"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

196 | novembre 2022

97888948401

Sola andata

Lina Bo Bardi in Brasile (1946-)

Daniele Pisani

English abstract

Ritratto di Lina Bo Bardi dal “Diário de Notícias”, 8 e 9 gennaio 1961.

È ben nota l’importanza assegnata al viaggio da parte dell’architetto, occidentale almeno. In particolare, non si contano gli studi sull’‘influenza’ esercitata dalla visita a una certa opera del passato sulla sua produzione successiva, mossi in ultima istanza da uno sforzo – al tempo spesso comprensibile, necessario e vano – di ‘spiegarne’ la produzione sulla base di dati in qualche modo oggettivi, o comunque di ricondurla a qualcosa di (presuntamente) noto.

Il primo ad assegnare un ruolo decisivo al viaggio, naturalmente, è non di rado l’architetto stesso, impegnato a ‘costruirsi’ prima scegliendo le proprie mete e programmandone la visita, poi – una volta fatto ritorno – decidendo come organizzare il materiale raccolto, non senza talvolta lanciarsi lui stesso nell’interpretazione del senso dell’esperienza compiuta. Verrebbe quasi da dire che se qualcosa ancora resta al giorno d’oggi dell’idea romantica di Bildung, ebbene, si annida proprio nel viaggio inteso come il momento imprescindibile di una tenace costruzione della propria personalità e cultura.

Se il viaggio per l’architetto è programmatica costruzione di se stesso – senza escludere l’epifanico incontro accidentale con qualcosa di non preventivato – esistono pure casi, per quanto rari, di viaggi negati in quanto tali: di viaggi effettivamente compiuti ma di cui è stata sistematicamente occultata la natura, appunto, di viaggi; così come esistono casi di esperienze che del viaggio non hanno le sembianze, ma che ciò non di meno – come vedremo – ne presentano alcuni dei tratti distintivi.

Andata

Tra i viaggi negati, spicca quello intrapreso nel 1946 da Pietro Maria e Lina Bo Bardi. Si erano sposati a Roma il 24 agosto e il 24 settembre si imbarcavano a Genova a bordo del transatlantico Almirante Jaceguai. Si recavano in Brasile con almeno un obiettivo comune: trascorrere la luna di miele al di là dell’Oceano. Bardi portava poi con sé alcuni dipinti del suo Studio d’Arte Palma, destinati a venire esposti in una serie di mostre (Pozzoli 2014); Bo Bardi, dal canto suo, era incaricata da parte della Triennale di Milano di intercedere presso le autorità locali in modo da ottenere la partecipazione ufficiale del Brasile alla sua ottava edizione, la celebre T8 (Pisani 2022).

Non sappiamo molto sulle ragioni per cui nacque l’idea del viaggio in Brasile. Senza poter fornire alcuna prova, a noi sembra che l’ipotesi più probabile consista nel ritenere che siano state le mostre di Bardi, una volta programmate, a suggerirgli l’idea di passare la luna di miele con Lina proprio in Brasile; è invece evidente che l’incarico assegnato a Bo Bardi lo fu perché a Milano, dove viveva ormai da anni, si era venuti a conoscenza della sua prossima partenza. Quel che è certo, è che la coppia non partiva per il Brasile con l’intenzione di trasferirsi. Questo è quello che ci vollero far credere – Bo Bardi soprattutto – parecchi decenni più tardi, ma è completamente falso (Pisani 2022). Non solcavano l’Oceano per emigrare, ma si apprestavano a intraprendere un viaggio in America Latina dalla durata incerta e senza dubbio lungo, ma che prevedevano di concludere con un ritorno.

In Brasile

D’altro canto, nulla nella carriera di Bo Bardi sino a quel momento lasciava trapelare un interesse pregresso per il Brasile, la sua cultura o anche solo la sua architettura. Anche in questo caso, ci vorrà far credere il contrario, ad esempio sostenendo che Brazil Builds – il catalogo dell’omonima mostra del MoMA del 1943 che, per prima, aveva contribuito al ‘successo’ mondiale dell’architettura brasiliana (Goodwin 1943) – le era apparso sin da subito “come un faro di luce che risplende in un campo di morte” (Bo Bardi [s. d.] 1993a, 12). Senonché, non è affatto detto ed è anzi piuttosto difficile che il catalogo, edito nel bel mezzo della guerra, possa essere capitato tra le sue mani prima che sbarcasse sulle sponde della Baía de Guanabara.

Almeno in parte diverso il discorso è per Bardi, che all’America Latina, invece, aveva già guardato in precedenza; e in Argentina si era pure recato nel 1933 per accompagnare una mostra, da lui curata, dedicata all’architettura del regime, di cui conosciamo il catalogo (Belvedere 1933; v. inoltre Tentori 1990, 69-79); a scrivere estesamente del proprio viaggio sull’altra sponda dell’Atlantico, purtroppo per noi, non fu però lui – che pure non era alieno dalla passione per la scrittura di resoconti di viaggio (Bardi 1933; v. inoltre Bassignana 2000; Petacchi 2014) –, bensì Massimo Bontempelli, l’altro celebre intellettuale che lo affiancò nella direzione di “Quadrante” (Bontempelli 1934). Sappiamo, comunque, che durante la traversata oceanica che lo portava a Buenos Aires, nel corso di una sosta nel porto di Santos, Bardi si recò in automobile a visitare – o meglio a darle una rapida occhiata – quella che diventerà la sua futura città, São Paulo.

Se non in Bardi, l’idea di trasferirsi in Brasile, per altro, circolava nel suo ambiente. Un suo caro amico, anche lui autore di un resoconto del proprio viaggio in Unione Sovietica, stava valutando proprio in quel frangente tale ipotesi. Si tratta dell’ingegnere Gaetano Ciocca, che in una lettera scritta a Bardi il 21 aprile 1933 gli raccontava: “amici che non credono più alla funzione antesignana di [sic] Italia, mi hanno proposto un trapianto in Brasile. Io mi domando: ingegnere o scrittore oppure ingegnere e scrittore? Italia o Brasile, oppure Italia e Brasile? Tu mi puoi rispondere come nessuno” (cit. in Schnapp 2000, 34). Il 16 marzo 1947, in un’altra lettera sempre a Bardi, Ciocca gli confesserà ancora una volta di essere disposto a trasferirsi in Brasile (Schnapp 2000, 183).

Ciocca, naturalmente, finirà per non trasferirsi mai in Brasile. La sua seconda lettera è comunque utile a rammentarci che, nel dopoguerra, l’idea di emigrare in Brasile suonava tutt’altro che balzana agli occhi di diversi professionisti italiani. Nel campo dell’architettura, furono in parecchi a farlo o a pensare di farlo: da Giancarlo Palanti, che lasciò Milano per São Paulo, a Luigi Claudio Olivieri, che provò a fare lo stesso ma finì per ritornare in patria, o a Marcello Piacentini, che pensò anche lui di attraversare l’Oceano (ad attestarlo è una lettera a lui indirizzata di Arturo Dazzi: v. Nicoloso 2018, 300) per poi decidersi invece di restare e ricostruire in patria la consueta, vasta rete di potere; se poi estendiamo la nostra osservazione anche all’Argentina, l’elenco si estende ulteriormente, a comprendere ad esempio Enrico Tedeschi, Ernesto Lapadula o Cino Calcaprina, ma anche Ernesto Nathan Rogers o Luigi Piccinato, che vi trascorsero periodi di lavoro e/o di insegnamento più o meno prolungati (Liernur 1995; Marino 2015; Piccarolo 2015). Non mancarono, come è ovvio che sia, anche i movimenti in senso contrario, non tanto nel senso di architetti latino-americani che scelsero di vivere in Italia, ma di italiani che optarono per un ritorno nel loro paese; e tra di essi il caso più emblematico è senza dubbio quello rappresentato da Daniele Calabi.

A far decidere ai Bardi di restare in Brasile fu il caso. All’inaugurazione di una delle mostre carioca dello Studio d’Arte Palma, Bardi conobbe Francisco de Assis Chateaubriand Bandeira de Melo, più noto come ‘Chatô’ (Morais 1994). Si trattava di una figura di primo piano dell’imprenditoria brasiliana: era il proprietario del maggiore impero mediatico del subcontinente. Interessato da tempo a fondare un ‘suo’ museo d’arte, individuò in Bardi l’uomo che faceva per lui. A ben vedere, pare che l’incontro tra di loro non sia stato del tutto casuale. Certo è che Bardi non si aspettava di ricevere sin da subito, quasi a freddo, una proposta fenomenale e quasi irrinunciabile come quella che gli venne fatta; come è certo che non si aspettava di riuscire a stabilire con una figura complessa, scostante e divisiva quale ‘Chatô’ – lo stesso Bardi, per altro, era e sapeva di essere una sorta di provocatore, incline alla lite e alla polemica – un rapporto duraturo, in grado di rimanere saldo per interi decenni, sino alla lunga malattia e poi alla morte dell’imprenditore, nonché giornalista e diplomatico, brasiliano.

Per quanto non sia affatto facile, dal momento che abbiamo ormai imparato a pensare ai Bardi come a una coppia di italiani che abbandonarono l’Italia e optarono per il Brasile all’atto stesso di imbarcarsi (come erroneamente sostenuto, tra gli altri, da Tentori 1990, 172-174; Id. 2002, 71; Lima 2013, 34), dobbiamo insomma sforzarci di considerarli nel novero di coloro i quali si sentivano degli italiani a tutti gli effetti intenti a compiere un’esperienza all’estero circoscritta nel tempo: piuttosto che con Palanti, che a quel che risulta partì con il proposito di restare in Brasile e finì poi per tagliare i ponti con l’Italia, è corretto accomunarli – ad esempio – con Rogers, che si recava in Argentina per un certo periodo, senza chiudere con le svariate attività che aveva intrapreso nel proprio paese. A questo proposito, vale la pena di ricordare che a Roma era ben avviato lo Studio d’Arte Palma, di cui Bardi era il direttore, e di cui avrebbe continuato a esserlo ancora per alcuni anni dopo essersi insediato in Brasile.

“Resto qui”

L’incarico offerto da Chateaubriand a Pietro Maria Bardi di dirigere un ambizioso museo d’arte, che sarebbe ben presto sorto con il nome di Museu de Arte de São Paulo (MASP), fu ciò che trattenne i Bardi in Brasile, prima a Rio de Janeiro, dove originariamente si pensava di aprirne la sede, e poi a São Paulo, dove si decise di insediarlo. Fu proprio per crearvi il MASP che la coppia abbandonò la capitale – tra i rimpianti, almeno in un primo momento, di Bo Bardi – per trasferirsi a São Paulo. Questo, tuttavia, non significa che, nel momento esatto in cui Bardi ricevette il decisivo incarico da parte di Chateaubriand, lui e sua moglie decisero che avrebbero trascorso in Brasile il resto della loro vita.

Propriamente parlando, dopo un po’ di tempo quello che era iniziato come un viaggio non era più tale. Tuttavia, lavorare all’estero per un tempo indefinito, di cui non è stabilita l’estensione ma che tende a dilatarsi sempre più, non equivale affatto a decidere di emigrare. A quanto risulta non solo dalle testimonianze ex post – nel caso specifico, tutt’altro che attendibili – ma anche da numerosi indizi coevi, Bardi si decise ben presto per il Brasile, anche se mantenendo un forte legame affettivo con l’Italia: in altri termini, si legò immediatamente al nuovo paese, ma senza mai tagliare i ponti emotivamente e professionalmente con quello vecchio (a osservarlo acutamente – non senza contrapporne l’esperienza alla propria – sarà sua moglie: Oliveira 2002, 242). Forse per ragioni caratteriali, forse perché incontrò molte difficoltà a inserirsi nel mondo lavorativo – il fatto di essere donna non la aiutò di certo –, fatto sta che per Bo Bardi le cose furono parecchio più complicate. Ad esempio, alcuni documenti dell’epoca ci fanno capire che continuava a sentirsi italiana – o, dalla prospettiva brasiliana, europea – e che il suo ‘ambientamento’ andava per le lunghe. Il 10 maggio 1948, ad esempio, confessava a Bottoni: “Tutto sommato rimpiango l’Europa” (la lettera, conservata presso il Fondo Piero Bottoni, Archivio Piero Bottoni, DASTU, Politecnico di Milano, Milano, è cit. in Pisani 2022). Ed è vero che nel 1953 otteneva la naturalizzazione brasiliana (la vicenda è accuratamente ricostruita in Perrotta-Bosch 2021, 23-27), e che ormai abitava nella sua prima importante opera di architettura in Brasile, la Casa de Vidro, in cui i coniugi avrebbero vissuto (o meglio, avrebbero continuato a far ritorno, come se si trattasse di una sorta di porto) per il resto della loro esistenza. Tuttavia, è solo da alcune lettere scritte nel corso del 1956 da Bo Bardi al marito – il quale in quel momento si trovava a Fiesole – che veniamo a sapere come l’accettazione del Brasile quale ‘propria patria’ si stava finalmente compiendo. Qui, finalmente, Bo Bardi afferma di aver “risolto il conflitto a favore del Brasile”, di aver “deciso – resto qui – e ricomincio a lavorare” (cit. in Pisani 2022). Ma lo afferma a quasi un decennio esatto di distanza dalla partenza del suo viaggio da Genova, ossia al termine di un lungo processo.

Un’altra esperienza più o meno coeva che non può essere del tutto trascurata tra quelle che dovettero giocare un qualche ruolo nel mutato orientamento da parte di Bo Bardi era avvenuta l’anno prima. Era il 1955 e Bruno Zevi, che conosceva Bo Bardi da tempo e la ammirava e ne rispettava le opinioni, per quanto molto spesso divergenti dalle sue, le proponeva di gestire uno spazio tutto suo nella nuova rivista di cui era il direttore: di occuparsi mensilmente di una rubrica, intitolata “Lettera dal Brasile”, per “Architettura. Cronache e storia” (Lima 2021, 165-167). La proposta venne accolta, ma diede vita a un rapporto di lavoro che più breve non avrebbe potuto essere: Bo Bardi scrisse un unico testo intitolato Lettera dal Brasile (Bo Bardi 1956), trasformando ciò che avrebbe dovuto essere un contributo ricorrente in una collaborazione occasionale. A interessarci in questa sede è però il contenuto della Lettera, ampiamente dedicata a prendere le distanze da non meglio precisati articoli, pubblicati su “Il Corriere della Sera” e su “Il Borghese”, i cui autori – stando a Bo Bardi – altro non erano che “frettolosi inviati speciali” che, pochi giorni dopo essere arrivati in Brasile per la prima volta, si permettevano di pronunciare un giudizio netto e definitivo sul paese (ivi, 183). Non sappiamo se fu il fatto di dover in qualche modo difendere il Brasile ‘d’ufficio’ a dissuaderla dal proseguire la collaborazione con “Architettura. Cronache e storia”; non possiamo però fare a meno di rimarcare che l’atteggiamento che Bo Bardi si sentì chiamata ad assumere dinanzi ai propri connazionali (per quanto non privo di almeno un precedente, Bela criança (1951), e di un seguito, Na América do Sul: após Le Corbusier, o que está acontecendo? (1967)) dovette essere decisivo nel rivelare a lei per prima che aveva radicalmente mutato la propria posizione, nei dieci anni trascorsi dalla sua partenza da Genova. Ora, infatti, scriveva una lettera che non era solo fisicamente scritta ‘dal Brasile’, ma era anche concepita ‘dal punto di vista del Brasile’.

Quel che ci preme porre in rilievo, a ogni modo, è che le lettere al marito del 1956 – insieme all’episodio della Lettera dal Brasile – aiutano a comprendere il paradossale statuto del viaggio dei Bardi. Era nato come un viaggio, e nella fattispecie come l’unione di un viaggio di nozze con un viaggio di lavoro: un viaggio per altro compiuto, un po’ paradossalmente, nel paese che qualche anno dopo avrebbe portato Claude Lévi-Strauss a vaticinare l’inevitabile “fine dei viaggi” per come li abbiamo conosciuti (“Viaggi, scrigni magici pieni di promesse fantastiche, non offrite più intatti i vostri tesori”: Lévi-Strauss [1955] 1965, 34). Del fatto che quello che ormai da tempo non era più vissuto dai coniugi Bardi come un viaggio fosse iniziato come un viaggio, probabilmente, nel frattempo dovevano essersi scordati persino loro. Del resto, non dev’esserci stato un momento specifico in cui il viaggio cessò di essere tale ai loro occhi. Fu il suo indefinito prolungarsi, nell’incertezza se ci sarebbe o meno stato un ritorno, nel dubbio se quella loro condizione di sempre-meno-italiani in Brasile sarebbe stata temporanea o definitiva, a minarne giorno dopo giorno la natura di viaggio, sino almeno a quando Bo Bardi mise al corrente suo marito di essersi decisa per il Brasile. A quel punto, il viaggio era effettivamente senza ritorno. Bo Bardi deponeva ogni volontà di tornare indietro. E, tra le altre cose, poneva in essere le condizioni che l’avrebbero portata ad abdicare definitivamente dall’interpretazione del proprio viaggio come viaggio.

Lettera dal Brasile

L’ipotesi che intendiamo formulare qui di seguito è che, malgrado tutto quanto siamo venuti dicendo sinora, quello di Bo Bardi in Brasile possa e debba essere considerato come un viaggio vero e proprio.

A prima vista, a parlare di interi decenni di vita alla stregua di un viaggio, deve sembrare che si stia qui interpretando il tema metaforicamente. Per quanto questo sia innegabile, e forse pure inevitabile (Leed [1991] 1992, 13-14), a noi sembra però che la peculiare esperienza di Bo Bardi in Brasile sia ascrivile al viaggio senza forzarne a dismisura il significato. Occorre però che ci si intenda preventivamente su che cosa si intende per viaggio. Se compiere un viaggio è recarsi dal luogo A al luogo B in un lasso relativamente limitato di tempo, quello di Bo Bardi in Brasile non rientra nella fattispecie. Per viaggio, tuttavia, non si intende qui soltanto uno spostamento da un luogo a un altro, con eventuale ritorno al punto di partenza, ma anche uno scarto rispetto al tran tran: il viaggio è una dimensione altra rispetto alla quotidianità, un’eccezione rispetto alla regola. In quanto tale, di norma il viaggio ha termine con il ritorno; ma a costituire la conditio sine qua non del viaggio non è il ritorno – che può anche mancare – bensì la partenza. E lo è perché partendo ci si lasciano alle spalle le abitudini, gli usi, gli impegni di ogni giorno e ci si avvia, anche solo per poco, verso una terra incognita. Per essere tale, infatti, ci pare che un viaggio debba essere in grado di porre il soggetto che lo compie al cospetto dell’estraneo (su questo tema, anche se relativamente a un tema affatto diverso, resta illuminante la riflessione sulla “prova dell’estraneo” di Berman [1984] 1997); o, per dirla in altri termini, deve essere capace di produrre uno spaesamento (Ginzburg 1998) nel soggetto che lo compie.

È in tal senso che la lunga permanenza di Bo Bardi in Brasile ci sembra poter essere ricondotta senza forzature eccessive al concetto di viaggio. Da questo punto di vista, il contrasto con suo marito è assai netto. Bardi, come abbiamo già notato, fu – almeno stando a quanto diede a vedere esteriormente – rapido nell’adattarsi al paese in cui si era trasferito, ma non sembra mai aver compiuto quella sorta di apertura nei confronti del nuovo, dell’altro, che costituisce il fulcro dell’esperienza brasiliana di sua moglie.

A dire il vero, inizialmente anche Bo Bardi – come tanti altri prima di lei (v. almeno Grafton 1992; Abulafia 2009) – fu incapace di vedere le novità che si paravano dinanzi ai suoi occhi senza ricondurle al proprio punto di vista eurocentrico, nonché riluttante a fare proprio il Nuovo Mondo in cui si trovava, misurandosi davvero con le sue peculiarità (Pisani 2022). Questa difficoltà iniziale sembra però inscindibile dalla profondità del processo che avverrà in lei nel corso del tempo. Il momento in cui sentì di essersi finalmente decisa per il Brasile fu, come abbiamo visto, il 1956, l’anno delle lettere al marito e della Lettera dal Brasile. Un altro momento importante è rappresentato dal 1958, l’anno in cui fu invitata a insegnare a Salvador de Bahia, e quindi fu costretta ad abbandonare la casa di São Paulo e, per contro, le fu permesso di affrontare da sola il mondo – ad altissima concentrazione di cultura afro – del Nordest brasiliano. Si trasferì da São Paulo a Salvador con un proprio lavoro, a cui ne seguiranno presto degli altri; e l’arrivo a Salvador significò l’incontro con quello che per lei, senza dubbio, era l’‘autentico’ Brasile. Ora, a nostro giudizio, fu l’effetto congiunto della consapevolezza di non essere più quella che era sbarcata a Rio nel 1946 e della ‘scoperta’ del Brasile afro che ebbe luogo a Salvador a rimettere in moto in Bo Bardi un modo di fare esperienza che è quello proprio del viaggiatore: di colui che è salpato e si dirige verso nuove mete (e che quindi, a ogni momento, si trova in mare aperto). Vale la pena di rammentare che arriverà ad affermare: “Io credo che il Brasile non fa parte dell’Occidente. È Africa” (Bo Bardi [s. d.] 1993b, 203). A confermarlo è la sua produzione sia teorica che progettuale a partire da quel momento: dall’elaborazione dei testi che sarebbero poi entrati nel libro postumo Tempos de grossura. O design no impasse e dalla concezione e curatela di una nutrita serie di allestimenti teatrali e soprattutto di mostre – è in particolare il caso di Bahia no Ibirapuera (1959), Nordeste (1963) e A mão do povo brasileiro (1969), ma anche di Repassos (1975), Design no Brasil: história e realidade (1982), Mil brinquedos para a criança brasileira (1982), O belo e o direito ao feio (1982), Caipiras, papiaus: pau-a-pique (1984), Entreato para crianças (1985) o Afríca negra (1988) – all’elaborazione dei progetti per opere come il SESC Pompéia (1977-1986), la Capela Santa Maria dos Anjos (1978), il Teatro Oficina (1982-1993) o la Casa do Benin (1987-1988): progetti assai diversi tra di loro ma accomunati dal comune sforzo di lasciarsi alle spalle formule stantie per avventurarsi in terre ancora inesplorate e tutte ancora da mappare, in cui convivono e stabiliscono inediti rapporti eredità della tradizione e ripensamento del modernismo, uso di tecniche arcaiche e impiego della prefabbricazione, ammirazione per la cultura popolare e coscienza critica e politica.

Dispatrio

Negli ultimi anni di vita, fu Bo Bardi stessa a voler sancire nella forma più netta possibile il taglio da lei effettuato con il passato, ossia con l’Italia. Una volta, scrisse: “ho detto che il Brasile è il paese che mi sono scelta, e per questo è il mio paese due volte. Non sono nata qui, ho scelto questo posto per viverci. Quando si nasce, non si sceglie niente, si nasce per caso. Io ho scelto il mio paese” (Bo Bardi 1990, 107; v. inoltre Bo Bardi [s. d.] 1993a, 12). Si tratta di parole straordinarie ma che è doveroso prendere con le pinze. Bo Bardi in quegli anni – erano i suoi ultimi, e lo sapeva – stava riscrivendo il proprio passato a futura memoria, e nella ricostruzione ex post che si sforzava di accreditare tanto l’abbandono dell’Italia quanto la scelta del Brasile erano fatti passare per decisioni consapevoli e coraggiose (Pisani 2022). L’insistenza sulla ‘scelta’ del Brasile attestata dalle parole appena citate va quindi intesa come un modo di portare acqua al mulino della propria narrazione. Vi è però anche dell’altro. Si tratta di parole di rara durezza, con il loro totale rigetto nei confronti delle ‘origini’. Laddove ci aspetteremmo di trovare affermata la natura, per così dire, anfibia e composita della cultura di Bo Bardi, lei pone invece la questione nei termini di un mero avvicendamento: come se la propria appartenenza culturale potesse compiere dei salti, per giunta intenzionali.

Le parole di Bo Bardi, insomma, oltre a dirci qualcosa di molto importante su di lei – ci torneremo – suonano esagerate a bella posta. Ci sembrano corrispondere più esattamente all’esperienza di tanti altri espatriati parole come quelle pronunciate da Tzvetan Todorov dopo decenni trascorsi a Parigi, quando, di ritorno nella sua natia Bulgaria, osservò: “Non mi sentivo meno a mio agio come bulgaro che come francese e avevo l’impressione di appartenere al tempo stesso a tutte e due le culture” (Todorov 1997, 5). Aggiungendo: “La lezione di quel ritorno al paese natale, dopo diciotto anni dalla partenza, mi s’imponeva poco a poco. La coesistenza di due voci diventa una minaccia, porta alla schizofrenia sociale, quando quelle due voci sono fra loro in competizione; ma se si inseriscono in una gerarchia il cui principio è stato liberamente scelto allora si possono superare le angosce da sdoppiamento e la coesistenza diventa il fertile terreno di un’esperienza nuova” (ivi, 10). Per far questo, naturalmente, occorre a suo parere accettare di vivere in una situazione peculiare: “Il mio stato attuale non corrisponde dunque alla deculturazione, né all’acculturazione, ma piuttosto a qualcosa che si potrebbe chiamare transculturazione, l’acquisizione di un nuovo codice senza la perdita del precedente. Vivo oramai in uno spazio singolare, al tempo stesso dentro e fuori: straniero ‘in casa’ (Sofia), e in casa ‘all’estero’ (Parigi)” (ivi, 12).

Il confronto diventa forse ancora più illuminante se lo si stabilisce con uno scrittore italiano di qualche anno più giovane di Bo Bardi, ma anche lui emigrato più o meno nello stesso momento e senza aver stabilito di farlo prima di partire per l’estero. È il caso di Luigi Meneghello, recatosi in Inghilterra – racconterà – “con l’idea di starci dieci mesi […] col vago intento di imparare un po’ di civiltà moderna e poi tornare” (Meneghello 1993, 8-9) un anno esatto dopo che i Bardi si erano recati in Brasile – era il settembre del 1947 – e poi rimasto a Reading, Berkshire per il resto della vita. Al di là delle svariate e ovvie differenze, la netta divaricazione tra l’esperienza vissuta da Meneghello e da Bo Bardi non risiede nella scelta che li porta all’estero (in ambedue i casi tutto sommato casuale), bensì nella relazione stabilita nel corso degli anni con il paese d’origine: laddove Bo Bardi prende sempre più le distanze dall’Italia, fino a ricusarla del tutto dicendosi brasiliana a tutti gli effetti, Meneghello impiega la condizione di quello che chiama “dispatrio” per assurgere a intellettuale la cui caratteristica peculiare è la doppia appartenza:

Volendone fare una storia, sarebbero due storie incrociate: come da un lato l’esperienza inglese (EN) ha stravolto la mia percezione dell’Italia (IT) e dall’altro come IT ha stravolto EN. Mi accorgo che il punto di vista continua ad oscillare […]. Qui, là. Corrente alternata (Meneghello 1993, 27).

Si tratta di una posizione scomoda, conclude Meneghello riflettendo in tarda età sulla propria esperienza, ma non priva di vantaggi. Chi vive nello stato di dispatrio, infatti, è in grado di pensare a ciascuna delle realtà (o “sistemi culturali”) a cui co-appartiene dal di fuori. “Trovandomi dunque nel mezzo di questo sistema così diverso, cominciai ad assorbire una buona dose della sua sostanza, e la assorbivo con avidità. Non si trattava di una cultura che ne soppiantava un’altra, ma della formazione di un secondo polo culturale. Il risultato finale fu infatti una forma di polarità che venne a investire quasi ogni aspetto della mia visione intellettuale. Era come se per poter pensare, o perfino sentire, occorresse lasciar fluire la corrente tra i due poli” (Meneghello [1989] 2006, 1301).

Le riflessioni compiute da Meneghello consentono di cogliere, per differenza, la peculiarità delle affermazioni di Bo Bardi. Meneghello descrive la propria esperienza come quella di chi si senta costantemente investito da due polarità, nessuna delle quali in grado – è il verbo che usa – di “soppiantare” l’altra. Non si tratta per lui di scegliere tra Italia e Inghilterra, tra un polo e l’altro, bensì di trarre vantaggio dalla propria condizione (di cittadino di origine italiana che parla quotidianamente la lingua inglese immerso ogni giorno nel modo di vita inglese) così da liberarsi e da superare il formalismo di cui accusa la cultura alta italiana attingendo alla propria infanzia, soprattutto mediante l’uso del dialetto (Pozzolo 2020). In tal senso, la condizione di alterità è pertanto la conditio sine qua non per accedere a un difficile, forse impossibile recupero del proprium (l’uso del dialetto quale lingua in cui è incamerato il temps perdu dell’infanzia). Bo Bardi, invece, dichiara di non avere più nulla a che fare con l’Italia. Nata italiana, in altri termini, sarebbe diventata in tutto e per tutto brasiliana, ragion per cui, al momento di scrivere le parole sopra citate, era semplicemente tale.

Ferma restando la differenza ineliminabile tra le esperienze all’estero compiute da ciascuno dei due intellettuali di origine italiana, le parole di Meneghello ci aiutano a mettere in dubbio le affermazioni di Bo Bardi e ci invitano, inoltre, a chiederci se l’atteggiamento da lei descritto come il proprio, oltre a essere possibile, sia produttivo. A noi sembra di dover rispondere negativamente a entrambe le domande. In primo luogo, si tratta di comprendere come molto della capacità di Bo Bardi di cogliere preziose potenzialità laddove i suoi ‘connazionali’ (prendendola sul serio e intendendo quindi i brasiliani) non vedevano altro che arcaismi da superare, se non addirittura di cui vergognarsi, derivi proprio dalla sua posizione decentrata, dal suo mancato appartenere alla prospettiva comune. Ad esempio, la sua capacità di comprendere e apprezzare il modo brutale e grossolano con cui la gente più umile delle favelas di Salvador, discendente da generazioni e generazioni di schiavi importati a forza dall’Africa, riadattava ciò che si trovava tra le mani (usando come “materia prima: l’immondizia”, Bo Bardi [1963] 1994, 35) per farne oggetti di uso quotidiano, a noi sembra che non potesse scoccare se non dallo choc prodotto dall’incontro con qualcosa di lontano, sorprendente, impensabile; in questo senso, pure il fatto di provenire da un paese di straordinaria tradizione artigianale non dovette essere un fattore di poco conto. Infatti, era lo scarto a rendere visibile l’eccezionalità di ciò a cui si trovava dinanzi. E lo scarto presuppone la permanenza di un termine altro, del secondo di quelli che Meneghello – come si è visto – chiama ‘poli’.

È, questo, soltanto uno tra i tanti esempi possibili, ma ci sembra rivelatore nella misura in cui ci permette di difendere Bo Bardi dalle sue stesse parole. Non si tratterà di ridurre la distanze – di approssimarsi – al connubio di cultura europea, indigena e (soprattutto) afro a cui si trovò di fronte e che tanto avrebbe imparato ad amare. Si tratterà, piuttosto, di giocare tale distanza a proprio favore: ed è questo che apprese a fare, non prima, tuttavia, di aver detto addio a ogni pretesa di superiorità del proprio punto di vista iniziale e di aver imparato a guardare con i propri occhi. In un certo senso, per ‘scoprire’ il ‘suo’ Brasile Bo Bardi dovette prima riconoscere la propria natura duplice e anfibia, di “pianta epifita” (così scrisse di sentirsi in una delle lettere a suo marito del 1956), e poi rigettare le proprie origini. Ma non per questo tali origini smettevano di restare là, distanti ma presenti. Dichiarando di identificarsi senza meno con il Brasile, insomma, Bo Bardi voleva farci credere che il viaggio in cui si era imbarcata si fosse concluso con un arrivo più o meno definitivo. A noi sembra invece che rimase sempre – proficuamente – a metà del guado.

Una questione di punto di vista

Se davvero la ricchezza delle grandi conquiste conseguite dall’architettura di Bo Bardi – pensiamo in primo luogo a un’opera come la Casa do Benin – consiste in una capacità di appropriarsi dell’altro che ha come premessa un’ineludibile, costitutiva distanza culturale, allora ricorrere al concetto di viaggio può esserci d’aiuto.

Del resto, quello che mostrano coloro che meglio ci sembrano aver riflettuto sulla natura del viaggio, come Giorgio Manganelli, è il modo “profondamente mutato” con cui ci si trova, una volta che ci si sia imbarcati, a “osservare e meditare le immagini della [propria] terra di origine” (Manganelli [1970] 2018, 11; testo da leggersi insieme a Id. [1983] 2005, 13). Non a caso, quello che è forse il suo principale libro di viaggio, Esperimento con l’India, ha come parola chiave del titolo un vocabolo – “esperimento” – che, come il tedesco Erfahrung, implica una concezione del viaggio come un ‘fare esperienza di’, nel senso primario di ‘mettere’ e ‘mettersi alla prova’ (v. Leed [1991] 1992, 14-15). Viaggiare, insomma, è scoprire che altrove tutto può aver un “segno diverso” e un “senso diverso” e risultare quindi addirittura “incomunicabile” (Manganelli [1975] 1992, 36): significa fare i conti con l’altro, “sapendo che, dopo, non ci sarà consentito entrare, e insieme non ci sarà possibile tornare” (ivi, 49).

Nel 1946, insieme a suo marito, Bo Bardi intraprendeva un viaggio in Brasile. Questo viaggio veniva a protrarsi a tal punto da non venire nemmeno più riconosciuto come tale. Furono anni in cui faticò ad ambientarsi; continuava a sentirsi a metà tra il paese in cui era nata e cresciuta e quello in cui si era trovata un po’ per caso a vivere, un paese che non rigettava ma che pure non riusciva ad abbracciare, a sentire come proprio. Questa fase, se non di rigetto, certo di riluttanza durò a lungo: all’incirca una decina d’anni. Alla difficoltà di sormontare le difficoltà incontrate in questo lungo periodo si deve, tuttavia, la radicalità del decentramento da lei operato in seguito.

Fu un processo lento, complesso e faticoso, ma proprio per questo foriero di risultati inaspettati. Non si trattò di una facile accettazione, né di un adeguamento delle proprie categorie interpretative al nuovo contesto, ma di un processo di radicale revisione di tali categorie e del proprio punto di vista. Bo Bardi a un certo punto colse – ed è per questo che ci sembra così significativa l’esperienza, pressoché abortita, della Lettera dal Brasile – che la sua posizione e il suo punto d’osservazione non erano più quelli che la connotavano al momento del suo sbarco. Non guardava più a quello che la circondava dalla prospettiva di un’italiana.

Quale che fosse la nuova prospettiva, forse, non lo sapeva nemmeno lei. Quando affermò di essere brasiliana come e più dei restanti brasiliani, visto che al contrario di coloro che vi erano nati lei aveva deliberatamente deciso di esserlo, stava enunciando una petizione di principio. Nessuno smette di essere qualcosa (e in particolare qualcosa di indelebilmente iscritto nella propria mente e nella propria carne) solo perché si è allontanato dalla sorgente di quel modo di essere o perché ha deciso di prenderne le distanze. Quelle parole, insomma, non le dobbiamo prendere alla lettera, ma come attestato non soltanto di un’aspirazione, ma anche di una conquista di cui, evidentemente, Bo Bardi andava orgogliosa: la conquista di una posizione che non era più quella da cui si guardava intorno quando giunse per la prima volta nel Nuovo Mondo.

Ed è per questo che, nel suo caso, parlare di viaggio non ci sembra così improprio. Il viaggio vero e proprio, naturalmente, era finito. Non era più tale ormai da tempo. Ma dicendosi brasiliana, in fondo, era lei stessa a sminuire senza volerlo la rilevanza di quanto era riuscita a fare. La verità è che a quel punto propriamente non era né italiana, né brasiliana. Aveva ormai acquisito una distanza dal proprio paese d’origine, e ne manteneva una da quello d’adozione. Si era lasciata alle spalle la cultura eurocentrica con cui era cresciuta, e la sua conquista più decisiva consistette nell’imparare a guardare il Brasile da una prospettiva decentrata; a restarvi ma, sempre e comunque, almeno un po’ spaesata. È in tal senso che possiamo dire che quello compiuto in Brasile fu un viaggio vero e proprio, ossia un confronto con l’estraneo senza fine e così radicale da non consentirle più di guardarsi intorno dal punto di vista iniziale.

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English abstract

When Pietro Maria and Lina Bo Bardi crossed the Atlantic Ocean aboard the liner Almirante Jaceguay, in 1946, they intended to embark on a long trip to Brazil. However, they ended up moving there altogether. Therefore, their journey became something so different from what was expected that one can barely call it a “journey”. Nevertheless, if a journey is also and above all the daily experience of “otherness”, of seeing things from a decentralised point of view, maybe we should indeed consider the years Lina Bo Bardi spent in Brazil as such. This paper aims to show that Bo Bardi’s uncomfortable but favourable position – as a traveller in a country she loved, where she felt she belonged, but was also compelled to see from the outside, through a sort of “anthropological gaze” – is one of the main conditions of her most original ideas and works.

keywords | Lina Bo Bardi; Brazil; Luigi Meneghello; Journey.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e al comitato scientifico della rivista

Per citare questo articolo: Daniele Pisani, Sola andata. Lina Bo Bardi in Brasile (1946-) “La Rivista di Engramma” n. 196, novembre 2022, pp. 61-79 | PDF di questo articolo

To cite this article: Daniele Pisani, Sola andata. Lina Bo Bardi in Brasile (1946-) “La Rivista di Engramma” n. 196, novembre 2022, pp. 61-79 | PDF of the article

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2022.196.0008