"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Prometeo alla colonna o alla rupe? Possibili cortocircuiti iconografico-letterari

Concetta Cataldo

English abstract

Eracle: Era un mondo di rupi;
Prometeo: Tutti avete una rupe, voi uomini. Per questo vi amavo.
Ma gli dèi son quelli che non sanno la rupe.
Non sanno ridere né piangere. Sorridono davanti al destino;
Eracle: Sono loro che ti hanno inchiodato
(Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, 1970, 72)

Oggetto del presente lavoro di ricerca è un’ipotesi di individuazione dei fattori che hanno determinato un cambio nel modus operandi delle raffigurazioni del mito del Titano Prometeo sulla ceramica figurata di produzione attica e italiota. Infatti, nella produzione vascolare datata tra il 610 e il 480 a.C., Prometeo appare legato a una colonna mentre a partire dalla metà del V secolo a.C. circa si individua il sorgere di una nuova concezione figurativa che ha una roccia come luogo dell’incatenamento. Sulla base di queste suggestioni visive si è tentato di individuare nel teatro la possibile origine dello scarto iconografico.

I. Status quaestionis relativo all’iconografia del mito prometeico

La storia degli studi sulle varianti figurative del mito prometeico presso i Greci riserva all’antico Titano un posto alquanto secondario. Analizzando la bibliografia dedicata spiccano le acute osservazioni di Nicola Terzaghi che individua già nel 1905 la diversità di rappresentazione del supplizio di Prometeo alla colonna, che ricalca per i manufatti più antichi rispetto allo schema figurativo che segue l’incatenamento alla rupe, la descrizione esiodea (Hes. Th. 520-531):

δῆσε δ’ ἀλυκτοπέδῃσι Προμηθέα ποικιλόβουλον,
δεσμοῖς ἀργαλέοισι, μέσον διὰ κίον’ ἐλάσσας·
καί οἱ ἐπ’ αἰετὸν ὦρσε τανύπτερον· αὐτὰρ ὅ γ’ ἧπαρ
ἤσθιεν ἀθάνατον, τὸ δ’ ἀέξετο ἶσον ἁπάντῃ
νυκτός, ὅσον πρόπαν ἦμαρ ἔδοι τανυσίπτερος ὄρνις.
τὸν μὲν ἄρ’ Ἀλκμήνης καλλισφύρου ἄλκιμος υἱὸς
Ἡρακλέης ἔκτεινε, κακὴν δ’ ἀπὸ νοῦσον ἄλαλκεν
Ἰαπετιονίδῃ καὶ ἐλύσατο δυσφροσυνάων,
οὐκ ἀέκητι Ζηνὸς Ὀλυμπίου ὕψι μέδοντος,
ὄφρ’ Ἡρακλῆος Θηβαγενέος κλέος εἴη
πλεῖον ἔτ’ ἢ τὸ πάροιθεν ἐπὶ χθόνα πουλυβότειραν.

Legò con vincoli che non potevano essere sciolti Prometeo dai molteplici pensieri
con catene dolorose, avvincendolo a metà di una colonna;
e fece levare contro di lui un’aquila dalle ampie ali, e questa gli divorava
il fegato immortale, che tuttavia ricresceva uguale intorno
di notte, a quello che l’uccello dalle ali spiegate aveva divorato interamente di giorno.
Questo il coraggioso figlio di Alcmena dalle belle caviglie,
Eracle uccise, respinse lo scellerato strazio
dal figlio di Iapeto e lo liberò dagli affanni,
non contro la volontà il proposito di Zeus Olimpio, che regna dall’alto:
affinché la fama di Eracle tebano fosse più grande
ancora sopra la terra fertile.

Lo schema iconografico dell’incatenamento alla rupe ricalcherebbe invece una variante che, a quanto afferma Terzaghi, sarebbe di matrice eschilea (Terzaghi 1905, 199-215). Lo studioso, infatti, riconosce la scelta della ‘montagna’ eschilea come espediente scenico e tecnico, per consentire la costituzione di un “riparo dietro al quale si nascondesse l’attore che parlava pel Titano rappresentato da una maschera vuota senza attore” (Terzaghi 1905, 199). Ma la giusta osservazione di Terzaghi qui si arresta, senza avanzare ipotesi e spiegazioni ulteriori riguardanti la possibile interferenza del testo eschileo sul cambio iconografico che egli stesso osserva. Una ripresa del tema è da rintracciarsi nel lavoro di John Davidson Beazley il quale, nel 1939, attribuiva un possibile ‘cortocircuito iconografico’ a una serie di ceramiche attiche datate tra il 440 e il 420 a.C. che – quasi improvvisamente – avevano cominciato a rappresentare il vecchio Prometeo circondato da satiri, con una bella corona, uno o due narteci – verghe realizzate con canne nel quale il Titano nascose le braci rubate – tra le mani e un costume molto ‘teatrale’. Beazley richiama apertamente la dipendenza dell’iconografia di queste produzioni da possibili rifacimenti o riallestimenti di opere eschilee nel V secolo a.C. (Beazley 1939, 626).

Il tema di Prometeo legato alla colonna (di matrice esiodea) vs. Prometeo incatenato alla rupe (di matrice eschilea) pare non essere al centro dell’interesse degli studiosi del primo Novecento se non nel contesto e a margine delle discussioni filologiche riguardanti la datazione e la paternità del Prometeo incatenato; a seguito del lavoro di Terzaghi nessuno ritorna più sul tema e gli studi iconografici si concentrano sulla rappresentazione di Prometeo pyrphoros/pyrkaeus. A tal riguardo sono interessanti i contributi di Faya Causey-Frel del 1984 (Causey-Frel 1984, 51-55) e Marco Di Branco del 1992-1993 (Di Branco 1992-1993, 313-324) incentrati sull’accostamento del dramma satiresco eschileo a ceramiche e ad alcuni frammenti marmorei provenienti da Pergamo databili tra il 170 e l’85 a.C. Nel 1994 Jean-Robert Gisler redige la voce Prometheus del LIMC che a tutt’oggi resta lo studio più completo riguardo le rappresentazioni di Prometeo nell’arte antica (Gisler 1994, 531-553). Per il mondo romano si vedano i lavori di Helsa Kaiser-Minn del 1981 (creazione dell’uomo sui monumenti tardo-antichi; Kaiser-Minn 1981) o di Robert Turcan del 1968 e poi del 1999 (utilizzo dell’iconografia di Prometeo sui sarcofagi romani; Turcan 1968, 630-634; Turcan 1999) e il più recente lavoro di Stefania Adamo Muscettola del 2004 (Adamo Muscettola 2004, 2-11). Per la glittica romana, che interpreta la figura di Prometeo come ‘creatore’, si veda il contributo di Gabriella Tassinari del 1992 (Tassinari 1992, 61-116); ancora come prôtoplastos spicca il saggio di Marie-Henriette Quet del 1999 (Quet 1999, 269-330), mentre il Titano legato alla rupe del Caucaso è indagato da Claudia Valeri nel 2010 (Valeri 2010, 427-438). Nel 2003 Carmela Roscino indaga sulle similitudini nelle raffigurazioni di Prometeo e Andromeda (Roscino 2003, 75-99). Il più recente è lo studio di Raffaella Viccei che data al 2012-2013 e che offre, attraverso una ricca panoramica sulle raffigurazioni prometeiche, una solida base documentaria nonché una ricognizione bibliografica che è stata preziosa anche per lo studio che qui si presenta (Viccei 2012-2013, 217-272).

II. Note iconografiche relative al mito prometeico

Le prime apparizioni del supplizio di Prometeo sulla ceramica figurata sono molto antiche e datano alla fine del VII secolo a.C. con una serie di produzioni a figure nere protoattiche: nel paragrafo II.1 si propone una lettura delle caratteristiche iconografiche di questa prima fase. Un caso a parte relativo alla produzione laconica è esaminato nel paragrafo II.2. Nel paragrafo II.3 sono prese in esame le ceramiche a figure rosse di produzione attica; segue l’analisi dell’iconografia del Titano nelle ceramiche a figure rosse italiote (II.4).

II.1 Il periodo protoattico e attico

Nella produzione a figure nere protoattiche il tema centrale della rappresentazione non è “le châtiment” come segnalato da Gisler (Gisler 1994, 536), quanto la liberazione di Prometeo da Eracle. Soltanto nel contesto di questa narrazione, è possibile scorgere come a questo livello cronologico i pittori reinterpretino il castigo del Titano. Infatti, la rappresentazione visuale di Prometeo legato e dell’aquila, pur occupando il centro dello spazio figurativo utilizzabile, è sintetica e integrata con il momento della liberazione da parte di Eracle. Tali raffigurazioni con la liberazione di Prometeo da parte di Eracle con annessa la scena del castigo sono conservate in diversi vasi, alcuni perduti e altri molto frammentari, che si caratterizzano per tre schemi compositivi.

Un catalogo con i riferimenti cronologici e bibliografici dei vasi esaminati è proposto in calce al testo:

– Eracle libera Prometeo e aquila [Figg. 1 e 7];
– Eracle libera Prometeo con aquila e una sola divinità [Figg. 2 e 5];
– Eracle libera Prometeo con aquila e teoria di divinità [Figg. 3 e 4].

Questi vasi, databili tra il 610 e il 550 a.C., hanno anche altre caratteristiche comuni:

– La presenza dell’aquila, fondamentale nel mito prometeico, oltre ad assolvere il suo ruolo di divoratrice del fegato del Titano e bersaglio delle frecce di Eracle, diventa elemento decorativo. Non è raffigurata singolarmente, ma fa parte di uno stormo di aquile [Figg. 2 e 7] che riempie gli spazi vuoti della scena principale e la sua moltiplicazione rafforza il valore iconico della sua rappresentazione: l’aquila è la messaggera di Zeus, la sua ipostasi e uno degli animali in cui si metamorfizza (Buxton 2010, 87), e in questi vasi anche resa figurativa del suo imperio. Le parole di Zeus si vivificano nell’aquila e la sua ripetizione iconografica ne sottolinea l’intensità drammatica e la potenza;

– Eracle è rappresentato secondo l’arcaica posizione della ‘corsa in ginocchio’ con leontè e il ‘nodo di Eracle’, faretra alata, spada alla cintura e arco [Figg. 2-3 e 4]. Invece, nel cratere skyphoide proveniente da Vari [Fig. 1] è accovacciato e raffigurato come un cacciatore; Prometeo è sempre nudo, a volte barbato, altre imberbe. In alcuni vasi, la posizione seduta con spalle al palo differisce soltanto per le braccia, che non sempre sono legate [Figg. 3, 4 e 5]. Segni e posizione evidente della sua prigionia sono sul vaso di Vari [Fig. 1] – con braccia legate dietro la schiena – mentre nelle anfore Vidoni [Fig. 4] e di Karlsruhe [Fig. 5] pare pronto a balzare in avanti;

– L’oggetto al quale è incatenato Prometeo è un elemento cilindrico fortemente slanciato, che si ripete con le stesse caratteristiche in tutti i vasi fuorché nell’anfora Vidoni, dove è un tronco nodoso. La raffigurazione pittorica non descrive appieno il concetto esiodeo di colonna (Hes. Th. 522 μέσον διὰ κίον᾽ ἐλάσσας), ma piuttosto un cippo, con il margine superiore tagliato trasversalmente o arrotondato, che assomiglia un po’ a quello utilizzato per le flagellazioni, e che costringe il Titano a scontare il proprio supplizio in posizione seduta. I pittori dei vasi protoattici, con l’eccezione del cratere di Berlino [Fig. 7], collocano la scena mitologica principale nel registro superiore facendola coincidere con la superficie della spalla del vaso, più ampia dei restanti registri distribuiti sul corpo. La decorazione ‘a registro’ potrebbe far pensare a una compressione delle figure, quindi anche della colonna, nello spazio limitato della fascia decorata, che avrebbe costretto a rappresentare Prometeo seduto e legato a una mezza colonna;

– Nei vasi esaminati la scena della liberazione avviene – tranne nel cratere di Vari [Fig. 1] – alla presenza della divinità: quasi come se l’azione di Eracle avesse bisogno di un permesso divino, e del resto, è l’ordine di Zeus che viene a essere trasgredito. La presenza di divinità non risulta nella tradizione letteraria per questa altezza cronologica, e attestandosi soltanto iconograficamente va a integrare a livello figurativo, il tema del supplizio a quello della liberazione. Questo desiderio di rendere solenne il momento della liberazione con tante divinità potrebbe indicare la presenza di narrazioni di vicende mitologiche che non sono passate per una formulazione poetica;

– Circa la metà dei vasi presi in considerazione finora presenta delle iscrizioni. In alcuni casi esse sono determinanti per la comprensione dei personaggi che compongono le teorie di divinità (Terzaghi 1905, 205 e ss.). Tutte le figure dell’anfora del Museo Archeologico Etrusco di Firenze [Fig. 3] sono accompagnate da iscrizioni comprensibili. Da sinistra verso destra si legge: HΕΡΜΕ[Σ], ΑΘΕΝΑΙΑ, ΠΡΟΜΕΘΕ, in alto, inframmezzato dal palo HΕΡΑΚΛΕ[Σ], parzialmente ricostruito perché o la scritta era sovradipinta sull’ala dell’aquila ed è andata perduta o sono state indicate soltanto le ultime due lettere della parola [ΑΙΕΤ]ΟΣ, ΔΕΜΕΤΕΡ, [ΠΟΣΕΙ]Δ̣ΟΝ (Bothmer 1944, 168; Beazley 1956, 97.28; Beazley 1971, 37; Carpenter, Mannack, Mendonca 1989, 26; Immerwahr 1990, 40, n. 166, omette il nome di Prometeo e legge [Α]Π{Π}Ο[ΛΛΟΝ] invece di [ΠΟΣΕΙ]Δ̣ΟΝ; Kluiver 1995, 65, n. 2). Sull’anfora della Collezione Vidoni [Fig. 4], invece, le iscrizioni non sono chiaramente leggibili e una ipotesi di lettura è tentata soltanto da Terzaghi (Terzaghi 1905, 205, n. 16) il quale riconosce sul capo di Prometeo una scritta monca e contenente alcuni errori grafici. Lo studioso legge da destra a sinistra Π[Ρ]ΟΝΟΕΣ, “una forma che ha molta somiglianza di senso col nome del Titano e che del resto richiama anche Pronoe moglie di Prometeo”. La superficie dell’anfora di Karlsruhe [Fig. 5] è costellata di scritte le quali purtroppo non sono decifrabili, non soltanto per le pessime condizioni del vaso, ma perché in alcuni casi sembrano non significanti: appaiono piuttosto come una serie di segni grafici ovvero lettere sparse, secondo un uso pittorico riscontrato anche su altri vasi (Mayor, Colarusso, Saunders 2014, 447-493). L’utilizzo delle iscrizioni, una sorta di didascalie qualificanti il personaggio raffigurato, potrebbe spiegarsi con l’intenzione dei pittori di indicare in maniera inequivocabile i soggetti da loro rappresentati alla committenza o l’introduzione di schemi e modelli figurativi non noti e dei quali si favorisce il pieno riconoscimento da parte del fruitore finale del vaso. Una ipotesi del genere era stata avanzata già da Beazley (Beazley 1939, 618-639), proprio a riguardo della nuova iconografia di Prometeo con i satiri, dove l’utilizzo dell’etichetta, oltre a dare un’indicazione di tipo teatrale (sull’argomento si veda Taplin 2007, 42-43; Seminario Pots&Plays 2015, 38), assegnava con sicurezza quella nuova tipologia iconografica a un determinato personaggio.

A chiusura di questa prima serie di vasi, sono rilevanti due osservazioni. La prima attiene al mito della liberazione di Prometeo da parte di Eracle, che risulta di grande importanza per l’officina protoattica del Pittore di Nessos (Beazley 1956, 4 e 6; Beazley 1986, 131, pl. 13.2-3; Brommer 1970, 50-67; Papaspyridi-Karouzou 1963, 11-14, 103-106, pls. 21-22), il quale produce ben due esemplari [Figg. 1 e 2] utilizzando la stessa forma di vaso, identica tematica e quasi lo stesso schema compositivo, istituendo di fatto la tradizione figurativa successiva presente sulle anfore tirreniche, anche se con piccole differenze. Diversa è la resa pittorica di Eracle, il quale, nel vaso di Vari [Fig. 1], è un cacciatore mentre nel cratere del Falero [Fig. 2] è l’eroe vittorioso della prima fatica contro il leone di Nemea di cui indossa la pelle (Pi. I. 6, 48). Altra discrepanza sta nella la posizione di Prometeo nei confronti di Eracle, in quanto nel vaso di Vari [Fig. 1] il Titano è di fronte a Eracle mentre in quello del Falero Eracle è posizionato alle spalle di Prometeo, quasi a tendere un agguato all’aquila nascosto dalla figura del Titano [Fig. 2]. In questo vaso è presente anche una divinità ammantata e con bastone che osserva la scena da dietro il volatile; non si sa se tale personaggio divino compaia anche nel primo manufatto a causa della sua frammentarietà. Il mito di Eracle, sempre più collegato alla nascente sfera di influenza attica, è il protagonista anche delle vicende del Titano.

L’altra osservazione riguarda la serie delle anfore ‘tirreniche’. Esse consolidano nelle vicende della liberazione di Prometeo la presenza delle divinità, le quali pur assistendo alla scena, interagiscono tra loro e non intervengono all’azione raffigurata. Questa classe di materiale, prodotta principalmente per l’esportazione verso i grandi centri etruschi (Thiersch 1899; Beazley, Magi 1939; Bothmer 1944, 161-170), ha al centro delle sue tematiche le vicende più importanti legate al mondo degli dei: la nascita di Atena, le gigantomachie, il ritorno all’Olimpo di Efesto e le storie di Eracle, tra cui la liberazione di Prometeo. Il Titano, però, compare in quanto personaggio complementare a Eracle e non come interprete principale dell’evento raffigurato, cedendo il ruolo di protagonista delle scene mitiche a quelle incentrate sulla ‘liberazione’. Anche se la vicenda della punizione di Prometeo è utilizzata da Esiodo come preludio alla celebrazione dell’eroismo e della gloria di Eracle (Hes. Th. 530), essi sono comunque accomunati nella stessa funzione civilizzatrice dell’uomo, l’uno perché generoso fautore del dono del fuoco ai mortali, l’altro perché istitutore dei modi del sacrificio dopo il furto della mandria di Gerione (Apollod. II, 106-110). A rafforzare la dicotomia della funzione civilizzatrice di Prometeo ed Eracle è la presenza, accanto a quest’ultimo, di Hermes e Atena, entrambe divinità di metis. Dal punto di vista figurativo i pittori, interpretano la figura del Titano in modi diversi e gli oggetti del castigo sono relegati a elementi secondari, immancabili, ma di contorno: Prometeo non è mai legato, quasi come se il momento della liberazione dalle catene fosse avvenuta precedentemente e altro non restasse da fare a Eracle se non uccidere l’aquila a colpi di freccia. Inoltre, lo scarso interesse per lo strumento punitivo, la ‘mezza colonna’ è da rintracciare proprio nel fatto che essa è variamente interpretata: da palo, nell’anfora della Collezione Vidoni diventa un tronco nodoso [Fig. 4].

Discorso diverso per produzione e datazione è da fare per una coppa attica conservata in una collezione privata [Fig. 8] sulla quale oltre a un paradigma figurativo arcaicizzante, molto simile a quello delle anfore tirreniche – schema e posizione di Eracle; elemento del castigo; Prometeo non legato; aquila in volo – ritorna anche la presenza di iscrizioni di abbellimento di senso incomprensibile (Brommer 1970, 50-67). Questa volta però, invece della teoria degli dei, la scena è incorniciata dalla presenza di due personaggi a cavallo, identificati come i Dioscuri da Gisler (Gisler 1994, 542, n. 71), elementi estranei alla vicenda mitica della liberazione di Prometeo (Schauenburg 1970, 36, pl. 18.2). I cavalieri, in realtà, potrebbero fungere anche soltanto da elemento riempitivo e decorativo poichè un arciere e un cavaliere sono presenti sull’altro lato del vaso.

II.2 Il supplizio dei Titani della coppa laconica del Museo Gregoriano

Una celebre coppa laconica conservata presso il Museo Gregoriano di Roma [Fig. 6] è in assoluto il primo manufatto ceramico incentrato sui castighi dei Titani. La diversa prospettiva della produzione attica da quella laconica appare molto evidente e attraverso la quale il pittore esprime una possibile differente tradizione, mettendo l’accento solo sul supplizio del Titano Prometeo e inserendo nella sua narrazione la punizione di Atlante.

Prometeo è rappresentato assieme al fratello Atlante, entrambi costretti a patire il supplizio inferto loro dal padre degli dei. Atlante sorregge la volta del cielo mentre Prometeo subisce il divoramento del fegato da parte dell’aquila. Questa volta il supplizio del Titano è ben evidente e alcuni particolari sono resi in sovradipintura paonazza: il sangue che sgorga dal becco forma una pozza sul pavimento; le legature evidenti ai polsi – per la cui realizzazione il pittore non ha esitato a rendere sproporzionate le braccia di Prometeo – e alle caviglie; la corda che partendo dagli arti del Titano è avvolta più e più volte intorno alla colonna, tutti dettagli che sottolineano la volontà dell’artigiano di rendere il supplizio del Titano connotato da particolari realistici. L’elemento a cui è incatenato Prometeo questa volta è proprio una colonna, dotata di capitello dorico e scanalature e il pittore sembra quasi abbia voluto parafrasare in immagini il testo esiodeo (Hes. Th. 522 μέσον διὰ κίον᾽ ἐλάσσας). Effettivamente, nella Teogonia la descrizione di Atlante occupa i versi 516-517 e immediatamente a seguire quella di Prometeo (vv. 521-522). Eppure, la scena è stata interpretata da alcuni studiosi (Albizzati 1924, 66) come la punizione di Tantalo o Sisifo con Tizio, mentre è chiaro che “the representation corresponds so closely with the account of Hesiod that the painter may actually have had the poet's words in mind” (Lane 1933, 165. Anche Catalin 2010, 196, Fig. 3).

II.3 Il periodo delle figure rosse attiche

La raffigurazione del castigo di Prometeo nei vasi a figure rosse di produzione attica è stata riscontrata soltanto su frammenti, i quali pongono non pochi problemi per quanto riguarda la lettura iconografica.

Il frammento più antico data alla metà del V secolo a.C. [Fig. 9] e per la sua attribuzione al supplizio di Prometeo non c’è unanimità tra gli studiosi anche se lo stesso Beazley propende per una possibile identificazione in Prometeo (Beazley, Payne, Price 1931, 123, pl. 67.1) pur proponendo altre possibili iconografie che spaziano da personaggi maschili come Tizio, Teseo, Piritoo e Amico a quelli femminili come Andromeda. Purtroppo, il frammento, proveniente da Naucrati [Fig. 9] mostra unicamente i piedi di una figura umana con dei legacci neri che si staglia sulla superficie a risparmio del vaso, dando l’idea di un corpo legato contro un oggetto verticale, come una superficie rocciosa.

La seconda testimonianza attica è un cratere a campana frammentario proveniente dagli scavi Galatia e conservato a Gordion [Fig. 10] che, spezzato nella molteplicità dei pezzetti superstiti, mostra una divinità, probabilmente Hermes (fr. P4715), parte del torso e del braccio di Prometeo legato a qualcosa che assomiglia a una superficie rocciosa (fr. P4716), parte dell’ala dell’aquila dietro la quale vi è Apollo che regge un ramo d’alloro (fr. P4714). La presenza di quest’ultimo è un unicum per la produzione attica a figure rosse a questo livello cronologico e ciò ha portato all’ipotesi che il frammento di Gordion potesse in qualche modo richiamare un momento non del Prometeo incatenato ma l’incipit del Prometeo liberato (DeVries 1997, 453; Viccei 2012-2013, 245) del quale conosciamo l’andamento grazie alla traduzione ciceroniana: anche nel Liberato Prometeo è appeso alla rupe del Caucaso (fr. *193 Radt; Radt 1985, 310-313) e Apollo è il dio invocato da Eracle prima di scagliare la freccia contro l’aquila (fr. *200 Radt; Radt 1985, 318). Il dio invece, con didascalia e arco, compare sull’anfora tirrenica della Collezione Vidoni [Fig. 4].

Lo stato frammentario dei due vasi non consente di ricostruire la possibile presenza della scena del supplizio di Prometeo ma sono comunque di importanza fondamentale. Infatti, essi testimonierebbero non soltanto la presenza del castigo del Titano nella ceramica a figure rosse di produzione attica ma nel caso dei frammenti di Gordion, per quanto essi siano una variante rara rispetto alla tradizione prevalente, anche la persistenza dello schema figurativo con le divinità. Infatti, la copiosa produzione vascolare a figure rosse tra il 440 e il 400 a.C. nel quale compare il Titano, sembra orientata verso un’altra tipologia iconografica di Prometeo, il quale è raffigurato con nartece e satiri (Beazley 1939, 618-639; Gisler 1994, 531-553 passim; Viccei 2012-2013, 225-245), e nella kylix attribuita a Douris, un hapax nelle rappresentazioni del Titano, in cui è riccamente vestito e in compagnia di Era (proveniente da Vulci, datata tra il 480 e il 470 a.C., è conservata a Parigi presso il Cabinet des Médailles, n. inv. 542; Beazley 1963, 438.133, 1653). Ciò che invece è un elemento di assoluta novità [Fig. 10] è l’eliminazione dell’elemento della nudità di Prometeo. Infatti, ciò che appariva come una costante nei vasi a figure nere era la raffigurazione del Titano completamente nudo, mentre a partire proprio da questo frammento, e continuando anche nella produzione italiota successiva, Prometeo è coperto da una lunga veste panneggiata.

II.4 Produzioni a figure rosse italiote

Per le figure rosse non di produzione attica, le quali sovente seguono sviluppi iconografici e tematiche differenti rispetto a quelle della Grecia continentale (un parere contrario e favorevole a una continuità tematica e iconografica tra le figure rosse attiche con Prometeo e la produzione italiota determinata da una “comune ispirazione teatrale” o da un “comune modello di riferimento” è in Roscino 2003, 97), l’elemento riferibile al castigo di Prometeo è ravvisabile in tre vasi, nei quali, è fissa la presenza dell’aquila e la non-nudità, ma non è possibile intravedere caratteristiche seriali.

La raffigurazione del supplizio di Prometeo è riscontrabile in un cratere apulo nello stile di Gnathia [Fig. 11] in cui il Titano è raffigurato in modo quasi caricaturale. L’elemento del castigo non è più raffigurato ed è individuabile soltanto dalla presenza di fascette bianche ai polsi. Ciò che però innova totalmente lo schema figurativo finora seguito è la posizione del Titano: Prometeo non è più inginocchiato ma in piedi con le braccia aperte. Coperto da un corto mantelletto, la sua nudità è sottolineata dal ventre prominente e dagli arti rinsecchiti. Il Titano raffigurato con barba e capelli canuti ha i genitali rigonfi, forse una rappresentazione caricaturale del kynodesme, pratica convenzionale nella produzione del Pittore di Konnachis (una carrellata rappresentativa delle sue produzioni è in Rebaudo 2015a, 147-162). La simbologia antica, che trasportava la liberazione del Titano in un contesto abitato da forze umane, animalesche e divine, è stata completamente rimpiazzata e l’aquila da messaggera di Zeus, si tramuta in un uccello molto meno pericoloso e austero, dalle sembianze più simili a un’anatra che a quelle di un feroce rapace.

Lo schema figurativo del castigo di Prometeo è totalmente rielaborato su di un cratere apulo del Pittore di Branca: il Titano appare in piedi con le braccia aperte e legate a un ‘arco di roccia’ [Fig. 12] (per l’interpretazione iconografica dell’arco di roccia si veda Roscino 2003, 75-99). Coperto da un tessuto trasparente, sinuoso e drappeggiato, è in compagnia di diverse divinità. Eracle non è più raffigurato mentre imbraccia l’arco ma con la clava. L’aquila, da co-protagonista del momento della liberazione, è posizionata nel secondo registro, non colpita più da alcuna freccia. L’atto della ‘liberazione’ sembra inquadrarsi in una dimensione quasi sacra, che non prevede più il combattimento tra Eracle e l’aquila e sul lato destro dell’arco di roccia è raffigurato nuovamente un personaggio seduto e con ramo di alloro, per certi versi, assimilabile all’Apollo del frammento di Gordion [Fig. 10].

Eracle e l’aquila ritornano, invece, su di una oinochoe apula che raffigura la liberazione di Prometeo [Fig. 13]. Lo schema figurativo del vaso è, in questo caso, un sunto delle precedenti rappresentazioni. Prometeo compare in piedi, nudo con un velo svolazzante tra le braccia aperte: composizione tipica delle produzioni a figure rosse italiote, ma alle sue spalle c’è un cippo con catena sovradipinta, che richiama l’elemento del castigo dei vasi a figure nere più antichi. Completamente trasformata, perché realizzata come un parallelepipedo modanato, simile a un altare su cui tre oggetti ellittici potrebbero raffigurare delle offerte, la ‘mezza colonna’ ricorda il racconto esiodeo (Hes. Th. 522 μέσον διὰ κίον᾽ ἐλάσσας). Ai polsi e alle caviglie ceppi sovradipinti in bianco, richiamano gli antichi legacci, ma questa volta non sono collegati a nulla e non confluiscono verso la catena della mezza colonna, la quale funge da elemento quasi decorativo piuttosto che punitivo. Eracle, armato anche di clava, imbraccia nuovamente l’arco mentre l’aquila volteggia alle spalle di Prometeo. Tra Eracle e il Titano si segnala l’inserimento di Pan con cerchio e kantharos.

III. La tradizione testuale del supplizio di Prometeo

Un processo esattamente inverso accade nelle fonti letterarie antiche per quanto riguarda il racconto del supplizio riservato a Prometeo, in cui la tradizione ha tramandato come unicum la versione esiodea, mentre ha conservato innumerevoli testimonianze sul Titano incatenato alla rupe fino alle fonti latine. Come già accennato è di Esiodo (Hes. Th. 522 μέσον διὰ κίον᾽ ἐλάσσας) la testimonianza più antica del racconto di Prometeo “dai molteplici pensieri”, spinto da Zeus contro una colonna al quale è legato con “terribili catene”. Si tratta di una colonna collocata in un punto senza alcun riferimento geografico o spaziale; in un luogo non-luogo in cui l’aquila dalle ampie ali mandata da Zeus può compiere indisturbata il suo crudele servizio: mangiare il fegato di Prometeo che ricresce la notte per poter essere nuovamente fagocitato il giorno seguente. L’elemento al quale è incatenato Prometeo è una colonna o un pilastro (κίων; Hes. Th. 522): un elemento fissato al suolo dalla forma cilindrica che dal testo si trasferisce all’immagine. Lo scolio vetus al v. 522 della Teogonia derivante da un commentario antico composto intorno al I sec. d.C. (Di Gregorio 1971, 2; Di Gregorio 1975, 80. Hes. Sch. Th. 522) così riporta:

μέσον διὰ κίον’ ἐλάσσας: ἡ ἄγνοια ἡ ἀπὸ τοῦ σώματός ἐστιν ὁ κίων· κίονα δὲ λέγει τὰ Καυκάσια ὄρη. ἄλλως. μέσον διὰ κίονα: ἤτοι διὰ μέσου κίονος δήσας τὸν Προμηθέα, ἢ μέχρι τοῦ μέσου κίονος ἐλάσας καὶ εἰς τὴν γῆν κατακρύψας, ἵν’ ᾖ περὶ τὸ ἀνώτατον μέρος δεδεμένος ὁ Προμηθεύς.

‘Avvincendolo a metà di una colonna’: l'ignoranza, quella che viene dal corpo, è la colonna; dice ‘colonna’ i monti del Caucaso. In altro modo. ‘A metà di una colonna’, cioè legando Prometeo a metà di una colonna, o spingendolo fino a metà di una colonna e nascondendo questa nella terra, cioè trovandosi Prometeo legato alla parte più alta (della colonna) [Traduzione di Cassanmagnano 2009, 549].

La necessità dello scoliasta di spiegare questo verso è indice di una difficoltà presente già in antico di dare una giusta collocazione del luogo del castigo di Prometeo, non soltanto in ambito geografico, ma anche nell’immaginario collettivo. Dal punto di vista iconografico, a proposito del vaso di Vari [Fig. 1], Friedrich Gottlieb Welcker nel 1857, avanzò l’ipotesi che Prometeo più che essere legato a una colonna fosse rappresentato impalato (Welcker 1857, 763). La teoria, riportata anche da Nicola Terzaghi (Terzaghi 1905, 206) è priva di fondamento sia testuale che figurativo.

Infatti, Zeus legò con catene indissolubili Prometeo “a metà di una colonna” (Cassanmagnano 2009, 147), o “a una mezza colonna” e i pittori, a partire dal 610 a.C. fino al 450 a.C. almeno, hanno rappresentato ciò che risultava in concordanza con il testo di Esiodo.

La prima testimonianza testuale del supplizio prometeico dopo Esiodo, facendo eccezione per Esopo, il quale però non accenna mai al supplizio del Titano e che riserva a Prometeo il ruolo di protagonista in tre favole (124: Zeus, Prometeo, Atena e Momo; 210: Il leone, Prometeo e l’elefante; 322: Prometeo e gli uomini), è da rintracciare in Eschilo il quale utilizza il mito in più occasioni facendone oggetto sia di un dramma satiresco che di almeno tre tragedie. Infatti, la figura di Prometeo attraversa in maniera quasi trasversale l’opera eschilea (Cipolla 2015, 83-84.) nonostante sia ancora aperta la querelle tra gli studiosi sulla paternità eschilea del Prometeo incatenato (una sintesi della vexata quaestio è in Cataldo, Vacca 2021, 45 con bibliografia pregressa. Per l’attribuzione a un anonimo più tardo anche Méutis 1960 e Griffith 1977. Ritorna sull’argomento anche il recentissimo Citti 2021, 35).

Una invenzione poetica, che invece, con tutta probabilità, è da ascrivere a Eschilo, è la collocazione geografica del luogo del supplizio di Prometeo. Come già accennato, Esiodo non colloca la ‘colonna’ in nessun luogo geografico particolare mentre Eschilo pone il Titano in un luogo aspro e selvaggio, presso il monte Caucaso che nel prologo del Desmotes Kratos descrive come “ai confini del mondo”, “un deserto privo di uomini” (Aesch. Pr. vv. 1-2). L’Atene del V secolo a.C. non è estranea al mondo e alla cultura della Scizia, universalmente conosciuta allora per l’abilità dei suoi cavalieri e dei suoi arcieri tanto da costituire un ‘corpo di polizia’ composto da arcieri sciti in servizio per garantire la sicurezza della polis (Tuci 2004, 3-18). Ma Eschilo fa di questa regione e del monte Caucaso un luogo impervio e desolato, che incute terrore. La determinazione geografica di un luogo per la rupe di Prometeo diventa topos letterario per la tradizione, eternando la rupe come il luogo destinato al supplizio del Titano, così il Caucaso, soppianta di fatto il luogo non-luogo di Esiodo. L’elenco delle occorrenze a tal riguardo è la conferma più evidente di quanto il motivo del Caucaso sia diventato canonico nella letteratura antica, partendo, almeno per ciò che la tradizione ci ha conservato, dall’intuizione drammaturgica eschilea.

Nel Prometeo incatenato, sin dai primissimi versi del prologo, Eschilo descrive con dovizia di particolari il momento dell’incatenamento del Titano alla rupe del Caucaso. È Kratos a parlare, riferendo in modo perentorio a Efesto le modalità con le quali portare a termine l’ordine ricevuto da Zeus. La descrizione del supplizio in atto dura 87 versi, nei quali si ripete più volte l’ordine di inchiodare e di legare con ferri e chiodi il corpo di Prometeo alla rupe. Gli spettatori dovevano sicuramente vivere con angoscia il momento drammaturgico, partecipando del dolore del Titano, probabilmente acuito da rumori di scena che riproducevano il suono del martello e delle catene (come ipotizzato da Griffith 1983, 31). Il momento del supplizio indubbiamente doveva restare ben impresso tanto che l’anonimo compilatore della hypothesis riferisce che il punto principale della tragedia è l’incatenamento di Prometeo (Aesch. Pr. hyp.: τὸ δὲ κεφάλαιον αὐτοῦ ἐστι Προμηθέως δέσις; Wilamowitz-Moellendorff 1914, 22).

Nell’economia del dramma però, questi versi occupano uno spazio ridotto (87 versi su 1093 complessivi), quindi si potrebbe suppore che l’interesse del compilatore possa essere ascritto a qualcosa di diverso, tanto spettacolare da restare impresso nella memoria o di essere perpetuato anche nelle successive repliche come elemento fondante della composizione della stessa opera, la scenografia. Una possibile conferma di ciò è in un recentissimo contributo di Monica Centanni (Centanni 2022, 49-82) in cui si sottolinea quanto l’opsis, cioè la dimensione scenico-spettacolare della tragedia, fosse cara a Eschilo, motivo per cui il tragico di Eleusi non rientrava tra i preferiti di Aristotele (Arist. Po. 50b, 17-18). Come nota Centanni, il giudizio aristotelico non proprio favorevole nei confronti di Eschilo, definisce di contro la capacità del tragico di creare suggestioni di forte impatto, anche visivo, nell’allestimento scenico delle sue opere, in totale disappunto della critica moderna che gli riconosce una certa austerità non solo verbale ma anche drammaturgica. Nel Prometeo liberato, di cui si possiede un lungo frammento grazie alla traduzione latina di Cicerone (Tusc. II, 10, 23 e segg.; fr. *193 Radt; Radt 1985, 310-313) e ai versi del Prometheus di Accio (D’Antò 1980) si evince quanto fosse ‘sublime’ e terrificante la scena del supplizio del Titano, il quale non soltanto è legato e incatenato alla rupe del Caucaso ma che viene inchiodato alla roccia, con la conseguente frantumazione delle ossa attraverso l’inserimento di cunei. Nonostante il forte pathos presente nel prologo del Prometeo incatenato, Eschilo nel Prometeo liberato forza la resa drammatica della scena con una descrizione di crudo e macabro realismo. Confrontando la tradizione iconografica del supplizio di Prometeo con i testi eschilei superstiti, l’ambientazione mitica dell’episodio rappresentato sui repertori vascolari appare certamente condivisa, ma di contro, vista l’assenza quasi totale di pathos nelle scene figurate, esse si discostano sensibilmente dalla drammaticità conservata nei testi tràditi.

IV. Note di scena e scenografia

A partire dalle produzioni a figure rosse, sia attiche che apule, è rilevante un interesse maggiore delle officine non più soltanto per la scena della liberazione di Prometeo da parte di Eracle ma anche un’attenzione più definita alla figura del Titano. Nel vaso del Pittore di Konnakis [Fig. 11] Prometeo compare in compagnia soltanto dell’aquila. Il teatro in generale potrebbe aver provocato l’innesto di elementi nuovi nello schema figurativo di solito utilizzato per le figure nere. Infatti, nel cratere apulo appena menzionato, si ritiene che la raffigurazione di Prometeo in forma caricaturale possa essere stata influenzata dal teatro di Epicarmo (Viccei 2012-2013, 247; Tedeschi 2017, 117). Ciò che sicuramente è rilevabile in queste produzioni è il distacco: prima Prometeo è parte di un contesto formato da più figure, per poi divenire un elemento isolato e centrale della rappresentazione. Prometeo diventa ‘personaggio’ nella produzione ceramica e anche in quella teatrale.

Il frammento proveniente da Naucrati [Fig. 9] con la porzione di rupe e i piedi forse appartenenti a Prometeo, potrebbe segnare, nonostante la piccolissima porzione figurativa conservata, il terminus post quem del verificarsi del cortocircuito iconografico sullo scambio colonna/rupe e letterario Esiodo/Eschilo. Datato alla metà del V secolo a.C., infatti, potrebbe rappresentare lo spartiacque del modo di intendere l’iconografia del castigo. Così come nei vasi a figure nere il mito narrato è quello della ‘liberazione’ (Aellen 1994, 49; Roscino 2003, 98), nel quale compare la colonna di Prometeo, allo stesso modo nei vasi a figure rosse il dato rilevante è la rappresentazione della rupe. Un elemento non verificabile, a causa della conservazione frammentaria dei vasi, è l’associazione della roccia del Caucaso con Eracle liberatore.

Con i frammenti provenienti da Naucrati e Gordion, si cominciano a scorgere degli elementi nuovi, le linee di contorno, influenzate probabilmente dalla pittura murale (Robertson 1951, 151-159). Nel vaso del Pittore di Konnakis e del Pittore di Ascoli Satriano esse indicano il suolo [Figg. 11 e 13]; nel vaso del Pittore di Branca il suolo è determinato dalla parte bassa dell’arco di roccia [Fig. 12], in altri casi, come nei frammenti attici, la rupe del Caucaso [Figg. 9 e 10].

Proprio la linea del suolo, che in alcuni casi, è resa in maniera fortemente ondulata, indica l’inserimento delle figure in un contesto roccioso (sulla reinterpretazione dell’elemento prospettico e scenografico nel mondo classico si veda De Rosa 2017, con ricca bibliografia tematica). Plausibilmente proprio la messa in scena delle tragedie e dei drammi satireschi incentrati sulla figura di Prometeo poté creare questo cambio di contesto: nel repertorio figurativo dei pittori non è sentito più come necessario raffigurare il Titano in un luogo non-luogo, perché l’arte poetica ha definito un contorno geografico netto: la rupe del Caucaso. Infatti, anche in teatro è avvenuto lo stesso procedimento di materializzazione: dal nulla mitico esiodeo si è passati a una geografia reale. Mettendo in scena le vicende del Titano, in maniera tragica o para-tragica, nel mondo conosciuto, seppur lontano nell’immaginazione e nella conoscenza degli ateniesi del tempo come la Scizia, la storia di Prometeo è accaduta nuovamente, su di una scena teatrale: è avvenuta ‘veramente’. Qualche indicazione di come potesse essere stato interpretato il ‘nuovo mondo’ di Prometeo è leggibile nella stessa tragedia del Prometeo incatenato: una “roccia sospesa sull’abisso” (Centanni 2003, 298-299 e 1152) in cui Io, la fanciulla cornigera, per parlare con il Titano è costretta ad alzare lo sguardo (Aesch. Pr. 563-564) e da quella stessa rupe minaccia di gettarsi (Aesch. Pr. 747-748). Molti studiosi nel tempo si sono interpellati per determinare come possano essere state allestite le opere drammaturgiche dedicate a Prometeo. Alcuni studiosi (Terzaghi 1905, 199; Bolle 1906, 6; Focke 1930, 277-278; Davidson 1994, 33-40 con bibliografia pregressa) ritengono plausibile un allestimento scenico ‘spettacolare’ con la realizzazione di una grande struttura a imitazione della roccia del Caucaso, altri di contro (Robert 1896, 561; Kaffenberger 1911, 27; Flickinger 1936, 166; Murray 1940, 39; Reinhardt 1949, 11, 77; Wilamowitz [1966] 1914, 114-140; Ferrin Sutton 1983, 289-294) bollano queste ipotesi ritenendole “weird” (Taplin 1977, 243) e ipotizzano un possibile allestimento scenografico che prevedesse l’uso di un fantoccio, dietro il quale potesse nascondersi un attore, affisso o trascinato in scena presso una struttura.

A sostegno della possibilità che il frammento di Naucrati possa raffigurare proprio Prometeo è importante sottolineare che a partire dalla metà del V secolo a.C. cominciano a essere raffigurati anche altri personaggi mitici incatenati a una rupe. La possibile somiglianza dei piedi nel frammento con altri incatenati è innegabile (Beazley, Payne, Price 1931, 123, pl. 67.1), però per ognuno dei personaggi mitici vi è in letteratura un diverso modo di rappresentare il castigo; viceversa, dal punto di vista vascolare, non risultano numerose occorrenze: Tizio è incatenato disteso nel Tartaro; Teseo e Piritoo sono incatenati da Ade su troni di roccia; Amico è raffigurato legato sulla Cista Ficoroni; Tantalo, secondo Euripide (Oreste) è sospeso nel vuoto, legato per le mani e appeso a una rupe (per i riferimenti su questi personaggi mitologici si veda Ferrari 2018, 43: Amico; 569-570: Piritoo; 666-667: Tantalo; 686-689: Teseo e 702: Tizio).

A proposito di personaggi del mito, incatenati a una parete rocciosa e anche soggetti di opere teatrali, un discorso diverso riguarda Andromeda, la quale condivide con Prometeo, sulle ceramiche di produzione italiota, la presenza dell’arco di roccia (Roscino 2003, 75-99). Il frammento di Naucrati, nel quale è possibile intravvedere una linea sinuosa identificabile con una parete rocciosa, può essere messo a confronto con vasi coevi in cui vi è la raffigurazione di Andromeda, tema iconografico che a partire almeno dalla metà del V secolo a.C. è molto frequentato, forse anche perché soggetto di un’opera sofoclea e una euripidea a esso dedicate. I vasi di produzione attica con Andromeda attestati allo stesso livello cronologico vedono però la fanciulla non incatenata a una roccia, bensì con i polsi legati a due paletti. La possibilità che il modello figurativo di Andromeda circolante, coevo al frammento di Naucrati, possa rappresentare la fanciulla legata a dei paletti piuttosto che a una roccia, può far ipotizzare che i piedi possano appartenere a Prometeo piuttosto che ad Andromeda (una hydria a figure rosse, proveniente da Vulci, attribuita al Pittore di Coghill e datata al 450–440 a.C.; conservata a Londra, presso il British Museum: tre giovani Etiopi preparano i paletti per legare Andromeda; Beazley 1963, 1062; Trendall, Webster 1971, 63-65; Schauenburg 1981, 623, n. 3. Un cratere a calice a figure rosse su fondo bianco, attribuito al Pittore di Phiale; datato al 450-445 a.C. e conservato ad Agrigento, presso il Museo Archeologico Nazionale; Trendall, Webster 1971, 63-65; Schauenburg 1981, 623, n. 5: Andromeda legata a due paletti. Sul cratere è presente un’iscrizione molto importante: ΕΥΑΙΩΝ | ΚΑΛΟΣ | ΑΙΣΧΥΛΟ. Gli studiosi ritengono che possa essere riferibile al figlio di Eschilo, il quale avrebbe interpretato la parte di Perseo nell’Andromeda di Sofocle).

Altra piccola notazione è sul costume. Come già evidenziato nelle ceramiche a figure nere, Prometeo è raffigurato completamente nudo ma già nel frammento di Gordion [Fig. 10] il Titano è vestito con un tessuto panneggiato. Nel frammento si scorge bene una spalla nuda del Titano, mentre sul petto sale un lembo della veste che evidentemente era tenuta sull’altra spalla – come nel cratere apulo [Fig. 12] – e la cintura in vita che tiene la veste fortemente panneggiata – uguale in entrambi [Figg. 10 e 12] – e il polso di Prometeo che non è legato da corde ma da due giri di fascette, ancora simili in entrambi i vasi. Alcuni studiosi ipotizzano una derivazione teatrale dello schema compositivo di Prometeo alla roccia, ma anche sulla possibilità che sia stata la pittura parietale a influenzare il modello iconografico dei ceramografi (Phillips 1968, 1-23; Roscino 2003, 97).

V. Conclusioni

Le produzioni vascolari attiche e italiote non registrano la rappresentazione figurativa del castigo di Prometeo. Essa è inserita all’interno del mito della liberazione da parte di Eracle nella produzione a figure nere. La produzione a figure rosse comincia a spostare l’interesse su Prometeo, ma, tranne un unicum (cratere del Pittore di Konnakis), il Titano è inserito comunque in una scena con più personaggi. Nonostante questa precisazione Prometeo acquista dignità di protagonista all’interno della scena figurativa caratterizzandosi con abiti panneggiati e mantelli svolazzanti, assumendo una posizione diversa rispetto ai vasi più antichi, in piedi e con le braccia aperte contro una postura seduta e con le spalle rivolte a una mezza colonna. A partire dalla metà del V secolo a.C. le scene sono inserite in un contesto geografico con una connotazione più precisa: il luogo non-luogo di Esiodo si sposta su un piano più realistico reso con linee del suolo, puntini e attraverso l’arco di roccia.

L’evoluzione iconografica tra un prima e un dopo è evidente e il cortocircuito iconografico potrebbe essere rintracciato nelle variegate forme teatrali (tragedia e dramma satiresco) che si realizzano a partire dal secondo ventennio del V secolo a.C. Il cambio iconografico di Prometeo corre parallelo alle varianti letterarie della sua vicenda mitica nelle quali si osserva una ridefinizione della collocazione geografica del luogo del supplizio nel Caucaso e della sua durata temporale rispetto alle indicazioni della Teogonia di Esiodo. Tali varianti letterarie, probabilmente da ascriversi al genio drammaturgico di Eschilo, sono determinanti per la storia letteraria futura di Prometeo: le sue invenzioni diventano topos letterario. Una messa in scena così spettacolare, nonostante i pareri ancora discordanti degli studiosi e la difficoltà di stabilire una diretta interdipendenza, ha cambiato in modo irreversibile il modo di raffigurare il Titano, creando nuovi spunti e nuovi schemi compositivi, come ben esemplificato nelle iconografie vascolari esaminate. Prometeo non ritornerà mai più nella sua posizione seduta della fase arcaica ma assumerà prevalentemente una posizione stante, con le braccia aperte a croce e i piedi leggermente sovrapposti, inchiodato davanti o su un elemento roccioso. La possibilità che il ‘cortocircuito’ iconografico sia stato determinato anche dal teatro è corroborata proprio dalla fortuna che il testo Prometeo incatenato ha ricevuto nella tradizione manoscritta, la quale ha preservato per intero il testo rispetto alle altre opere incentrate sul mito prometeico.

Eschilo, ancora una volta, si conferma come un possibile riformatore del materiale mitico e poetico precedente, capace di apportare innovazioni importanti che segneranno un prima e un dopo della grande stagione del teatro attico, non più soltanto sul piano letterario, ma anche su quello visivo e iconografico.

Note sulle fonti

Riprendono la citazione della Scizia/monte Caucaso, Sofocle nelle Colchidi, così come ci informa l’argomento del Prometeo incatenato; Apollonio Rodio, nel secondo libro delle Argonautiche (vv. 1246-1259); Varrone, nelle Satire Menippee (Prometheus liber); Cicerone, nelle Tusculanarum Disputationum (II, 10); Properzio, Elegiarum libri IV (II, 1, 69-70); Plinio il Vecchio, Naturalis Historia (XXXVII, 1, 2); Valerio Flacco, Argonautica, (V, vv. 154-176; VII; vv. 355-370); Igino (De astronomia, 2, 15 e Fabulae 44 e 144) e Apollodoro (Bibliotheca I, 7, 1 e II, 5, 11).

Prometeo sulla rupe del Caucaso è il protagonista di due dialoghi di Luciano (Dialoghi degli dei, 1.2, Prometeo e Zeus e nel Prometeo, o il Caucaso) il quale afferma di seguire la versione di Esiodo (Luc. Prom. μέμνημαι γὰρ Ἡσιόδου νὴ Δί᾽οὕτως εἰπόντος; Settembrini 1862) ma in realtà persegue la variante introdotta da Eschilo. E ancora Pausania (V, 11, 5-6); Lattanzio, Divinae Institutiones (II, 9) e Servio, nei Commentarii in Vergilii Bucolica (6, 42).

Si propone qui di seguito un excursus sulla relazione tra iconografia vascolare, tradizione testuale e teatrale.

La storia degli studi sul rapporto tra immagine/testo è brillantemente percorsa da Ludovico Rebaudo; nella stesura di questa appendice molto si deve alla sua eleborazione del tema (Rebaudo 2015b, 56-75). L’idea che una pittura vascolare potesse essere stata influenzata da un testo teatrale è già presente in alcuni testi antiquari del XVII secolo. Il primo studioso che pone la questione in chiave moderna è Carl Robert il quale, nel discorso più generale dell’’immaginario popolare’, ritiene che sia la tragedia il genere letterario che riesce in maniera più proficua a creare un bacino da cui reperire nuovo materiale mitico da raffigurare (Robert 1881). Julius Vogel in un volume dedicato alle tragedie euripidee si pone il problema del momento in cui nasce il vaso a tema teatrale, se immediatamente a seguito della messa in scena dell’opera o dopo un certo periodo di tempo (Vogel 1866, 11 e 17-27). John H. Huddilston nel 1898 pubblica due saggi (Huddilston 1898a; Huddilston 1898b) dedicati ai tragici e al rapporto tra la drammaturgia e le arti figurative, nei quali riferisce che le immagini vascolari non possono mai costituire delle riproduzioni di determinate scene teatrali, perché in esse interviene sempre l’estro dell’artista (Huddilston 1898a, 40). Nel 1926, Louis Séchan pubblica un volume nel quale cerca di ristabilire le trame di alcuni drammi perduti e per la loro ricostruzione lo studioso chiama in aiuto, oltre ai frammenti testuali, anche le scene vascolari, che ritiene ‘influenzate’ dal teatro attico: in questi casi il maestro artigiano avrebbe realizzato le immagini ‘illustrando’ le messe in scena teatrali (Séchan 1926). Tentativi di ricostruzione di trilogie perdute con l’ausilio delle testimonianze vascolari sono da rintracciarsi in Helmut Kenner (Achilleide: Kenner 1941, 1-24) e in Thalia Howe (tetralogia su Perseo: Howe 1953, 269-275). Anche Sir Arthur Pickard Cambridge nel 1946 definisce il testo una possibile fonte delle immagini vascolari anche se adeguata al filtro della convenzione pittorica (Pickard Cambridge 1946, 122-133). Thomas B. L. Webster, un filologo appassionato di ceramica greca e degli studi che stava portando avanti John D. Beazley (Beazley 1922, 70-98), pubblica una serie di repertori dedicati alle raffigurazioni vascolari connesse al mondo del teatro, primo esempio di catalogo sistematico di vasi a carattere teatrale (Webster 1960; Webster 1961; Webster 1962; Webster 1967; Webster 1969a; Webster 1969b; Webster, Green 1978). In quanto filologo, Webster ha accostato le immagini al testo per spiegare alcune raffigurazioni di difficile interpretazione. Nel 1971 Thomas B. L. Webster e Arthur D. Trendall danno alle stampe un volume in cui i materiali studiati sono organizzati secondo tematiche e corredati da un apparato fotografico: è evidente la relazione tra testo e sua illustrazione vascolare (Trendall, Webster 1971). Gli studi sull’argomento si moltiplicano con i lavori di Margot Schmidt, Arthur D. Trendall e Alexander Cambitoglou sui vasi apuli di Basilea (Schmidt, Trendall, Cambitoglou 1976), gli studi condotti da Eva C. Keuls su Niobe e le Danaidi eschilee (Keuls 1974; Keuls 1978a, 41-68; Keuls 1978b, 83-91) e l’unica monografia su un singolo poeta tragico rappresentato sulla ceramica magnogreca di Anneliese Kossatz-Deissman (Kossatz-Deissman 1978). Jean-Marc Moret (Moret 1975, 227-272), ritiene che poeti e pittori condividano alcuni aspetti comuni: la fretta di dover produrre in breve tempo (i drammaturghi per le scadenze imposte dalla partecipazione agli agoni teatrali e gli artigiani per produrre quanta più merce possibile) e l’utilizzo di tecniche di tipo formulare come atti rituali o tipicizzati (la supplica, l’assassinio rituale, l’aggressione) o azioni tratte dalla vita quotidiana (sul punto v. Rebaudo 2015b, 65-66). Jocelyn Penny Small studiando i testi omerici e le immagini (Small 1972; Small 2003, 37-38) sostiene che queste non siano utilizzabili come testimonia philologica e che eventuali relazioni iconografiche testo/immagine sono plausibili solo se viste alla luce dei “meccanismi di produzione artigianale e alla regola della trasmissione delle immagini” (Rebaudo 2015b, 68). John R. Green, a partire dagli anni ’80 si dedica in diversi studi all’analisi delle rappresentazioni vascolari della commedia (Green 1982, 237-248; Green 1985a, 465-472; Green 1985b, 95-118; Green 1991, 49-56). Nel 1993, Oliver Taplin con il suo volume Comic Angels apre un nuovo fronte degli studi rivolto alla prospettiva dell’analisi filologica e drammaturgica del testo teatrale (Taplin 1993, 22-23, fig. 1.101 e 2.103). Lo studioso tedesco Luca Giuliani affronta la tematica dei vasi a tema teatrale cercando di trovare una soluzione di compromesso fra le posizioni assunte nel corso degli anni. Alla metà degli anni ‘90 pubblica uno studio dedicato alla scena dell’assassinio di Reso rappresentato su tre vasi di produzione apula (Giuliani 1996, 71-86; figg. 14-20). Già Trendall e Webster avevano individuato in questi vasi dei possibili richiami al testo della tragedia euripidea (Trendall, Webster 1971, 5 e 7). Il parere di Giuliani è orientato sul desiderio del pittore di rappresentare il mito di Reso e il fatto che le scene figurate ricordino da vicino episodi letterari lirici, epici o tragici deriva dalla stessa cultura greca fortemente permeata dalla poesia (Giuliani 1996, 85). In ambito italiano, nel 2002 e nel 2003, Luigi Todisco pubblica due contributi sul teatro e sulla ceramica a soggetto tragico in Magna Grecia e Sicilia, che ricalcando le opere precedenti, forniscono ulteriori elenchi di vasi aggiornati, con una dettagliata bibliografia e un’analisi dei contesti di ritrovamento (Todisco 2002; Todisco 2003). Nel 2007, Oliver Taplin rilancia l’argomento con un volume in cui lo studioso ipotizza alla luce delle numerose ceramiche magnogreche rinvenute una possibile rifioritura della tragedia attica mediante la circolazione di compagnie itineranti nell’Italia meridionale durante il IV sec. a.C. (Taplin 2007, 8). Fermo restando che i pittori “are paintings of a myth, not paintings of a play” non si può escludere che vi siano relazioni e rapporti tra il teatro tragico e le immagini (Taplin 2007, 28). Inoltre, l’autore individua nelle scene figurate alcuni ‘segnali’ che seppur in maniera non esplicita, connettevano le immagini al mondo teatrale tragico e consentivano una lettura facilitata al fruitore del vaso: “the narratives”, “an index of signals” e “two extradramatic signals” (Taplin 2007, 35-43). Taplin elenca le seguenti presenze ricorrenti: il costume; i kothurnoi; i portici; l’arco di roccia; le figure anonime; il vecchietto (Pedagogo); le Furie e altre personificazioni; le scene di supplica. La terza categoria proposta (segnali extradrammatici) riguarda dettagli contestualizzabili nelle produzioni apule: iscrizioni con nomi di personaggi in dialetto attico e la raffigurazione di tripodi (Taplin 2007, 41-43). Il lavoro di Taplin apre di fatto una nuova stagione di studi in cui si creano gruppi di ricerca che vedono affiancati filologi e studiosi del dramma antico accanto agli archeologi. In risposta ad alcuni quesiti lasciati irrisolti dal metodo proposto nel 2007, prende avvio il Seminario itinerante Pots&Plays, che vede tra i suoi protagonisti lo stesso studioso di Oxford e un gruppo di filologi e archeologi italiani. Il Seminario Pots&Plays, promosso dal Centro studi classicA dello Iuav di Venezia, in proficuo dialogo con studiosi appartenenti a diversi settori disciplinari (dalla filologia, all’archeologia, dalla letteratura ai visual studies) con il suo gruppo di ricerca produce nel 2015 il volume Scene dal mito, che avvia un approccio innovativo allo studio del teatro greco, sia dal punto di vista testuale che iconografico e iconologico (Bordignon 2015). Il filone di studi Pots&Plays inoltre ha prodotto la pubblicazione nel 2021, del numero monografico 183 de “La Rivista di Engramma” (luglio/agosto 2021), co-curato da Monica Centanni e Maurizio Harari e dedicato a Giuseppe Pucci (Centanni, Harari 2021). Ritorna sul rapporto tra le immagini e la testualità il recente volume di Francesca Ghedini (Ghedini 2022) con ampia bibliografia e storia degli studi.


Galleria iconografica, indicazioni cronologiche e bibliografiche

1 | Cratere skyphoide su alto piede. Atene, National Museum (n. inv. 16384). 610 a.C. Proveniente da Vari in Attica. Attribuito al Pittore di Nessos o al Pittore della Chimera. Bibliografia: Beazley 1956, 4 e 6; Papaspyridi-Karouzou 1963, 11-14, 103-106, pls. 21-22; Beazley 1971, 3.13; Brommer 1972, 86, fig. 42; Boardman 1974, fig. 6; Bianchi Bandinelli, Paribeni 1976, n. 136 (A); Tölle-Kastenbein 1980, 145, fig. 43; Beazley 1986, 131, pl. 13.2-3; Schefold, Jung 1988, 49, fig. 23; Carpenter, Mannack, Mendonca 1989, 1, 4; Gisler 1994, 539-540, n. 57; Hurwit 1998, 97, fig. 69; Batino 2002, 459, fig. 4; Charbonneaux, Martin, Villard 2003, 50-51, fig. 54; Alexandridou 2009, 503, fig. 4; Viccei 2012-2013, 221 anticipa la datazione del Pittore di Nessos al 620-600 a.C.

2 | Cratere protoattico. Luzern, Galerie Fischer, ex Erbach. 610-600 a.C. Proveniente dal Falero. Attribuito al Pittore di Nessos. Bibliografia: Benndorf 1868, 105-106; Terzaghi 1905, 203, fig. 6; Kübler 1950, 25, pl. 78; Beazley 1971, 6.3; Gisler 1994, 540, n. 58; Viccei 2012-2013, 221 anticipa la datazione del Pittore di Nessos al 620-600 a.C.

3 | Neck anfora tirrenica. Museo Archeologico Etrusco di Firenze (n. inv. 76359). 575-550 a.C. Proveniente da Corneto-Tarquinia. Attribuita al Pittore di Prometheus. Bibliografia: Terzaghi 1905, 203, tav. 2; Beazley, Magi 1939, 25; Bothmer 1944, 165 e 168; Beazley 1956, 94 ss. e 97.28.; Beazley 1971, 37; Scheibler 1983, 175, fig. 152; Carpenter, Mannack, Mendonca 1989, 26; Gisler 1994, 541, 67; Kluiver 1995, 59, no. 2; Kreuzer 2005, 196, fig. 16; Viccei 2012-2013, 221 posticipa la datazione del vaso al 560-550 a.C.

4 | Anfora tirrenica. Collezione Vidoni, perduta. 575-550 a.C. Appartenente al Tyrrhenian Group. Bibliografia: Jahn 1858, coll. 165-170, taf. CXIV, 2; Thiersch 1899, 134-141; Terzaghi 1905, 204, E, fig. 8; Beazley 1956, 97.30; Carpenter, Mannack, Mendonca 1989, 26; Gisler 1994, p. 541, n. 68.

5 | Anfora tirrenica. Badisches Landesmuseum, Karlsruhe (n. inv. B2591). 575-550 a.C. Proveniente da La Tolfa (Roma). Attribuita al Tyrrhenian Group. Bibliografia: Thiersch 1899, 156, n. 23; Terzaghi 1905, 204 e ss.; Hafner 1951, 13-15, pl. 303, 304; Beazley 1956, 97.29; Carpenter, Mannack, Mendonca 1989, 26; Kluiver 1993, 179-194; Naso 1993, 105, fig. 27; Gisler 1994, 541-542, n. 69; Viccei 2012-2013, 221.

6 | Coppa laconica. Museo Gregoriano Etrusco, Roma (n. inv. 16592). 556-550 a.C. Proveniente da Cerveteri. Attribuita al Pittore di Arkesilas II. Bibliografia: Terzaghi 1905, 201, fig. 3; Albizzati 1924, 140, pl. 17; Lane 1933, 140, 165; Pelagatti 1958, 490-491, fig. 8; Pisi 1990, 10-12; Gisler 1994, 539 n. 54 con bibliografia precedente; Charbonneaux, Martin, Villard 2003, 80, fig. 85; Viccei 2012-2013, 220, fig. 1.

7 | Cratere a colonnette. Berlino, Antikensammlung (n. inv. F1722). 560-550 a.C. Proveniente da Chiusi. Attribuito al Tyrrhenian Group. Bibliografia: Terzaghi 1905, 204; Bothmer 1944, 161-170; Beazley 1956, 104.124; Beazley 1971, 39; Carpenter, Mannack, Mendonca 1989, 26; Gisler 1994, 542, n. 70; Viccei 2012-2013, 221.

8 | Coppa attica. Collezione privata. 500 a.C. o al più tardi al 490-480 a.C. Provenienza sconosciuta e di attribuzione incerta. Bibliografia: Schauenburg 1970, 36, pl. 18.2; Gisler 1994, 542, n. 71.

9 | Frammento di cratere attico. Ashmolean Museum, Oxford (n. inv. G725). Metà del V secolo a.C. Proveniente da Naucrati e non attribuito. Bibliografia: Beazley, Payne, Price 1931, 123, pl. 67.1.

10 | Frammenti di cratere a campana attico. Gordion Museum, Turkey (nn. inv. P4714-16). 370-360 a.C. Non attribuito. Bibliografia: DeVries 1993, 520-521; DeVries 1997, 453, fig. 12; Roscino 2003, 97; Viccei 2012-2013, 245-246.

11 | Cratere a campana apulo nello stile di Gnathia. Paul Getty Museum, Malibu (n. inv. 82AE.15). 360-350 a.C. Provenienza incerta. Attribuito al Pittore di Konnakis. Bibliografia: Green 1986, 137-138; Gisler 1994, 549, n. 24; Viccei 2012-2013, 247, fig. 13; Tedeschi 2017, 117-118.

12 | Cratere a calice apulo. Staatliche Museen, Berlin (n. inv. 1969.9). 350-340 a.C. Proveniente forse da Sibari. Attribuito al Pittore di Branca. Bibliografia: Trendall, Webster 1971, 61, n. III.1, 27; Moret 1975, 184-186, n. 119, pl. 95.2; Kossatz-Deissmann 1978, 136-1412, ur. K45, tavv. 26.1, 27.1; Trendall 1989, 87-88; DeVries 1993, 517-523; Taplin 1993, 25 e ss.; Gisler 1994, 542, n. 72; Roscino 2003, 95-98; Todisco 2003, 447; Taplin 2007, 80-82; Viccei 2012-2013, 248-249; Seminario Pots&Plays 2015, 35, fig. 2; Taplin 2015, 19, fig. 7.

13 | Oinochoe apula. University Art Museum, Princeton (n. inv. 1989.30). 340-330 a.C. Provenienza sconosciuta. Attribuita al Pittore di Ascoli Satriano. Bibliografia: Gisler 1994, 427, 72bis; Rossi 2012, 55-56; Viccei 2012-2013, 249-250.

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English abstract

The iconographic history of the myth of Prometheus is strongly connected with literary tradition. However, the ways of representing the myth seem to undergo a sudden interference phenomenon starting from the third quarter of the fifth century BC as compared to the previous figurative tradition, whose first attestations date to the end of the seventh century BC. From the examination of textual and vascular occurrences, it appears that Attic theatre once again plays a leading role.

keywords | Prometheus, Iconography, Theatre, Tragedy, Caucasus, Cliff, Column.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: C. Cataldo, Prometeo alla colonna o alla rupe? Possibili cortocircuiti iconografico-letterari, “La Rivista di Engramma” n. 195, settembre/ottobre 2022, pp. 12-51 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.195.0016