"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

194 | agosto 2022

97888948401

Io, Eracle e gli invisibili

Riflessioni dell’autore-attore di Eracle, l’invisibile

Christian Di Domenico

English abstract

§ In questo stesso numero di Engramma: il testo integrale della drammaturgia di Eracle, l’invisibile.

Christian Di Domenico è Eracle in Eracle, l’invisibile.

Mi capita spesso di camminare per le strade al centro di Milano; sono le strade che percorro per andare a comprare un libro, un cd, un dvd, oppure un paio di scarpe. Magari vado a vedere un film o a teatro, mi fermo a mangiare una pannocchia oppure le caldarroste o un gelato, un pezzo di pizza o un panzerotto da Luini. E mentre cammino attraverso centinaia di persone che velocemente corrono per raggiungere la metropolitana o qualcuno con cui hanno appuntamento, sempre, fugacemente, getto uno sguardo sui marciapiedi dove si appostano i barboni (forse sarebbe eticamente corretto chiamarli in modo diverso: clochard, senzatetto, senza fissa dimora… ma la prima parola che mi si formula in testa quando li vedo è ‘barboni’). Li osservo per un tempo relativamente breve; a volte riesco a leggere quello che scrivono su un pezzo di cartone per indurre i passanti a lasciargli qualcosa. Per qualche secondo rifletto sull’opportunità di fermarmi e mettere mani al portafogli, ma il più delle volte tiro dritto e allora quel ragazzo, quell’uomo, quell’anziano, più raramente quella donna, tornano a essere invisibili.

Rimangono impresse nella mia mente le immagini dei loro volti, dei loro cartoni, delle loro coperte, dei loro cani e sempre, come i titoli di coda al termine di un film, le solite domande:
“Cosa è accaduto, nella loro vita, per finire così?”
“Quale forza è necessaria per fare quella scelta?”
“E io, sarei capace di sostenere una prova simile?”
“E io, sarei capace di sostenere una prova simile?” 

Questo è il dilemma con il quale ho cominciato a relazionarmi dopo aver assistito, per la prima volta, a Medea per strada, nella sua versione originale. Ero partito da Bari, dove risiedo con la mia famiglia, alla volta di Vicenza, perché finalmente ero riuscito a prenotare un posto per salire sul furgone di Medea (che prevedeva un numero massimo di 7 spettatori). All’epoca non sapevo ancora che in seguito sarei stato invitato a partecipare al progetto “La Città dei Miti” nel ruolo di Eracle. Ed eccomi allora seduto su quel furgone, in attesa, in silenzio, un po’ in imbarazzo, ignaro del viaggio che stiamo per intraprendere. Pochi istanti dopo la partenza qualcuno, gridando, bussa al portone del furgoncino chiedendo di poter entrare. È l’inizio di un’esperienza unica, totalizzante, catartica, difficile da raccontare a parole.

Medea era seduta proprio accanto a me, a pochi centimetri di distanza. Da spettatore, non mi era mai capitato di poter avere un contatto così ravvicinato con un Personaggio. E neanche da attore. In quella particolare condizione, più unica che rara, è veramente complicato giocare un ruolo mantenendolo costantemente credibile e organico. Il rischio, alto, è quello di venire ‘smascherati’ o di non poter proteggere il proprio lavoro segreto di analisi e connessioni personali al materiale, in modo tale da poter condurre il proprio apparato e quello degli spettatori verso un’auspicata catarsi. Quella sera, tuttavia, il Mito era stato attivato. Ho viaggiato accanto a Medea. Poco tempo dopo, eccomi al lavoro con Gianpiero Borgia su Eracle, l’Invisibile.

Erano passati circa sette anni dall’ultima nostra collaborazione artistica, Ifigenia in Aulide, dove io interpretavo il personaggio di Ulisse. Da allora abbiamo entrambi affrontato le nostre odissee, sentendo però sempre forte il richiamo al ritorno a un approdo sicuro, la nostra Itaca. Così, prima ancora di ritrovare un artista che ho sempre stimato, ho riabbracciato l’amico che per tanti anni avevo avuto al mio fianco. Il tempo ci ha regalato rughe ed esperienza, la distanza ci ha aiutato a sentire la reciproca mancanza e, soprattutto, la voglia di provare insieme un nuovo percorso.

La meta, il Mito. La prova, Eracle

Nella trasposizione in chiave contemporanea operata da Fabrizio Sinisi, l’eroe appartiene alla categoria dei padri separati. Nella realtà sociale contemporanea il ruolo del padre si è trasformato, ma nell’immaginario collettivo persiste l’immagine stereotipata del padre forte e dispensatore del sostegno economico per la famiglia, che, nella situazione attuale segnata dalla precarietà occupazionale e dalla conseguente fragilità economica dei lavoratori, è ormai del tutto inappropriata. Ma le conseguenze che oggi emergono a seguito di talune sentenze di separazione producono situazioni paradossali, come l’impoverimento e la marginalizzazione dei padri, privati del rapporto con i figli e spesso costretti a ricorrere alle strutture di assistenza della Caritas. Bisognerebbe squarciare il velo su questo fenomeno, che sta diventando sempre più diffuso, ma del quale i massmedia nazionali e locali non sembrano interessati a trattare, quasi come se si trattasse di un fenomeno di poca rilevanza. Nella realtà vi sono situazioni in cui i padri subiscono delle vere e proprie sopraffazioni e umiliazioni, tali da spingerli alla depressione e allo smarrimento, e questo rappresenta indubbiamente una enorme piaga sociale.

Con Gianpiero Borgia avevamo appena cominciato a lavorare, incontrandoci a Pescara, dove lui vive con sua moglie e sua figlia, quando all’improvviso il mondo si è trovato in lockdown. La distanza, a quel punto, era obbligatoria per legge. La prossimità un reato punibile o, comunque, una concreta e pericolosa occasione di contagio e, nel peggiore dei casi, di morte. In tale, drammatica, tragica situazione, era veramente difficile continuare a pensare al nostro progetto. Molti nostri colleghi non si sono più ripresi. Io stesso stavo maturando la decisione, a 52 anni, di trovarmi un altro lavoro. In quell’ormai famoso 28 marzo 2020, quando Papa Francesco andò a pregare da solo in Piazza San Pietro, io avrei voluto presentarmi davanti al Comune di Bari, vestito da Babbo Natale, esponendo un cartone con sopra scritto: “Io a Natale non ci arrivo”. Noi lavoratori dello spettacolo siamo stati tra i primi a dover cessare le nostre attività (e tra gli ultimi a ricominciare; dopo di noi, forse, solo le discoteche e gli impianti sciistici). Abbiamo tutti chiesto prestiti o cercato di ottenere finanziamenti, ma quello che lo Stato ci stava chiaramente facendo capire era questo: il Teatro, in questo momento, non serve.

A quel punto sono stato costretto a guardare dentro me stesso, in profondità, e chiedermi: “Ha ancora senso il Teatro? Se non per gli altri, almeno per me?”. In questo periodo di crisi, ciò che mi ha aiutato a risollevarmi e a spronarmi ad andare avanti è stato l’avvento sui social di un poeta italiano contemporaneo ormai molto noto, Franco Arminio. Un giorno è apparso su Facebook mettendo a disposizione il suo tempo e la sua poesia per chiunque ne avesse avuto bisogno. Ha addirittura lasciato il proprio numero di telefono e il proprio indirizzo email. Se qualcuno, sentendosi solo, avesse avuto necessità di essere ascoltato o consolato attraverso i suoi versi, lui avrebbe risposto “ci sono”. Spediva i suoi libri e se uno non poteva pagarli, data la situazione economica precaria, lui in cambio avrebbe accettato qualsiasi cosa, riportando in vita l’antica usanza del baratto.

In un mondo in cui si procedeva con riunioni zoom o skype, smartworking e isolamento forzato, aspettando fiduciosi un nuovo decreto e qualche bonus, e pregando per una repentina ripresa delle proprie attività, la voce e la parola scritta di un poeta si piantava nelle nostre vite. Così scrive Arminio nella sua poesia La Bandiera dell’Inquietudine:

Alzatevi durante la cena,
ditelo che avete un dolore che non passa.
Guardate negli occhi i parenti,
provate a fare una federazione di ferite.
Ora che siete in compagnia,
ditela la vostra solitudine,
sicuramente è la stessa degli altri.
Se scoppiate a piangere
è ancora meglio,
scandalizzateli i vostri parenti,
piantate la bandiera dell’inquietudine
in mezzo al salotto.
Fatevi coraggio, prendete un libro 
leggete qualche verso.
Parlate dei morti, parlate di voi
e poi ascoltate, sparecchiate,
togliete di mezzo il cibo,
mettete a tavola la vostra vita”.
da: Franco Arminio, La cura dello sguardo. Nuova farmacia poetica, Milano 2020.

Leggere quelle parole ha fatto risorgere in me la comprensione del senso dell’arte nella mia vita e il desiderio feroce di volerlo condividere con gli altri. Il Teatro, nella nuova dimensione che il progetto La Città dei Miti del Teatro dei Borgia mi invitava ad abitare, sarebbe diventato il luogo dove tornare ad agire quell’antica vocazione che credevo perduta. Le fondamenta del lavoro su Eracle che stavo per riprendere avrebbero poggiato sulla rinnovata fede in un “Teatro Povero”, la cui definizione si deve a Jerzy Grotowski e così descritto da Peter Brook nel suo Lo spazio vuoto:

In Polonia un visionario di nome Jerzy Grotowski dirige una piccola compagnia. Anche lui con uno scopo sacro. Il teatro, a suo giudizio, non può essere fine a sé stesso, ma, come la danza o la musica per certi ordini dervisci, è un veicolo, uno strumento per uno studio, un’esplorazione di sé; è una possibilità di salvezza. 

Come territorio di lavoro l’attore ha sé stesso. Un campo di lavoro più ricco di quelli del pittore o del musicista, perché per la sua esplorazione ha bisogno di mettere in gioco ogni aspetto di sé. Oggetto e strumento del suo studio sono la sua mano, il suo occhio, il suo orecchio, il suo cuore. La recitazione, vista in questi termini, è lavoro di tutta una vita: a poco a poco l’attore espanderà la conoscenza di sé, passando attraverso i dolorosi mutamenti delle situazioni sperimentate durante le prove e quel punto fermo che è la messa in scena. Nella terminologia di Grotowski, l’attore deve far sì che il ruolo lo “penetri”. All’inizio egli stesso è l’ostacolo, ma con un lavoro costante acquisirà le tecniche per padroneggiare i suoi strumenti fisici e psichici di cui si servirà per abbattere le barriere. “Farsi penetrare” dal ruolo significa esporsi: l’attore non esita a mostrarsi per quello che è, perché si rende conto che per conoscere il segreto del ruolo deve aprirsi e svelare i propri segreti. L’atto della rappresentazione è, dunque, un atto sacrificale in cui l’artista offre tutto ciò che la maggior parte degli esseri umani preferisce nascondere. Questo sacrificio è il suo dono allo spettatore. Il rapporto tra attore e pubblico è simile a quello che si instaura tra sacerdote e fedeli.

Non tutti, certo, hanno la vocazione per il sacerdozio e nessuna religione tradizionale lo pretende. Vi sono laici che svolgono ruoli indispensabili nella vita e persone che si fanno carico di altri fardelli per il bene dei laici. Il sacerdote celebra il rito per sé stesso e per conto di altri. Gli attori di Grotowski offrono la loro rappresentazione come una cerimonia a quanti desiderano assistervi: l’attore invoca e mette a nudo ciò che è in ogni uomo e che la vita di tutti i giorni nasconde. Questo teatro è sacro perché sacro è il suo fine, perché occupa uno spazio molto preciso nella comunità e risponde a un bisogno che le chiese non possono più soddisfare. Il teatro di Grotowski più di ogni altro si avvicina all’ideale di Artaud. È uno stile di vita completo per tutta la compagnia ed è quindi in netto contrasto con la maggior parte degli altri gruppi d’avanguardia o sperimentali il cui lavoro è, in genere, confuso e menomato dalla mancanza di mezzi. Una grande parte dei gruppi sperimentali non può realizzare ciò che vuole, perché le condizioni esterne sono troppo pesanti per riuscire a farvi fronte: compagnie messe insieme alla meglio; tempi delle prove dimezzati perché bisogna fare altro per sbarcare il lunario; scenografie, costumi, luci e quant’altro assolutamente inadeguati. Si lamentano della povertà, ma se ne servono come scusa. Grotowski, invece, fa della povertà un ideale; i suoi attori hanno rinunciato a tutto tranne che al corpo; hanno lo strumento umano e un tempo illimitato: non stupisce che si considerino il teatro più ricco del mondo”. (Peter Brook, Lo spazio vuoto [ed or. 1968], trad. it. Roma 1999, 69-70).
 

Considero Gianpiero Borgia un visionario. Il suo è un progetto di teatro povero che pone al servizio della comunità il dono della condivisione totale, il ritorno alla celebrazione di una cerimonia rituale dove gesto, parole e presenza si fanno poesia, prima ancora che tragedia. E tutto accade davanti agli occhi di spettatori/testimoni posti a una distanza massima di un metro. Persone che al termine dello spettacolo/rito potranno rimanere a cena con i componenti della compagnia e con loro riflettere, dibattere, restituire le proprie emozioni e i propri pensieri. Una piccola comunità che finalmente riassapora il dono della Relazione.

Sono passati pochi giorni dalla scomparsa di Peter Brook (2 luglio 2022). Ho avuto la fortuna di assistere a molti suoi spettacoli, ma tra le cose che più mi sono rimaste impresse del suo lavoro, c’è il suo modo di condurre le prove con gli attori, ponendosi a pochi centimetri dai loro volti, per scrutarne lo sguardo, le espressioni e carpirne un segreto o una verità che, altrimenti, se osservati seduti a metà platea, sarebbero sicuramente sfuggiti. “Dagli occhi delle donne derivo la mia dottrina: essi brillano ancora del vero fuoco di Prometeo, sono i libri, le arti, le accademie, che mostrano, contengono e nutrono il mondo”. Sono parole di William Shakespeare, che ben si addicono al lavoro dell’attore. Per questo la scelta radicale di avere un numero esiguo di spettatori posti in prossimità dello spazio scenico agito da Eracle, Filottete o Medea offre il privilegio dell’opportunità unica di poter vivere un’esperienza di reale empatia con il processo creativo dell’attore.

Per aiutarci a nutrire il nostro apparato in preparazione del nostro lavoro sui rispettivi personaggi e sui temi che determinano le loro urgenze, Gianpiero Borgia ci ha invitati a compiere un’approfondita indagine sul campo. Nel mio caso si è trattato di incontrare persone (operatori, volontari o utenti) da cui poter attingere racconti, aneddoti, traumi oppure posture, gesti, intonazioni, espressioni, abitudini, vizi, debolezze, fragilità e quant’altro potesse aiutarmi ad esplorare il tema della caduta in povertà e delle prove da sostenere per riuscire a combatterla, in modo tale da poter accorciare la distanza tra me attore e il ruolo a cui ero destinato. Questa pratica metodologica è diventata una consuetudine necessaria a vivificare costantemente, nel tempo, i temi che il nostro lavoro affronta.

Tra i primi incontri da me effettuati, ricordo con piacere quello con don Franco Lanzolla, parroco della Cattedrale di Bari e Responsabile dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Famiglia. A Bari, seppur con diversi incarichi, è parroco da trent’anni, ed è forse per questo che nella città vecchia per il suo popolo è semplicemente don Franco. Un popolo fatto di poveri, di stranieri in fuga, di padri separati, di madri sole con i mariti in carcere per reati di stampo mafioso, ma anche di giovani, di uomini e donne instancabili nel promuovere e organizzare le tante attività della parrocchia. Dal loro impegno prendono vita progetti come l’ambulatorio con otto medici, infermieri, e una distribuzione gratuita di medicine di base. Una struttura destinata ad accogliere immigrati e famiglie in difficoltà ma che dispone anche di un servizio a domicilio per anziani e malati costretti all’immobilità. Come la mensa in grado di offrire 140 pasti al giorno, l’assistenza ai senzatetto nella piazza della stazione, la distribuzione di viveri almeno una volta alla settimana ai cittadini meno abbienti.

Ma il dono più grande che don Franco ha fatto ai suoi fedeli è quello della spiritualità. Aiutandoli a essere una comunità di uomini e donne “adulti nella fede”, consapevoli che la parrocchia non è semplicemente un centro di distribuzione servizi, ma una comunità di fedeli che solo nei valori della solidarietà si scoprono cittadini di uno stesso territorio. Membri di una Chiesa che nella strada si fa famiglia, una famiglia che vive nella comunità e che proprio al servizio della comunità è destinata. Mentre cammino accanto a lui verso la mensa, gli racconto del nostro progetto e della ricerca e lo studio che faccio, cercando di attingere spunti e riflessioni anche dalle cronache dei giornali. E don Franco mi illumina: “Io non leggo i giornali. Cammino per strada e leggo la vita”. Infatti, tutte le persone che incontriamo per strada lo salutano, scambiano qualche parola o anche un semplice sguardo, che a don Franco bastano per comprendere a quale stadio delle loro miserie sono arrivati. E quando mi mostra la preparazione dei pasti o dei pacchi spesa per i poveri e per le famiglie disagiate, ci tiene a sottolineare: “Noi non offriamo cibo. Offriamo relazione. Non vogliamo saziarli, sedarli o sedurli, perché si accomodino in una vita di stenti e di continue richieste di aiuti. La vera povertà è la povertà di spirito”.

Nella mensa di don Franco mi sono fermato come volontario, per aiutare nella preparazione dei pranzi d’asporto quando, a causa della pandemia, non si potevano consumare come d’abitudine ai tavoli. In cambio, oltre a essermi nutrito di un’esperienza spirituale indelebile, ho avuto la possibilità di gustare un’ottima pasta e fagioli e, grazie alle foto che quel giorno ho inviato a Gianpiero per illustrargli lo spazio e le fasi di preparazione dei sacchetti, oggi abbiamo una scena ispirata proprio a quel luogo. A differenza di don Franco, per la mia ricerca, io i giornali li leggo, cercando notizie di cronaca che possano essere un prezioso contributo alla mia preparazione.

Tra gli innumerevoli articoli raccolti, seleziono questo brano di  Massimo Gramellini, sul “Corriere della Sera” (25 ottobre 2019):

In memoria di F.T.
“Ho perso e ritrovato lavori, ma non ho mai smesso di cercarli. Una questione di sopravvivenza, non solo materiale. Il lavoro sono i soldi che mi servono per mangiare, ma è anche la sensazione di avere un mio posto nel mondo, di servire a qualcosa e a qualcuno. Finché ho perso l’ultimo e non ne ho trovati più. Disoccupato cronico. A 47 anni, in una trappola di paese dell’estrema Calabria, senza altra prospettiva che una fuga per la quale cominciavano a mancarmi persino le forze. Quand’ecco una fiammella a rischiarare il buio di giornate tutte uguali. Un corso per diventare infermiere. L’esito è sicuro, mi garantiscono, tu lo segui e dopo cominci a lavorare. Ma prima devi pagare. Duemilacinquecento euro, il costo dell’iscrizione. Me li faccio prestare dai parenti e a 47 anni non è facile trangugiare l’orgoglio e la paura che anche chi ti ama finisca per considerarti un fallito. Il corso mi piace, imparo il mestiere, ci sono lezioni pratiche in ospedale. Chi potrebbe immaginare che si tratti di una truffa? Invece scopro che il corso non è in regola, non serve a nulla, non garantisce nulla. Il mondo mi crolla sulle tempie, vedo solo fantasmi scuri. La vita mi ha truffato per tutta la vita. Ma adesso la truffo io, e me la tolgo di dosso. Chi specula sui sogni e i bisogni dei disperati dovrebbe sapere che non sta maneggiando soltanto denaro, ma carne viva. In questo caso la mia. Se volete, ricordatemi con le mie iniziali: F.T. Martire del lavoro che manca e della cattiveria che c’è”.

Tragedia greca

Nessuno saprà mai come Mario Bressi, un mite borghese lombardo per il quale le cronache hanno rispolverato l’espressione “tutto casa e chiesa” che non sentivo pronunciare dai tempi di mia nonna, abbia potuto maturare l’assassinio dei figli (e di sé stesso) per punire la moglie intenzionata a separarsi. E invece, bontà loro, sembrano saperlo in tanti. C’è chi ha tirato in ballo “il dramma dei padri separati”, quasi a voler suggerire, se non una giustificazione, un rapporto razionale di causa ed effetto tra la disperazione dell’uomo sbattuto fuori di casa e la sua vendetta. Poi però si è saputo che la coppia si stava lasciando senza litigi, in uno stato di quiete apparente, al punto che la donna non aveva esitato a mandare i figli in vacanza con il quasi ex marito. Altri, al contrario e per reazione, hanno visto nei delitti della Valsassina il tipico prodotto della cultura patriarcale, dove il maschio detiene il possesso dei corpi e ne dispone come di roba propria, ma in realtà queste storie vengono raccontate fin dai tempi di Medea.

A proposito. Il bisogno di sterilizzare i miasmi dell’animo umano, incasellandoli dentro precise categorie sociologiche per spingerli il più possibile lontano da noi, sarà sicuramente una conquista della modernità. Però chi ha visto una Medea di Euripide a teatro converrà che i cortocircuiti della mente non possono essere svelati dalla mente, ma solo dall’intuizione, cioè dall’arte.

Ecco, anche la lettura di alcune notizie come queste, sono combustibile utile ad attivare l’energia creativa di un attore, anche se, indubbiamente, gli incontri con coloro che hanno vissuto sulla loro pelle esperienze simili costituiscono una fonte di ispirazione tanto preziosa quanto fondamentale. Non capita molto spesso di riuscire a parlare con persone che vivono quotidianamente una realtà di stenti e di miserie, senza fissa dimora e senza legami affettivi. Ho avuto la fortuna di incontrare Mauro e Francesco al Bistrot Popolare di Brescia, grazie alla generosa collaborazione degli operatori della Cooperativa “La Rete”, che orienta tutte le proprie attività alla convivenza senza esclusioni, al contrasto delle situazioni di disagio, alla promozione dei diritti, alla crescita di una comunità sempre più accogliente e responsabile, imperniata su principi di equità, solidarietà e rispetto della legalità.

Le storie di Mauro e Francesco sono profondamente diverse: il primo si ritrova sul lastrico dopo i fasti di una vita da imprenditore (sicuramente per errori clamorosi nell’ambito della gestione del patrimonio finanziario); il secondo è abituato alla vita in strada, a causa di contrasti e rapporti deteriorati con la propria famiglia, e costantemente impegnato alla ricerca di un lavoro (come lavapiatti) non solo in Italia, ma anche in Svizzera e in Germania. Le sue intemperanze caratteriali gli hanno impedito, fino ad oggi, di mantenere un lavoro ma, stando a quel che mi racconta, non demorde e continua a cercare. In questa determinazione, accompagnata da slanci improvvisi di entusiasmo contagiante, Francesco si differenzia molto da Mauro, il cui sguardo spesso nostalgico, rivolto a un passato di lussi che non ci sono più, rivela una triste rassegnazione. Ma sono tante le cose che li accomunano: dormire per strada o nei treni, oppure nelle caserme abbandonate, stando sempre attenti ai ‘predatori della notte’, che ti rubano le scarpe, lo zaino, le coperte o quello che trovano; le difficoltà a reperire anche solo 1 euro e 50 centesimi per provare a entrare in un dormitorio, perché entrambi non vogliono chiedere l’elemosina e chi lo fa – mi dicono – lo fa soltanto per comprarsi il vino ed ubriacarsi; far passare la giornata, così lunga e priva di senso o prospettiva, la mancanza di relazioni vere, costruite su una base di fiducia e di affetto che loro hanno perso da tempo, non solo verso gli altri ( soprattutto chi versa nelle stesse condizioni), ma anche verso sé stessi. Infine, ciò che sicuramente costituisce un minimo comune denominatore, è la ferma convinzione che negare la propria condizione e le proprie colpe possa illuderli di conservare un proprio status di dignità.

Mauro e Francesco, come tantissimi altri senzatetto, hanno preferito mentire, nascondere la loro realtà ai propri familiari. Non chiedono aiuto, ce la faranno – dicono – supereranno anche questa prova e torneranno più forti. Mauro e Francesco li ho incontrati, in giorni diversi, dopo che entrambi avevano usufruito del servizio docce presente al Bistrot Popolare. Quando mi sono venuti incontro, così tirati a lucido, non ho certo avuto l’impressione di trovarmi di fronte a due barboni. È il loro modo di rendersi invisibili. Di mescolarsi alla moltitudine della gente ‘normale’ e non essere etichettato come un clochard, per difendersi dall’umiliazione degli sguardi compassionevoli o schifati della gente che passa per strada e cambia direzione, prende distanza, se sul loro cammino inciampano in un mendicante sporco e puzzolente. Ma per pochi istanti, nei loro silenzi e nei loro sguardi, ho potuto intuire il dolore delle loro ferite, delle loro crepe, delle loro fratture. E, soprattutto, delle loro eroiche fatiche.

Mi piacerebbe aggiungere a questo mio intervento alcune riflessioni che riguardano il tema della distanza intesa come territorio del ludico, cioè di quel gioco ironico, socratico, con cui, strategicamente, l’attore inizia a instaurare un rapporto empatico, simpatico, con gli spettatori, in modo tale da provocare la loro apertura, uno stato di disponibilità ad accogliere, inconsapevolmente, la tragedia. Tutti i lavori che compongono La Città dei Miti contengono anche questo elemento essenziale: l’ironia, una forma, una dimensione di distanza utile ad esperire i molteplici gradi di separazione tra me persona e il tema principale dell’opera, tra me attore e il pubblico, tra me attore e il personaggio, tra me persona/attore/personaggio e il mito, tra il mito e la nostra società. Sono aspetti tematici che esigono il tempo di un simposio e anche la categoria del tempo si potrebbe relazionare a quella della distanza. Un tema da approfondire.

In conclusione, vorrei solo far osservare che tutto ciò che ho scritto (elementi di biografia personale, cronache, poesie, aneddoti e citazioni) è stato ispirato dal tema propostomi dalla redazione di Engramma: Prossimità e Distanza e che la possibilità che mi è stata data di poter scrivere questo contributo mi è ancora una volta utile a proseguire il mio percorso di ricerca e di preparazione come attore all’interpretazione di Eracle. Scrivere aiuta a mettere a fuoco, a correggere, ripensare a distanza di tempo ai primi passi di un cammino ancor lungo. Perché il mito è lontano, arcano, misterioso.

Ogni sera, andando in scena con Eracle l’Invisibile, la vera, faticosa prova è proprio quella di tentare il processo di attivazione del mito e cercare di essere un tramite utile agli spettatori per poterli condurre a una possibile catarsi. Il rischio del fallimento è sempre in agguato e va accettato. Ma a volte accade qualcosa. E condividerlo, anche solo per pochi istanti, dà senso alla mia vita e alla mia vocazione. Chiudo tornando alle parole di Franco Arminio:

Fare luce
Lo so che ognuno è il gigante delle sue ferite,
ognuno è dentro una lotta senza fine.
Non c’è riparo al guasto che ci attende,
non si può diluire la morte,
ma ogni giorno si può avere 
un attimo di bene,
si può con umana pazienza
guardare questo modo che si scuce.
Se nulla è sicuro
e nulla sembra vero
restiamo vicini,
strofiniamo il buio
per farne luce.
da: Franco Arminio, La cura dello sguardo. Nuova farmacia poetica, Milano 2020.

English abstract

Actor Christian Di Domenico discusses how the “La Città dei Miti” (“Transport of Myths”, or “City of Myths”) project has become part of his life, by challenging him both as an actor and as a human being. Whenever he meets a homeless person, an invisible person, he asks himself the same question: “Would I be able to face this way of life in the same way?”. This dilemma became even more apparent to Di Domenico when he saw Medea per strada (Medea on the Streets) staged in a moving van in its original version, which helped him to understand how life and myth can have an active dialogue. His interpretation of the myth of Heracles has developed from the question of how to face adversity in life and from his experience of witnessing myth in the theatre.

keywords | Teatro dei Borgia; La Città dei Miti; Eracle, l’invisibile; Christian Di Domenico; tragedy; forgotten man.

Per citare questo articolo / To cite this article: C. Di Domenico, Io, Eracle e gli invisibili. Riflessioni dell’autore-attore di Eracle, l’invisibile, “La Rivista di Engramma” n. 194, agosto 2022, pp. 45-57 | PDF dell’articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.194.0010