"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

193 | luglio 2022

97888948401

Venezia “maternamente oscura” ospita Anish Kapoor

La mostra “Anish Kapoor” alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Manfrin, 20 aprile / 9 ottobre 2022

Michela Maguolo

English abstract

1 | Anish Kapoor, Turning Water into Mirror Blood into Sky, 2003 e, sullo sfondo, Mount Moriah at the Gates of the Ghetto, 2022, corte interna di Palazzo Manfrin.

“Anish Kapoor”, senz’altri aggettivi si intitola la mostra che le Gallerie dell'Accademia di Venezia dedicano all’artista anglo-indiano. Nato nel 1954 a Mumbai, trasferito a Londra nel 1973 per studiare arte, premio Turner nel 1991 e Knight Bachelor dal 2013, è sicuramente uno dei più noti artisti al mondo. Una mostra di ampio respiro che raccoglie oltre sessanta opere suddivise in due sedi diverse: gli spazi riservati alle esposizioni temporanee delle Gallerie, nella parte inferiore dell’antica chiesa della Carità, e palazzo Manfrin, la grande dimora cinque-settecentesca a Cannaregio recentemente acquistata da Kapoor. Ne è curatore Taco Dibbits, direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, che nel museo olandese è stato l’ideatore nel 2015 della mostra “Anish Kapoor and Rembrandt”. Pur comprendendo un cospicuo numero di opere che hanno un posto ormai consolidato nel repertorio di Kapoor (l’insieme di tre cumuli di pigmenti colorati che compongono As if to Celebrate I Discovered a Mountain Blooming with Red Flowers, 1981, o il rettangolo in pigmento blu scuro con al centro una profonda cavità circolare intitolato My Body Your Body), la mostra non si configura come una convenzionale retrospettiva. Perché vi sono pezzi recentissimi, quasi dei work in progress – un gruppo di tele con cui Kapoor esplora il mondo del figurativo – opere inedite – i Non-objects in Vantablack, il materiale di cui Kapoor si è assicurato l’esclusiva in campo artistico provocando non poche turbolenze nel mondo dell’arte, ma anche Split in Two Like a Fish for Drying, grande struttura concava e inclinata in acciaio e cera – infine alcune opere realizzate appositamente per le due sedi – Pregnant white within me alle Gallerie, versione amplificata di When I am pregnant (1992) e Mount Moriah at the Gates of the Ghetto, nell’androne di palazzo Manfrin. E perché, e forse questo è ciò che più caratterizza la mostra e riflette la poetica di Kapoor, le opere non sono disposte lungo un percorso cronologico che ne tracci uno sviluppo, come è proprio della retrospettiva, ma sembrano collocarsi all’interno di una conversazione aperta che rimette in gioco temi e significati, crea inedite relazioni, pone in luce nuovi aspetti delle ricerche che Kapoor porta avanti da quasi cinquant’anni, così che la dimensione cronologica lascia necessariamente il passo alla intemporalità di una esplorazione di materie, forme e colori, continuamente rinnovata in virtù di contesti spazio-temporali specifici. Spazi e luoghi accendono, innescano nuovi nessi di significato, aprono a nuove interpretazioni, spingono lo stesso artista a interrogarsi daccapo su quanto realizzato, sui percorsi seguiti e a riandare su di essi per metterli ulteriormente a punto, sperimentarne nuove soluzioni, porre nuove domande.

Gallerie dell’Accademia. Oscillazioni e risonanze

Nelle sale dell’Accademia, ricavate nella ex-chiesa da Giannantonio Selva che all’inizio dell’ottocento suddivise l’aula sia verticalmente che orizzontalmente, asportando ogni traccia della funzione religiosa originaria, il dialogo si instaura soprattutto tra le opere, dal momento che alti pannelli dipinti di bianco isolano lo spazio espositivo e lo uniformano ulteriormente, cancellando anche la sagoma poligonale dell’antica abside. Nella prima sala, le grandi tele dove i colori, tra i quali predomina il rosso cupo, sono stesi in strati spessi e grumosi, a evocare cavità organiche, carni esposte, eruzioni di materia, si pongono in continuità con gli ammassi di materia informe, quasi visceri sanguinolenti, di The Unremembered (2020), esito delle esplorazioni al di là della liscia superficie esterna dei corpi, di cui lo smisurato Marsyas alla Tate Modern (2003) era preludio: la pelle tesa e uniforme copre e nasconde una complessità multiforme, anche informe ma che è lo stesso corpo. In più occasioni Kapoor ha indicato nella Punizione di Marsia di Tiziano (c. 1570) una delle opere più ispiratrici del suo lavoro: il corpo del satiro non è ancora stato scorticato, ma l’intero dipinto, dalla posa delle figure, ai colori e al tratto del pennello, parla di una interiorità che viene portata all’esterno.

2 | Anish Kapoor, The Unremembered, 2020, Gallerie dell’Accademia.

Nella sala successiva, la più vasta, dominata da quattro colonne provenienti dal cinquecentesco monumento di Nicolò da Ponte, che era presente nella chiesa, e riutilizzate per sostenere il nuovo solaio, i due percorsi paralleli che caratterizzano l’opera di Kapoor – l’indagine sulla percezione delle forme e degli spazi e l’ossessione per la materia organica, per la carne che palpita ed erompe con violenza – si trovano a confronto. Da un lato, Pregnant white within me, la bianca protuberanza che fuoriesce dalla parete e si protende nello spazio e di cui si ha una diversa percezione muovendosi intorno ad essa: un grande rigonfiamento del muro, se visto di lato, che diventa appena un’ombra scura, quando ci si pone di fronte. Dall’altro, Shooting in the Corner, sorta di action painting dove all’artista è sostituito un meccanismo a orologeria, con il cannone direzionato verso una piccola stanza in cui si accumulano, sulle pareti come sul pavimento e il soffitto, le pallottole di cera, lasciando tracce rosse, come schizzi di sangue e materia organica lungo il percorso.

Tra le due opere, su una terza parete, il rettangolo blu scuro di My Body Your Body, con la concavità al centro percepibile solo se si osserva l’opera spostandosi nello spazio, finché si registra il diverso assorbimento della luce da parte della superficie pigmentata. Basta spostarsi di poco e il foro scompare, la superficie si richiude. Lo spazio dunque si ritrae e si espande con movimenti precisi, nitidi, regolari, o si dilata disordinatamente, con violenza e muta il suo aspetto con i colpi del cannone, che ogni venti minuti scompiglia il precario equilibrio che si è venuto a creare tra le opere, e tra queste e l’ambiente e lo spettatore, rimette in discussione la percezione delle cose. Presenza e assenza, impalpabili pigmenti e corporeità, geometrie pure e materia informe, ordine e caos si fronteggiano in questa sala, senza tentare di perseguire una sintesi che non solo è impossibile ma precluderebbe il fare artistico.

3 | Anish Kapoor, Pregnant White Within Me, 2022.
4 | Anish Kapoor, Shooting in the Corner, 2008-2009.

In questo gioco di oscillazioni potenti, la sala che segue è complementare alla prima. Alle pareti, dischi, rettangoli, prismi neri, i cui titoli – Black Absence (2021), Dimensional Void (2021), Vertical Abyss (2022), Not the Thing Itself (but Lessons About It) (2022) – annunciano il tema che qui trova la sua massima esplicazione: indagare la fisicità e la concettualità della cosa e andare oltre, verso la negazione dell’oggetto. Teche in cristallo su basi parallelepipede bianche sono ordinatamente disposte al centro della stanza, ognuna a custodire un non-oggetto. Forme tridimensionali le più diverse che sono ricostruibili solo giustapponendo mentalmente la sequenza di immagini bidimensionali che si ricavano muovendosi intorno a esse. Oggetti in sé o che esistono come nostre interpretazioni, attraverso la nostra esperienza e interagendo con essi? Una ricerca che ha impegnato Kapoor per decenni, ma che ha radici più lontane e risale almeno a Kazimir Malevič e ai suoi quadrati neri o bianchi. Kapoor ha voluto spingere questa indagine nella terza dimensione, prima con i pigmenti blu alle pareti e a pavimento e le forme bianche sui muri bianchi, ora con il Vantablack, il ritrovato nanotecnologico, messo a punto nel 2014 che assorbe il 99,96% della luce, rendendo l’oggetto che ricopre, invisibile. Annullata la valenza fenomenica dell’oggetto, resta il nostro rapporto con esso. A questa conclusione arrivano sia un fisico teorico che un critico d’arte. Carlo Rovelli, in Outside our Sleepwalking, breve contributo al volume che accompagna la mostra (Anish Kapoor, Venezia 2022) ricorda che “what I see is not the object in itself […] A shape, a texture is something that our brain interprets, connects. Something that resonates. Everything we see resonates”, e Taco Dibbits nella sua Prefazione allo stesso volume afferma che si tratta di “[o]pere che eviscerano l’oggetto della sua oggettività e nonostante la natura misteriosa e magica, emanano, nella totale nerezza, una presenza/ assenza struggente che va oltre la mera superficie. Ci troviamo di fronte alla perdita dell’oggetto, assorbito dalla sua stessa materialità”.

Il Vantablack non è colore, ma un materiale, composto da nanotubi di carbonio disposti verticalmente, studiato per assorbire la maggior quantità possibile di radiazioni elettromagnetiche, comprese quelle dello spettro del visibile. Le sue applicazioni, ormai superate da un altro materiale ancora più nero, 99,99%, vanno dagli impianti per la produzione di energia solare ai conduttori termici. Ma l’assorbimento delle radiazioni luminose rende le superfici completamente mute, ne appiattisce visivamente la sagoma, ne fa sparire la forma nelle tre dimensioni. Un non-colore per dei non-oggetti. Kapoor ha ottenuto nel 2016 l’uso esclusivo di questo materiale in ambito artistico, con strascichi polemici che si sono placati solo di recente. E i Non-Object Black realizzati a partire dal 2015 con il Vantablack sono esposti al pubblico per la prima volta a Venezia. Uno accanto all’altro, in una stanza in bianco e nero, compreso il pavimento, si prestano a essere osservati in sé, nel loro essere oggetti la cui forma è visivamente negata. Invece, quando uno di essi si ritrova nella prima sala della collezione delle Gallerie, le molteplici questioni sottese emergono con forza. Nell’antica sala capitolare della scuola grande della Carità, diventata sala espositiva delle Gallerie dell’Accademia, con il soffitto in legno intarsiato e dorato risalente al sesto e all’ottavo decennio del quattrocento, il pavimento settecentesco in marmi policromi e soprattutto le tavole e i polittici tre-quattrocenteschi, quell’unico parallelepipedo bianco e trasparente ha l’effetto del monolite nella stanza in stile Impero dove un vecchissimo David sta morendo in 2001 Odissea nello spazio: senza legami con il tempo, lo spazio, la natura, è e basta, pura presenza che si impone e determina il ripensamento di ogni certezza, di ogni rapporto. Il tempo storico di quell’ambiente, il tempo assoluto dei santi raffigurati nelle tavole di Paolo o Lorenzo si confrontano con il senza-tempo del non-oggetto; l’oro sfolgorante, pura luce che riempie lo spazio delle tavole, rende più potente il vuoto prodotto dall’afasia dei nanotubi.

5 | Anish Kapoor, Non-Object Black, 2020.

Palazzo Manfrin. Mostrare e far sparire

Il dialogo con l’intorno come strumento per verificare il percorso di ricerca e di creazione assume una valenza particolare nella seconda sede della mostra, palazzo Manfrin. Qui, infatti, il confronto diretto con il contesto non è episodico e circoscritto, ma onnipresente. Il palazzo, affacciato sul canale di Cannaregio, ha una lunga storia fatta di progressivi ampliamenti, profondi riordini, preziose decorazioni, ma anche di manomissioni, obliterazioni, abbandono. Dimora dei Priuli per circa tre secoli, durante i quali un piccolo nucleo trecentesco viene ingrandito con l’acquisizione di botteghe, case d’affitto è riconfigurato, nella prima metà del settecento, in un grande palazzo da Andrea Tirali. Facciata interamente rivestita in pietra d’Istria, finestre di grandi dimensioni e un salone da ballo a doppia a altezza con ballatoio, tipologia al tempo inedita a Venezia, il palazzo resta disabitato per decenni prima di essere acquistato, nel 1788, dal ricchissimo imprenditore di origine dalmata Girolamo Manfrin, il quale ne fa, oltre che la propria residenza, una pinacoteca. Questa, dopo la precoce morte del fondatore, è arricchita e aperta al pubblico dal figlio e nonostante vendite e alienazioni da parte degli eredi, rimane in vita fino al 1897. Alcune delle opere che facevano parte della collezione, una delle mete principali per chi visitava Venezia, sono approdate alle Gallerie dell’Accademia: tra queste, La Tempesta e La Vecchia di Giorgione. Manfrin aveva anche voluto decorare gli interni del palazzo, affidandosi a Giuseppe Mengardi, Giuseppe Castelli e David Rossi. Al primo si deve il ciclo di affreschi di argomento mitologico che adornano il soffitto di alcune sale. Diventato, nel 1897, educandato feminile delle Dame del Sacro Cuore della Carità, subisce adattamenti come la trasformazione del salone da ballo in cappella, con tanto di statua della Madonna sulla controparete della facciata principale. Sarà poi acquistato dal Comune di Venezia, nel 1969, che lo destina a uffici. Manutenzioni frettolose, interventi di parziale adattamento e un incendio determinano un decadimento generale e in queste condizioni il palazzo viene acquistato da Anish Kapoor per ospitarvi la sede della sua Fondazione e avviare il Manfrin Project, centro polivalente di esposizione e sperimentazione artistica, e di confronto tra arte e scienza, arte e politica. In attesa della sua apertura e, prima, del completamento del restauro affidato a Giulia Foscari di UNA Studio e FWR Associati, la mostra mette in gioco gli spazi fatiscenti, facendoli interagire con le opere di Kapoor.

6 | Anish Kapoor, Destierro, 2017.
7 | Anish Kapoor, Mount Moriah at the Gates of the Ghetto, 2022.

Così, nell’androne del palazzo, da cui sono state rimosse le superfetazioni accumulatesi nel tempo, il Mount Moriah at the Gates of the Ghetto invade lo spazio con la sua massa piramidale rossa e nera rovesciata e sospesa, biblica montagna grondante sangue e carne di sacrifici avverati o fermati, come quello di Isacco che sul Moriah non fu portato a termine. Portata all’ingresso del Ghetto che è giusto di là del canale, è testimone di violenze da sempre perpetrate in nome di un dio, ma, rovesciata, diventa anche motivo di riflessione sul rapporto tra l’uomo e la natura. Accanto, in un ambiente allungato, con la struttura del solaio portata a vista e racchiuso da pannelli in trucioli pressati, tipici di un cantiere, le montagne di pigmento rosso di Destierro (2017) invadono lo spazio, evocando con una ruspa ricoperta di pigmento blu, il lavoro di scavo, di rimozione della superficie per portare alla luce ciò che sta dentro. Nella corte del palazzo, nel luogo in cui nelle case veneziane è collocato il pozzo, un grande contenitore cilindrico pieno di liquido rosso che a tratti ruota vorticosamente: Turning Water into Mirror Blood into Sky (2003), gioca sul doppio significato di to turn, ruotare e trasformare, e tiene insieme due degli elementi più presenti nella poetica di Kapoor, il sangue e lo specchio. Nel grande pozzo, l’acqua diventa uno specchio, il sangue diventa cielo, in un rovesciamento opposto a quello della montagna. Lo specchio, mai piano, ma concavo, convesso, ondulato, frammentato deforma tutto ciò che riflette fino a farlo scomparire. Risucchia le cose trasformandole in altro, modifica lo spazio e le persone. È quanto accade in una delle opere più note e popolari di Kapoor, Cloud Gate, il “fagiolo” in acciaio inossidabile lucido, realizzata nel 2004 per il Millennium Park di Chicago, diventata una delle attrazioni principali della città: specchiarsi non è vedere la propria immagine riflessa, ma diventare altro e scrutare i limiti tra essere e apparire, tra qui e oltre, tra superficie e profondità. Accade così nel cortile delle Gallerie dell’Accademia, dove Sky Mirror, uno specchio parabolico, porta il cielo fra i lati del cortile, mescolandosi con gli edifici, che a loro volta vengono portati verso il cielo. A Palazzo Manfrin, alcune stanze al primo piano dove la mostra prosegue, ospitano specchi con effetti deformanti diversi. Dischi circolari concavi (Untitled, 2021) che ribaltano sottosopra il visitatore, grandi pannelli ondulati (Vertigo, 2008) che ingrandiscono e rimpiccioliscono, dilatando o contraendo oggetti, persone e spazi. Raffinati e delicati stucchi neoclassici insieme a intonaci cadenti, vecchie prese elettriche, finestre, cornici, tutto viene indifferentemente catturato, deformato, moltiplicato per poi sparire. E nella stanza accanto, in virtù del gioco di oscillazioni tra poli opposti, un gruppo di ben allineati Non-Object Black, riconduce a quest’altra modalità dell’essere e dello scomparire, perentoria e assoluta.

8 | Anish Kapoor, Vertigo, 2008.
9 | Anish Kapoor, Non-Object Black, 2015-2019.

Una ulteriore serie di stanze indaga invece il tema della cavità, dell’interno, di ciò che sta sotto la superficie levigata, che lo stesso palazzo ben esprime, con le superfetazioni e gli elementi incongrui asportati, gli intonaci raschiati per riportare alla luce lacerti di pitture antiche, controsoffitti levati per restituire travature alla sansovina: le molteplici, multiformi e complesse tracce che continuano a vivere sotto l’uniforme superficie e che l’intervento di recupero preserverà in questa forma. Come nelle Gallerie, le grandi tele alle pareti proseguono e amplificano il discorso delle sculture poste al centro degli ambienti: immagini di orifizi da cui fuoriescono zampillando fluidi rosso scuro, visceri nerastri ammucchiati sopra sostegni in acciaio da cui colano e ricadono. Dipinti di spaccature nere che lacerano in profondità corpi color porpora, accanto a parallelepipedi di acciaio a specchio scavati al centro (Non-Object (Oval), 2022), una grande vulva nera e lucida, ispirata alla dea Lajja Gauri (Hidden Mirror/ Shulamite and Lajja Gauri, 2022). Infine, l’enorme Split in Two Like a Fish for Drying – 5 metri di lunghezza e 4 di altezza – che occupa un’intera stanza, lasciando appena lo spazio per il visitatore di muoversi attorno a essa, una nitida fessura ai cui lati giacciono grumi di materia.

10 | Anish Kapoor, Split in Two Like a Fish for Drying, 2022.
11 | Anish Kapoor, Symphony for a Beloved Sun, 2013. 

L’opera più spettacolare esposta a Palazzo Manfrin è Symphony for a Beloved Sun, realizzata per la prima volta per la Martin-Gropius-Bau di Berlino nel 2013 e qui adattata alle dimensioni del salone da ballo. Due nastri trasportatori disposti in direzioni opposte portano verso l’alto dei blocchi di cera rossa i quali, giunti in cima, cadono sul pavimento e qui, ridotti in pezzi o deformati, si accumulano. Il ronzio del nastro che lentissimamente scorre e il tonfo sordo dei blocchi compongono la sinfonia per l’amato sole, un grande disco rosso che sovrasta l’installazione: un sole freddo, piatto, immobile, indifferente. L’opera pare sia ispirata alla performance futurista Pobeda nad Solncem (Vittoria sul Sole, 1913), di cui Malevič, uno degli artisti che Kapoor ha più spesso interrogato, disegnò la scenografia e i costumi, dove il Sole, fonte di passioni, di sentimentale dipendenza dell’uomo dalla natura viene catturato, coperto, inscatolato, per il trionfo della ragione e la libertà degli uomini. Un curioso e probabilmente non casuale cortocircuito lega l’opera futurista e quella di Kapoor al salone, il cui soffitto ha al centro l’affresco di Giuseppe Mengardi, La caduta di Fetonte, dove il giovane figlio di Apollo e della oceanina Climene, dopo aver chiesto al padre il carro del Sole per un solo giorno, ne perde il controllo e precipita verso la Terra.

12 | Anish Kapoor, Symphony for a Beloved Sun, 2013. 

Per concludere, Venezia

Anish Kapoor ha scelto, come sede della sua Fondazione, Venezia, città da lui amata per il suo lato “maternamente oscuro”, spiega in un’intervista, per le acque che appaiono come un liquido amniotico da cui nasce la vita. Anche esporre a Venezia, dice, trasforma le opere e il loro significato: città-ponte tra Oriente e Occidente, città del colore, città misteriosa dove gli edifici sembrano nascere dall’acqua e il punto in cui emergono appare come il luogo in cui tutto ha inizio e finisce. Città viscontianamente di bellezza e morte. A cui si contrappone la città che ha voluto essere del moderno e del contemporaneo, e ora si proietta verso il futuro; che ha dato fama internazionale al trentaseienne Kapoor, assegnandogli il primo importante riconoscimento al suo lavoro, il premio Duemila per giovani artisti alla Biennale del 1990, quando la Gran Bretagna gli affidò l’intero padiglione. La Venezia di Kapoor sembra contenere le polarità che strutturano la sua poetica: superficie e profondità, interno ed esterno, sotto e sopra, colore e non-colore, chiuso e aperto, vuoto e pieno, pelle e carne, chiarezza e oscurità, visibile e invisibile, presenza e assenza, natura e artificio.

English abstract

“Anish Kapoor” is a two-part exhibition on display from 20 April to 9 October 2022 in two different venues of Venice, the Gallerie dell’Accademia and the Palazzo Manfrin. The first is one of the largest collections of Venetian painting in the world; the second, a fifteenth to eighteenth century palace, will be the seat of the Kapoor Foundation. The exhibition includes more than sixty works by the British artist, including Non-Objects Black on show for the first time and new works like the site-specific Mount Moriah at the Gates of the Ghetto. The exhibition presents the parallel paths that characterise Kapoor’s work: the exploration of objects and forms and the way they are perceived, and the need to go beyond the appearance of things to bring to light their much more complex interior.

keywords | Anish Kapoor; Venice; Gallerie dell’Accademia; Palazzo Manfrin.

Per citare questo articolo: Michela Maguolo, Venezia “maternamente oscura” ospita Anish Kapoor. La mostra “Anish Kapoor” alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Manfrin, 20 aprile / 9 ottobre 2022, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 187-198 | PDF di questo articolo
To cite this article: Michela Maguolo, Venezia “maternamente oscura” ospita Anish Kapoor. La mostra “Anish Kapoor” alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Manfrin, 20 aprile / 9 ottobre 2022, “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 187-198 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.193.0009