"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

193 | luglio 2022

97888948401

An Archaeology of Silence

Sulla mostra di Kehinde Wiley (Venezia 2022)

Asia Benedetti

English abstract

1 | Kehinde Wiley, The Virgin Martyr Cecilia, 2022; sullo sfondo, Young Tarentine II (Ndeye Fatou Mbaye), 2022, sala espositiva della Fondazione Giorgio Cini.

La mostra Kehinde Wiley - An Archaeology of Silence, curata da Christophe Leribault (Presidente del Musée D’Orsay e del Musée de l’Orangerie di Parigi), ospitata alla Fondazione Giorgio Cini in occasione della 59esima edizione della Biennale di Venezia si snoda attraverso una narrazione organizzata in una sequenza di dipinti a olio e sculture in bronzo. Il filo conduttore si coglie già dal primo contatto visivo che si ha entrando nell’atrio. Corpi in stato di semi-abbandono cosciente, corpi dormienti, corpi caduti nell’attimo prima di morire, corpi di martiri contemporanei che raccontano storie personali di soli eroi afroamericani. Il fil rouge che collega tutte le opere in mostra è il tema dell’eroe caduto, della figura di giovane in uno stato di abbandono tensivo, declinato in tutte le varianti legate a storie e leggende di santi, di martiri, di eroi classici e di personaggi mitologici. Il percorso prende genesi con una prima statua in riferimento a uno tra i più celebri tra gli eroi caduti della storia classica, il Galata morente.

Il percorso espositivo si snoda in una successione fluida di quattro ambienti eterogenei per dimensione; la tensione si carica già dalla prima sala, la più piccola, in un crescendo di pathos, fino a raggiungere l’apice nella quarta sala, la più monumentale in cui si staglia la scultura dell’imponente statua equestre in bronzo. Quello che si crea è un percorso profondamente emozionale attraverso sale buie, dalle pareti intonacate di colori scuri, in cui la dimensione spaziale viene quasi negata. Lo studio illuminotecnico è di una precisione matematica, le opere si impongono alla nostra presenza quasi con violenza, tagliate da netti contorni di luce emergono dall’oscurità, percepita a tratti come oppressiva, fastidiosa, minacciosa. Il passaggio dalla luce naturale esterna all’intenso buio degli interni risulta quasi violento e necessita di una preparazione sensoriale ed emozionale per aprirsi alla completa fruizione delle opere.

La prima sala, allungata e rettangolare, quasi come spazio introduttivo al Leitmotiv che fungerà da guida per tutte le opere in mostra, si apre con la figura del Galata morente e in essa trovano collocazione soltanto opere scultoree. Procedendo il contrasto è forte, sia per la dimensione della sale che per le opere in essa esposte; due statue monumentali sdraiate a terra fanno da contraltare a due altrettanto monumentali dipinti che ritraggono, anche in questo caso due figure adagiate al suolo, tali da creare un’interazione tra sembianti plastici diversi. La seconda sala, rispetto alla dimensione più intima e misteriosa della prima, ha un respiro monumentale nella rappresentazione teatrale delle opere esposte. La maestosità della sala viene contraddetta e resa opprimente dall’oscurità pesante e dal silenzio assordante che trasformano la visione della mostra in un’esperienza fortemente emotiva, potente, intensa, a tratti spirituale ed evocatrice di uno spazio mistico-religioso, quasi di una cripta. I corpi monumentali spiccano con prepotenza, accentuati dai forti contrasti di luce sulla superficie lucida del bronzo e dai colori espressionistici. La cui carica di aggressività delle imponenti opere è mitigata solo in parte dallo stato di semi-abbandono orizzontale, tra l’azione in potenza e la non azione, in cui versano i corpi. Figure in riposo o figure di eroi caduti, sospese in pose in cui non è chiaro se si tratti di uno stato di abbandono definitivo o in una forza latente e pietrificata. Dalla dimensione monumentale della seconda sala, attraverso una specie di corridoio allungato che funge da terza sala, si entra, con un effetto di sorpresa, dovuto all’angolazione del varco d’ingresso che non lascia intravedere la spazialità e le opere nella loro interezza, nell’ultima sala in cui la dimensione mistico-religiosa si trasforma in un inno alla vita, e alla morte, che trova la sua ultima espressione nella statua equestre che fa da contraltare alla dimensione di morte annunciata delle due statue posizionate nelle teche tombali. A ergersi sul cavallo non vi è il tradizionale eroe vittorioso, ma un corpo flesso, che si inarca sulla forma curva del corpo dell’animale e sotto la spinta del suo moto.

Kehinde Wiley (1977, Los Angeles) artista di origini nigeriane che vive e lavora tra Dakar e New York, nella sua pratica artistica rimane strettamente e profondamente connesso ai vissuti personali e alle rivendicazioni sociali di una precisa comunità che combatte quotidianamente per il riconoscimento della propria identità. Il lavoro intende inserirsi nel solco profondo della tradizione tracciato dai grandi artisti del passato, rifacendosi, con un’accuratezza filologica, alla composizione formale e a configurazioni iconografiche di opere d’arte selezionate sul tema del corpo abbandonato. Seleziona e rilegge le figure, nelle loro composizioni spaziali e nella loro gestualità, attinte da un repertorio di opere d’arte della tradizione storico-artistica occidentale, spaziando dall’antichità classica all’arte contemporanea; le ricontestualizza, ricodificando un nuovo linguaggio stilistico, dai toni vicini a quelli della cultura hip hop. Il riferimento iconografico alle torsioni dei corpi è attento e la resa formale dei dettagli puntuale, anche se trasporta spesso le forme dalla tecnica pittorica a quella scultorea, o viceversa, attuando un gesto di ‘rimediazione’, da un medium all’altro. In alcuni casi, nei dipinti a olio, l’artista mantiene tuttavia la stessa tecnica pittorica dell’‘originale’ e la stessa resa espressiva del sembiante plastico.

Il dialogo prende vita in una fitta rete di rimandi, intrecci, risonanze che attingono e fanno leva su una solida cultura visiva, che lo spettatore deve richiamare per poter fruire e poter comprendere nella sua completezza la ricerca dell’artista. La relazione tra antico e contemporaneo, il nesso con i vissuti personali, la memoria collettiva e le varie tradizioni danno vita a una stratigrafia di intrecci tematici, riferimenti storico-artistici, culturali, sociali, politici intessuti nella morfologia dell’immagine. Nelle forme cristallizzate in cui vengono intrappolati i corpi, confluiscono convenzioni espressive e tracce iconografiche giunte fino a noi e trasmesse nel tempo, con tutto il loro portato semantico, e cariche di un potenziale di nuovi significati. La memoria, collettiva e personale, e la tradizione visiva degli spettatori vengono chiamate in gioco, a rileggere, attraverso le proposte dell’artista, la storia passata alla luce del contemporaneo. Si crea un cortocircuito tra la tradizione consolidata e l’inestricabile percezione di questa nella memoria, tra tradizione della storia dell’arte e urgenze contemporanee.

Nell’intenzione dell’artista c’è la volontà di reinterpretare il gesto di artisti del passato, proponendo nuovi canoni di rappresentazione, colmando e compensando i vuoti semantici e i silenzi sulle ingiustizie perpetrate nella storia. La sua dichiarazione artistica è forte, rivede criticamente il passato, a partire da un terreno, ormai comunque storicizzato, di rivendicazioni dei diritti degli esclusi. Da questa coscienza storica, nonché da una necessità personale, spinge la pratica artistica a un gesto di completo straniamento e sostituzione di quelli che erano i soggetti del canone consolidato. In questa sua determinazione alla sovversione mantiene, comunque, l’utilizzo di tecniche artistiche canoniche e storicizzate, quali la pittura a olio e la scultura in bronzo con tecnica a cera persa, e l’utilizzo di grandi formati, talvolta monumentali, sintomi della determinazione a conferire alle opere e ai soggetti nuova dignità e a creare nuovi interstizi in cui possano trovare un loro spazio all’interno della riconosciuta tradizione artistica. L’artista decostruisce il sistema di valori che giustificava come legittima la presenza solo di alcuni soggetti e l’esclusione degli altri dalle raffigurazioni artistiche. Riflettendo a partire dalle assenze, colma con horror vacui ogni angolo di superficie pittorica, rifinisce in maniera cristallina i dettagli dell’epidermide, del cuoio capelluto, delle unghie e sovraccarica i fondi di motivi floreali decorativi e forme vegetali astratte. I nuovi soggetti sono colti sempre da soli, collocati in posizione centrale, i corpi sono vivi, i muscoli e le vene gonfie, la loro resa formale è di una bellezza urlante, quasi aggressiva, e di una perfezione accattivante. In alcuni casi è come se nel trasferire le figure classiche dal gelido marmo bianco al vivo colore materico del bronzo o ai contrasti netti delle brune pennellata iniziasse a risorgere nuova vita nei corpi. La sinuosità flessuosa e sensuale si contorce e si fissa nelle posizioni delle membra in un gioco di tensione tra la rigidezza materica, dei supporti pittorici e della durezza del bronzo, e l’intreccio decorativo dei vegetali fondali scenografici. La resa scenografica, evocativa di ricchi rimandi iconografici e iconologici a tradizioni antiche e contemporanee, la natura rigogliosa, sia utopica che distopica, sono tutti temi che ricordano in parte i lavori di David La Chapelle.

L’artista rende uno stato di permanente tensione che viene accentuato sia dal contrappunto tra la resa astratta-decorativa del fondo e l’iperrealismo delle figure, sia dal gioco di contrasti dinamici tra la figura e gli altri elementi delle composizioni. Nel caso delle sculture e di alcuni dipinti è la natura che funge da elemento di impedimento, come un’edera avvolgente con cui i corpi devono lottare per rialzarsi o innalzarsi. L’idea di resilienza fa sempre da contraltare a quella di morte che è presenza pervasiva fin dalla prima sala. I fondali dei dipinti invece rappresentano tutti, tranne nel caso del dipinto Young Tarantine I, una natura in uno stile decorativo e in alcuni casi stilizzato, in cui si intrecciano riferimenti all’art nouveau, al liberty, ai motivi floreali dell’artista William Morris, alle forme organiche e pseudo-antropomorfe dei fiori che troviamo in alcune ricerche attorno al Surrealismo. I motivi di fiori intrecciati non risultano comunque mai limitati all’ultimo piano di fondo, ma sconfinano creando un effetto di slittamento di piani tra fondo e figura. Alcuni elementi vegetali sembrano fluttuare, sovrapponendosi alla figura, arrivando a invadere il primo piano, fuoriuscendo dalla cornice quasi a voler invadere lo spazio dello spettatore. La spazialità della tela sembra invadere e porsi in continuità con lo spazio reale, gli elementi vegetali fungono da elementi di contatto tra i due mondi. Infatti i soggetti dei quadri non guardano verso lo spettatore, se non nel caso dell’Achille ferito; in alcuni casi gli occhi sono socchiusi, in altri lo sguardo è celato o guarda altrove. Nella ripresa dell’iconografia della Santa Cecilia, ad esempio, il volto celato perché riverso a terra comunica una sensazione di morte, vissuta nella sua intimità e dignità umana: l’invisibilità, la morte è l’impossibilità di guardare alle ingiustizie della storia.

Le opere selezionate sono accomunate dal fatto che tutti i corpi, sono resi in uno stato di abbandono in molti casi antinaturalistico, le membra riportano alla mente quelle gonfie dei corpi michelangioleschi e le posizioni sembrano riprendere quelle attorcigliate delle figure serpentine manieriste; le loro torsioni vengono sostenute in molti casi, e accentuate, da elementi naturalistici, che fungono da supporti all’incurvatura delle membra. Le possenti figure sono colte in stati a metà tra l’abbandono, la sconfitta, l’estasi religiosa; i giovani corpi comunicano sensazioni al confine tra la dignità umana e la redenzione spirituale, quest’ultima, riconcettualizzata, apre a un più ampio spettro di riferimenti a storie di morte, dolore, violenza e ingiustizia umane. Laicizzazione e umanizzazione dell’iconografia dei santi martiri e allo stesso tempo deificazione di figure appartenenti al mondo umano si manifestano nella creazione di un pantheon di donne e uomini, appartenenti a un preciso contesto comunitario. Ciò che si presenta è quasi una costruzione di un’agiografia visiva laica di figure di martiri contemporanei. Il senso di morte, latente in tutte le opere, raggiunge il massimo grado di espressione nelle due statue in posizione sdraiata poste nell’ultima sala in due teche tombali, che ricordano quelle destinate alla conservazione dei corpi di santi martiri nelle chiese cristiane. Il riferimento iconografico è al dipinto del Corpo di Cristo morto nella tomba in Hans Holbein e nel caso del secondo al Torero morto di Edouard Manet.

La resa delle figure ripropone e visualizza gli stereotipi della comunità afroamericana come percepiti dall’esterno, spesso ammessi come tratti identitari in cui gli stessi membri della comunità interna. L’artista non nega o decostruisce la visione stereotipata che giunge dai media della contemporanea cultura dei consumi, ma la ripropone, radicalizzandone i topoi e le caratteristiche riconoscibilissime, quali la presenza martellante del brand, che ricopre i corpi, e la ripetizione degli elementi simbolo di identificazione della comunità afroamericana. L’artista non muove una critica di tipo ‘essenzialista’, mirata a una definitiva e universale decostruzione degli stereotipi, ma li ripete, reinterpretandoli come punti di forza nel discorso identitario, per aprire una più ampia fase di riflessione nell’attuale situazione di ipervisibilità a cui sono sottoposte anche le ingiustizie e le violenze sociali. Il linguaggio dell’artista rende viva la retorica della pittura rileggendola attraverso l’aggressività e gli eccessi della cultura hip pop contemporanea, di ampio successo nel contesto sociale, culturale e artistico in cui vive e lavora. Lo stereotipo razziale, il corpo nero come commodity nella cultura mainstream, il valore culturale del brand nel discorso identitario, sono tutti temi portati all’estremizzazione e riproposti nella sua pratica artistica per una rivalutazione dell’idea di ‘blackness’, in prospettiva post-essenzialista. Il discorso epistemologico e l’orientamento artistico-metodologico di Wiley abbracciano le tradizioni visive radicate negli stereotipi, visualizzano l’idea di alterità, senza negarla, abbandonando la pretesa di creare una lingua artistica sovrastorica, decontestualizzata, libera dai modelli culturali e dalle convenzioni.

Una collezione archeologica non tanto del silenzio, come dettato dal titolo della mostra, ma della memoria, intesa come memoria viva e vivente, in continua ridefinizione, risemantizzazione, alla luce delle nuove consapevolezze del presente.

English abstract

The exhibition Kehinde Wiley: An Archaeology of Silence at the Fondazione Giorgio Cini was presented for the occasion of the 59th Biennale di Venezia. Wiley sheds light on the brutalities of colonial pasts using the language of the fallen hero. The exhibition includes a collection of paintings and sculptures of figures in the state of repose and positions of vulnerability to tell stories about resilience. The artist created a series of prone Black bodies, re-conceptualising traditional pictorial forms to create a contemporary version of monumental portraiture that pushes physical bodies into the realm of the spiritual icons of martyrs and saints.

keywords | Fallen Hero; Resilience; Vulnerability; Colonial Past; Portraits; Martyrs.

Per citare questo articolo: Asia Benedetti, An Archaeology of Silence. Sulla mostra di Kehinde Wiley (Venezia 2022), “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 199-205 | PDF di questo articolo
To cite this article: Asia Benedetti, An Archaeology of Silence. Sulla mostra di Kehinde Wiley (Venezia 2022), “La Rivista di Engramma” n. 193, luglio 2022, pp. 199-205 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.193.0016