vescovo non è con noi oggi); un treno bloccato e così la delegazione degli studenti di Venezia non sarà con noi prima delle 11.30.

Innanzitutto, la formula organizzativa. Abbiamo voluto evitare idea del convegno, delle sessioni predeterminate, dei tempi assegnati agli interventi. Un convegno è un convegno, un seminario è un seminario. Il nostro tempo – anche il tempo della scholé che dovrebbe per definizione essere un tempo lussuoso e libero – è un po’ malato: ai convegni non c’è mai modo e spazio per confrontarsi davvero, per farsi domande, per fare domande e ascoltare con pazienza le risposte. Le formule, ormai insopportabili e così comuni in tutti i convegni sono: “Non è questa la sede per approfondire...“; “Abbiamo ancora cinque minuti: sentiamo se c’è qualche domanda...”; “Abbiamo sforato con i temi...”. In controcanto con questo malcostume accademico (e non solo accademico), abbiamo pensato che era più utile (e avevamo più voglia) di parlare liberamente, di scambiarci idee: è questo il modo in cui noi lavoriamo – come sanno bene gli studiosi di classicA e della redazione di Engramma (anche i ragazzi che stanno arrivando) – e a volte i seminari e le iniziative che promuoviamo vanno a chiudersi da qualche parte e in qualche forma, a volte no. Ed è molto bello – fa molto scholé – che tante cose non siano produttive dal punto di vista dei “prodotti scientifici” – che le gerarchie accademiche spesso sciaguratamente pretendono – ma siano vere in sé, produttive ma solo cairologicamente, per chi vi prende parte.

Questo incontro è la tappa di un percorso voluto da Gianpiero Borgia e da me. Da tempo, da circa due anni, pensavamo di programmare una pubblicazione o un numero di Engramma (e quindi, anche, un “prodotto scientifico”) dedicato a La Città dei Miti di Teatro dei Borgia. Abbiamo deciso di iscrivere questa istanza in una cornice di metodo, perché non diventasse una pubblicazione meramente documentaria o, peggio, celebrativa. Abbiamo innanzitutto deciso una data per questo incontro e che la pubblicazione uscirà ad agosto.

Era poi opportuno trovare un taglio di luce per trattare il tema. Negli incontri che abbiamo fatto in varie occasioni, tornava una domanda: perché questa cosa che Teatro dei Borgia fa dobbiamo chiamarla con i nomi di Medea, di Filottete, di Eracle? Perché ricorrere ai nomi del mito? Perché chiamare con questi nomi figure che in fondo sono parzialmente identificabili con i miti antichi?

La questione non è nuova: “What’s Hecuba to him, or he for Hecuba, / that he should sweep for her?”. Quando la compagnia dei Comici interrompe il ‘vero’ corso del dramma shakespeariano per rappresentare di fronte al re e alla madre Gertrude la storia della sventurata regina di Troia, Amleto si interroga sui sentimenti dell’attore che interpreta con partecipazione simpatetica il mito antico. Amleto si chiede: “What’s Hecuba to him?” Che cos’è Ecuba per lui, cos’è lui per Ecuba? Perché dovrebbe piangere per lei? Perché piangere ancora per Ecuba? Ha senso, corrisponde a una verità degli affetti e della mente, essere coinvolti nel pathos della tragedia antica?

Rilanciamo la domanda “Cos'è Ecuba, per noi? Cosa sono Medea, Filottete, Eracle – perché dobbiamo piangere per loro?” Sappiamo che Amleto ha i suoi buoni motivi per piangere per Ecuba. Ma noi, oggi? Servono ancora i nomi, le storie, le figure del mito? Serve rievocare il nome di Ecuba (e di Amleto), e di Medea, Eracle, Filottete, per “piangere” – per attivare phobos e eleos, e per presentare, nella dimensione di realtà aumentata che il teatro apre, il pathos del nostro presente? Perché dobbiamo piangere “per Ecuba” e non direttamente per Amleto e Gertrude? A cosa serve questo filtro, questa lente. Amplifica, distoglie, sposta? Distanzia o allontana? Se lo chiedeva Shakespeare, e non si dava risposte, se non nell’ambito del suo gioco meraviglioso di teatro nel teatro. Neanche noi abbiamo risposte. τί δράσω; Così chiede Oreste a Pilade in Coefore: è questo il problema (non solo di Oreste e di Amleto): che fare? Come agire il dramma? 

In altre parole: cosa fa il teatro rispetto al marcio che c’è in Danimarca (e a Argo, e a Venezia, e a Bari e a Trani)? Perché abbiamo bisogno di questo filtro? A che serve chiamare i nostri eroi Filottete o Eracle? Ma forse la domanda è un’altra: a cosa serve il mito e a cosa serve il teatro? Serve ancora quel nucleo di racconto che vuol dire qualcos’altro? Facciamo un giro e chiederei a tutti di presentarsi. Io mi occupo di letteratura antica, tragedia greca, del Rinascimento e Warburg e di Eschilo.

Domenico Bizzarro | Ho incontrato Teatro dei Borgia qualche anno fa. La riflessione che è nata dalla nostra relazione è intorno alle pratiche di cura, che sono l’oggetto principale del lavoro della Cooperativa La Rete. Dialogo e ricerca. Uno scambio tra la scena e i servizi del Bistrot popolare. Un ragionamento sul perdono. Cosa potevo fare? – si chiede Medea; e così evoca una richiesta di perdono.

Victor Rivera Magos | La riflessione che posso fare è questa: io penso all’attenzione per il recupero del patrimonio (sia esso materiale o immateriale) e al modo in cui la classicità è stata recuperata e ‘aggiornata’ nel corso dei secoli; è un tema molto caro a noi storici, soprattutto a noi medievisti, perché si ripropone sempre in maniera ciclica a partire dal XII secolo, e oggi è parte dell’indagine di un filone della medievistica detto ‘medievalismo’. Penso all’uso attualizzato del mito e all’attualità, ancora oggi, del classico riproposto, ricostruito, rievocato nel contemporaneo. Pensiamo, ad esempio, ai cortei di incoronazione nelle corti del Quattrocento, già allora rivolti al recupero del passato per simbologia e richiami. Nel corso del tempo è sempre stato così, e così continuerà a essere per un semplice motivo: perché tutto quello che viene attinto dal passato è potente rispetto al presente. Il mito ha sempre qualcosa da dire rispetto al presente ma può essere anche pericoloso interpretarlo, oltre che rileggerlo: mi viene da dire che non dobbiamo lasciare correre il mito nel presente in maniera libera. Il suo senso deve essere compreso, spiegato, comunicato e se proprio attualizzato, va fatto in maniera intelligente.

Daniela Sacco | Il mio tentativo di studiosa (già all’inizio della mia formazione scolastica al liceo classico) è comprendere l’attualità del mito – un percorso che mi ha portato alla psicanalisi, psicanalisi da cui però mi sono liberata quando mi sono concentrata sul teatro. Credo che riflettere sull’uso del mito sia molto utile perché il mito è fondamentalmente un modello di comportamento: questa sua funzione è veramente fondamentale per differenziarlo nella sua incarnazione nel teatro, ed è veramente fondamentale per riflettere sui suoi fondamenti: il mito gravita costantemente nel presente e nel presente della scena. Voglio dire che sono felicissima di essere qui: credo che questo sia un luogo molto giusto per parlare di Miti. Io sono appena rientrata in Italia, dopo un lungo periodo di studio e di lavoro trascorso in Canada, e devo dire che gli shock culturali servono rispetto alla domanda che ci stiamo ponendo: i nomi del mito della tragedia sono solo nomi? E il nome ha una potenza specifica? Un’efficacia? Il nome non è solo parola: è una parola che ha una performatività: è un peso che cambia la realtà.

Alberto Camerotto | La questione che stiamo affrontando credo sia importantissima. La Città dei Miti: cos’è il mito e cosa ce ne facciamo? Sono questioni veramente vitali. Il teatro è una via per mettere in scena il mondo qui e adesso, nel senso che questo tempo è in questo luogo. Il mito prima di tutto funziona – e ha senso parlarne – perché è un paradigma di realtà. In effetti la realtà quotidiana – e tutto quello a cui assistiamo – è una realtà frammentata spappolata, sfracellata. Perché piangere per Ecuba? Perché altrimenti non sai come piangere – questo mi pare importante. Vogliamo piangere per qualcuno, ma ne vale la pena solo se c’è un’Ecuba. Avere un paradigma significa mettere in comune. Noi saremmo, tra virgolette, ‘democrazie’, ma non c’è più comunicazione con nessuno, e siamo diventati solo consumatori. Da questo punto di vista il mito è indispensabile. Il mito – ovvero Ecuba, Priamo, Medea – sono tutte metonimie. Basta dire ‘Medea’ e tutti abbiamo paura: con una sola parola si scatena una forza che è una potenza enorme. Questo è il mito che lavora per la sua lontananza e alterità. Faccio un piccolo esempio: io sto lavorando su questo progetto in cui andiamo erranti per i musei archeologici dimenticati che, come i classici sarebbero il cuore più antico che ha una società: tra le varie cose abbiamo anche messo in gioco l’idea di andare a Sarajevo, prima che scoppiassero le ultime guerre e si aggravassero le tensioni. Sarajevo – la Biblioteca ricostruita, il Museo dell’Assedio: questi sono i luoghi che potrebbero essere condivisibili. Sarebbe meglio parlare di miti alla National Gallery? Da Sarajevo ci dicono: “È bene che voi veniate a parlare di cose antiche perché le cose antiche sono altro e valgono per tutti”. E allora ecco perché Agamennone o Cassandra o Ecuba.

La nostra è una società di cui progressivamente viene spazzata via tutto, una società in cui non c’è più alcun pensiero. E se in una società non c’è pensiero presto non ci sarà nessuna società. Con i miti noi facciamo una battaglia controcorrente.

Giovanni Guardiano | Pensando alla domanda che ci siamo posti: forse abbiamo bisogno di far vedere quello che a noi è invisibile, come se il mito fosse lo sfondo a cui potere poggiare qualcosa di contemporaneo che diversamente non percepiamo. Ma grazie a quello sfondo i contorni inevitabilmente e improvvisamente diventano visibili. Si può dire che il mito è qualcosa che ci permette di leggere ciò che diversamente non potremmo. 

Daniele Nuccetelli | Stasera sarò Filottete e mi toccherà parlare per forza. Ora provo a dire qualcosa sulla grande domanda: perché abbiamo bisogno di Ecuba. Chiedersi perché, chiederci chi è Ecuba. Chiederci come esiste Amleto, così come esistiamo noi oggi così, come esiste Ecuba, come esiste Medea. Mi piace la domanda aperta e ora parlo per cercare non di dare risposte, ma per capire come riuscire a fallire: come ricominciare a nutrirci di bellezza di verità di senso di giusto. Penso che oggi il mito possa avere a che fare con le cose semplici perché, come diceva chi mi ha preceduto, siamo una società frammentata a scaglie: dobbiamo quindi provare a riconnetterci con le cose semplici – come può essere il racconto di una storia di una donna sulla strada, di un Eracle invisibile o di un vecchio dimenticato. E a proposito di chi siamo: dovremmo forse essere Ecuba invece di Amleto? 

Cristina Pace | Oltre che all’Università insegno da qualche anno anche nel carcere di Rebibbia. La domanda di senso, che affrontiamo anche qui oggi, è la medesima, ed è preliminare: perché? Perché il mito? E perché la letteratura greca, perché insegnarla? ecc. Da questo punto di vista per me la ‘palestra’ di Rebibbia è stata fondamentale, perché come spesso accade le situazioni estreme illuminano e danno senso anche all’ordinario. Il modo vitale e diretto in cui gli studenti detenuti a volte affrontano e interrogano il mito mi ha portato a chiedermi perché non possa essere così anche per gli studenti ‘esterni’, e mi ha spinto a cercare modalità diverse. E in questo entra in gioco anche il teatro – e l’incontro con Teatro dei Borgia – in quanto la visione di come il mito antico vive sulla scena teatrale è parte integrante di questa ricerca. Il teatro, essendo per definizione contemporaneo, è l’ambito ideale in cui verificare se questi racconti antichi ci parlano ancora. La domanda che ci ha posto Monica è di vastissima portata: chiedere a cosa serve il mito equivale a chiedersi in definitiva a cosa serve l’arte. Partirei dall’idea di classico, di cui parlava Victor: il classico di per sé implica un giudizio di valore, e quindi un rapporto di predilezione, un ‘senso’ che poi si è rinnovato nel corso del tempo, ma che proprio per questo è sempre aperto e sottoponibile a verifica: in fondo quando i classici smetteranno di dirci qualcosa potremmo felicemente dimenticarli. Questa prospettiva credo che dovrebbe liberarci dall’idea (che, come antichisti, fatichiamo a dismettere) di essere soprattutto o soltanto i custodi di questo patrimonio. Il classico è un concetto dinamico. Credo perciò che proprio in quanto antichisti dovremmo occuparci sistematicamente di come il classico vive nel contemporaneo. Riguardo a Ecuba, e in generale alla questione dell’efficacia dei nomi del mito, oltre a ciò che è stato già detto, vorrei portare un esempio che cito spesso, di un mio studente detenuto (per reati di criminalità organizzata) che scrisse la tesi di laurea su Agamennone riconoscendosi immediatamente nella situazione di questo personaggio eschileo, un uomo che cade in un agguato. In particolare, quello studente mi chiarì un punto del testo in cui Agamennone si trova di fronte all’alternativa di uccidere Ifigenia o disertare il patto con l’esercito; quando decide infine di uccidere la figlia, Eschilo ci dice che Agamennone viene preso da una specie di furore (ὀργᾷ περιόργως “con rabbia rabbiosa”, Ag., vv. 215-216). Un sentimento non ovvio, difficile da capire. Giovanni (lo studente detenuto) mi spiegò questo passo interpretandolo come il senso di onnipotenza che prende un uomo quando pensa di poter decidere della vita o della morte di qualcuno, e di saperne gestire le conseguenze. Seguendo il suo modo di leggere la tragedia (che ho cercato anche di disciplinare: non si tratta di lasciare libertà assoluta all’interpretazione) mi è sembrato di individuare una possibile strategia pedagogica: pur mantenendo una attenzione rigorosa al testo si deve concedere spazio all’interpretazione personale; lasciare spazio al mito, permettendo a questi racconti di interagire con la vita delle persone. E di acquistare così un loro senso. La ‘forma’ di Agamennone permetteva a Giovanni di raccontare sé stesso, e a me di capire meglio sia lui, la realtà terribile della sua esistenza, sia il personaggio stesso. Il mito era un filtro che permetteva a entrambi di vedere meglio la realtà, di conoscere. Aristotele nel quarto capitolo della Poetica, descrive il mestiere dello spettatore, dicendo che il piacere specifico di chi fruisce dell’imitazione, della mimesi, è il fatto di capire (mathein), e di collegare (syllogizesthai) “questo a quello”, di riconoscere nel racconto la realtà.

Vorrei dire infine che trovo molto bello che intorno a questa domanda di senso ci ritroviamo qui tra persone diverse – per mestiere e per esperienze. Penso che occasioni di confronto come queste possano essere molto feconde.

Maria Grazia Porcelli | La domanda che ci siamo posti è provocatoria. Forse sono l’unica non antichista qui fra voi e la mia riflessione parte da una prospettiva opposta. Io sono una settecentista, studio quelle forme drammaturgiche che segnarono la crisi del tragico: segnano la nascita del teatro moderno e avviano la discussione proprio dal tramonto della tragedia. Vorrei partire da una citazione molto simile alla domanda che ponete. Diderot, che nelle sue opere teoriche utilizza la forma del dialogo socratico, racconta a un interlocutore, che è il suo alter ego, Dorval, di aver visto una contadina piangere disperata accanto al letto del marito morente e lo spettacolo di quel dolore lo ha fatto pensare a una grande regina tragica. Se raccontasse questa storia usando i nomi del mito, scrive, il pubblico vedrebbe la regina non la contadina.

Diderot assume una prospettiva contraria a quella a cui ricorriamo noi oggi: la sofferenza, le passioni, sono le stesse in ogni tempo, ma occorre riportarle a una dimensione che sia riconoscibile da chi ascolta. È vero, come dicevamo prima, il tragico si rifà a modelli antropologici. I miti sono anche emblemi, condizioni della vita umana e rappresentano con un livello di astrazione superiore a quello a cui si riferiva Diderot, che si rivolgeva a un pubblico borghese. Questo mi è stato subito chiaro parlando con gli attori, che hanno spiegato a me e ai nostri studenti, le caratteristiche della loro performance. Il ricorso al mito, in questa modalità, si ritrova nella pratica del teatro degli ultimi settant’anni. Gli attori ci hanno detto: “Io devo catturare lo sguardo di chi mi guarda”. Mi è venuto spontaneo il riferimento all’Antigone del Living quando, nei primi 15 minuti gli attori, allontanandosi dallo spazio della rappresentazione, si mescolano al pubblico, lo guardano negli occhi per catturare l’attenzione e creano una sorta di patto da cui non è più possibile uscire. Da quel momento gli spettatori sono costretti in qualche modo a partecipare, sono dentro l’azione, fanno parte della rappresentazione. Ma i tre attori de La Città dei Miti mi dicono: “Il teatro che noi facciamo, non è un teatro psicologico”. Questo mi riporta alla condizione del teatro che dagli anni ’60 fino a questo momento storico – con la contestazione radicale della scrittura teatrale e del teatro di parola– si contrappone alla tradizione. Vedo che il mito – come è ‘Antigone’ per Judith Malina e Julian Beck – serve a richiamare l’identità simbolica che è propria del personaggio mitologico. A quel punto non importa tanto che il pubblico sia colto, che abbia fatto il liceo classico, che sappia chi sia quella Antigone che il Living ha riscritto attraverso Brecht, e che faccia riferimento alla guerra in Vietnam... Questo non interessa più. Interessa che sia rovesciata la prospettiva e il pubblico identifichi in quel nome una sofferenza, un dolore, una passione, una sua identità.

Poi farei un’altra proposta un po’ più provocatoria. Io credo che ci siano delle drammaturgie contemporanee che siano state capaci di ricreare dei miti, utilizzando delle strutture drammaturgiche e un modo di creare i personaggi che si avvicinano molto a quelle della tragedia classica. Penso all’esperienza di Bernard-Marie Koltès quando decide di vivere nel Bronx, dove contrae l’AIDS, viene derubato, violentato e da questa esperienza scaturisce il suo teatro. Nel teatro di Koltès si ritrova la capacità di ricostruire situazioni emblematiche, da cui la psicologia è del tutto assente. La Medea di Teatro dei Borgia, il modo in cui la compagnia lavora, mi ha fatto pensare al modo in cui Koltès (che, come ogni drammaturgo francese aveva, più o meno consapevolmente, come modello la tragedia classica francese, e dunque Racine) affronta la sofferenza del suo tempo. 

Il mito è una guida, certamente, ma per me quello che veramente conta è la performance, il modo in cui voi attori lo fate vivere.

Olimpia Imperio | Ho conosciuto Gianpiero Borgia un paio di anni fa e non ho ancora visto nessuno degli spettacoli de La Città dei Miti. Abbiamo avviato con i Borgia un percorso per così dire didattico nel senso che ci siamo impegnati con tutta la compagnia in attività che coinvolgono gli studenti del corso di laurea in Lettere classiche e in Scienze dello Spettacolo dell’Università di Bari, dove insegno. Questa è la genesi di questo incontro. Proprio in queste settimane abbiamo svolto, insieme a Maria Grazia Porcelli, una serie di incontri con Gianpiero Borgia e gli attori della trilogia. Insegno Lingua e letteratura greca e lo sottolineo per riallacciarmi alla domanda che ci poneva Monica. Da tanti anni insegno questa disciplina e assisto sempre più a un fenomeno strano: a fronte del diminuire del numero di iscrizioni alle discipline umanistiche, riscontro un crescente interesse nei confronti della lingua e della letteratura greca da parte di studenti che non hanno fatto il liceo classico. Sorprende che uno studente che viene da un istituto tecnico si iscriva a lettere classiche e chieda di imparare la lingua greca antica. Questa richiesta ci crea anche un po’ di problemi, ma crediamo che un motivo ci debba essere. Quello che vedo è che la memoria dei miti, l’enciclopedia tribale, la coscienza collettiva, agiscono in maniera inconsapevole nelle menti dei giovani anche quando questi ragazzi hanno solo sentito vagamente parlare dei miti greci. A molti di loro questi nomi – Eracle, Ecuba, Medea – non dicono molto. Ma c’è una spinta forse inconsapevole verso l’antico: il fascino dell’antico. È il fascino del classico? Come sappiamo bene anche Shakespeare è un classico, ma un conto è l’antico, un altro il classico. Il classico è un testo – così diceva Calvino – che sa parlare del presente nel passato e ci costringe a verificarlo ogni volta, a ricaricarlo di significati ogni volta diversi.

Il classico è quello che il mito greco evoca in noi: anche nelle persone più giovani, più ignare, non intellettualmente strutturate, evoca dei fatti ancestrali, dei meccanismi ancestrali. Stimola e incuriosisce. Questo è un aspetto che fa la differenza rispetto a quel che accadeva nel mondo greco: il teatro greco era un teatro popolare, e tutti andavano a teatro a prescindere dal livello di alfabetizzazione che avevano. Adesso per noi il teatro è un momento altamente selettivo della nostra vita culturale, tanto più se si ripropongono o riscrivono i miti greci – come fa Teatro dei Borgia. Per gli antichi sentire il nome di Medea, Antigone, Eracle evocava immediatamente un archetipo, un paradigma. Nell’Atene del V-IV secolo c’era una sorta di rivalità polemica tra i tragediografi e commediografi. I commediografi dicevano che era molto più difficile far ridere: far piangere era facile in quanto, di fronte a un bagaglio mitico noto a tutti, è chiaro che era più facile portare in scena Medea, Eracle, Edipo, Filottete, pur riscrivendo e variando quel mito perché comunque lo spettatore che andava a teatro, qualunque fosse il suo livello di alfabetizzazione, sapeva già di cosa si sarebbe trattato. La trama mitica era già lì, a disposizione, nota a tutto il pubblico. Invece, una commedia che deve far ridere, ogni volta deve inventarsi una trama che abbia a che fare con l’attualità politica o con la vita quotidiana: questo accadeva nel mondo antico. Per noi moderni credo che le cose siano diverse perché non sempre – e penso al grande pubblico – non sempre il nome del personaggio mitico evoca necessariamente una trama, una dinamica, un nodo problematico com’era per gli antichi. Noi scegliamo di andare a teatro per vedere l’antico, scegliamo di vedere come l’antico è portato sulla scena. Il mito non è, non è soltanto, teatro, evidentemente, ma la drammatizzazione del mito a teatro è un veicolo privilegiato, una facilitazione per la comunicazione del mito a un pubblico generico. Ebbene, nel momento in cui il pubblico sceglie uno spettacolo che ha nel titolo il nome di Medea o di Filottete o di Eracle, non sempre sa cosa andrà a vedere, o quantomeno non può darlo per scontato. L’operazione che viene fatta con questa trilogia mi pare sia particolarmente interessante, e che anzi sia una vera sfida, soprattutto perché credo fermamente nella inattualità dei miti, antichi e moderni. I miti sono in grado di parlare a noi in quanto noi siamo capaci di riscriverli diversamente. Altrimenti noi antichisti finiremmo per parlarci soltanto tra noi, perché saremmo solo noi ad aver bisogno di piangere per Ecuba. E invece eccoci qui a domandarci perché tutti, ma proprio tutti noi, abbiamo bisogno di piangere per Ecuba. Ebbene, forse piangiamo tutti per Ecuba perché, come prima suggeriva Alberto Camerotto, niente più di quello che ci accade intorno ci fa piangere. O forse perché i Greci sono stati i primi a problematizzare i paradigmi esistenziali rappresentati da questi personaggi. Il senso della primazia, della priorità, la sensazione di tornare alle origini, al senso primigenio di questi miti e delle loro dinamiche psicologiche, emotive, aggressive, conflittuali e sinanco belliche così remote e al contempo ancestrali, forse ci aiuta a semplificare la complessità della realtà che ci circonda e a meglio decodificarla, e al contempo ci aiuta a capire noi stessi, dotandoci di quel senso di alterità e di distanza che dobbiamo coltivare. Credo perciò che chi mette in scena i miti antichi debba imporsi di evitare di innescare ovvi processi di immedesimazione o di coinvolgimento simpatetico nei confronti di personaggi o situazioni per noi non più attingibili, e di creare piuttosto quel distanziamento che consente a noi moderni di riconoscere il presente nelle differenze col passato: gli antichi riscritti nel presente ci aiutano forse a capire il presente. 

Non credo, comunque, che la nostra domanda di partenza possa trovare una o una sola risposta: il fatto però che siamo qui a interrogarci sul perché ciascuno di noi ha bisogno di piangere per Ecuba può forse aiutarci a capire perché ci sia tanto rinnovato interesse nei confronti del mondo antico in tutte le stratificazioni e le articolazioni della società civile. Per tornare al discorso che facevo all’inizio, forse i giovani che decidono coraggiosamente di iscriversi a lettere, e a lettere classiche in particolare, hanno il bisogno di ritornare alle origini, ai ‘fondamentali’. E quei ‘fondamentali sono stati individuati, tematizzati e problematizzati per la prima volta dai Greci. 

Gianpiero Borgia | Cercherò di dare un contributo di confusione ai presupposti ottimi di confusione che state contribuendo anche voi a generare. Prima di tutto volevo dire qualcosa a proposito di questa cosa del metodo sul quale giochiamo sempre: il metodo ACDC (a cazzo di cane) in realtà per noi è un approccio diventato sistemico. Mi capita molto spesso di dire agli attori: non provate la prova. Perché capita spesso che gli attori provino la prova, tutto fatto in funzione della cautela, dell’esperienza, tutto preparato in modo tale che l’incontro sia un non incontro. La prima relazione è infatti quella mediata da una luce deprimente, quella del consumo: il fattore umano ridotto a fattore di consumo e alla luce blu di Facebook che domina le nostre esistenze, che sopisce la componente dionisiaca – istintiva irruenta bellicosa critica socratica. Perciò il metodo ACDC è un metodo dello sprogettarsi: prevede uno spettatore compartecipe e di riportare a un’esperienza non di delega di azione, non di recitazione. Una esperienza di attraversamento, non di confezione. Perché questa premessa? Perché in qualche modo questo luogo così inidoneo a parlare del mito classico è parte integrante – e quindi intrinsecamente fallimentare – del nostro modo di lavorare che deve avere una componente intrinseca di fallimento. Se l’attore ha provato la prova, il suo apparente successo è una non scoperta, è un insuccesso. L’attore scopre qualcosa nella dimensione scenica solo se può fallire: solo se è esposto al fallimento può trovare qualcosa di imprevedibile e l’atto di scoperta sulla scena può diventare un atto testimoniato. Deve scoprire qualcosa nella dimensione scenica ed esposto al fallimento può trovare qualcosa di imprevedibile che il fallimento sulla scena può portare.

La domanda a cosa servono, ancora, i miti greci obbliga a risposte egoistiche. Io posso dire cosa sono serviti a noi, Teatro Dei Borgia, i miti greci. Innanzitutto sono serviti a un sostanziale ribaltamento di approccio. Prima di tutto ci tengo a dire che non abbiamo scelto di fare nessuno di questi tre spettacoli: non c’è stato un momento progettuale nel quale abbia deciso razionalmente di fare questi i tre miti – Medea, Eracle, Filottete. Con il mito accade come il peyote in Puerto Escondido: è lui che trova te, non sei tu che trovi il mito. C’è un momento nel percorso della compagnia in cui è apparsa Medea. Nel momento in cui è apparsa Medea abbiamo cominciato a cercare altri lavori. Ma perché sia stato Eracle e non Antigone, Filottete non Elettra, francamente non ve lo so dire. C’è stato un momento di intensità in cui siamo stati decisi di fare Medea, in cui siamo stati decisi di fare Eracle, e poi siamo stati decisi di fare Filottete. Questa parola, intensità, è una parola decisiva nella relazione con il mito. Ho fatto circa trenta spettacoli nella mia vita e non tutti i trenta spettacoli avevano un’intensità decisiva, anzi: assai pochi di questi trenta spettacoli hanno determinato la storia della compagnia. Il primo tema del mito ha a che fare con la parola ‘intensità’. Il mito ha restituito alla compagnia un’intensità primigenia che il mestiere le aveva tolto. Ci ha riportato in quella dimensione amatoriale, naturalmente iperprofessionalizzata, ma in quell’ottica della passione amatoriale di quando eravamo ragazzini. Ci ha riportato in quella dimensione materiale che ci collocava in un’intensità di relazione con il materiale. Ed è una relazione che non tutti i materiali portano. 

Quindi per noi il discorso dell’intensità cambia completamente ottica e prospettiva: è il mito che porta Teatro dei Borgia a essere fatto, e non Teatro Dei Borgia a fare il mito. Io non so se tutto questo sia utile al pubblico, e francamente è una risposta che posso dare a posteriori non a priori. Ma mi è sembrato onesto chiamare Medea con il nome di Medea perché se non avessi attraversato Euripide non sarebbe venuto lo spettacolo: quindi restituire il nome Medea mi è sembrata una corretta corrispondenza nei confronti di Euripide. Era onesto e anche se nessuno più ne tutela i diritti d’autore, era giusto restituire a quegli autori, in termini di gratitudine, il biglietto del viaggio che ci avevano fatto fare.

C’è un altro discorso che secondo me è molto collegato al mito, ed è la vecchiaia di Mark Zuckerberg che è uno sfigato di clamoroso insuccesso: uno che si inventa i social network che in otto/dieci anni passano di moda. Mark Zuckerberg è l’equivalente della musicassetta: non è Sofocle che invece è un Blockbuster, non è Euripide che invece ha miliardi e miliardi di follower. I miliardi di follower di Euripide sono ben più di quelli di Zuckerberg e per di più attraversano 26 secoli. In altre parole: decisivo per la relazione con il mito è che, diversamente da Zuckerberg che ha la vita dell’insetto, il mito ha la vita della sequoia. Con il mito si entra in una foresta fatta di un tempo diverso che non è il tempo del contingente non è il tempo del consumo: un tempo che porta il nostro animo e il nostro ragionamento in una dimensione che non è orizzontale.
Un’altra cosa che dobbiamo ai miti e che occupandosi di loro si smette artisticamente di occuparsi del proprio successo. E quindi, paradossalmente, si ha successo: infatti si inizia ad avere successo quando si smette di occuparsi del proprio successo. Quando a un certo punto con Medea sono stato spostato da me stesso, ho smesso di occuparmi dei miei spettacoli e ho iniziato a occuparmi di Medea. Il che comporta che succede quello che ci sta succedendo oggi – aerei cancellati, treni in ritardo, difficoltà varie e noi che siamo comunque qui – è conseguenza di questa relazione con questa foresta di sequoie e non più con la dimensione del consumo e quindi del successo.

C’è un’ultima parola che mi sento di aprire attorno alla relazione di utilità con il mito, ed è la parola ‘militanza’ che secondo me segna il percorso della compagnia e segna diversamente rispetto agli ultimi anni il ruolo dell’artista e dell’intellettuale nel suo tempo. Non scordiamoci che stiamo trattando di una ridotta, di una riserva indiana: quello che facciamo in relazione con le cose, in questa maniera di approfondimento verticale, è materia da WWF. Andare oltre i 140 caratteri ha a che fare con la sfera del proibito, ed è già strano che non ci stiano arrestando perché siamo su questa piazza a parlare di queste cose. Fra dieci, quindici anni probabilmente potremmo essere arrestati come i cristiani dei primi secoli della nostra era. Abbiamo a che fare veramente con il proibito: la coltivazione del pensiero critico è proibitissima, proibitissima la gratuità – “Siete pazzi a fare le cose gratis, sei un pazzo”.

Ma inizia anche a esserci una relazione tra chi si occupa di questa materia, carbonara e positivamente militante: cominciamo a riconoscerci tra di noi e ad attivare situazioni di reciproca tutela e di complicità. Domani sarà con noi Francesca Zitoli, l’assessore di Trani che è una giovane professoressa di greco, anche se credo che farà l’assessore ancora per pochi mesi e dopo questo progetto la cacceranno per forza. Ma quando si incontra un personaggio come Francesca Zitoli o come Domenico Bizzarro, capita che sono loro a rilanciare le radici del progetto. Benvenuti ai ragazzi arrivati da Venezia.

sabato 21 maggio, pomeriggio

Monica Centanni | Forse qui, nonostante tutto, siamo un po’ troppo sereni mentre, come ci insegna Alberto Camerotto, i classici sono “contro”. Grazie perciò non solo a Hermes, ma anche a Teatro Dei Borgia per la regia di questo incontro: grazie all’effetto speciale del martello pneumatico, del traffico, dei cani; grazie del caldo sotto a questo sudario di plastica. C’è una grande regia che fa parte del tema che stiamo trattando. E quanto alla pessima soluzione del motto-acronimo ACDC che ha proposto Gianpiero Borgia, propongo due soluzioni diverse: 
1) ACDC = A Corrente Di Cortocircuito.
2) ACDC = Al Centro Del Cuore.

Prendendo spunto dialetticamente dall’intervento di Olimpia Imperio, rimarco il fatto che, io, invece, vorrei espungere dal discorso di oggi tutto quello che ha a che fare con la didattica e la pedagogia. Va da sé che è importantissimo l’aspetto soggettivo dell’interazione con il mito di cui parlava Maria Grazia Porcelli con l’esempio estetico-filosofico di Diderot, o Cristina Pace con il caso dello studente detenuto. È certo importante il caso in cui il mito acquista valore sia conoscitivo sia terapeutico. Ma oggi questo non mi interessa: io mi sto interrogando su un’altra cosa e vorrei rimettere il discorso sul binario della domanda iniziale. A me, in questa circostanza, non importa capire se (e a che cosa) serve pedagogicamente il mito, né mi importa il fatto che (se) il mito serva a rappresentare questioni sociali urgenti nel nostro tempo. E non mi importa nemmeno interrogarmi se e perché il mito attragga il pubblico. La domanda, oggi, per me è un’altra: capire perché servono i nomi di quei miti. Un altro spunto dialettico mi viene dall’intervento di Alberto Camerotto: l’idea della frammentazione, della totale parcellizzazione dell’esperienza e delle conoscenze è un dato reale, non è cosa che riguarda solo il nostro presente. Era lo stesso anche per gli spettatori dei Persiani del 472 a.C. Salamina accade nei Persiani di Eschilo: io credo che una storia di Salamina al di fuori dei Persiani di Eschilo non si dia. Il luogo e il tempo in cui la battaglia di Salamina accade nella coscienza politica collettiva dei cittadini, il luogo e il tempo in cui precipita in un racconto è precisamente il teatro. I Greci che hanno combattuto a Salamina non sanno Salamina: la imparano a teatro. Il teatro nasce nel V secolo a.C. come luogo in cui fare accadere la realtà – realtà che altrimenti non c’è, non accede alla coscienza e all’esperienza individuale e collettiva. Un esempio a cui tengo molto: il Vajont, – il Vajont non di Marco Paolini, ma di Gabriele Vacis – non lo conoscevamo prima che Gabriele Vacis lo raccontasse attraverso Marco Paolini. Vacis ha presentato quella storia a chi credeva di saperla già: ai cittadini dei paesi intorno a Longarone che avevano vissuto in prima persona il disastro e che erano presenti a fare da coro con alle spalle lo scenario della Diga; a tutti noi che credevamo di sapere la storia e che eravamo a casa davanti alla televisione. Vacis ha fatto accadere il Vajont perché ne ha fatto teatro: ed è quella la stessa intensità del teatro greco. Dare visibilità a qualcosa che è vagamente noto, ma è inconsapevole, invisibile alla mente e ai sensi. E dove altro avviene questo se non a teatro? Il teatro impone al reale un regime di visibilità. Il teatro è realtà aumentata. Certo deve esserci il clima politico e culturale giusto – un clima ‘militante’ dice Gianpiero Borgia: qualcuno deve decidere di andare a teatro, a vedere qualcosa che conosce, o che crede di conoscere. E oggi sta a noi mettere in circolo questa necessità primaria, promuovendola come desiderio. Perché è vero che nell’era della massima, impudica, condivisione di tutto, le esperienze condivise sono rarissime. C’è un problema – dicevano sia Gianpiero che Alberto – ed è un problema di democrazia (lo sapeva già Platone che deprecava la “teatrocrazia” come matrice prima della politica). Il teatro non è un’esperienza divertente (che diverte rispetto a non si sa quale vita): è una pratica filosofica. Per questo non può essere un fatto elitario e dobbiamo uscire dalla logica della riserva indiana. Il teatro o è esperienza espansa e collettiva o non è. Il nostro mestiere è far sì che si ridia una temperatura estetica e culturale in cui questo avvenga: rarissime nella nostra storia sono le emergenze in cui l’esperienza filosofica è politica, ovvero non elitaria ma condivisa, ma dobbiamo lavorare proprio a questo, a propiziare una congiuntura di questo tipo. In questo senso, non si tratta della preservazione dei trascendenti e assoluti valori del classico. Su questo punto sono in totale disaccordo con Victor Rivera Magos: lasciamo invece che il mito circoli liberamente, che ci facciano la pubblicità della Coca Cola o di quel che gli pare. Abbiamo fiducia nel fatto che il mito sopravvive a qualsiasi contraffazione – anzi che vive, di epoca in epoca, soltanto mediante camuffamenti e contraffazioni. Il mito è, da sempre, vitalmente libero, da sempre disponibile alla negoziazione con il reale, agli adattamenti che le circostanze impongono. Non ci sono valori da conservare e da tenere puri.

Quanto alla parola ‘militanza’ che Gianpiero declina in modo politico e ci propone di rilanciare: di per sé non è una parola bella, ma vero è che la luce di Ares, con tutta la sua violenza, con tutta la sua prepotenza, illumina le cose e ce le rende visibili. Negli ultimi mesi abbiamo visto chiaramente cose che prima non erano evidenti – e quindi, in questo tempo di guerra, possiamo dire con James Hillman: “Viva la militanza!”. La luce di Ares ci aiuta a chiederci a cosa servono i nomi del mito, e che potere hanno le parole.

E anche per questo non sono d’accordo con Gianpiero: non è un’operazione elitaria, non facciamo il WWF perché non stiamo difendendo niente e non abbiamo niente da difendere. Stiamo interrogandoci e stiamo incontrando dei nomi che ci fanno capire cosa siamo ora. E in fondo, anche nel V secolo, anche per Eschilo, per Sofocle, per Euripide era così: i mythoi non erano altro che trame, nuclei di racconto che servivano per evocare e per portare in scena in modo totalmente anacronistico storie utili per il presente, che permettevano alle cose di accadere. Ricordiamoci che quel carro che in Medea si alza alla fine del dramma atterrerà ad Atene: il carico di pathos di Medea serve ad Atene, per far nascere Teseo e Atene. Questa è una violenza fatta al mito, una vera e propria contraffazione. E una violenza totale sono l’Edipo a Colono e lo stesso Edipo re: è una violenza che Sofocle fa al mito che ci sia la peste e che Edipo risponda al suo popolo per allontanare la peste dalla città. E la stessa Antigone che difende la libertà di seppellire il fratello Polinice che ha attaccato la sua città, non è un personaggio del mito. Prima dei Sette di Eschilo, prima di Sofocle, c’era il nome di Ismene, c’erano i nomi di Eteocle e Polinice. Il nome e il personaggio di Antigone nasce a teatro.

Ora siamo Al Centro Del Cuore: siamo nel cuore di una città e forse basta non far perire il genoma del mito, basta lasciarlo lavorare. Non so se sia utile per il lavoro che sta facendo Teatro dei Borgia, ma Gianpiero sa benissimo da cosa nasce e perché sta facendo questo Filottete. Il mio primo incontro con Borgia è stato con Filottete al Teatro greco di Siracusa, il posto peggiore e insieme il migliore per incontrare il mito. Perché la domanda a Siracusa suona clamorosa: perché il mito funziona? Perché 140.000 persone pagano un biglietto per andare a vedere ogni anno le tragedie greche a Siracusa? Siamo a rischio di estinzione? Il mito è a rischio di estinzione? Non lo so – so che dobbiamo custodire non già la lettera ma il genoma del mito. Non custodire il mito ma potenziarlo, metterlo in moto. Sono le stesse domande a cui Eschilo, Sofocle e Euripide si sono sentiti chiamati a dare risposta.

Domenico Bizzarro | Pensavo di essere fuori tema, ma in realtà non è così. Nulla ci fa più piangere. Ho sentito la necessità di scendere da Brescia perché avevo bisogno di una tregua. C’è bisogno anche di un po’ di tregua, ci consente di stare di fronte al mistero. E questa è l’occasione. I nomi del mito ci inducono a domandare perdono, per sentirci giusti. Il mito a farci una domanda in una delle professioni che rischia di diventare burocratica.

Antonietta Magli | Il mito non serve a niente come niente serve a niente. Però è quella cosa che ci permette di raccontare. Fin quando siamo vivi raccontiamoci. E Borgia lo fa benissimo.

Daniela Sacco | Mi stupisce sentire evocare il tema del perdono: mi pare un tema totalmente monopolizzato dalla cultura cristiana, cattolica. Il senso della trasgressione sta nel valore polemico, conflittuale, del mito. È interessante in questo lavoro il pathos che non ha nome. Il mito ha un valore autonomo. Noi siamo gestiti da queste emozioni.

Alberto Camerotto | Polemizzo sullo scioglimento dell’acronimo ACDC: la formula Borgia non è così sbagliata. È un dire polemico alla maniera dei cinici: i filosofi “cani” che mettono in discussione la società. 

Cristina Pace | Forse una risposta, fuori dalla declinazione pedagogica, potrebbe essere questa: il mito serve perché richiede un’interpretazione. Eschilo stesso mostra di esserne consapevole e utilizza il teatro in questo senso, attivando la nostra capacità di guardare e interpretare. Il pubblico è semplicemente messo di fronte a qualcosa, che non viene spiegato ma solo mostrato: “Vedi che c’è qualcosa oltre a quello che vedi”. In questo senso il mito induce alla profondità, a stare al mondo in maniera consapevole. E per questo la parola ‘intensità’ che è stata evocata è importante. Il mito dà la possibilità di toccare la realtà in modo diverso.

Alberto Camerotto | Nella libertà del mito c’è un valore potentissimo. Quando prendiamo un mito ci prendiamo una responsabilità – ogni volta che metti in scena un mito, ogni volta che metti in scena Antigone. Non possiamo desistere dalla responsabilità di mettere questa parola dentro la società. Se non lo facessimo, oppure se lo facessimo solo tra di noi, diserteremmo dal nostro impegno. L’arte non è la bellezza che ci fa felici, e l’attivazione del pensiero, la riflessione problematica sulle cose, ci fa capire che non possiamo essere felici. Queste parole che noi diciamo possono essere patrimonio comune – perché il mito è una parola comune.

[Nel tardo pomeriggio di sabato tutti i partecipanti assistono alla trilogia de La Città dei Miti].

domenica 22 maggio 2022, mattina

Monica Centanni | Stamattina c’è assenza di vento e senza che abbiamo ucciso nessuna Ifigenia: è già un buon risultato di partenza.

Dal confronto di ieri abbiamo imparato tutti e, dato che l'assessore Zitoli ieri non c'era, non le “ricapitoleremo i principi”: di quello che abbiamo detto ieri potrà forse ricavare tracce e frammenti da quel che ci diremo oggi. E oggi l’ordine del giorno prevede di parlare degli spettacoli che abbiamo visto ieri sera.

Alberto Camerotto | Avevo visto solo Eracle che mi aveva colpito in maniera forte a Vicenza. Filottete l’ho visto in questa occasione due volte, per due serate di seguito e sono caduto dentro a un vortice: io ero dentro questo teatro e tutto quello che ho visto mi riguarda da vicino. Non ho capito niente di quello che ho visto ma mi sono sentito una straniera, e vedevo Filottete e avevo male al piede. C’è molto da sentire e da valutare. Ecco – questa è ricerca, è fisica nucleare.

Luca Matteo Rossi | Per me è la prima volta a Trani: studio allo Iuav di Venezia ed è la prima volta che vedo cose prodotte dal vostro Teatro. Prima di tutto devo premettere che io sto da un'altra parte, nel senso che io mi occupo di teatro ma non di teatro di rappresentazione: sono molto distante da questo modo di far teatro per cui da un punto di vista proprio registico più che attoriale avrei molto da dire, per il mio percorso per il mio modo di vedere il mondo, in senso propriamente critico. Devo dire però che ho apprezzato un punto sostanziale che è il punto di vista della differenza che intercorre tra questa operazione e il luogo in cui viene fatta. È una ricchezza e questa differenza è percepibile nella reazione degli attori stessi: infatti non siamo in un luogo qualunque. Siamo qui, in questo momento, e questo è qualcosa che anche nel teatro di cui mi occupo e che faccio è molto importante. Questo è ciò che ho avvertito, una intensità del luogo e delle persone che si riflette e che apporta una differenza. Io purtroppo non conosco molto i miti greci e quindi di Eracle e di Filottete non ricordavo nemmeno i particolari della storia. Monica Centanni ieri mi diceva che secondo lei la Medea funzionava meglio perché la storia è conosciuta a tutti e quindi tu sai che hai davanti e cosa devi aspettarti: devo dire che però non mi ha del tutto convinto. Il fatto è che il mito, magari non nella sua interezza ma anche solo in alcuni suoi aspetti, si ripresenta all’interno di storie che vengono raccontate (e non solo a teatro), e in quelle forme che ricorrono è possibile riconoscere qualcosa. Io l’ho visto da questo punto di vista e quindi pur non conoscendo la storia, nella mia ignoranza, quella intensità l’ho comunque avvertita e ne sono stato in qualche modo investito: quindi è stato anche un percorso di conoscenza anche senza una completa consapevolezza.

Daniela Sacco | Non avevo mai visto niente della trilogia: l’avevo mancata perché non ero mai in zona. Ho molto apprezzato i tre spettacoli e, visto che si è parlato di Siracusa, ho trovato interessante il diverso approccio con cui avete lavorato sul mito. Se normalmente un adattamento parte dal mito e parte dalla tragedia e si accompagna a una traduzione cercando di trovare eco nel quotidiano, voi invece siete partiti dal quotidiano, dalla realtà e avete evocato il mito a partire dal basso: questo cambia notevolmente l’approccio e il modo di lavorare con la plasticità del mito, e permette di vedere la quotidianità da un punto di vista diverso, da una prospettiva diversa. Ieri riflettendo con Elena Cotugno, mi chiedevo: se noi avessimo intitolato la vostra Medea “Svetlana per strada”, che cosa avrebbe cambiato nella nostra percezione dello spettacolo? Torniamo all’importanza del nome, l’importanza di partire dall’esperienza del quotidiano per fare uno scatto. Rifletterei su questo percorso inverso che voi avete fatto rispetto al solito approccio su quello che si chiama ‘trattamento’ o ‘adattamento’, o più genericamente messa in scena della tragedia del mito.

Antonietta Magli | Voglio solo replicare a Luca Matteo che Teatro dei Borgia non fa “teatro di rappresentazione” ma mette in azione il mito. Riattiva il mito e fa azione, e in questo non è teatro di rappresentazione.

Giorgiomaria Cornelio | Sono anche io uno studente Iuav e studioso di teatro. Mi trovo d’accordo sulla questione della rappresentazione, ma penso che Luca Matteo, richiamando la rappresentazione, intendesse qualcosa di diverso: qui va intesa come attivazione d’intensità nei nervi, nel senso che c’è un corpo e c’è un testo investito d’intensità, ma è sempre un testo. Il tema che però mi interessa e che investe anche il luogo in cui siamo, è quello della partecipazione perché c’è uno spunto che ieri era stato accennato e che stiamo trattando in Engramma ed è il rapporto tra il teatro e la festa. Ieri sera in questa stessa piazza era in corso un rito folclorico-religioso ed era un altro teatro contemporaneo in cui c’era un rapporto molto vivo e insieme una rottura tra il teatro e la festa, una relazione che interroga lo spettatore: è il dialogo tra un teatro dove c’è uno spazio di distanza e un teatro dove si è completamente gettati tra le figure che muovono la scena. Ho visto ieri per la prima volta Medea e avete ricordato le altre versioni dello spettacolo, all'interno del furgoncino e poi del bus – quindi con un rapporto ancora più diretto tra il personaggio e lo spettatore. Immagino l’effetto, che già ieri era per tutti e tre i luoghi molto forte, molto potente, e penso che ad esempio in uno spazio chiuso come il furgoncino, con un rapporto così stretto e diretto, l’effetto potesse essere ancora più forte, più violento. Ecco, appunto, il tema del rapporto: lo spettatore è interrogato, chiamato ad agitare l'informe a dare una sua risposta patetico-partecipativa, cosa che non sempre è facile per uno spettatore o che si addice a una concezione teatrale dove lo spettacolo sta lì e lo spettatore non può essere coinvolto. Se la scena è troppo vicina lo spettatore è devastato. Mentre in questo caso vedo come il rapporto fosse molto profondo. Io vorrei vedere tutti i volti e proprio per questa ragione – la ricchezza di cui anche Luca Matteo parlava – anche se la macchina mitica non è profondamente conosciuta, funziona perché tocca, scuote, interroga, sommuove luoghi, e porta al ribaltamento.

Poi non tutti gli interrogativi giungono alle persone in maniera uguale: per questo io come spettatore sono rimasto sorpreso anche dal discorso finale nel Filottete. Ad esempio io non sapevo del sintomo dell’allucinazione collettiva e ho trovato molto interessante il dispositivo per cui il pubblico diventa l’allucinazione collettiva dell’attore, che diventa immagine o fantasma anche di se stesso. Quindi colgo l’occasione per ringraziare di essere qui, perché uno dei motivi d’interesse è proprio questa partecipazione, che attiva un luogo, lo ribalta, a prescindere dalle ricerche personali che possono essere affini o diverse. Una differenza è una verità che viene dallo scontro con l’alterità che ti interroga. Grazie sia per questo che anche per le cose che non risuonano, ma sono importanti proprio perché non consonanti, e per quanto ci interrogano.

Giulia Zanon | Studio a Venezia e non mi occupo di teatro, quindi non ho gli strumenti per poter parlare in modo puntuale, e per costeggiare con precisione questi perimetri. Ma vedendo questi spettacoli che non avevo mai visto, mi è sorta una domanda: secondo voi il piacere dato da uno spettacolo del genere viene dal riconoscimento del testo? Oppure il mito entra così profondamente nell’immaginario da non aver bisogno di una traduzione testuale? C’è certamente una dose di compiacimento nel riconoscere certe cose anche per me che non studio teatro. Mi domando se una persona che non ha mai letto un mito in vita sua prova lo stesso piacere. Questo sarebbe molto interessante da indagare.

Ilaria Grippa | Sono studente allo Iuav e non mi occupo di teatro ma di arti visive. Ho fatto però teatro a Brescia, e un teatro molto simile al vostro, che io chiamo “drammaturgia di comunità”: quindi mi suona anche il coinvolgimento di una piazza come questa utile per costruire storie. Insomma ero preparata a farmi investire e a tirare fuori il mio pathos, e perciò mi sono totalmente lasciata andare di fronte agli spettacoli che ci avete offerto. Ma vorrei sottolineare un punto critico: quanto limite si può dare l’attore nell’assumere l’emotività di quelle storie. Le tre storie che avete trattato sono al centro della vita che viviamo. Qual è il rischio o il limite del coinvolgimento? Quale la giusta distanza? È importante riuscire a entrare in empatia, oppure non ci si riesce del tutto, oppure non è opportuna una identificazione troppo ravvicinata? Vedo poi nel lavoro di Teatro dei Borgia una completa istanza di improvvisazione, perché l’esito dello spettacolo dipende molto anche da chi hai davanti e l’attore deve adattarsi a chi si trova davanti. Mi chiedo, ci deve essere, e dove sta, il limite?

Olimpia Imperio | Non avevo ancora visto gli spettacoli, sono due anni che li inseguo. Vado subito al punto: dei tre spettacoli quello che mi è piaciuto di più è stata Medea. Tutti e tre, per quello che posso capire, sono tecnicamente impeccabili, straordinaria la resa attoriale e così anche l’impostazione scenica e teatrale. Medea fa la differenza perché tutti sanno chi è, e c’è il compiacimento del riconoscimento, come accadeva per altro per lo spettatore antico. Noi riviviamo così l’esperienza dello spettatore antico. Questo fenomeno accade ovviamente anche con altri generi e altri autori del teatro cosiddetto ‘classico’, o con il Melodramma e non soltanto con il mito greco. Tutti conoscono anche le altre storie, sanno chi è Filottete o chi è l’Ercole delle dodici fatiche, anche se poi non tutti conoscono tutta la storia o l’Eracle di Euripide che rispetto alla storia tràdita presenta delle variazioni importanti. Euripide si divertiva a variare creativamente più di Eschilo e Sofocle. In Medea per strada, comunque, rispetto agli altri due il testo della tragedia è più attinente alla vicenda. In Eracle l’invisibile e Filottete dimenticato il mito è giocato quasi come un pretesto. La dinamica e il costrutto dell’azione mi sembra più distante dalle vicende narrate, non solo nelle premesse ma anche negli esiti. Negli ultimi due, le allucinazioni dei personaggi della vicenda attualizzata tendono a sovrapporsi a confondersi con quelle del mito, ma, mi direte, già nel mito vi sono dei deliri e allucinazioni: ad esempio, Aiace che distrugge il gregge pensando di far strage degli Achei che lo avevano tradito è un’allucinazione. Però in questo caso, data la novità della trasposizione, delineare meglio i profili dei personaggi attuali rispetto a quelli del mito sarebbe stato forse più efficace. Poi comunque immagino che voi non facciate ogni sera delle semplici repliche, ogni spettacolo è ogni volta evidentemente una riscrittura: quindi può essere che di volta in volta affinità e distanze tra il personaggio attuale e il modello antico traspaiano con maggiore o minore chiarezza, anche a seconda del pubblico che ogni sera vi ritrovate davanti.

Mi è piaciuta Medea anche per come sono stati sciolti dei nodi problematici non del mito ma proprio della tragedia. Un esempio: il nodo tipico della tragedia è il che fare? τί δράσω; Che faccio? L’eroe si trova di fronte a due strade, ma tutte e due portano a un esito tragico: quale che sia la scelta, l’esito sarà devastante. Nella Medea dei Borgia, il nodo è sciolto in modo acuto, perché Medea ripete sempre dall’inizio: “Che altro potevo fare?”. Si mostra una nuova angolazione del dilemma tragico antico: la protagonista non si ferma preventivamente a interrogarsi sul “Che faccio? Che debbo fare? Che farò?”, ma dice a posteriori “Che altro potevo fare? Non avevo alternative”. Il che non è, però, un’autoassoluzione: è al contrario un’autocondanna, come dimostra quella risata isterica, ossessivamente intercalata alle parole della protagonista, e che mi ha emozionata profondamente.

Sofferenza e alienazione. Degli altri spettacoli mi hanno emozionato altre cose. Per il Filottete è stata la malattia mentale, che attiva sempre in ciascuno di noi emozioni diverse legate alle proprie esperienze personali, ed è stata la figura del padre spodestato di tutto e ‘ripudiato’, o meglio parcheggiato dal figlio in una casa di cura: mi ha molto colpita la capacità attoriale di recitare con tanti rumori attorno, radio o televisione, che di solito fanno impazzire gli attori, e che forse trasmettono il caos della mente annebbiata di Eracle. Anche la manualità ripetitiva e ossessiva dell’attore dell’Eracle che prepara il pane mi ha molto colpita. Io quasi non sentivo più le parole presa da quei gesti. Anzi domando qual è il significato della distribuzione del pane alla fine?

Ho colto temi comuni ai tre spettacoli: in particolare il tema del denaro e del pane. E questo forse ci dovrebbe far riflettere tutti quando parliamo del valore assoluto del mito e dei fondamentali del mito: tornando alla semplicità delle cose essenziali, si capisce bene che il tema del denaro o quello del pane sono altrettanto importanti quanto quello dell’amore e della morte. Centrale è anche il tema dei figli in tutti e tre i drammi. È assente invece in tutta la trilogia il tema dell’amicizia, così centrale nei miti di Eracle e di Filottete; ma anche questa solitudine dell’eroe e questa scomparsa degli amici è fenomeno che ci riporta in modo molto efficace all’attualità e alla condizione di assoluta solitudine dell’uomo moderno di fronte al dolore e alla sofferenze della malattia.

Un’ultima cosa, un suggerimento: spettacoli così raffinati forse richiederebbero un maggior coinvolgimento della comunità. Il pubblico che si sposta di volta in volta nei luoghi del contesto urbano deputati per i tre spettacoli potrebbe forse essere reso più visibile e così attrarre altro pubblico. Poiché adottate una modalità di spettacolo, o meglio di pubblico, sostanzialmente itinerante, perché non coinvolgere maggiormente la città?

Marco Curci | C’è stata una potenza immensa a livello catartico in tutti e tre gli spettacoli che ha colpito me e tutti gli altri della mia classe che erano con me, nonostante la lontananza del nostro mondo di studenti da quelle realtà. Abbiamo trovato estremamente intelligente la scelta strategica dei luoghi.

E consideriamo anche le posizioni dei tre spettacoli rispetto alla tenda: l’Eracle è vicinissimo e però avviene in un interno e perciò è ignorato dai passanti; la Medea è a due passi, mentre il Filottete è così lontano che richiama la poetica dell’abbandono di Filottete. È un espediente felice che mi ha fatto riflettere molto. Ho avvertito i disturbi della radio o della televisione in Eracle e in Filottete, come anche il ruolo degli indumenti che, indossati o dismessi da Medea, vanno a modificare il personaggio.

Personalmente mi è piaciuta Medea, in cui ho visto rispecchiarsi una vera Medea. Il titolo “Svetlana per strada”, certo avrebbe reso la tematica ma sarebbe stato in qualche modo un prendere le distanze dalla Medea del mito. Vorrei soffermarmi sull’esperienza mistica e catartica veramente coinvolgente anche e soprattutto attraverso quella rottura che ho trovato coraggiosa ed estremamente efficace del limite, come si diceva prima, tra spettacolo e spettatore: la rottura del limite dello spazio scenico è stata efficacissima e forse è stata una delle chiavi importanti per il coinvolgimento del personaggio; per lo spettatore invece importanti sono gli sguardi. Ho subito diversi sguardi di Filottete che mi hanno particolarmente emozionato e hanno reso ancora più forte la trasmissione del mito. Così anche per Medea che ha un rapporto col pubblico molto particolare, e pone continuamente la domanda “Cosa potevo fare?” – è questo un punto su cui non avevo ragionato che effettivamente è stato illuminante. 

E inoltre il rapporto che è stato definito di “improvvisazione” tra attore e pubblico è un rapporto estremamente difficile, intelligente. L’improvvisazione c’è ma è parziale come ci è stato spiegato anche dagli stessi attori: non si sa dove si va e il personaggio in qualche modo si evolve; l’attore improvvisa anche se improvvisare non è proprio la parola giusta – si tratta piuttosto di un’esperienza. Nel disturbo continuo di sottofondo, ho trovato che oltre che una sfida all’abilità attoriale, c’è una chiave ulteriore: una rottura del limite che era estremamente necessaria. Importanti poi le tematiche al centro della trilogia, come la prostituzione, la schiavitù sessuale e i problemi legati all’economia famigliare, alla separazione e così via: tutte tematiche che riportate in uno spazio scenico abitudinario avrebbero avuto un impatto molto meno diretto. Il numero ristretto di spettatori è stata una chiave importante per garantire l’apertura tra personaggio e autore, e tra personaggio e spettatore. L’immedesimazione è centrale. Il numero ristretto una scelta coraggiosa, tutte scelte di una potenza notevole. Sono temi vivi che immettono il reale, provocano una vera catarsi, offrono una chiave interpretativa del mondo. 

Elena Cotugno | Sono un’attrice, e alle tantissime cose che avete detto risponderò dal punto di vista dell’attore. L’attore ha bisogno di una distanza: parlo in base alla mia esperienza di cinque anni su un furgone – e ci tengo al fatto che fosse un furgone – il nostro era un Iveco Daily del ’94 – perché è il mezzo utilizzato per i viaggi della speranza o il caporalato. Il furgone è un luogo di viaggio e di prostituzione; qui vicino le schiave del sesso lavorano in un furgone. Nel furgone la vicinanza è massima, è quasi prossimità: all’inizio ero terrorizzata, e ci sono stati momenti di difficoltà. Il furgone era scomodo e non era confortevole: caldo d’estate e freddo d’inverno e con il pubblico a un metro di distanza dall’attrice. Ci sono stati momenti d’imbarazzo sia per me che per il pubblico; credo che la stessa esperienza l’abbiano vissuta sia Christian Di Domenico (protagonista dell’Eracle) sia Daniele Nuccetelli (protagonista del Filottete). Ma poi ho capito che se ben gestita dall’attore la distanza/vicinanza poteva essere una forza.

Mi chiedete se riuscivo a gestire il limite – magari persone iniziano a parlare perché sono autorizzate a parlare, ed è successo che una persona non la finiva più. Si tratta di imparare a far capire alle persone (e si impara con l’esperienza) quando non devono parlare. Una volta che abbiamo preso la misura – io come Daniele e Christian – abbiamo imparato a gestire quel limite. Quella prossimità è diventata una forza.

Oggi non ne posso più fare a meno. Capisco che ci sono persone che hanno bisogno di una distanza, anche io prima avevo bisogno di quella distanza. Non ho uno spettatore di fronte ma una persona che riverbera in modo diverso, e oggi capisco a chi posso parlare, ora la distanza è una forza, se poi le persone si aprono e mi raccontano della loro vita, allora oggi so come chiudere. Oggi mi assumo questo rischio perché è andare in scena senza rete. E a ogni replica c’è un ostacolo diverso. Perché noi siamo intellettuali e spesso ci mettiamo il filtro dell’intellettuale: ma io non voglio che lo spettatore pensi, voglio che viva un’esperienza e questo mi dà un’energia.

Certo ci sono difficoltà: sono ostacoli imprevisti da gestire e superare, ma sai dove devi arrivare e persegui l’obiettivo. Oggi non posso più fare a meno di voi perché è uno scambio emotivo che è ormai acquisito – accettato non da tutti, perché ci sono persone che rifiutano. Qui c’è condivisione dell’esperienza: è un teatro diverso che non a tutti va bene.

Non c’è la quarta parete e questo mi dà energia. L’altro giorno c'è stato uno spettatore che aveva proprio voglia di fare lo splendido, è entrato e leggeva il libretto, mentre assisteva allo spettacolo faceva le battute con la sua amica accanto; oppure ci sono quelli che occupano il posto dell’attrice: ci sono lì tutte quelle sedie rosse e un’unica sedia nera ed ecco che però la persona prende la sedia nera e non si chiede: chissà perché misteriosamente al centro della stanza c’è una sedia nera in mezzo a tutte queste sedie rosse, messa in disparte rispetto alle altre, centrale. Non se lo chiede – la prende. Questo perché entri in una stanza e non in un teatro e lo spettatore si sente autorizzato a sentirsi padrone della stanza, della situazione, non hai i codici comportamentali del teatro: non ci sono più i codici in una stanza, in un ristorante, in un furgone, e quindi bisogna prendere le misure e chi se ne frega. Non puoi pensare, devi agire e agisci sicuramente non con l'intelletto ma con l’istinto, con l’inconscio, io vado di pancia e basta … È un rischio che entrambi ci prendiamo, attore e pubblico, e in questo credo sta il coinvolgimento emotivo di cui si parlava prima che in alcune persone arriva, mentre altre invece decidono di difendersi – ma non c’è problema.

Ci sono quelli che parlano e ci sono quelli che decidono che non vogliono essere coinvolti, non vogliono saperlo e ci sono i clienti che salgono a bordo del furgone, quando capiscono dove sono saliti, passano il resto dello spettacolo con la testa bassa. E tu, attore, che fai con una persona che è accanto a te a testa bassa? Vai avanti lo stesso. Non decidi all’inizio che strada prendere, però la strada che prendi la viviamo insieme. Allora c’è la condivisione dell’esperienza.

Ci sono quelli che sono venuti a vedere lo spettacolo e sono stati comunque coinvolti, si sono lasciati coinvolgere dalla storia che è una storia reale. Questa è la componente della realtà, perché le persone che vengono a vedere lo spettacolo non è che non vedono le prostitute per strada, non è che non si accorgono che ci sono persone con malattie neurodegenerative. Non è che queste cose non le sappiamo: facciamo finta perché non siamo più abituati ad attraversare questi dolori, perché vogliamo tenerli a distanza. Ma il mito invece ti costringe in maniera non diretta e non piatta, non orizzontale, perché ti potrei raccontare la storia di Joy, ti potrei raccontare di Duina, ti potrei raccontare la storia di tante ragazze ma in maniera orizzontale. Il mito invece verticalizza queste storie ma anche chi non lo conosce assiste alla storia senza sentire questa distanza perché la verticalità comunque lo coinvolge. Il coinvolgimento arriva da questi due fronti: il mito e la realtà. Mito o realtà da soli non reggono: o ti manca una gamba o ti manca l’altra.

Daniele Nuccetelli | Parto da quello che diceva Elena e faccio una citazione da Filottete: “Vi auguro di passare quello che passiamo noi”. Noi siamo tutti attori, non solo attori o solo spettatori. Non siamo più quello che eravamo prima. Noi stiamo ragionando su qualcosa che si chiama mito, ma dobbiamo avere un ruolo.

Questo progetto ribalta i ruoli: oggi sono superate le figure dell'attore e dello spettatore. Certo esistono ed esisteranno sempre, quelli sul palco e quelli sotto. E noi facciamo questo lavoro, per quanto ci riguarda continueremo anche a farlo, continueremo a giocare, ma è cambiato il ruolo sul palcoscenico. Non so se questo avrà una valenza in futuro. Questo per completare il discorso che già faceva Elena. In questo momento stiamo ragionando su una cosa esterna a noi che si chiama ‘mito’ – stessa identica cosa accade quando entriamo in una sala teatrale e cominciamo piano piano a funzionare conoscendo di più o di meno la storia di fronte a questa cosa che si chiama ‘tema’, ma dobbiamo avere un ruolo.

Non vorrei parlare del ruolo che abbiamo nella società, questa è un’altra cosa ancora, inoltre voglio citarvi qualcosa ma non per autocitarmi, perché non me ne frega niente, è passato il tempo di quando ero interessato solo al mio io. Adesso mi interessa il noi: è un po' come se noi fossimo in una bolla che non è fatta solo da me ma da tutti noi. Così se io devo farmi il culo per dire che sono bravo, o che ho fatto bene o male, bravo non bravo, da solo, non abbiamo capito nulla – cioè io non ho capito come lavorare con voi e voi non avete capito come lavorare con me, voi pubblico.

Questo secondo me è un tema centrale che per citare Monica è “mito vivente”, dove la comunione comincia a muovere una cosa che si chiama mito, che ci è nota come parola, ma non sappiamo come questo mito agisce in noi o reagisce. Poi c'è, la parte mediana, ACDC, Al Centro Del Cuore: per arrivare al centro del cuore si può partire da dove partiamo tutti i giorni dal momento che ci alziamo la mattina. Però c’è anche stanchezza poi nel lavoro che facciamo e nello specifico è giusto che utilizziamo non solo il cuore ma anche la testa, il cervello e il pensiero. Noi siamo una compagnia – e qui rispondo a Olimpia – e i tre spettacoli sono fortemente connessi, in un modo molto sottile ovviamente: diverse le trame, diverse le storie, più conosciuta una meno conosciuta l'altra. Ma tutto sommato ero d'accordo con quello che diceva Luca: possiamo conoscere di più o di meno una storia, se la storia la viviamo in compassione la possiamo condividere e non diventa per noi un esercizio di stile – anche se con questo tipo di materiale non è vero che lo possiamo fare.

Il ruolo di spettatore – che è tale per forza di cose perché siamo organizzati in questo modo – diventa l’onere del giudizio già nel momento in cui si entra in sala, e neanche magari lo vedo ancora l’attore e sono già a formulare un giudizio: forse se togliessimo di mezzo questo giudizio per partecipare insieme, tutti come attori, forse potremmo avere altri risultati. Sicuramente ognuno di voi è toccato di più o di meno da una storia, da alcuni momenti della storia piuttosto che da altri: però in qualche maniera ci tocca, perché poi io esco e parlo con lei che mi racconta la sua storia, io ti racconto la mia e abbiamo conosciuto, abbiamo messo delle tessere nel puzzle collettivo chiamato mito – altrimenti io avrò il mio mito e tu avrai il tuo mito.

Elena Cotugno | Dimentichiamo un’altra componente: c’è chi lavora nella realtà, ogni giorno con una determinata realtà, chi affronta determinate problematiche ogni giorno, e sono stati contributi fondamentali perché da ciò che ci immaginiamo a ciò che succede davvero ne passa tanto. Il rapporto con gli operatori sociali è stato fondamentale. Poi la realtà ci fa riconoscere il mito: c’è chi stermina la famiglia, chi uccide i figli, chi abbandona qualcuno e lo esclude dalla società, e lo fa realmente. Che cosa succede a una ragazza che va in strada? Sentiamo dire: “Vabbè mo’ questa con 70€ a Milano...”; “Vabbè mo’ entra in casa e stermina la famiglia”. Ma è solo mito? No no c'è una ragazza che ha un background alle spalle e non è il fulcro, non è il centro, questo è solo l'epilogo della tragedia. Lo sterminio della famiglia, l’uccisione di figli sono l'epilogo: ha avuto due figli, è stata lasciata, è stata tradita, è stata picchiata – e allora arriva l'epilogo.

Gianpiero Borgia | Mi chiamo Gianpiero Borgia e ho sposato Elena Cotugno.

Domenico Bizzarro | Noi arriviamo quando tutto si è consumato. Storie: ognuno di noi ha una storia che lo ha educato e può raccontare una storia educativa. Il termine educativo è stato espunto dal dibattito, ma il termine ‘storia’ mi è caro perché noi siamo immersi nelle storie – ad esempio quelle di cui parlava Elena – e sono storie di rottura. Nella rottura c’è il cambiamento e le cose belle nascono dalla rottura: impariamo a mangiare perché non allattiamo più ed è una rottura che fa crescere. La cosa importante è tematizzare queste rotture. Olimpia domandava come fare l’attore: l’attore ci fa ascoltare le parole, altrimenti finiamo per non ascoltare più nulla. Noi corriamo questo rischio se smettiamo di leggere l’elemento della rottura come un elemento di apprendimento e quando invece la rottura diventa un elemento che richiama un giudizio: stare in relazione con quella rottura non nella sua forma di apprendimento ma nella forma di giudizio ci allontana dalla rottura come fattore di crescita. Il rapporto tra teatro, mito e realtà ci permette di connetterci con la rottura. E questo è un elemento determinante del nostro lavoro.

Francesca Zitoli | Con Teatro dei Borgia siamo partiti da questo dato: Trani ha perso l’ultimo Cineteatro di proprietà privata; ne aveva tre e col passare degli anni hanno chiuso tutti e tre e devo dire l’ultimo non certo per motivi riconducibili al Covid. Il Covid ha portato solo un’accelerazione a un processo già in essere. Quando ho scelto di investire tutte le somme che avevo in La Città dei Miti – la somma molto limitata che il Comune di Trani mette per il Teatro Pubblico pugliese – quindi, quando con il teatro pubblico ci interfacciamo per la scelta degli spettacoli per comprare la stagione teatrale, un amministratore può scegliere se fare una sorta di elenco di spettacoli senza un fil rouge o se invece puntare su altro. Io ho scelto di puntare tutto su La Città dei Miti. Mi tremano ancora i polsi. Ero, sono, siamo consapevoli di due fattori caratterizzanti la città di Trani (e forse non solo la città di Trani). Il primo: comunemente si può pensare che il mito greco sia appannaggio di pochi. Quindi presentando un progetto teatrale con La Città dei Miti, con Medea, Filottete, Eracle ci si può aspettare che si mettano in scena delle tragedie greche e che quindi siano riservate a un pubblico di nicchia. Il secondo tema è che noi siamo consapevoli che, soprattutto al sud – e questa è una riflessione su cui con Gianpiero ci siamo molto confrontati – si concepisce il teatro come immobile, come un elemento edile, come contenitore e non come contenuto. Perché è vero che noi a Trani non abbiamo più un teatro tradizionalmente inteso, però è anche vero che quando frequentiamo, quando frequento i teatri delle città limitrofe, sembra abbastanza curioso che nel weekend e nelle fasce orarie in cui in teoria ci dovrebbe essere un maggior afflusso di pubblico io trovo un Cineteatro con al massimo 4 persone, nella migliore delle ipotesi 10: è evidente che va ripensata la dinamica teatrale e il concetto di teatro a livello comunitario. Che cosa intendiamo per teatro? Forse è anche vero che il pubblico è diventato legittimamente più esigente e che quindi vuole vivere un’esperienza culturale. In fondo – e lo vediamo anche a scuola come docenti – noi dobbiamo far vivere un’esperienza di apprendimento, perché se pensassimo di impostare tutta la nostra attività di docenti nella modalità della classica lezione frontale dopo mezz'ora io vedrei tutti gli studenti uscire dalla classe – figuriamoci se parliamo di esperienze culturali teatrali oppure dei Festival di letteratura. Anche questo la dice lunga sullo stato delle arti, soprattutto in Puglia: quanti Festival di letteratura abbiamo? Però paradossalmente abbiamo degli indici di lettura tra i più bassi. Allora io credo che per arrivare al teatro come contenitore di esperienze culturali dobbiamo necessariamente interrogarci come amministratori pubblici e come operatori socio-culturali su che cosa sia realmente oggi il teatro affinché poi il contenitore venga vissuto h24 e 365 giorni l’anno, e rappresenti davvero un presidio, una infrastruttura socio-culturale del territorio.

Cardenia Casillo | L’assessore Francesca Zitoli con grande coraggio ha portato la trilogia di Teatro dei Borgia in questa bellissima piazza, che sto ammirando con tutto il folklore che gira intorno – veramente bellissimo. Il ruolo della nostra fondazione è un ruolo di restituzione al territorio, quindi l'idea di intitolare questa fondazione a colui che ha fondato un gruppo di imprese in Puglia, la terra in cui ha avuto la sua fortuna, il suo successo e poi ha coltivato la volontà di restituire al territorio questi benefici in termini economici ma anche in termini di rapporti e consensi perché una fortuna non si costruisce solo su beni economici ma anche su beni relazionali. Su queste coordinate da anni ci siamo incontrati con Teatro dei Borgia. Con loro c’è il desiderio e il progetto di portare avanti un programma che non si esaurisca in breve termine ma che abbia una prospettiva. Rispetto alle considerazioni di Elena e Daniele e al loro nuovo rapporto con il pubblico posso dire che io l’ho vissuto personalmente prima con Medea e a distanza di quattro anni (perché è stato prima della pandemia che noi siamo saliti sul furgone a Bari) per me è ancora vivissimo quel ricordo: è come se io fossi salita su quel furgone ieri sera. È stato fondamentale il rapporto che si è creato, un’esperienza catartica, mistica. Quando assistiamo a questi miti (racconti) in noi cambia qualcosa? E nel momento in cui noi finiamo questa esperienza decidiamo di fare qualcosa per quelle ‘persone’ che stanno vivendo determinate situazioni? Ci diamo anche la possibilità di non rimanere solo spettatori? Possiamo diventare persone che intendono cambiare qualcosa della propria esistenza cercando di dare una possibilità anche a chi possibilità non ha avuto nella sua vita. Elena raccontava cosa c'è dietro la vita di una schiava del sesso, e Christian nella vita di un marito separato. E sono tutte queste persone che loro hanno ascoltato. Mi è piaciuto molto quello che diceva prima Elena, cioè non è il mito che incontra la realtà ma la realtà che incontra il mito. Quindi la mia domanda, che è una domanda aperta, è questa: cosa cambia in noi nel rapporto con gli altri? Un po' lo diceva Daniele quando diceva: dopo il mito Io parlo con te, tu mi parli della tua vita, io ti parlo della mia e quindi è già una relazione che si crea e che può colmare anche un vuoto, una solitudine, un dolore. Questo è un aspetto che va esplorato ancora più a fondo. Magari dando delle risposte concrete in qualche modo: puoi anche dare una mano, fare del volontariato o dare un supporto, dare un ascolto, un aiuto. Qualcosa che non rimanga solo nel nostro cuore e nella nostra mente ma che possa tramutarsi concretamente in un’azione. Quindi non solo una reazione ma una reazione che diventa azione, che possa produrre un cambiamento. È una domanda aperta e mi piacerebbe continuare questo percorso con voi anche su questo livello di riflessione. 

Monica Centanni | Sto godendo ad ascoltare e vorrei solo dare una risposta su questo. Perché questa è propriamente “la terza missione” del teatro, ma sarebbe già moltissimo se si attivasse quel lavoro di revisione profonda della questione che cos'è il teatro e che cos'è la partecipazione politica dei cittadini alla vita della città, se già si creassero dei luoghi e delle situazioni in cui questo viene ripensato e riattivato, con chi vuole farsi coinvolgere. Una possibilità per tutti di accedere a questa forma di condivisione dell’esperienza, operando un “appiattimento verso l'alto” della cittadinanza: basterebbe che in ciascuno di noi, in ciascuna delle persone che partecipano a questo tipo di incontri, si attivasse un’allerta e ci fosse un regime di visibilità di queste situazioni. Basterebbe che non fosse più rimosso dalla nostra visuale, che non fosse rimosso dalla percezione, che non si trovasse più così normale dire al proprio padre o tuo fratello “se vai in una casa di riposo starai meglio, lo faccio per te”. Perché ormai la morale comune è un po' questa, e se un famigliare sta male lo rinchiudi in un ospizio o lo mandi a morire in ospedale. Importante è la consapevolezza che non è normale rimuovere nascita e morte dall’esperienza, come se non ci fossero. Le grandi case permettevano che le tensioni, i problemi e le malattie venissero affrontate in un ambito familiare aperto. La casa dovrebbe essere la palestra di un esercizio quotidiano di temperatura delle passioni. E invece il luogo più pericoloso del mondo è il corridoio di casa. La casa monofamiliare. Conosciamo tutti le Medee di Cogne e non sono casi isolati. Escludiamo il dolore dalla nostra vita.

Domenico Bizzarro | Dico all’assessore: continua così. Faccio riferimento e mi richiamo al lavoro del vasaio: prendersi cura del contenitore e non del contenuto. Per il contenuto ci sono le nuove generazioni. Bisogna prendersi cura del contenitore.

Alberto Camerotto | Una riflessione sulla funzione del teatro e di quello che stiamo facendo. Questa piazza è il cuore pensante ed emotivo di Trani. In quella Medea sentivo una forza tale che mi riportava a quello che stava succedendo. È nella relazione fra prossimità e distanza che si gioca tutto. La prossimità è quando Medea dice “non bisogna pensare ma vivere”. Il mito funziona come uno specchio. Io ho provato gli stessi dolori di Medea. Il mito è racconto che implica quel distacco che ti permette di guardare ogni cosa, anche le cose casuali che accadono. Anche cani che abbaiano e un fantasma che passa diventa racconto e con il mito la realtà acquista profondità. Per capire Medea c’è bisogno del mito. Quello che fa Gianpiero con Eracle o Filottete diventa paradigma esplosivo. Eracle è il più grande degli eroi, Eracle è l’eroe fondatore, lui che è il più grande che fa il bene degli uomini si trova a essere un criminale, e fa la cosa più terribile: ammazza i suoi figli (vale anche per Medea): e la figura del professore che fa lo stesso sullo sfondo del mito acquista profondità e diventa racconto – diventa un mito per tutti.

Cristina Pace | Ho visto gli spettacoli più volte e posso testimoniare che questo tipo di situazione, di teatro, può dare dipendenza. Il ringraziamento va non solo agli artisti ma a tutto il gruppo degli spettatori. I tre spettacoli sono coerenti e legati fra di loro (è significativo che ciascun personaggio abbia una propria colonna sonora) e, come la tragedia antica, mostrano τἀ δεινἀ, le cose terribili dell’esistenza, senza fare la morale. Questa è la forza della tragedia e del mito: ci permette di vedere le cose che normalmente non vediamo. Torno sulla capacità di creare comunità: a Roma è difficile se non impossibile una situazione come questa, che ha il pregio di riattivare non solo il mito ma anche i luoghi della città (creando una possibilità di cambiamento concreto, nel senso auspicato da Cardenia Casillo). A Roma è tutto più dispersivo. Quando però lo scorso novembre avete portato al teatro Quarticciolo Medea, ambientandola sul bus, anche in quel caso si è creata una sorta di comunità provvisoria (la cui esperienza non è confinata al solo momento dello spettacolo, ma si estende nella discussione prima e dopo), fondata sul fatto che sull’autobus ci andiamo tutti, passiamo tutti sulla Palmiro Togliatti e a tutti capita di incontrare un personaggio che straparla e che normalmente non vorremmo stare a sentire. Questa ricerca di un pubblico consapevole mi sembra un aspetto molto interessante del vostro lavoro. E credo che corrisponda alla ricerca da parte degli stessi spettatori di un teatro che possa rappresentare un’esperienza significativa.

Monica Centanni | Per tornare sul tema della conoscenza o ignoranza delle trame dei miti. Medea è più conosciuta, ma situazioni come quelle di Eracle e Filottete sono più prossime alla vita degli spettatori sul piano della realtà e su quello della conoscenza. Rispetto a Filottete e Eracle nessuno di noi, nessuna famiglia italiana può dire di non conoscere una situazione simile. Il vecchio, la persona con disabilità o in difficoltà economiche che per questo viene messa ai margini o espulsa dalla società civile, è una figura presente nell’esperienza di tutti. Nessuno può dire che non conosce situazioni come queste.

Francesca Zitoli | Tornando al valore pedagogico del mito, al fattore peculiare degli eroi e delle eroine della tragedia che è la colpa. Io credo che il pubblico che va ad assistere a questa trilogia sia portato a prendere atto di un capovolgimento di ruoli. Cioè è il pubblico che ne esce colpevole e colpevolizzato. Per quanto riguarda Medea è vero che io posso anche non andare a prostitute, ma quante volte sul caso Cogne ho espresso di getto un giudizio. Un giudizio negativo su quella madre senza conoscere realmente la sua storia o anche solo chiedermi che cosa ha spinto quella donna a uccidere i figli. Eracle: quante volte abbiamo colpevolizzato quei padri che magari non hanno passato l’assegno di mantenimento ai figli senza sapere quello che stavano attraversando e vivendo. Quante volte non ci siamo presi degnamente cura dei nostri cari o di altre persone che vivevano una situazione di malattia e le abbiamo, appunto, isolate non necessariamente chiudendole in una struttura ma anche soltanto ignorandole. Quindi secondo me il valore aggiunto di questa trilogia – ed è un valore scomodo – è che il pubblico ne esce colpevolizzato perché sa di ignorare determinate tematiche e di non fare abbastanza il dovere che invece la politica dovrebbe pretendere dai suoi cittadini: quel che il cittadino attivo dovrebbe fare è prendersi cura della propria polis e degli altri, e questo è molto scomodo per chi va a teatro perché invece si vuole auto-assolvere.

Giorgiomaria Cornelio | Richiamo un punto che è stato toccato nel dialogo, che trovo molto interessante. È importante che il teatro debba avere un’altra funzione oltre la funzione implicita in se stessa. Il teatro accende il regime di visibilità: è questo il suo atto politico. Lo accende proprio nella distanza aldilà dell’impegno sociale, che è certo fondante. Ma il teatro smuove la percezione, e la percezione è politica. Mi ricollego alla differenza che c’è tra l'ecologia che è un discorso che implica attivismo non di militanza e l’ecosofia, che è un termine molto amato dai francesi, per la quale già l'esperienza estetica è un'esperienza politica. Tutto il teatro è un'esperienza politica perché ribalta i regimi estetici e quindi questo è un fattore molto più vitale perché invece che greenwashing o il blackwashing e tante altre cose del genere, invece di truccare il mondo con una cosmesi, il teatro ci dice che noi interagiamo con il mondo attraverso la nostra azione percettiva e che quindi siamo radicali perché il nostro sguardo è radicale e politico. Trovo che questo sia il compito del teatro a venire, più che un teatro che entri in dialogo con le associazioni, gli assistenti sociali. Il teatro è naturalmente politico. Tra i tre personaggi quello che ho trovato più problematico è stato Eracle. Ha tutta l’ambiguità del mito. Il professore mi fa un po’ “attimo fuggente”, con l’eccitazione propria del personaggio. Rispetto a questi professori eccitati, io preferisco la distanza, il distacco. Lui è vittima del puritanesimo ma è anche un molestatore, non perché ha palpeggiato la ragazza, ma perché il suo atteggiamento verso i ragazzi inteso ad attivare un continuo eccitamento per me è una molestia. L’attimo fuggente per me è il male.

Cristina Pace | In realtà a teatro ogni spettatore vede cose diverse. A me ha colpito molto ad esempio l’aspetto del cibo, della fame dei personaggi. In Eracle è messo a tema, fin dall’inizio, il motivo comico tradizionale dell’eroe “che impasta pagnotte e ha sempre fame”, come lo definisce Aristofane. Qui comico e tragico coincidono, come quando Eracle nel momento della disperazione mangia furiosamente da una scatoletta: il mangiare come simbolo stesso dell’umanità. L’eccesso in ogni ambito umano, dal sesso al cibo, è un tratto tradizionale dell’eroe greco, perfettamente tradotto nella scrittura di questo Eracle.

Alberto Camerotto | In queste storie il mito è avvicinato a una figura del reale: in Eracle tu vedi l’uomo reale anche se c’è il mito. Tu hai visto in Eracle il film con Robin Williams ma che il nuovo Eracle sia un professore è un dato marginale. Si tratta di un uomo normale e la sua vita è devastata per qualcosa d’imprevisto, qualcosa di stupido e banale. Tutta la sua carriera, e non solo, viene annullata.

Gianpiero Borgia | Ecco le mie non conclusioni. Voglio smettere di saper fare teatro. La trappola dei manifesti artistici è un modo di non fare arte. Riuscire ad andare oltre il proprio credo teatrale e contro le proprie convinzioni è il modo giusto. Per anni ho fatto un teatro estetizzante. Anche ora quindi cerco di non concludere. Prima di tutto grazie per quello che avete fatto e detto in questi giorni. Dicevo che sto cercando di smettere di saper fare teatro, e incontrare persone che parlano di come lo faccio bene o male mi aiuta a smettere di fare così bene il teatro. La trappola degli strumenti, dei manifesti, dei credi estetici è il presupposto del non fare arte. Shakerare i propri saperi, smettere di fare il teatro di cui si è convinti e iniziare a fare il teatro di cui non si è convinti, apre orizzonti artistici interessanti per me. Ho iniziato facendo bene il teatro, un teatro di linguaggio, analisi del testo e ci ho messo un po’ a smettere di farlo.

L’Italia è un paese strano in cui, possiamo dirlo chiaramente, non c’è una cultura teatrale condivisa ma il paese pullula di esperti di teatro. Fatto molto curioso che va riconosciuto: il nostro paese diversamente dall’Inghilterra e dalla Russia non beneficia di standard professionali riconosciuti per cui si registra tutta una serie di assenze di grammatiche di base del teatro che assurgono a poetiche. Ci si trova sistematicamente in un dialogo un po’ assurdo. Un po’ come quando ci siamo messi a studiare con Daniele la demenza “a corpi di Levy”, dopo un po’ avremmo potuto farci passare per neurologi. Ma è così che funziona nel nostro paese per il teatro, dove non c’è una laurea in teatro o una specializzazione in teatro o una vera industria. In Italia sono frequenti gli assessori artistici più che i direttori artistici. Ci sono luminari di teatro che non sanno fare uno spettacolo. A 25/26 anni ho fondato una scuola di teatro, sentivo l’onere di costruire. Oggi il tema che caratterizza il lavoro mio e della mia compagnia è un po’ cambiato: all’inizio ritenevo che il lavoro di ricostruzione di un sapere condiviso per il teatro dovesse partire dalle basi e fosse un lavoro diciamo da operatore culturale, non artistico. In Italia nel teatro si fa di tutto: è sperpero di denaro pubblico e totale smarrimento dei riti di aggregazione che presuppongono il teatro. Sono episodiche le esperienze dove il teatro sta facendo il teatro.

Il gesto politico in quanto puramente estetizzante sarebbe bello se qualcuno lo facesse. Il gesto politico del guardare sarebbe bello se ci fosse. Sarebbe bello non fare teatro negli spazi della tratta o nelle realtà marginali, se si operasse come comunità politica a teatro. Il teatro sorregge il reddito delle starlette televisive e condanna gli operatori teatrali a una condizione di miseria.

Per portare di nuovo al centro il teatro, non bisogna parlare di teatro. Abbiamo annichilito gli spettatori parlando loro di linguaggi teatrali e dei nostri barocchismi. Non è un fatto generazionale ma comunque se vedo un compito per la mia generazione è quello di riportare il teatro al centro.

Con la compagnia noi parliamo di teatro per parlare di comunità. Noi non facciamo teatro civile. Vogliamo la rottura, togliere l’indifferenza della comunità su certi temi.

Smettere gli spettacoli con i quali hai fatto successo. Ormai è tutto solo questione di mercato. Tempio e mercato devono essere mediati dal teatro, il teatro profana il sacro e sacralizza il profano. Oggi c’è solo il mercato.

Elena Cotugno | Mi chiamo Elena Cotugno e mio marito fa di tutto per essere disoccupato.

I partecipanti al Seminario di Trani

Domenico Bizzarro, antropologo, presidente cooperativa La Rete, Brescia.
Gianpiero Alighiero Borgia, regista, coordina il Teatro dei Borgia; dirige il progetto La Città dei Miti.
Alberto Camerotto, grecista, insegna all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Cardenia Casillo, Fondazione Vincenzo Casillo, Corato.
Monica Centanni, grecista, insegna all’Università Iuav di Venezia e all’Università di Catania.
Giorgiomaria Cornelio, studente di Teatro e arti performative all’Università Iuav di Venezia.
Elena Cotugno, attrice, è Medea in Medea per strada.
Marco Curci, studente del Liceo classico di Trani
Christian Di Domenico, attore, è Eracle in Eracle l’invisibile.
Giovanni Guardiano, attore
Ilaria Grippa, studente di Arti visive all’Università Iuav di Venezia.
Olimpia Imperio, grecista, insegna all’Università di Bari.
Antonietta Magli, Teatro dei Borgia.
Daniele Nuccetelli, attore, è Filottete in Filottete dimenticato.
Cristina Pace, grecista, insegna all’Università di Roma Tor Vergata.
Maria Grazia Porcelli, insegna Discipline dello spettacolo all’Università di Bari.
Victor Rivera Magos, medievista, insegna all’Università di Foggia,
Luca Matteo Rossi, studente di Teatro e arti performative all’Università Iuav di Venezia.
Daniela Sacco, filosofo, insegna Discipline dello spettacolo all’Università Iuav di Venezia.
Giulia Zanon, dottoranda presso la Scuola di dottorato delll’Università Iuav di Venezia.
Francesca Zitoli, docente al Liceo classico, linguistico e delle scienze umane “Francesco De Sanctis” di Trani; è assessore alla cultura di Trani.

English abstract

After a long and intense activity in political theatre, Teatro dei Borgia felt the need to question the point of resorting to Greek myths, their narrative stylistic features, their performative rituals, their ethical questions, and their existential hermeneutics. The dialogue with Engramma originated the question: do we still need Greek myths to tell our present? After a series of meetings and conversations, lectures and seminars, in Bari, Brescia, Venice and elsewhere, Gianpiero Borgia (on behalf of Teatro dei Borgia) and Monica Centanni (on behalf of Engramma) organised the seminar that took place in Trani on 21 and 22 May 2022. Here are some notes taken from the recordings of the speeches, reported by respecting the prosody and the free, open, and circular style characterizing the event.

keywords | Teatro dei Borgia; re-enactment of ancient myths; Medea; Heracles; Philoctetes.

Per citare questo articolo / To cite this article: A cosa servono, ancora, i miti greci? Appunti dal Seminario di Trani, 21-22 maggio 2022, a cura di G. A. Magli, “La Rivista di Engramma” n. 194, agosto 2022, pp. 67-107 | PDF dell’articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.194.0004