"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Il Tereo di Sofocle. Violenza e drammaturgia del mito

Miriam Sabbatucci

English abstract
I. Il Tereo di Sofocle

Il Tereo di Sofocle è una tragedia che, se pur pervenuta in uno stato frammentario, ha suscitato l’interesse di molti studiosi sin dal XIX secolo, a partire dal filologo tedesco Friedrich G. Welcker (Welcker 1839, 374-387).

La questione relativa alla datazione del Tereo è ancora aperta, dal momento che non è stato possibile determinare l’anno in cui la tragedia venne messa in scena da Sofocle. Un sicuro terminus ante quem è costituito dalla data di rappresentazione de Gli Uccelli di Aristofane, una commedia risalente al 414 a.C. che presenta molteplici riferimenti al Tereo di Sofocle (Aristoph. Av. 96-103; 209-222). Per quanto riguarda, invece, il terminus post quem è impossibile stabilirlo con certezza. Le proposte di datazione del Tereo oscillano tra gli anni ’30 e ’20 del V sec. a.C., sulla base di un passo del II libro delle Storie di Tucidide (Thuc. II, 29, 3): facendo riferimento al mito di Tereo, lo storico sottolinea come quest’ultimo in realtà non fosse stato re e abitante della Tracia propriamente detta, bensì della Daulia, una regione della Focide. Tucidide inserisce questa breve trattazione del mito delle Pandionidi all’interno della sua opera storiografica unicamente per “svincolare” il re tracio Tere, il cui figlio e successore Sitalce ai tempi della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) era alleato della polis di Atene, da una possibile discendenza dal barbaro Tereo (Mancuso 2020, 2).

Gli studiosi hanno, dunque, ipotizzato che la data di rappresentazione della tragedia di Sofocle potesse in qualche modo essere collegata ai rapporti politico-militari che avevano interessato Atene e la Tracia nei primi anni della guerra del Peloponneso. L’alleanza militare tra queste due potenze fu siglata nel 431 a.C., motivo per cui alcuni hanno pensato fosse probabile che una tragedia come il Tereo, che screditava la Tracia e il suo mitico re, presentandolo come un barbaro capace di atti efferati, quali lo stupro e la mutilazione ai danni di una giovane donna nonché sorella della propria consorte, fosse stata messa in scena in un momento antecedente all’accordo tra Atene e la Tracia (Dobrov 1993, 213 n. 55; Mancuso 2020, 4). Altri studiosi, invece, hanno ipotizzato che il Tereo fosse stato rappresentato in seguito alla rottura dell’alleanza militare in questione, alla quale il re tracio Sitalce pose fine nel 429 a.C., come se la scelta di ambientare la vicenda in Tracia fosse dettata da una sorta di risentimento nutrito da parte degli Ateniesi nei confronti dei loro ex-alleati (Cazzaniga 1950 I, 61-63).

I testimoni che fanno esplicitamente riferimento all’hypothesis del Tereo sono principalmente due: lo scolio di Tzetzes ad Hes. Op. 566 (Radt 1999, 435), e il P. Oxy. XLII 3013 (Parsons 1974, 46-49), la cui editio princeps è stata curata da Peter Parsons nel 1974. Il dotto bizantino Giovanni Tzetzes, chiosando il v. 566 de Le opere e i giorni di Esiodo, in cui viene citata la Πανδιονὶς χελιδών, ovvero la “rondine figlia di Pandione”, riporta il mito a cui sembra fare riferimento quest’espressione:

Πανδιονίς: ἡ τοῦ Πανδίονος θυγάτηρ. φασὶ δὲ μῦθον τοιόνδε· Πανδίων ὁ Ἀθηναῖος θυγατέρας ἔσχεν Πρόκνην καὶ Φιλομήλαν· ὧν τὴν Πρόκνην Τηρεῖ τῷ ἐκ Θρᾴκης δίδωσι πρὸς γάμον, ὅς ἐξ ἐκείνης Ἴτυν γεννᾷ. χρόνῳ δὲ ὁ Τηρεὺς ἐκ Θρᾴκης ἐλθὼν Ἀθήναζε λαμβάνει καὶ τὴν Φιλομήλαν ἀπάγειν πρὸς τὴν Πρόκνην εἰς Θρᾴκην, ἐν Αὐλίδι δὲ τῆς Βοιωτίας ἀποπαρθενεύει καὶ ταύτην και τὴν αὐτης γλῶτταν θερίζει, ὅπως μηδὲν ἰσχύῃ φράσαι τῇ ἀδελφῇ· ἡ δὲ εἰς Θρᾴκην ἐλθοῦσα δι᾽ἱστουργίας τὸ πᾶν φανεροῖ. Πρόκνη δὲ τὸν υἱὸν ἀποσφάξασα Ἴτυν ἑστιᾷ τὸν Τηρέα. ὁ δὲ μαθὼν ὃτι τὸν παῖδα ἐβεβρώκει, ἀνελεῖν ταύτας ἔμελλεν, οἱ θεοὶ δὲ αὐτὰς ἐλεήσαντες ἀπωρνέωσαν, καὶ Πρόκνη μὲν ἡ ἀηδὼν γεγονυῖα τὸν Ἴτυν ὀδύρεται, Φιλομήλα δὲ χελιδών “Τηρεύς” φησί “με ἐβιάσατο”, ὁ δὲ Τηρεὺς ἔποψ γενόμενος “ποῦ ποῦ” φησίν “αἳ μοι τὸν παῖδα κατατεμοῦσαι πρὸς εὐωχίαν παρέθεντο;” ταῦτά εἰσι τὰ λῆρα μυθύδρια. γράφει δὲ περὶ τούτου Σοφοκλῆς ἐν τῷ Τηρεῖ δράματι.

Pandionide, la figlia di Pandione. Raccontano: l’ateniese Pandione aveva come figlie Procne e Filomela; delle due, dà Procne in matrimonio a Tereo, re di Tracia, che con quella genera Iti. Con il tempo, Tereo, giunto dalla Tracia ad Atene, prende anche Filomela per condurla da Procne in Tracia, ma in Aulide di Beozia egli violenta costei e le taglia la lingua, affinché nulla possa raccontare alla sorella; ma Filomela, una volta giunta in Tracia, tramite l’arte della tessitura rese ogni cosa manifesta. Così Procne, dopo aver sgozzato il figlio Iti, ne diede in pasto le carni a Tereo. Quello, resosi conto di essersi cibato del figlio, stava per uccidere le due sorelle, senonché gli dei, avendone pietà, le trasformarono in uccelli: Procne, divenuta usignolo piange Iti, mentre la rondine Filomela dice “Tereo mi ha violentata”; Tereo, invece, trasformato in upupa, “dove, dove sono” lamenta “quelle che dopo avermi fatto a pezzi il figlio me lo offrirono a banchetto?”. Queste sono le follie del mito. Sofocle scrive di questa vicenda nella tragedia Tereo.

Lo scolio di Tzetzes, dunque, benché non possa essere considerato una vera e propria hypothesis della tragedia sofoclea alla stregua di quelle aristofanee di epoca alessandrina, costituisce comunque un importante e diretto collegamento tra la vicenda mitica riportata e la vicenda tragica che Sofocle mette in scena con il Tereo

Il secondo testimone che fa esplicitamente riferimento all’hypothesis della tragedia è il già citato P. Oxy. XLII 3013, che Parsons data al II-III sec. d.C. Il testo papiraceo in questione si apre con una sorta di intestazione che sembra decretarne il genere di appartenenza: Τηρεὺς ὑπόθεσις. Nonostante la denominazione ὑπόθησις possa far pensare alle hypotheseis di epoca alessandrina il testo papiraceo si discosta da questo genere di testimonianze, dal momento che quest’ultimo riporta unicamente l’eventuale trama della tragedia, senza fare alcun riferimento al contesto della rappresentazione tragica, motivo per cui ci si è interrogati circa l’interpretazione del contenuto del papiro di Ossirinco, che, come nel caso dello scolio di Tzetzes ad Hes. Op. 566, potrebbe non essere considerato come una vera e propria hypothesis del Tereo, ma costituirne piuttosto unicamente una versione mitografica (Parsons 1974, 47).

D’altro canto, però, il fatto che sia Tzetzes sia l’ignoto autore del P. Oxy. XLII 3013 scelgano di riportare una versione del mito di Procne e Filomela pressoché identica, facendo in entrambi i casi esplicita menzione al Tereo, e inserendo dei particolari narrativi ignoti alla letteratura greca che prima della tragedia sofoclea aveva accennato a questa vicenda mitica (v. in particolare lo stupro e la glossectomia operati da Tereo ai danni di Filomela, e lo stratagemma della tela utilizzato da quest’ultima per comunicare a Procne quanto accadutole), ha portato la maggior parte degli studiosi a accettare queste due fonti come testimoni della versione mitica adottata da Sofocle per comporre il suo dramma (Parsons 1974, 46-49; Radt 1999, 435; Kiso 1984, 57-58; Sutton 1984, 128; Hourmouziades 1986, 134; Dobrov 1993, 198; Monella 2005, 80-83; Scattolin 2013, 119-142; Coo 2013, 349-384; Mancuso 2020, 5).

II. Fonti letterarie

Il primo poeta a fare riferimento al mito della donna-usignolo è Omero nel XIX libro dell’Odissea (Hom. Od. 19. 518-524). Infatti, durante la scena in cui Penelope è a colloquio con Ulisse, presentatosi dopo vent’anni al palazzo di Itaca sotto le mentite spoglie di uno straniero, la donna descrive lo struggimento che la coglie ogni notte paragonandolo a quello della “figlia di Pandareo” (vv. 518-524):

πύκιναὶ δὲ μοι ἀμφ᾽ἀδινὸν κῆρ
ὀξεῖαι μελεδῶνες ὀδυρομένην ἐρέθουσιν.
ὡς δ᾽ὅτε Πανδαρέου κούρη, χλωρηὶς ἀηδών, 
καλὸν ἀείδῃσιν ἔαρος νεον ἱσταμένοιο,
δενδρέων ἐν πετάλοισι καθεζομένη πυκινοῖσιν,
ἥ τε θαμὰ τρωπῶσα χέει πολυηχέα φωνήν,
παῖδ᾽ὀλοφυρομένη Ἴτυλον φίλον, ὅν ποτε χαλκῷ
κτεῖνε δι᾽ἀφραδίας, κοῦρον Ζήθοιο ἄνακτος.

[…] Fitti e acuti pensieri intorno al forte cuore
mi inducono al lamento.
Come quando la figlia di Pandareo, il verde usignolo,
non appena inizia la primavera, canta una bella melodia,
posando tra le fitte fronde degli alberi, dove variando spesso
riversa la voce dai molti suoni, piangendo il figlio Itilo,
che un tempo per sconsideratezza uccise con il bronzo,
il figlio del potente re Zeto.

Il mito cui fa riferimento Penelope, dunque, ha per protagonista la figlia di Pandareo, della quale non viene fatto il nome, ma che è piuttosto ricordata come “verde usignolo” (χλωρηὶς ἀηδών, v. 518), animale in cui è stata mutata dopo aver compiuto δι᾽ἀφραδίας (“per sconsideratezza”) l’uccisione del figlio Itilo. Omero, dunque, pur menzionando l’infanticidio di Iti, riconduce il misfatto alla “sconsideratezza” della madre, senza fare alcun riferimento del fatto che l’uccisione del figlio è stata commessa per vendetta ai danni del marito, come avviene, invece, nella tragedia sofoclea.

La versione mitica alla quale si riferisce Omero, inoltre, rispetto a quella che adotterà Sofocle per comporre il Tereo, presenta delle differenze soprattutto rispetto all’onomastica: la donna-usignolo viene detta “figlia di Pandareo” (v. 520) e non di Pandione; il figlio assassinato viene chiamato “Itilo” e non Iti; il marito della donna-usignolo prende il nome di “Zeto” e non di Tereo. La versione del mito adottata da Omero può essere integrata con lo scolio ad Od. XIX, 518, che rimanda al X libro delle Storie di Ferecide di Atene, attidografo del V sec. a.C. (Müller 1928, I, 95, fr. 102). Secondo la variante in questione i due ecisti di Tebe, Zeto e Anfione, avrebbero sposato rispettivamente Aedon e Niobe. La prima avrebbe generato a Zeto solo due figli, mentre Niobe ben sei; per questo motivo, Aedon gelosa della cognata decide di uccidere il maggiore dei suoi figli, senonché per errore finisce per assassinare il proprio bambino, Itilo. La donna supplica allora Zeus di essere trasformata in uccello, e il dio accoglie la sua richiesta mutandola in un usignolo, che sempre piange la morte del figlio:

Τῇ Νυκτέως Ζεὺς μίγνυται. Ἐξ ἧς Ζῆθος γίγνεται καὶ Ἀμφίων. Οὗτοι τὰς Θήβας οἰκοῦσι πρῶτοι, καὶ καλοῦνται Διὸς κοῦροι Λευκόπολοι. Γαμεῖ δὲ Ζῆθος μὲν Ἀηδόνα τὴν τοῦ Πανδαρέου. Τῶν δὲ γίνεται Ἴτυλος καὶ Νηίς. Ἴτυλον δὲ ἡ μήτηρ Ἀηδὼν ἀποκτείνει διὰ νυκτὸς, δοκοῦσα εἶναι τὸν Ἀμφίονος παῖδα, δηλοῦσα τὴν τοῦ προειρημένου γυναῖκα, ὅτ᾽αὐτῇ μὲν ἦσαν ἕξ παῖδες, αὐτῇ δὲ δύο. Ἐφορμᾷ δὲ ταύτῃ ὁ Ζεὺς ποινήν. Ἡ δὲ εὔχεται ὄρνις γενέσθαι, καὶ ποιεῖ αὐτὴν ὁ Ζεὺς ἀηδόνα. Θρήνει δὲ ἀεί ποτε τὸν Ἴτυλον, ὥς φησι Φερεκύδης.

Zeus si unisce alla figlia di Nitteo, dalla quale nascono Zeto e Anfione. Questi abitano per primi Tebe, e vengono soprannominati Dioscuri dai bianchi cavalli. Zeto sposa Aedon, figlia di Pandareo, dalla quale nascono Itilo e Naiade. Tuttavia, la madre Aedon uccide Itilo durante la notte, credendo che si tratti del figlio di Anfione, alla cui moglie invidiava il fatto che questa aveva sei figli, mentre lei due. Per Aedon Zeus desidera vendetta; tuttavia, lei lo supplica di diventare uccello, e Zeus la trasforma in un usignolo. Sempre quella piange Itilo, come afferma Ferecide.

L’ἀφραδία cui fa riferimento Omero per motivare l’uccisione di Itilo da parte di Aedon, viene infine spiegata tramite questo scolio attribuibile a Ferecide come un terribile errore compiuto da una donna accecata dalla gelosia, che finisce per uccidere il proprio figlio al posto di quello della prolifica cognata. 

A fare riferimento alla saga mitica delle Pandionidi è anche Esiodo. Nelle Opere e i giorni, infatti, il poeta fa menzione della Πανδιονὶς Χελιδών (v. 568), ovvero della “rondine figlia di Pandione”, per dare delle coordinate temporali rispetto a quando è più opportuno dedicarsi alla coltura della vite: la rondine, infatti, indicherebbe l’inizio della primavera (vv. 568-570):

Tὸν δὲ μέτ᾽ ὀρθρογόη Πανδιονὶς ὦρτο χελιδὼν
ἐς φάος ἀνθρώποις, ἔαρος νέον ἱσταμένοιο.
τὴν φθάμενος οἴνας περταμνέμεν· ὣς γὰρ ἄμεινον.

Dopo la stella di Arturo, la rondine figlia di Pandione che di primo mattino geme,
apparve agli uomini, al principio della primavera.
Pota le viti prima del suo arrivo, perché così è meglio.

Esiodo attribuisce alla Πανδιονὶς Χελιδών il termine ὀρθρογόη (“che geme di primo mattino”, v. 568), collegando la rondine al lamento, come in precedenza Omero aveva fatto menzionando la donna-usignolo, sebbene, a differenza di quest’ultimo, l’autore delle Opere e i giorni non faccia riferimento al tema dell’infanticidio. Alcuni hanno ipotizzato che Esiodo, menzionando la rondine, facesse riferimento a una versione mitica secondo la quale la rondine e non l’usignolo fosse destinata a emettere un suono lamentoso in memoria dell’uccisione del figlio (Cazzaniga 1950, I, 19-20). In realtà, però, il fatto che Esiodo, a differenza di Omero, faccia menzione della rondine figlia dell’ateniese Pandione e non dell’usignolo, non implica necessariamente che la versione mitica adottata dall’autore escludesse la presenza anche di Aedon, né che il figlio morto e compianto fosse di quest’ultima. È assai probabile, invece, che fra le diverse versioni esistenti del mito ve ne fosse una in cui fossero presenti sia Aedon che Chelidon, e che queste ultime fossero entrambe figlie di Pandione.

A suffragio di questa tesi, è possibile citare un frammento esiodeo tratto dal XII libro della Varia Historia di Eliano (Merkelbach-West 1967, fr. 312), in cui l’autore, facendo riferimento a Esiodo, afferma che quest’ultimo sarebbe stato a conoscenza di un mito che ha per protagoniste entrambe le Pandionidi, in cui ricorrono alcuni elementi mitici che ritroveremo nel Tereo di Sofocle: l’ambientazione di Tracia; il banchetto antropofagico ordito dalle due sorelle dopo l’uccisione di Iti; la metamorfosi delle Pandionidi rispettivamente in usignolo e in rondine.

Λέγει Ἡσίοδος, τὴν ἀηδόνα μόνην ὀρνίθων ἀμοιρεῖν ὕπνου καὶ διὰ τέλους ἀγρυπνεῖν. τὴν δὲ χελιδόνα οὐκ ἐς τὸ παντελὲς ἀγρυπνεῖν καὶ ταύτην, ἀποβεβληκέναι δὲ τοῦ ὕπνου τὸ ἥμισυ. τιμωρίαν δὲ ἄρα ταύτην ἐκτίνουσι διὰ τὸ πάθος τὸ ἐν Θρᾴκῃ κατατολμηθὲν τὸ ἐς τὸ δεῖπνον ἐκεῖνο τὸ ἄθεσμον.

Esiodo dice che tra gli uccelli solo l’usignolo è privato del sonno e resta completamente sveglio; mentre la rondine non resta del tutto insonne e ha perso metà del sonno. Scontano, dunque, questa punizione per via di quanto fu osato in Tracia con l’empia mensa.

Il frammento in questione è stato oggetto di discussione da parte di alcuni studiosi, i quali hanno sottolineato il fatto che Eliano possa aver fatto riferimento al mito conosciuto da Esiodo aggiungendo il dettaglio del banchetto antropofagico di proprio pugno (Monella 2005, 38). Vero è, però, che fra le fonti iconografiche di questo mito ve ne sono alcune che sembrano proporre proprio la variante mitica che, secondo la testimonianza di Eliano, Esiodo avrebbe conosciuto, quella cioè in cui entrambe le Pandionidi, Aedon e Chelidon, sono complici dell’uccisione e dello smembramento di Iti, le cui carni vengono poi date in pasto all’ignaro padre (Cazzaniga 1950 I, 20 e segg.; Fitzpatrick 2001, 90-91).

III. Alcune fonti iconografiche

Il testimone più antico di questa vicenda è la metopa di Thermon risalente al terzo quarto del VII sec. a.C. [Fig. 1], un esemplare in terracotta dipinta a figure nere, proveniente dal tempio di Apollo Thermios in Etolia (Touloupa 1994, 527, n. 1).

1 | Metopa a figure nere, da Thermon (Etolia), ca. 650-625 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale; n. inv. 13410. Bibliografia: Guerrini 1965, 481-482; Touloupa 1994, 527, n. 1; Monella 2005, 39; Coo 2013, 355 n.13.

Nonostante la metopa si trovi in uno stato frammentario, è comunque possibile riconoscere i soggetti della rappresentazione: due donne, l’una di fronte all’altra, protendono il busto leggermente in avanti verso il centro della scena. Le due figure femminili sono abbigliate e pettinate allo stesso modo, al punto da apparire quasi l’una il riflesso speculare dell’altra. In alto, accanto alla figura di destra, è presente l’iscrizione ΧΕΛΙΔϝΟΝ (Touloupa 1994, 527, n. 1), “rondine”, che costituisce dunque un riferimento alla figura di Filomela. Questo dettaglio, infatti, ha fatto sì che le protagoniste della raffigurazione venissero identificate con le due Pandionidi. Lo stato frammentario in cui si trova la metopa, purtroppo, non consente di identificare ciò che era raffigurato nello spazio centrale; è probabile, però, che si trattasse della rappresentazione del figlio di Aedon, Iti, o del suo cadavere, e che dunque l’intera scena raffigurasse il momento dell’uccisione o dello smembramento di quest’ultimo per mano delle due donne.

La rappresentazione dell’imminente infanticidio di Iti da parte di entrambe le Pandionidi occupa il fondo di un’altra coppa attica a figure rosse, proveniente dall’Etruria e risalente al ca. 490-480 a.C., e conservata presso il Louvre.

2 | Kylix attica a figure rosse del tipo C, Pittore di Makron, dall’Etruria, ca. 480 a.C., Paris, Louvre; n. inv. G 147. Bibliografia: Beazley [1942] 1963, 472, n. 211; Rumpf 1960, 680-681; Sparkes 1985, 31, tav. 35; Schefold-Jung 1988, 74, fig. 79; Valastro 1990, 123; Touloupa 1994, 527, n. 4; Chazalon 2003, 125, fig. 5; Milo 2008, 156; Giudice 2009, 406.

Nella scena sono rappresentate due figure femminili e una maschile: la donna che occupa il lato sinistro è raffigurata rivolta verso destra e con le mani sollevate verso l’alto, nell’atto di gesticolare animatamente mentre si rivolge alla figura femminile di destra, che invece è intenta a tenere per le spalle un bambino. Come nelle altre rappresentazioni iconografiche di questo particolare episodio narrativo, è presente la raffigurazione dell’arma del delitto, ovvero la spada, che in questo caso è riposta nel fodero che la donna gesticolante porta al fianco. Riguardo all’identificazione delle due figure femminili gli studiosi non sono concordi: alcuni pensano che la donna che occupa il lato sinistro sia Filomela sulla base del gesticolare, un atto che potrebbe essere motivato dalla glossectomia di cui era stata precedentemente vittima la giovane, alla quale non resta che esprimersi con i gesti per comunicare con la sorella Procne, che, invece, è identificata con la donna che occupa il lato sinistro (Rumpf 1960, 680-681; Sparkes 1985, 31, tav. 35; Schefold-Jung 1988, 74, fig. 79; Touloupa 1994, 527, n. 4). Altri studiosi, come Ludi Chazalon, invece, ritengono che la figura di sinistra possa essere Procne principalmente per due motivi (Chazalon 2003, 125, fig. 5): per via della spada che quest’ultima porta al fianco, e per la posizione occupata dalla figura femminile all’interno dello spazio scenico, che ricalca quello della Aedon raffigurata nella coppa di Monaco. In questo caso, dunque, il gesticolare della donna di sinistra sarebbe dettato non tanto da una necessità comunicativa, ma piuttosto da una reazione emotiva a quanto sta per accadere (Chazalon 2003, 125).

A proposito dell’identificazione della donna di sinistra con Filomela, anziché con Procne, va inoltre sottolineato che nessuna fonte letteraria né iconografica presofoclea che attesti il mito delle Pandionidi sembra fare riferimento allo stupro di Filomela da parte del cognato Tereo, né tantomeno alla glossectomia operata da quest’ultimo ai danni della cognata, elemento mitico che molto probabilmente Sofocle per primo inserisce all’interno del Tereo (Dobrov 1993, 202 n. 34; 222; Fitzpatrick 2001, 96; Monella 2005, 106, 173).

La fonte iconografica che, invece, secondo l’opinione di Jane E. Harrison (Harrison 1887, 439-445) e Ignazio Cazzaniga (Cazzaniga 1950, I, 17-18), sembra fare riferimento alla versione del mito attestata in Omero e nello scolio ad Od. XIX, 523 riconducibile a Ferecide, secondo la quale Aedon uccide il figlio per ἀφραδία e chiede per questo a Zeus di essere trasformata in usignolo, è una coppa conservata a Monaco. Si tratta di una kylix attica a figure rosse in stato frammentario, datata al 510-500 a.C., e attribuita da John D. Beazley al Pittore di Magnoncourt (Beazley [1942] 1963, 456, n. 1).

3 | Kylix attica a figure rosse, Pittore di Magnoncourt, da Cerveteri-Boccanera, ca. 510-500 a.C., München, Staatliche Antikensammlungen; n. inv. 2638. Bibliografia: Harrison 1887, 439-445; Cazzaniga 1950, I, 17-18; Beazley [1942] 1963, 456, n. 1; Sparkes 1985, 29-31, tav. 34, fig. 3; Schefold-Jung 1988, 43, fig. 32; Valastro 1990, 125; Touloupa 1994, 527, n. 2; Chazalon 2003, 123, fig. 4; Monella 2005, 27; Giudice 2009, 406.

Il fondo della coppa è occupato dalla raffigurazione di un infanticidio: sul lato sinistro della scena una donna in piedi è sul punto di conficcare una spada (impugnata nella mano destra) nella gola di un fanciullo, raffigurato nudo e semidisteso su una kline, il quale solleva il braccio destro in segno di pietà verso la sua carnefice. La presenza di due iscrizioni, ΑΕΔΟΝΑΙ e ΙΤΥΣ (Harrison 1887, 439-445; Beazley [1942] 1963, 456, n. 1; Touloupa 1994, 527, n. 2), rispettivamente una in alto a destra rispetto alla figura femminile e l’altra alla sinistra della figura maschile, consente l’identificazione dei soggetti: si tratta di Aedon e di suo figlio Iti.

È probabile, come è possibile desumere dalle fonti letterarie e iconografiche, che prima di Sofocle esistessero almeno due varianti mitiche dell’infanticidio di Iti da parte della donna-usignolo che poi con il suo canto ne lamenta la morte. Una è la variante attestata in Omero e nello scolio ad Od. XIX, 523 riconducibile a Ferecide, nonché probabilmente raffigurata nella coppa di Monaco [Fig. 3], secondo la quale Aedon, figlia di Pandareo e moglie del re Zeto, ecista di Tebe, uccide il figlio per ἀφραδία e chiede per questo a Zeus di essere trasformata in usignolo; mentre la seconda variante potrebbe essere quella che, sulla base della testimonianza di Eliano (Fr. 312 Merkelbach-West), potrebbe aver conosciuto Esiodo, secondo la quale sono entrambe le sorelle, Aedon e Chelidon, figlie del re di Atene Pandione, che uccidono il figlio di Aedon e Tereo, ne imbandiscono le carni all’ignaro padre e vengono poi mutate rispettivamente in usignolo e rondine. Inoltre, il tema del banchetto antropofagico ordito dalle Pandionidi ai danni di Tereo, e l’inseguimento da parte di quest’ultimo delle due sorelle culminante con la metamorfosi ornitomorfa dei tre, è oggetto dell’iconografia di alcuni manufatti vascolari di V sec. a.C., tra i quali cito come esempio un cratere di Faleri, risalente al 470-460 a.C. Si tratta di un cratere a colonnette attico a figure rosse, che è stato rivenuto in Etruria nella Falerii Veteres latina (oggi Civita Castellana), e attualmente conservato al Museo di Villa Giulia (Mancuso 2019, 4).

4 | Cratere a colonnette attico a figure rosse, Gruppo di Napoli 3169, da Falerii Veteres, 470 a.C. ca., Roma, Museo di Villa Giulia; n. inv. 3579. Bibliografia: Beazley [1942] 1963, 514, n. 3; Schefold-Jung 1988, 74, fig. 80; Valastro 1990, 123; Halm-Tisserant 1993, 239, 33; Touloupa 1994, 527, n. 6; Oakley 1997, 47; Monella 2005, 66; Giudice 2009, 406-407.

Il lato A del cratere è occupato dalla raffigurazione di una scena che si svolge all’interno di uno spazio architettonico (o in un interno), come segnalato dalla presenza di una colonna. Sulla destra, un uomo barbato vestito con un chitone è raffigurato nell’atto di alzarsi dalla kline su cui è semidisteso, inoltre con il braccio destro solleva il fodero di una spada. Nella parte sinistra della scena due donne, in evidente stato di agitazione, come mostra la gestualità delle mani, fuggono o comunque si allontanano dall’uomo, verso l’estrema sinistra della scena. È inoltre importante segnalare un dettaglio significativo ai fini dell’interpretazione scenica, ovvero la presenza, al di sotto della kline su cui è raffigurato l’uomo barbato, di una cesta da cui pende in modo alquanto macabro la parte terminale di una piccola gamba. Questo ha fatto sì che gran parte degli studiosi fossero concordi nell’identificare la suddetta scena come la scoperta da parte di Tereo dell’atroce misfatto compiuto da Procne e Filomela, che infatti fuggono da lui: l’uccisione di Iti e la preparazione delle sue carni come banchetto al suo stesso padre Tereo.

IV. Tracce del mito in altri testi teatrali del V secolo a.C.

Nel V sec. a.C., in ambito teatrale, si trova ancora una volta l’attestazione della vicenda mitica della donna-usignolo in un passo dell’Agamennone di Eschilo. All’interno del quarto stasimo della tragedia (Aesch. Ag. 1035-1330), nel momento in cui la profetessa troiana Cassandra, giunta insieme a Agamennone alla reggia di Argo, in preda al delirio, profetizza riguardo alla terribile sorte che attende lei e Agamennone all’interno del palazzo, e allo stesso tempo rievoca gli atroci delitti che hanno macchiato di sangue la stirpe degli Atridi (Aesch. Ag. 1090-1096), le sue parole, che appaiono oscure, sconnesse e pregne di funesti presagi, sono paragonate dal coro degli anziani di Argo al “canto dissonante” (νόμον ἄνομον, v. 1142) dell’usignolo:

ΧΟΡΟΣ | φρενομανής τις εἶ θεοφόρητος,
ἀμφὶ δ᾽ αὐτᾶς θροεῖς
νόμον ἄνομον, οἷά τις ξουθὰ
ἀκόρετος βοᾶς, φεῦ, φιλοίκτοις φρεσὶν
Ἴτυν Ἴτυν στένουσ᾽ἀμφιθαλῆ κακοῖς
ἀηδὼν βίον.

CORO | In preda al delirio tu sei invasata dal dio,
e lamenti su te stessa un canto dissonante,
come un biondo usignolo insaziabile di lamento,
ahimè, che con cuore addolorato “Iti, Iti” lamenta
la propria vita fiorente di mali.

Gli anziani di Argo rivolgendosi a Cassandra, dunque, fanno un chiaro riferimento al mito di Aedon, secondo il quale, una volta compiuta l’uccisione del figlio Iti, ella sarebbe stata trasformata in usignolo, uccello il cui canto ricorda, appunto, un lamento disarmonico che probabilmente all’orecchio dei Greci, che erano a conoscenza di questo mito, suonava come il doloroso richiamo della donna-usignolo rivolto al figlio. 

In Eschilo è possibile trovare un altro riferimento al mito delle Pandionidi nelle Supplici; durante l’esecuzione del primo stasimo (Aesch. Suppl. 41-175), il coro, composto dalle cinquanta figlie di Danao, giunte in vesti di supplici a Argo, chiede asilo alla città, e, nel farlo, paragona il proprio lamento al canto della sposa-usignolo di Tereo (vv. 57-67):

ΧΟΡΟΣ | εἰ δὲ κυρεῖ τις πέλας οἰωνοπόλων
ἐγγάιος οἶκτον {oἰκτρὸν} ἀίων,
δοξάσει τις ἀκούειν ὄπα τᾶς Τηρείας
μήτιδος οἰκτρᾶς ἀλόχου,
κιρκηλάτου γ᾽ἀηδόνος,
ἅτ᾽ ἐπὶ χλωρῶν ποταμῶν {τ᾽} εἰργομένα
πενθεῖ νέον οἶτον ἠθέων,
ξυντίθησι δὲ παιδὸς μόρον, ὡς αὐτοφόνως
ὤλετο πρὸς χειρὸς ἕθεν
δυσμάτορος κότου τυχών.

CORO | Se è presente nelle vicinanze un augure,
un abitante di questa terra che senta questo lamento {},
penserà di sentire la voce
della moglie di Tereo dalla mente sciagurata,
l’usignolo incalzato dallo sparviero,
che dal verde fiume fu cacciato via
e piange, mutata, il nuovo destino,
e ricompone la morte del figlio, come fu ucciso
per mano di colei che aveva il suo stesso sangue,
imbattutosi nell’ira di una madre degenere.

Eschilo, dunque, in questi versi cantati dal coro fa riferimento al lamento della sposa di Tereo, che, dopo aver subito la metamorfosi in usignolo, piange Iti, figlio e vittima di una madre carnefice. A tal proposito, è interessante notare l’espressione ξυντίθησι παιδὸς μόρον, che induce a pensare che attraverso essa Eschilo volesse rappresentare non soltanto l’immagine della donna-usignolo che, cantando, “ricorda il destino funesto del figlio” Iti, ma anche quella velata, sottesa, di una madre che, attraverso il ricordo, ricompone i pezzi di quel figlio che lei stessa, in preda al δυσμάτωρ κότος (“ira di una madre degenere”, v. 67), ha reso cadavere facendolo letteralmente a pezzi.

I due passi eschilei sopracitati, rispettivamente quello tratto dall’Agamennone e quello tratto dalle Supplici, benché facciano entrambi riferimento al tema del lamento della donna-usignolo che piange la morte del figlio Iti, sembrano ricalcare due versioni mitiche leggermente diverse tra loro, le stesse due varianti delle quali si parlava facendo riferimento rispettivamente a Omero e Esiodo. Nell’Agamennone, infatti, Eschilo parla del “canto dissonante” dell’usignolo affermando che quest’ultimo con “cuore addolorato” va piangendo la morte di Iti, il cui nome viene ripetuto due volte con l’intento di ricreare il verso che lo stesso uccello emette in natura. È importante sottolineare, però, che Eschilo, in questo caso, non presenta la morte di Iti come infanticidio compiuto da Aedon per colpire il marito, né viene fatta alcuna menzione della sorella di quest’ultima. È possibile, dunque, che Eschilo in questo passo dell’Agamennone faccia, invece, riferimento alla versione mitica risalente a Omero, in cui Aedon per errore, per ἀφραδία, uccide il figlio.

Ben diverso è, invece, il caso delle Supplici, tragedia in cui Eschilo menziona il lamento dell’usignolo, citando non soltanto quest’ultimo e la sua metamorfosi in seguito all’uccisione del figlio Iti, ma anche quella del marito Tereo, di cui viene esplicitamente fatto il nome (per la prima volta in una fonte letteraria prima della tragedia sofoclea), e che viene rappresentato icasticamente come un κίρκος (“sparviero”), che insegue la sposa-usignolo. Inoltre, l’infanticidio di Iti questa volta è presentato come un atto efferato frutto del δυσμάτωρ κότος, dell’ira di una madre degenere, benché nient’altro venga esplicitato su quali siano state le cause che l’hanno generata. È possibile che, in questo caso, Eschilo possa essersi rifatto alla versione mitica la cui conoscenza Eliano attribuisce a Esiodo, e che è discretamente attestata nell’iconografia vascolare del V sec. a.C., quella cioè in cui ricorrono i seguenti elementi mitici: infanticidio di Iti a opera di Aedon/Pandionidi; banchetto antropofagico; inseguimento di Tereo della/delle colpevoli; metamorfosi ornitomorfa.

Qualche anno dopo la presunta data di rappresentazione del Tereo di Sofocle, Aristofane nella commedia Gli Uccelli (414 a.C.) fa puntualmente riferimento al dramma sofocleo, presentando in maniera comicamente deformata il personaggio tragico di Tereo. Sulla scena comica di Aristofane, infatti, il re tracio veste i panni, o per meglio dire le penne, di Upupa, uccello al quale si rivolgono i due protagonisti della commedia, gli Ateniesi Pisetero e Evelpide, per fondare insieme agli uccelli una nuova città ideale, Nubicuculia, che sia lontana e diversa da quelle degli uomini. Nella commedia aristofanea, il personaggio di Upupa, fa chiaramente riferimento al Tereo di Sofocle, così come alla sua vita precedente la metamorfosi ornitologica (Aristoph. Av. 96bis-103):

ΕΠΟΨ | μῶν με σκώπτετον ὁπῶντε τὴν πτέπωσιν; ἦν γὰρ ὦ ξέωοι ἄνθρωπος.
ΠΕΙΣΕΤΑΙΡΟΣ | οὐ σοῦ καταγελῶμεν.
ΕΠ. | ἀλλὰ τοῦ;
ΠΕ. | τὸ ῥάμφος ἡμῖν σου γέλαιον φαίνεται.
ΕΠ. | τοιαῦτα μέντοι Σοφοκλέης λυμαίνεται ἐν ταῖς τραγῳδίαισιν ἐμὲ τὸν Τηρέα.
ΠΕ. | Τηρεὺς γὰρ εἶ σύ; πότερον ὄρνις ἢ ταὧς;
ΕΠ. | ὄρνις ἔγωγε.

UPUPA | Vi prendete gioco di me nel guardare le mie penne? Ebbene, stranieri, io fui un uomo.
PISETERO | Non ridiamo di te.
UPUPA | E di cosa allora?
PISETERO | Il tuo becco ci sembra ridicolo.
UPUPA | Certo, è Sofocle che mi oltraggia in questo modo nelle sue tragedie, io sono Tereo.
PISETERO | Allora sei tu Tereo? Ma sei forse un uccello o un pavone?
UPUPA | Io sono un uccello.

Inoltre, ne Gli Uccelli Aristofane fa riferimento anche alla figura di Procne, presentata come usignoletta, compagna di Upupa-Tereo, alla quale quest’ultimo rivolge una breve monodia (vv. 209-222) per far sì che si desti dal sonno:

ἄγε σύννομέ μοι παῦσαι μὲν ὕπνου,
λῦσον δὲ νόμους ἱερῶν ὕμνων,
οὕς διὰ θείου στόματος θρηνεῖς
τὸν ἐμὸν καὶ σὸν πολύδακρυν Ἴτυν:
ἐλελιζομένης δ᾽ ἱεροῖς μέλεσιν
γένυος ξουθῆς.

Su, mia compagna, poni fine al sonno,
libera i canti dei sacri inni
che lamenti attraverso la bocca divina,
il mio e il tuo Iti bagnato di molte lacrime
cantando con fluidi suoni
dalla melodiosa gola [...].

A proposito di questi versi, è interessante sottolineare come il registro linguistico e il tono che il personaggio di Upupa-Tereo utilizza nel rivolgersi alla sua usignoletta, rimandino a una sfera intima e familiare. Upupa-Tereo, infatti, tenta di svegliare dolcemente quest’ultima apostrofandola come σύννομε μοι (“mia compagna”, v. 209), e invitandola a intonare un canto di lamento per il loro amato figlio Iti. Upupa-Tereo, dunque, sembra quasi dimentico del fatto che sia stata proprio “la sua usignoletta” (v. 203) a uccidere brutalmente Iti, arrivando persino a offrirne le carni all’ignaro marito (Zanetto [1987] 1997, 193). È possibile che ciò sia dovuto alla tecnica della paratragodia tipica del genere comico, e che, dunque, Aristofane presenti il rapporto fra Upupa-Tereo e la “sua” usignoletta in termini idilliaci per rimandare in maniera antifrastica al Tereo di Sofocle, nel quale i due coniugi si comportano reciprocamente in modo tutt’altro che amorevole.

V. L’invenzione drammaturgica di Sofocle

L’analisi delle fonti letterarie greche e delle fonti iconografiche antecedenti alla messa in scena del Tereo di Sofocle, consente di rilevare un dato importante, che è bene evidenziare: prima di Sofocle, all’interno del mito delle Pandionidi, il tema dell’infanticidio di Iti non è mai presentato come vendetta per lo stupro che Filomela subisce da parte di Tereo, ma come esito ora di ἀφραδία (“sconsideratezza”) da parte di Aedon, che per sbaglio uccide Itilo al posto del figlio della prolifica cognata della quale è invidiosa, secondo la versione mitica cui fa riferimento Omero nell’Odissea, ora come conseguenza del δυσμάτωρ κότος (“ira di una madre degenere”), secondo la versione riportata da Eschilo nelle Supplici.

Sofocle nel comporre il Tereo sembra attuare una tecnica compositiva del tutto originale e, allo stesso tempo, caratteristica dello stile che lo contraddistingue come tragediografo; riprendendo, infatti, il mitema dell’infanticidio di Iti, declinato nelle diverse varianti mitiche incentrate sulla vicenda delle Pandionidi, l’autore sembra creare una versione del tutto originale del mito, instaurando una concatenazione causale fra gli episodi di violenza. Prima di Sofocle, infatti, non viene fatta alcuna menzione del fatto che Filomela, nome che proprio Sofocle (e nessun altro autore prima di lui) sceglie di dare alla Πανδιονὶς χελιδών di cui parlava Esiodo, diventi oggetto del desiderio del cognato Tereo, e che venga per questo da lui stuprata e resa muta a causa della glossectomia (Dobrov 1993, 202 n. 34; 222; Fitzpatrick 2001, 96; Monella 2005, 106, 173). Ed è proprio di questi atti di violenza subiti da parte di Filomela, che Sofocle si serve per motivare l’infanticidio di Iti e, in seguito, il suo sparagmos, a opera delle Pandionidi, un macabro sacrificio celebrato sull’altare della vendetta, che porterà l’ignaro Tereo a cibarsi delle carni del suo stesso figlio.

L’Aedon protagonista delle fonti letterarie precedenti a Sofocle, nel Tereo prende il nome di Procne e veste i panni di madre carnefice in nome del vincolo di sangue che la lega indissolubilmente alla sorella Filomela, e che la spinge a vendicare la violenza subita da quest’ultima compiendo un gesto ancora più efferato:

Fr. 589 R
ἄνους ἔκεῖνος· αἱ δ᾽ἀνουστέρως ἔτι
ἐκεῖνον ἠμύναντο <πρὸς τὸ> καρτερόν.
ὅστις γὰρ ἐν κακοῖσι θυμωθεὶς βροτῶν
μεῖζον προσάπτει τῆς νόσου τὸ φάρμακον,
ἰατρός ἐστιν οὐκ ἐπιστήμων κακῶν

Quello è fuor di senno; e quelle ancora più dissennatamente
lo punivano con qualcosa di atroce.
Infatti, tra i mortali, chiunque nelle disgrazie, poiché adirato,
si serva di un farmaco peggiore della malattia,
è un medico che non ha conoscenza dei mali.

In questo frammento del Tereo, che gli studiosi tendono ad attribuire al Coro soprattutto per la natura gnomica del suo contenuto, vengono messi in luce due aspetti fondamentali: la collaborazione delle Pandionidi nel compiere l’atroce misfatto ai danni di Iti, come evidenziato dall’utilizzo del pronome plurale αἱ (Hourmouziades 1986, 138; Monella 2005, 117); e la condanna, da parte del Coro, della vendetta messa in atto da Procne e Filomela, giudicata eccessiva rispetto alla violenza stessa che l’aveva generata.

Un ulteriore elemento di novità ideato e inserito da Sofocle nel Tereo, altrimenti assente nelle fonti letterarie e iconografiche precedenti, è rappresentato dalla famosa κερκίδος φωνή (“la voce della spola”, fr. 595 R), citata anche da Aristotele nella Poetica a proposito delle varie forme di ἀναγνώρισις (“riconoscimento”) adottate dai poeti nelle loro opere (Aristot. Poet. 1454b 35-37). Benché violentemente privata della parola, infatti, Filomela trova comunque il modo di comunicare alla sorella Procne quanto subito da parte di Tereo attraverso una tela sulla quale ricama quanto accadutole (sull’argomento anche Mancuso 2019, 12 e Mancuso 2020, 6).

Il Tereo di Sofocle, però, oltre a presentare questi elementi di novità, frutto dell’inventiva dell’autore, riprende anche il tema originario della metamorfosi ornitomorfa delle Pandionidi, episodio finale del mito in questione, attestato in tutte le fonti letterarie che precedono la tragedia di Sofocle e in alcune fonti iconografiche di V sec. a.C. Un’anfora attica a collo distinto a figure nere, conservata a Napoli, datata da Beazley al 525-475 a.C. e attribuita al Pittore di Diosphos, sembra rappresentare proprio la metamorfosi delle Pandionidi, intente a fuggire dall’inseguimento di Tereo.

5 | Anfora attica a collo distinto a figure nere, Pittore di Diosphos, ca. 525-475 a.C., lato A e lato B. Napoli, Museo Archeologico Nazionale; n. inv. 145468. Bibliografia: Caskey -Beazley 1954, 84, n. 1; Saletti 1966, 714; Beazley [1956] 1978, 510, n. 25; Schefold 1988, 75, n. 167; Valastro 1990, 123; Oakley 1997, 47; Chazalon 2003, 131-132; Monella 2005, 66; Giudice 2009, 406.

Sul lato A del vaso, un uomo barbato, raffigurato nudo con solo una sorta di stola sulle spalle, nell’atto di sguainare una spada (tenuta nella mano destra, mentre il rispettivo fodero è tenuto con la sinistra) insegue una donna (che occupa il lato destro della scena), la cui rappresentazione è corredata da un dettaglio tanto insolito quanto indicativo del tipo di azione in atto: un uccello poggia sul capo della donna a indicare la metamorfosi in atto o che sta per compiersi. È chiaro che l’uomo barbato vada identificato con il personaggio di Tereo, mentre la donna inseguita da quest’ultimo potrebbe essere Procne o anche Filomela; purtroppo, infatti, non ci sono dati che aiutino l’identificazione nell’uno o nell’altro senso: le iscrizioni presenti accanto ai due soggetti sono indecifrabili, al punto che Beazley le definisce “non sense”, e l’uccello raffigurato sul capo della donna non ha attributi specifici che consentano di chiarire di che tipo di volatile si tratti, sebbene Beazley protenda per l’identificazione della donna inseguita sul lato A con Procne (Beazley [1956] 1978, 510, n. 25).

6 | Anfora di Napoli, particolare delle iscrizioni presenti rispettivamente sul lato A e sul lato B.

Sul lato B dell’anfora sono raffigurate due donne che fuggono letteralmente “a gambe levate”, come si evince dal modo in cui viene rappresentato il movimento degli arti; ciascuna delle due, inoltre, presenta un uccello sulla testa, dettaglio che anche in questo caso, come per la scena del lato A, è indicativo della metamorfosi che sta avendo luogo. I due volatili sono rappresentati in modo diverso: quello che poggia sul capo della donna di sinistra ricorda l’uccello raffigurato sul lato A, e ha dimensioni leggermente più grandi rispetto a quello che poggia sul capo della donna di destra, ma ciò non basta a definire di quale specie di uccello si tratti; inoltre, di nuovo, le due iscrizioni presenti accanto alle donne appaiono indecifrabili.

L’iconografia delle Pandionidi riguardante la loro metamorfosi in uccelli ricorre anche su un altro reperto vascolare, un cratere a colonnette attico a figure rosse, conservato ad Agrigento e risalente al 470 a.C. ca.

7 | Cratere a colonnette attico a figure rosse, 470 a.C. ca., Agrigento, Museo Archeologico (coll. Pirandello). Bibliografia: Caskey-Beazley 1954, 102; Griffo 1952, fig. 7; Schefold-Jung 1988, 343, n. 167; Valastro 1990, 122, n. 5-6; Oakley 1997, 47; Chazalon 2003, 133, n. 40; Giudice 2009, 407.

Il lato A del vaso ospita la rappresentazione di un inseguimento: all’estrema destra della scena, è possibile vedere due donne in movimento, che fuggono e al tempo stesso rivolgono il capo in direzione del loro inseguitore, un uomo barbato, raffigurato nudo con solo un mantello sulle spalle, che con la mano destra impugna una spada pronta a colpire. È interessante notare come questo schema iconografico relativo all’inseguimento, ricordi molto da vicino quello utilizzato dal ceramografo dell’anfora di Napoli per rappresentare la medesima scena [Fig. 5]. L’identificazione dei soggetti finora presentati è legata, come nel caso dell’anfora di Napoli, a un dettaglio fondamentale, ovvero alla presenza di due uccelli posizionati sul capo di ciascuna delle due figure femminili rappresentate, evidenza che fa sì che la scena possa essere interpretata come l’inseguimento da parte di Tereo delle due sorelle Procne e Filomela in seguito all’assassinio di Iti. Ancora una volta, però, non ci sono dati evidenti che possano condurre ad affermare con certezza quale delle due donne sia Procne e quale Filomela; anche in questo caso, infatti, i volatili dipinti sulle teste delle due donne non presentano peculiarità riconducibili né alla specie dell’usignolo né a quella della rondine.

In ambito iconografico, l’unica attestazione della metamorfosi di Tereo in uccello è rappresentata da un frammento di un’hydria a figure rosse proveniente da Locri, risalente al 470-450 a.C.

8 | Frammento di hydria a figure rosse, Pittore di Altamura, da Locri, 470-450 a.C., Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale; n. inv. 27202. Bibliografia: Beazley [1942] 1963, 594, n. 55; Brommer, 553, n. 2; Schefold-Jung 1988, 343, n. 167; Giudice 1989, 64, n. 361; Valastro 1990, 123; Halm-Tisserant 1993, 124, n. 92; Touloupa 1994, 528, n. 7; Oakley 1997, 47; Chazalon 2003, 135, fig. 10; Monella 2005, 66, n. 104; Giudice 2009, 404-412.

Il frammento in questione presenta la raffigurazione della parte superiore (parte del busto e testa) di un corpo maschile; il soggetto è un uomo barbato, raffigurato con indosso un hymation, sul cui capo poggia un uccello che sembra presentare una piccola cresta sul capo. Questo dettaglio, nonché la presenza di una parte di iscrizione (ΤΕΡ[ΕΥΣ]) accanto all’uomo (Beazley [1942] 1963, 594, n. 55), hanno dato modo di identificare il soggetto con Tereo, sul cui capo sembra essere raffigurato l’uccello in cui, secondo il mito, sarebbe destinato a mutare il re tracio. Alcuni studiosi come Elvia Giudice, nel suo articolo dedicato all’hydria di Locri (Giudice 2009, 407), hanno identificato il volatile raffigurato sulla testa di Tereo con l’upupa, caratterizzata proprio dalla presenza di una particolare cresta sul capo. Tuttavia, non esistono fonti letterarie antecedenti al Tereo di Sofocle che attestino la metamorfosi del re tracio in upupa. È bene ricordare che il passo delle Supplici precedentemente citato (Aesch. Suppl. 57-67), pressoché coevo alla datazione attribuita all’hydria di Locri, menziona il marito di Aedon come κίρκος (“sparviero”) e non come upupa.

Effettivamente, dunque, il mito delle Pandionidi nasce e si sviluppa in epoca arcaica come mito di metamorfosi, in cui le due sorelle ateniesi sono identificate proprio con i nomi degli uccelli nei quali sono destinate a mutare, rispettivamente Aedon (usignolo) e Chelidon (rondine).

Le fonti letterarie greche sono pressoché concordi in merito al risultato della metamorfosi ornitomorfa delle Pandionidi, mentre per quanto riguarda la trasformazione di Tereo, re di Tracia e marito di Aedon/Procne, si trovano attestazioni discordanti. Se infatti autori di epoca arcaica come Omero e Esiodo tacciono in merito a una possibile metamorfosi del marito di Aedon in uccello, Eschilo in Supplici (v. 62) fa riferimento a quest’ultimo definendolo come sparviero che incalza l’usignolo, un riferimento alla trasformazione dei due coniugi mutati in uccelli in seguito all’uccisione di Iti.

Sofocle, invece, è il primo autore a parlare della metamorfosi di Tereo in upupa, o più correttamente, in un uccello dalla natura ibrida, che per parte dell’anno assume le sembianze di uno sparviero e per il restante tempo assume l’aspetto di un’upupa:

Fr. 581 R
τοῦτον δ᾽ἐπόπτην ἔποπα τῶν αὑτοῦ κακῶν
πεποικίλωκε κἀποδηλώσας ἔχει
θραςὺν πετραῖον ὄρνιν ἐν παντευχίᾳ·
ὅς ἦρι μέν φανέντι διαπαλεῖ πτερὸν
κίρκου λεπάργου· δύο γάρ οὗν μορφὰς φανεῖ
παιδός τε χαὐτοῦ νηδύος μιᾶς ἄπο·
νέας δ᾽ὀπώρας ἡνίκ᾽ἄν ξανθῇ στάχυς,
στικτή νιν αὗθις ἀμφινωμήσει πτέρυξ·
ἀεὶ δὲ μίσει τῶνδ᾽ †ἄπ᾽ἄλλον† εἰς τόπον
δρυμοὺς ἐρήμους καὶ πάγους ἀποικιεῖ

L’aveva rappresentato e rivelato
come upupa spettatore dei suoi stessi mali,
lo sfrontato uccello che sta sulle rupi in armatura completa;
all’apparire della primavera brandirà l’ala
di bianco sparviero; allora mostrerà due forme
da un unico ventre, quella del figlio e quella propria;
ma, quando biondeggerà il grano dell’estate,
l’ala screziata lo rivestirà nuovamente;
sempre va odiandole da un luogo all’altro
e si trasferirà in boschi desolati e alture rocciose.

Il frammento in questione, che secondo l’ipotesi più accreditata tra gli studiosi dovrebbe costituire parte dell’esodo della tragedia, descrive la metamorfosi ornitomorfa di Tereo in un volatile che per una parte dell’anno, e precisamente a partire dalla tarda estate, assume le sembianze di un’upupa. Questa sembra essere, appunto, un’innovazione di Sofocle rispetto alla tradizione precedente; inoltre, la scelta dell’upupa, come esito della metamorfosi di Tereo, non è casuale, bensì motivata proprio dalle caratteristiche e dai comportamenti assunti da questo uccello (Pollard 1977, 44-46). L’upupa, infatti, presenta un aspetto singolare e molto caratteristico, dotato di un piumaggio bicolore, che da scuro e screziato nella parte superiore del corpo tende a schiarirsi e diventare bianco in prossimità del ventre; inoltre, un altro aspetto caratteristico di questo volatile, è rappresentato dal lungo becco ricurvo e dalla singolare cresta eretta sul capo, che ricorda quasi il cimiero di un elmo (Mancuso 2019, 11). Non è un caso che Sofocle, nei versi del frammento in questione, descriva l’uccello in cui Tereo è destinato a mutare come ἐν παντευχίᾳ (fr. 581 R, 3), creando un parallelismo fra l’aspetto guerriero del re dei Traci, un popolo la cui ferocia in battaglia era nota, e le singolari sembianze dell’upupa. Inoltre, il lessico legato alla sfera militare continua a essere utilizzato da Sofocle anche al v. 4, in cui il poeta si serve proprio del verbo διαπάλλω, ovvero “brandire”, per riferirsi alla bianca ala dell’ibrido volatile, che sarà, appunto, brandita come fosse una vera e propria arma da guerra (Mancuso 2019, 11-12).

Un ulteriore aspetto che accomuna il personaggio di Tereo all’oggetto della sua stessa metamorfosi è rappresentato dalle tendenze comportamentali dell’upupa, che assume un atteggiamento schivo, prediligendo un habitat rurale e scarsamente antropizzato, come sottolineato da Sofocle ai vv. 9-10: il poeta, infatti, riferendosi a Tereo-upupa, predice a quest’ultimo una vita solitaria e raminga, condotta all’insegna dell’odio nutrito nei confronti di Procne e Filomela, alle quali, secondo alcuni studiosi, sembra possa riferirsi l’espressione ἀεὶ δὲ μίσει τῶνδ᾽ (Pearson [1917] 1963, II, 227; Radt 1999, 438).

VI. Conclusioni

In ultima istanza, dunque, è possibile notare come sia le fonti letterarie sia le fonti iconografiche confermino il mito delle Pandionidi come mito originario di metamorfosi. Questo tema, infatti, è attestato all’interno del mito sin dall’epoca arcaica, come è possibile dedurre a partire dalla testimonianza omerica (Hom. Od. 19. 518-524) nella quale Aedon viene menzionata come usignolo, e da quella esiodea facente riferimento alla Πανδιονὶς χελιδών (Hes. Op. 568-570), per poi svilupparsi in età classica, epoca alla quale risalgono le due testimonianze eschilee (Aesch. Ag. 1140-1145; Aesch. Suppl. 57-67) che citano rispettivamente la metamorfosi di Aedon in usignolo e quella di Tereo in sparviero. Il tema della metamorfosi ornitomorfa viene poi ripreso anche da Sofocle nella composizione del Tereo e innovato rispetto all’esito della trasformazione del protagonista maschile in upupa piuttosto che in sparviero. Inoltre, il mito di metamorfosi delle Pandionidi gode di una discreta fortuna anche fra gli autori latini; Ovidio, infatti, nel VI libro delle Metamorfosi (Ov. Met. VI 426-674), narra le vicende di Procne e Filomela, riprendendo la versione mitica attestata nel Tereo di Sofocle e, per quanto concerne la metamorfosi delle due sorelle, attenendosi al mito originario che vede da sempre le due sorelle mutare rispettivamente in usignolo e in rondine (Mancuso 2019, 11).

Tuttavia, per quanto il mito delle Pandionidi molto probabilmente nasca e si sviluppi come mito di metamorfosi, a Sofocle spetta molto probabilmente il merito di aver innovato questa vicenda mitica. Attraverso la composizione del Tereo, infatti, il tragediografo sembra creare una versione del tutto originale del mito, in cui gli episodi di violenza che lo caratterizzano, non soltanto vengono messi in risalto ma vengono presentati in modo tale da creare una concatenazione causale fra essi. L’infanticidio di Iti, che le fonti letterarie precedenti al Tereo avevano citato ora come esito di ἀφραδία da parte di Aedon, secondo la versione mitica cui fa riferimento Omero (Hom. Od. 19. 518-524), ora come conseguenza del δυσμάτωρ κότος, secondo la versione riportata da Eschilo (Aesch. Suppl. 57-67), con Sofocle viene per la prima volta presentato come la vendetta messa in atto da entrambe le Pandionidi per punire il trace Tereo della violenza precedentemente esercitata sulla cognata Filomela, vittima di stupro e glossectomia.

Appendice. Un’ipotesi sul vaso “di Medea” del Louvre alla luce del P. Oxy. LXXXII 5292

Gli studiosi si sono chiesti quale fosse la modalità attraverso la quale Filomela avrebbe fatto recapitare il ricamo all’ignara Procne, arrivando a concludere che verosimilmente il messaggio sarebbe stato consegnato a quest’ultima per mezzo di un personaggio secondario, quale una serva, o una nutrice (Hourmouziades 1986, 136; Dobrov 1993, 205, 209) o piuttosto da Filomela stessa (Fitzpatrick 2001, 97-98), come d’altronde sembrerebbe suggerire l’unica voce fuori dal coro rispetto alle fonti iconografiche antecedenti al Tereo che attestano il mito delle Pandionidi; nessuna di queste, infatti, fa riferimento all’episodio della κερκίδος φωνή, dal momento che quest’ultima è un’esclusiva novità ideata e adottata da Sofocle. La fonte iconografica in questione potrebbe essere rappresentata dal Cratere del Louvre del pittore di Dolone, la cui interpretazione iconografica è, però, fortemente dubbia, motivo per cui non è possibile affermare con certezza che si tratti effettivamente della rappresentazione dell’episodio mitico citato.

Il Cratere del Louvre è un esemplare a campana lucano a figure rosse, risalente al primo quarto del IV sec. a.C.

9 | Cratere a campana lucano a figure rosse, Pittore di Dolone, dalla Puglia, 390 a.C. ca., Paris, Louvre; n. inv. CA 2193. Bibliografia: Trendall [1967] 1983, 56, n. D4; Schimdt 1970, 818-832; Schefold-Jung 1988, 75; Berger-Doer 1992, VI, 1 120-127 e VI, 2 52-55; Dobrov 1993, 205, 209; Fitzpatrick 2001, 98; Galasso 2015, 287; Rebaudo 2015, 307.

Il lato A del vaso, sebbene si trovi in condizioni non ottimali per via del fatto che la superfice presenta segni di erosione, mostra la rappresentazione di quattro figure; al centro della scena sono raffigurate due donne: la prima (quella di sinistra), è interamente vestita da un peplo e un hymation, che non lascia intravedere neanche le braccia, inoltre sul capo porta un vistoso diadema, indice della sua condizione regale; la seconda (quella di destra), è abbigliata in modo completamente diverso rispetto alla prima, infatti porta un semplice peplo ed è raffigurata con i capelli molto corti, attributi che rimandano a una condizione servile; entrambe le braccia della donna sono impegnate da due oggetti: sulla destra un drappo di stoffa e sulla sinistra quella che sembra una cassetta di legno.

Gli estremi della scena sono invece occupati dalla rappresentazione di due figure maschili: a sinistra, è possibile individuare un uomo barbato abbigliato sontuosamente, che con la mano destra tiene uno scettro, indice di regalità, e con la sinistra sembra rivolgere un gesto alla donna che gli è accanto; mentre all’estrema destra della scena, si trova una figura maschile che sembra essere più anziana rispetto alla prima, come si può dedurre dalla stempiatura sul capo e dal bastone di legno che regge nel braccio sinistro, e anche di diversa estrazione sociale, visto l’abbigliamento costituito da una sorta di hymation corto e una clamide.

La maggior parte degli studiosi hanno ricondotto la scena appena descritta all’iconografia riguardante il mito di Medea, e, in particolare, all’episodio mitico narrato nell’omonima tragedia di Euripide in cui Creusa, la giovane principessa di Corinto che Giasone intende sposare, riceve i mortiferi doni nuziali da parte di Medea. Negli anni ’70 del secolo scorso, però, l’archeologa tedesca Margot Schimdt ha ipotizzato una lettura diversa della scena, riconducendola non al mito di Medea, bensì a quello di Procne e Filomela (Schmidt 1970, 818-832; Dobrov 1993, 205, 209, n. 47; Fitzpatrick 2001, 97-98): il cratere del Louvre, dunque, secondo la studiosa, potrebbe rappresentare la scena in cui a Procne, identificata con la donna in abiti regali e diadema sulla testa, viene mostrato da una giovane serva la tela su cui la sorella Filomela aveva precedentemente narrato, tramite il ricamo, la violenza subita da parte del cognato Tereo.

Resta a questo punto da indentificare la figura maschile posta all’estremità destra della scena dipinta sul cratere, che Schmidt ipotizza possa essere l’anziano pedagogo di Iti, in riferimento a una sua eventuale presenza all’interno del perduto dramma sofocleo Tereo (Monella 2005, 108, 110-111).

Se si volesse accogliere l’ipotesi interpretativa avanzata dalla Schmidt e successivamente anche dagli studiosi Karl Schefold e Franz Jung (Schefold-Jung 1988, 75), la scena raffigurata nel Cratere del Louvre potrebbe essere nuovamente letta alla luce del papiro di Ossirinco LXXXII 5292, edito da Samuel Slattery nel 2016 (Slattery 2016, 8-14) e oggetto di due interessanti articoli, di Patrick J. Finglass (Finglass 2016, 61-85) e Daniela Milo (Milo 2020, 95-110).

Il ritrovamento del papiro in questione ha permesso di riconsiderare alcune questioni relative alla trama del Tereo e alla collocazione dei relativi frammenti superstiti. Il testo del papiro (per il quale si rimanda all’edizione di Slattery 2016) si presenta come una diretta continuazione del Fr. 583 R, un monologo in cui il personaggio di Procne si abbandona a un sentito sfogo in merito alla sua condizione di isolamento in Tracia e al destino che spetta alle donne una volta sposate. La testimonianza papiracea, infatti, riporta, sebbene in modo frammentario, dal r. 1 al r. 3 versi coincidenti con gli ultimi tre del Fr. 583 R, mentre per la restante parte contiene alcuni versi mutili (rr. 4-7) che dovevano completare il monologo di Procne, e altri che dovevano essere recitati rispettivamente dal coro (rr. 8-9), da un pastore (rr. 10-11; 14-15; 18-25) e ancora da Procne (rr. 12-13; 16-17) (Finglass 2016, 63). La situazione scenica doveva verosimilmente presentarsi come suggerisce Milo nel suo articolo (Milo 2020, 99; per la numerazione dei righi del papiro la studiosa segue quella data da Finglass, che include anche il Fr. 583 R):

Una donna sulla scena, affranta; le coreute che la distolgono per un attimo dal dolore e la esortano a rivolgere la sua attenzione a un personaggio che sta arrivando, un personaggio ‘agreste’, un pastore. Costui porta, a mio avviso molto verisimilmente, come si deduce da χρηστήν (P. Oxy. 5292, r. 18), una buona notizia, che è lecito immaginare sia il ritrovamento di Filomela (rr. 17-20: [Χορός]: ἀλλ ̓εὖ τελ[ / χρηστὴν φ[ / [Ποιμήν]: δέσποινα[.] . [ / θέλων τι[).

Questi dati hanno consentito innanzitutto di ricollocare il Fr. 583 R all’interno del Tereo, inquadrandolo non all’interno del prologo come alcuni studiosi avevano sostenuto in passato (Welcker 1839, 377; Kiso 1984, 65; Dobrov 1993, 203 n.35; Fitzpatrick 2001, 92), bensì come parte integrante del primo episodio della tragedia, dal momento che il coro ha già fatto il suo ingresso sulla scena (già Milo 2008, 34; Finglass 2016, 66; Milo 2020, 96, 99). Inoltre, a proposito del coro, Finglass afferma che quest’ultimo doveva essere composto da donne, dal momento che Procne non si sarebbe abbandonata a uno sfogo così sentito davanti a un coro maschile (Finglass 2016, 66).

Grazie alla testimonianza papiracea, poi, è stato anche possibile individuare all’interno del dramma la presenza di un personaggio altrimenti ignoto, il pastore, che sembra fare il suo ingresso sulla scena in seguito al monologo di Procne per portare un messaggio alla regina; su quale fosse la natura della notizia, Finglass e Milo non sembrano concordare: il primo, sulla base delle integrazioni al testo papiraceo proposte da Harry e accolte da Finglass, sostiene che il pastore non porti buone notizie a Procne, e, fra le varie ipotesi, propone che quest’ultimo possa voler informare la regina proprio del ritrovamento in un contesto agreste di Filomela mutilata (Finglass 2016, 70); Milo, invece, sostiene che la notizia portata dal pastore possa anche essere annunciata come positiva, e che quest’ultimo, incapace di riconoscere Filomela, potrebbe voler comunicare a Procne di aver trovato una fanciulla ateniese che possa eventualmente alleviare la solitudine della regina (Milo 2020, 99-100).

Tornando alla scena raffigurata nel Cratere del Louvre, alla luce di quanto emerge dal papiro LXXXII 5292, e in particolar modo dall’ingresso del pastore all’interno del cast del Tereo, mi chiedo se la figura maschile posta all’estrema destra della scena non possa essere identificata proprio con il pastore che porta a Procne la notizia del ritrovamento di Filomela. L’espressione con cui l’uomo viene rappresentato può essere riconducibile a un senso di smarrimento e preoccupazione; sembra quasi che la figura in questione rimanga interdetta rispetto alla scena alla quale sta assistendo. Già David Fitzpatrick, accogliendo l’ipotesi interpretativa della Schimdt a proposito del Cratere del Louvre, aveva ipotizzato che la figura maschile potesse essere un personaggio venuto a conoscenza della prigionia di Filomela, sebbene successivamente lo studioso ammetta che l’uomo raffigurato sul vaso possa anche essere frutto dell’inventiva dell’artista (Fitzpatrick 2001, 98 n. 55). Tuttavia, sulla base del contenuto testuale del P. Oxy. LXXXII 5292 e, in particolare, dell’ipotesi avanzata da Finglass in merito alla cattiva notizia che il pastore avrebbe portato a Procne, credo che sia possibile ipotizzare che il Cratere del Louvre possa, se non raffigurare tramite citazione diretta, quanto meno rimandare alla scena di ἀναγνώρισις messa in atto grazie alla famosa κερκίδος φωνή. Se si ammettesse questo tipo di lettura, sarebbe, dunque, possibile pensare di identificare le figure rappresentate sulla scena rispettivamente da sinistra a destra come: Tereo, che effettivamente nell’iconografia vascolare analizzata nei precedenti paragrafi, viene raffigurato proprio con una capigliatura simile a quella del personaggio presente nel cratere del Louvre (cfr. figg. 4; 7); inoltre, gli attributi quali le vesti sontuose e orientaleggianti, nonché lo scettro, si spiegherebbero come identificativi della sua condizione regale, in quanto re di Tracia; Procne, il cui abbigliamento regale anche in questo caso sarebbe in linea con il suo status di regina; Filomela o una serva, recante in mano la tela che dovrebbe innescare l’ἀναγνώρισις; il pastore che, secondo il P. Oxy. LXXXII 52092, potrebbe aver annunciato a Procne il ritrovamento di Filomela.

In merito all’identificazione del personaggio femminile raffigurato mentre regge il drappo di stoffa, è bene ricordare che in passato sono state avanzate due diverse ipotesi: una prevede che possa trattarsi semplicemente di una serva (Schmidt 1970, 826; Dobrov 1993, 205; 209), mentre l’altra che la fanciulla possa essere identificata con Filomela (Fitzpatrick 2001, 98). Effettivamente questa seconda ipotesi sarebbe in linea con quanto affermato da Milo nel suo articolo a proposito del P. Oxy. LXXXII 5292, ovvero che se fosse stata la stessa Filomela con il suo arrivo a portare in scena la tela “l’effetto drammatico sarebbe fortissimo” (Finglass 2016, 61; Milo 2020, 105). Chiaramente, la perdita del Tereo di Sofocle rappresenta un evidente limite alla possibile lettura della scena. Infatti, è impossibile chiarire le esatte dinamiche del riconoscimento fra Procne e Filomela, né tantomeno spiegare la compresenza sulla scena di Tereo e della cognata, da lui stesso stuprata e mutilata, che l’uomo dovrebbe voler tenere lontano dalla vista della moglie. Forse, proprio in virtù della glossectomia, Tereo pensa che sia impossibile per Filomela comunicare la verità a Procne e, inoltre, non è in grado di cogliere il pericolo rappresentato dalla tela capace, invece, di rivelare ogni cosa. Queste però, purtroppo, sono solo ipotesi, a mio avviso plausibili, ma che al momento è pressoché impossibile verificare. Inoltre, come sovente accade nell’iconografia vascolare, le scene raffigurate non rappresentano un ‘fotogramma’ del dramma e in questo caso la rielaborazione figurativa operata dal pittore potrebbe piuttosto indicare una scena di ‘sintesi’. Infatti ciò che pone maggiori dubbi nella ricostruzione drammaturgica del Tereo sofocleo, è la presenza o meno di Tereo in scena e in quali momenti del dramma (sull’argomento si veda Finglass 2016, 71 e Milo 2020, 104-105).

Nota

A conclusione di questo contributo, è opportuno segnalare la recentissima pubblicazione di un volume incentrato sulla figura di Procne a opera della studiosa Sabrina Mancuso dal titolo Der Prokne-Mythos als exemplum in der attischen Tragödie. Il saggio in questione si presenta come un’ampia dissertazione mirata non soltanto ad analizzare il mito di Procne, ma anche a indagare la trattazione del mito dell’usignolo operata dai tragici del dramma attico, spesso legato a funzioni metapoietiche. Il volume, che contiene un corposo capitolo dedicato Tereo di Sofocle (Mancuso 2022, 225-341 ), è stato pubblicato quando la stesura e la revisione del presente articolo erano ormai state ultimate, motivo per cui non è stato possibile consultare il nuovo, importante, contributo sul tema.

Le traduzioni dal greco inserite nel presente studio, salvo diversa indicazione, sono di chi scrive.

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English abstract

The purpose of the article is a rereading of Sophocles’ Tereus in the light of literary and iconographic sources preceding it. The article highlights Itis’ infanticide in a new and original way with respect to previous authors who dealt with the myth of the Pandionidae. He establishes a causal sequence between the violence suffered by Philomela and the killing of Procne’s son, conceived by the two sisters as a revenge against Tereus, who is guilty of raping and cutting off his sister-in-law’s tongue.

keywords | Sophocles' Tereus; Procne; Philomela.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Sabbatucci, Il Tereo di Sofocle. Violenza e drammaturgia del mito, “La Rivista di Engramma” n. 195, settembre/ottobre 2022, pp. 52-87 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.195.0015