"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

La clausura dell’infinito

Lo spettacolo come paradigma nel Seicento italiano

Stefano Tomassini

English abstract

Vede, vorrei farne una sorta di racconto, non un sermone.
Sherwood Anderson (a Gertrude Stein)

Ancora per Diderot l’attore è un prédicateur laïque.
Hans Urs von Balthasar

[Forse, questa volta, non si tratta tanto di teatro sulle scene].
Antonin Artaud (à Jean-Louis Barrault)

Sfondata ogni porta,
abbattute le mura,
è il cosidetto Infinito
la nostra vera clausura?...
Giorgio Caproni, Tre interrogativi, senza data, 3

Un regno d’ingranaggi

Ludovico Ottavio Burnacini, Disegni per costumi da giardinieri, seconda metà del XVII secolo, Wien, Theatermuseum.

Il Seicento non fu proprio il secolo dei saraceni, anche se non mancarono, e anzi vi corsero a gran numero, infinti Solimani e gagliardissime Cleopatre, con future nomee di belle Hélène. Nato all’ombra di Cupido, e di pastori mascherati, indiziabili en travesti, il secolo dello Spettacolo aprirà senza sorprese (ché le sorprese montarono di già in Trento) sui corpi denudati e irresistibili degli Angeli, e sulle inarrestabili emergenze dell’Anima. E quanto già il secolo precedente fu guerresco e misurato con freddo e splendido distacco, il nuovo si mostrava, come per legno e stucchi del quasi-mai utilizzato Teatro Farnese (Parma, 1628), tutto una dismisura: “differenziandosi, di fondo, nel concreto materico – corporale (e morale) – dell’opera” (Pieri 1995, X).

Se del termine Barocco dovesse urgere un’ultima definizione (la reclamava già Rosenzweig nel 1908, nei suoi appunti diaristici: “Il Barocco è invece sostanzialmente ancora privo di una definizione” [Rosenzweig 2022, 35]), non è dato di rintracciare, credo, nella critica meno salottiera o curiale una più bella memoria poetica dell’universo barbaro e civilissimo del nostro Barocco più australe, in traccia di quello stesso “Meridione barocco” in una recente antologia dei disastri (Perrone 2021), di quella che si è avuta in poesia con Vittorio Bodini (1914-1970), ispanista fra i più appassionati, e poeta ermetizzante fra i meno compiaciuti, specie in una sua lirica, titolata e dedicata alla città di Lecce:

Biancamente dorato
è il cielo dove sui cornicioni corrono
angeli dalle dolci mammelle,
guerrieri saraceni e asini dotti
con le ricche gorgiere.

Un frenetico gioco
dell’anima che ha paura
del tempo,
moltiplica figure,
si difende
da un cielo troppo chiaro.

Un’aria d’oro
mite e senza fretta
s’intrattiene in quel regno
d’ingranaggi inservibili fra cui
il seme della noia
schiude i suoi fiori arcignamente arguti
e come per scommessa
un carnevale di pietra
simula in mille guise l’infinito.

In questa iniziale dissolvenza in chiaro, nella luce accecante di un cielo incorniciato dal marmo, si ritrova una materia ossessiva che fa paura tanto quanto la ragione: lavorato e decorato per troppo gioco, è la topografia ideale di una congiunzione che ha i piedi ben saldi nel Barocco più smodato e cristiano, alla cui “paura | del tempo” sùbito si oppone l’inscenata mimesi di un’anima morsa dal “seme della noia”. In questa proliferazione di immagini silenti, “d’ingranaggi inservibili”, la scena dello spettacolo è “un carnevale di pietra” che “simula l’infinito” (Bodini 1996, 53-54, 139).

“A dir Barocco si preferisce l’idea della Macchina”, insinua paziente Marzio Pieri, ma di “armonìe del mondo” in perdita, proprio come quegli “ingranaggi inservibili” a decoro dei cornicioni delle chiese leccesi, come una clausura che subentra lo sconfinamento, perché “è il Barocco a non decidersi. È una cultura in sospensione, imperfetta”, al pari di una meno ovvia e consumabile idea di meraviglia come cifra e attitudine di un’intero secolo: “Una meraviglia, al caso, intellettuale e catastematica, come avrebbe detto Epicuro del suo piacere quasi maomettano di star sotto una palma a stuzzicarsi i denti con un fuscellino d’erba” (Pieri 1995, 11-12). È un tempo della sospensione e della perdita capace di fare resistenza, il seme della noia.

L’assalto del Cielo

“Spettacoli son cotesti horamai triviali e mille volte ricantati sopra le scene”: così testimonia il massimo teorico del Barocco italiano, Emanuele Tesauro, in uno dei testi che qui provo a leggere (Tesauro 1671, 352), revocando in sintesi la tradizione più recente della spettacolarità cinquecentesca, allentata a suo dire nei vincoli della ripetizione e già del profitto, e puntualizza alludendo, per somiglianza, a una più necessaria apertura di questa idea, dopo i dominî interiori dell’anima e l’esercizio eroico dell’umiltà, ai “vortici della ‘pluralità dei mondi’” (Ossola 1995, 11 e Dick 1982). Si tratta, dopo la conquista rinascimentale dei limiti della terra, dell’assalto Barocco al cielo: “Toujours au-delà, toujours plus loin, toujours plus haut pourrait être aussi l’emblème de cette conquérante Europe de la Renaissance lancée à la conquête de la Terre et à l’assaut du Ciel, don’t peut-être le Baroque déçu marquera finalement les limites” (Pelegrín 2000, 28).

Nel disegno interno a questi nuovi limiti l’universo si produce, allora, come un nuovo spettacolo dell’infinito, mentre il teatro del mondo aggiorna i suoi confini, e la scena comprenderà in una nuova tensione figurativa anche le rovine del creato, i frammenti e gli emblemi di una cultura da interrogare fin nei suoi estremi confini, nell’immanenza della Storia, e senza illusione alcuna di totalità o di sistema. Non più, o soltanto, secondo norme e principî ordinatori, nel debito mai inevaso nei confronti dell’opera di Walter Benjamin, specie Ursprung des deutschen Trauerspiels (Benjamin 1999). Ciò che emerge è una storia mai più ricomposta, compilata con titoli non di prima pertinenza teatrologica e compulsata attraverso testi che sono più lo spazio di una esperienza, di una vocazione alla metamorfosi e alla trasformazione attraverso la performatività della parola, piuttosto che le trame concettuali di una fedeltà nella trasparenza del conoscere.

Lungi dal sembrare una prima, più visibile, insegna di un dispositivo di controllo e di dominio del potere cortigiano o più propriamente pastorale, il tema dello spettacolo nel Seicento europeo, in quanto paradigma capace di mostrare il cambiamento complessivo dell’impegno teorico che, storicamente, vi si riconosce, tra araldica simbolica, allegoria della Storia e mirabilia Dei, lo spettacolo rappresenta soprattutto un’idea nuova, un vero e proprio punto di rottura e correttivo fino ad allora ignorato di ciò che appariva, invece, come definitivamente ratificato.

Così, orazioni e discorsi accademici, panegirici sermoni e prediche che hanno come avvio metaforico l’allegoria dello spettacolo e il tópos del mondo come teatro, possono annoverarsi non soltanto nel genere pro fide ma anche come, de facto, emblemi di una nuova modalità di lettura della realtà e della conoscenza dell’ordine del cosmo, come una nuova agency del senso del vivere e dell’agire sociale, di fronte alla disgregazione dell’uomo rinascimentale e all’incombere della Storia, ma fedeli al progetto utopico di uomo nuovo, perseguito soprattutto in àmbito gesuitico, capace di coniugare l’enfasi emotiva ed etica del cristiano con l’estetica, la razionalità e il rigore formale dell’umanista. Sono le prime radici di una devotio moderna che andava prendendo piede in tutta Europa a séguito proprio dell’umanesimo religioso e del suo teatro scolastico.

Ma la storia, come ci ha insegnato a riconoscerla Benjamin, è rovina, per questo il mondo quando irrompe nel tempo è ridotto materialmente a teatro e spettacolo. Il Barocco ci mostra che il teatro e lo spettacolo non sono più una rappresentazione ma investono la realtà, la vita (e questo spiega perché Marino non scrive testi teatrali, né tragedie né libretti per il teatro musicale, come ad esempio Busenello, ma fa dello Spettacolo il tema dell’intero ultimo canto del suo Adone, poema dell’universo e dell’onniscente ma anche parodia del genere epico e annuncio della sua fine). Non la vita è diventata finzione, ma la finzione è il regno della vita e, come tale, produzione di verità e di senso (Attisani 2003). E lo spettacolo quale allegoria del mondo è chiamato a rispondere di questa caduta nella storia, non a nasconderla dietro l’ipotesi falsa di una onnicomprensiva totalità, nel momento in cui un’altra storia, quella dello spettacolo professionale nei più recenti istituti impresariali, si organizzava in sistema e poi in industria (Piperno 1987). Il tempo straordinario (e circoscritto) della festa diventa, dunque, l’ora attuale (D’Ors [1935] 1999, 87; Benjamin [1928] 1999, 157). È l’ossessivo richiamo al tempo della fine e alla scena del giudizio divino di molta predicazione seicentesca, per cui la vita non è intesa nel suo costante e lineare progredire ma sotto la minaccia di una rinnovata decadenza cui solo la prospettiva salvifica cristiana può porre rimedio. Anche l’ossessivo accumulo di metafore (in vere e proprie catene seriali) nei discorsi panegirici, nel rigore dell’inapparenza, rende l’ordine chiuso del discorso una mera parvenza, mentre la tensione delle parole verso il figurativo e la pronuncia orale riducono la percezione comprensiva a serie chiuse e consecutive di frammenti in cui i contenuti e i messaggi sono sì messi a nudo senza residui, ma senza la falsa trasparenza di una totalità onnicomprensiva e conclusa (Benjamin 1999, 149-150).

In un libro caro a De Certeau, Rosario Assunto, nel tentativo di interpretare filosoficamente l’architettura teatrale barocca, ha precisato (sulla scorta di R. Alewyn) questa invasione nell’universo dell’illimite spettacolare come il risultato di una mediazione tra lo spazio finito della realtà e la distesa infinita dei cieli; una invasione declinabile anche come rimozione dei confini tra realtà e illusione a favore della identificazione tra fiaba e mito e finitezza quotidiana, capace di produrre un “intermondo” in cui ogni rappresentazione è autorappresentazione, ogni contemplazione è autocontemplazione (Assunto 1979, 89-113).

Lo Spettacolo senza spettacolo

Il Barocco teorizza e progetta un’idea di spettacolo che conserva valore all’apparenza, ossia all’apparire epifanico, all’allucinazione come presenza (e non viceversa, come intuisce molto bene Deleuze), e la lega al molteplice, alla pluralità che, almeno nell’àmbito della tradizione cristiana, nella promessa di una felicità futura, rimane in posizione critica nei confronti della società e non come un mero protocollo unitario della realtà secondo i moduli, oggi imperanti, dell’industria culturale e del capitale investito, dell’integrazione e omologazione a un sistema di dominio del tempo e delle coscienze. Del resto, l’analisi della cultura dello spettacolo in età Barocca è sempre stata ricondotta sotto la cifra polinomica della mescolanza fra le arti. Una mescolanza sbandierata come manifestazione precoce di ‘arte totale’, o come un’ulteriore sintesi estrema dello spirito magico-sacro tardorinascimentale con lo spirito profano dell’antichità. Comunque, sempre come il massimo punto d’incontro delle molteplici competenze artistiche e artigiane seicentesche, che concorrono a formare un’ideale modello, poi dominante, del cantiere perenne o dell’officina segreta, spazio metafisico in cui nella cerimonia dell’arte scenotecnica si celebra la ricomposizione dei sensi con l’intelletto in quell’unico finale, assoluto ed effimero, che è lo spettacolo e la festa.

Ma il paradigma dello spettacolo nel secolo del Barocco come coscienza di una “grande occasione” nella quale convergono e “appaiono in sintesi tutti i movimenti del secolo”, dipende soprattutto da un’unica idea di “estensione”, da un’identica strategia dell’infinito che proprio Gilles Deleuze ha chiamato “unità estensiva” del Barocco. Da questo prolungamento da cui deriva continuità in larghezza ed estensione, anche le fonti si allargano e le letture si sovrappongono, in “un gioco a incastro di riquadri di cui ciascuno si vede sorpassato da una materia che vi passa attraverso” (Deleuze 1990, 184). Tale estensione finisce per raggiungere e collegare orazioni accademiche, panegirici sacri e prediche quaresimali, insieme all’apertura nei discorsi di un nuovo sistema: l’allegoria dello spettacolo diventa paradigma di un problema presso il pubblico, priorità della sua risoluzione, oggetto di sapere. Un “teatro delle arti [che] è la macchina vivente del ‘sistema nuovo’, come Liebniz l’ha descritta” (Deleuze 1990, 186). Eccone allora alcuni esempî.

La parabola cristiana della salvezza dopo la caduta nel peccato che segue la creazione, in un duplice scenario, quello del Cielo e quello della Terra, viene indicata dal teatino Giovanni Azzolini (anche autore dei Paradossi rettorici dell’orationi sagre, Napoli 1647), nella sua orazione I Divini Spettacoli dedicata al tema della Notte di Natale (1635). Azzolini descrive un teatro dell’eloquenza che è prima lo spettacolo di un tribunale di Giustizia contro Adamo peccatore difeso da Misericordia. Allora lo spettacolo diventa il dubbio del giudizio, il labirinto in cui si dibatte la decisione di Dio, e per il quale solo una Arianna Divina, che è la Sapienza, può sdipanare il filo e indicare l’uscita risolutiva (e redentiva) nella vicenda della nascita di Gesù e nel suo martirio sulla croce. Poi Azzolini richiama un secondo spettacolo, che è rappresentazione teatrale del presepe a Betlemme, nella finzione di un prologo cinque atti e quattro intermedi, in cui centrale è la figura della Vergine e l’allattamento del bambino. Qui le viscere della madre, e lo stesso suo cuore, diventano per lui il latte della vita: “E già sarebbe senza viscere e senza cuore rimasta la Madre, se col vagheggiare il Figliuolo non gli avesse racquistati più vivi”. Infine, citando Gellio (Noctes Atticae, XII, i, 14) sull’importanza del carattere della nutrice e della natura del latte sullo sviluppo morale del bambino, lo dice “divenuto Oratore eloquente”, e ne scrive il monologo finale. Un vivido pianto che è monito contro la colpa del peccato: “E ti soffriranno le viscere nel seno ancor della mia cara Madre, mentre ancor succhio il latte, col pugnale della colpa nelle mie carni innocenti insanguinarti le mani?” (Azzolini 1635, 83-125).

Invece, nella prospettiva agiografica del predicatore gesuita Luigi Giuglaris, nel suo panegirico dedicato a Gli Spettacoli di Santa Agnese Vergine, e Maertire (1641), la sontuosità dello spettacolo romano, che serviva al potere per nascondere a “gl’occhi ingordi del volgo” le sue nefandezze (“che assorditi dalle maraviglie del Teatro, lasciassero di avertire l’enormità di Palazzo”), ha prodotto il martirio dei cristiani, come quello di santa Agnese. L’esemplare sacrificio è colmo di iperboli e prodigi, come quello dei suoi capelli “cresciuti sùbito infino a terra” quando dai carnefici viene esposta nuda “nella maggior frequenza del popolo”, e “per sminuire la pena ad una tanta modestia”; o quello sul suo rogo in cui “s’inchinano le fiamme a riverire quel santo corpo, ed a lambirlo solamente”, trasformando la scena del supplizio “non più su una catasta, ma su un altare”. L’autore, che è un vero campione nella tecnica del concettismo, invita lo spettatore a passare dal ruolo passivo di testimone a quello attivo di padrino, capace di convertire il patire in nutrimento spirituale (“è possibile, che tutto il gusto dei Santi fosse il patire, onde secondando l’affetto loro i fedeli chiamassero il luogo dove erano tormentati le mense loro”), e l’azione della tortura, scena della crudeltà, in celebrazione della gloria, a imitazione divina.

L’avvocato fiorentino Angelo Coltellini, al servizio dei Medici e fraterno coi letterati G. B. Strozzi e B. Buonmattei, nel suo Discorso sacro dedicato a Gli Spettacoli Misteriosi o vero la commiserazione delle creature nella morte del Creatore (1653), ritrova nelle parole che descrivono gli spettacoli prodigiosi che seguono la “funestissima morte del Salvatore”, nell’alterazione dell’ordine naturale delle cose e nella violenza dell’accadere (“terribili portenti”), la redenzione dei nomi cui quelle parole si rivolgono. La Natura reagisce al martirio divino con uno spettacolo di vendetta (“segni d’una severa vendetta con prodigi e spettacoli misteriosi”) in cui solo gli animali e i morti piangono questa morte quando i vivi, gli eletti, sono invece duri di cuore. Solo quando la trasformazione del ricordo di questo estremo spettacolo di tenebra in una compassione interiore, sarà capace anche di tradursi nell’operare mondano esteriore (“cioè quello che per fede tengono ascosto nel cuore, manifestano ancora esternamente con l’opere”), allora sarà possibile redimersi da un mondo che è destinato a essere solo tenebra e rovina (“un Dio incognito patisce, e perciò tutto il mondo commosso si è coperto di tenebre o vero come dicono altri: o Dio autore della Natura patisce, o che si risolverà la machina del mondo”).

La prospettiva metastorica del letterato bresciano Giovanni Antonio Polino, nel suo discorso panegirico Li Spettacoli (1657), convoca con forza l’araldica simbolica per richiamare la persuasione interiore degli spettacoli antichi (“giuochi olimpici” e poi “Spettacoli, e giuochi solenni” per “render le dovute grazie al benefico Prencipe”), e il rapporto tra allegoria e potere nella loro ricostruzione storica. Come “il Theatro della trionfante Roma fu freggiato di molti Leoni”, così per l’oratore di oggi, “Tre soli veramente ne compariscono a solennizzare questo beatissimo giorno” (e sono quello della famiglia Pisoni, dedicataria del discorso; quello bianco di Brescia, e quello tutto d’oro di Venezia), ma talmente maestosi e fastosi che “non lasciano campo a’ nostri Spettacoli d’invidiare quelle glorie di longo tempo andate”. Inoltre, macrocosmo e microcosmo nella corrispondenza araldica tra mondo reale e potere simbolico fanno del simbolo, in questo discorso, un esempio e un insegnamento, poiché l’unità dello spettacolo simbolico contro le sconfitte imposte dalla Storia può sostitutire il potere, e farsi garante di una “perfetta corrispondenza”, di una “forza simpatica” e “secreta intelligenza” fra le cose. Ovvero, simpatie e intelligenze simboliche come argine a un’idea ciclica e catastrofica della Storia.

Per il grande predicatore cappuccino e teologo Emanuele Orchi, nella predica La Tragedia del Giudizio, che ha per sottotitolo Il deplorando spettacolo del Giudizio Finale (1666), l’intero “Teatro dell’hodierno Vangelo” è la scena allegorica di questa “azione funesta”. Il racconto nella voce dell’oratore e nella pratica d’ascolto degli astanti trova qui il più alto compimento della lettera (“io mi faccio da capo a trattarne in cinque atti distinti con quell’ordine, appunto, ch’in fatti ha da succedere”). Il prologo è la rovina del mondo alla fine del tempo, quando tutto è male. Il primo atto sono le tenebre che scendono sul mondo. Il secondo atto sono le metamorfosi della resurrezione dei corpi per la chiamata in giudizio da parte di Dio, che appare nel terzo atto. Mentre nel quarto si aprono i libri della coscienza di ognuno, e tutti i segreti si fanno allora palesi, le apparenze si dissolvono e la carne mostra tutte le sue tentazioni, mentre il tribunale divino scruta inesorabile “per li cantoni delle conscienze”. Infine, l’ultimo atto descrive l’immobile silenzio che precede la sentenza divina, proferita “dalla bocca del Giudice che il tutto hor’hora ha da porre in istato d’eternità o d’infinita indefettibile felicità, o d’infinita et irremediabil miseria”. L’assoluto decreto, senza possibilità di appello, è reso immutabile, con vero colpo di scena, dal lucchetto con cui l’inferno è chiuso da una chiave che “s’appende al chiodo del sempre, indissolubilmente legata con il nodo del mai”.

Infine, nella prospettiva metafisica dell’oratoria sacra di Emanuele Tesauro, autore del panegirico sacro Lo Spettacolo Sopra Santa Elisabetta Reina delle Humiliate (1671), il paradigma dello spettacolo è metafora della conciliazione tra interiore e esteriore. Il mondo è un teatro e le vicende umane sono spettacoli, comici o tragici, di e per Dio spettatore. Il combattimento dell’umiltà contro la superbia, nella dignità regale della destinataria del panegirico (Elisabetta di Ungheria), informa di un aspetto metafisico il paradigma dello spettacolo poiché le ragioni del “puro amore della Regale Humiltà” cristiana sono vincitrici sulla tirannia di quelle dell’onore (“questo è certamente il più raro, il più maraviglioso, il più heroico Spettacolo che mai mirasse dalla Empirea sua Seggia Iddio spettatore”). Colpisce, in tanta eloquenza, la ricezione della speculazione galileiana per la “moderna Astrologia”: “Gran miracolo han fatto i grandi ingegni, di aver con gli ordigni della moderna Astrologia scoperto le macchie in faccia al Sole, hora chi vuol veder le macchie nel Sole vegga Elisabetta impantanata. [...] oh che grato Spettacolo adunque, vide quel giorno il Sommo Nume, quando dalla Humiltà di Elisabetta vide in quel fango prostesa tutta la mondana Superbia”. Ma l’indicibilità di questa vittoria-verità è visibile solo negli spettacoli per la visione divina (“Talché ancor hoggi l’Ombre di quella Reina, riverberate in questa bassa terra, fanno un perpetuo Spettacolo al Re del Cielo”), in cui lo sguardo di Dio ricompone l’esperienza interiore della virtù con la moderazione esteriore dei sensi: la “mutola eloquenza” e la “mutola imagine” dello spettacolo, di cui scrive Tesauro, conduce allora finalmente all’annullamento dell’Ego dello spettatore, nel Tu divino.

Invio

Questi esempî della diffusione, nel Seicento italiano, dell’allegoria dello spettacolo quale tema di orazioni accademiche o panegirici sacri e prediche quaresimali, con la sua trasformazione in un paradigma dell’esperienza metafisica e una sua, per allora, più aggiornata e prepotente funzione, riconoscono apertamente la sua capacità di teatralizzazione del finito e di infinitizzazione della realtà. Come per tante pronuncie teoriche della scenicità primonovecentesca, lo spettacolo lungi dall’essere una generica categoria in grado di descrivere e raffigurare il declino della società industriale e postindustriale (Adorno e Horkheimer, poi Debord), è in realtà il paradigma di un radicale cambiamento che è insieme un complesso di forze: quello dell’incontro con la violenza dell’autentico, con il labirinto del dubbio, e con la fragilità della vita nei poteri del corpo, con i prodigî dei supplizî in un mondo che è tenebra e rovina, senza fare a meno delle segrete intelligenze fra le cose, dell’immobile silenzio dei nodi, delle macchie solari e dello spettacolo del fango, “dei sogni sognati e ritrovati, con scandalo, veri; nebulosa a mezz’aria dove si soffoca, dentro per l’orrore del vuoto, e, fuori per l’impossibilità del rientro” (Pieri 2007, 5).

Riferimenti bibliografici

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English abstract

The essay analyses, through a series of texts not of primary theatrical importance, the theme of the spectacle in seventeenth-century Italy as a paradigm showing a global change in theoretical commitment. Historically, this commitment is recognized in the spectacle, itself a groundbreaking innovation, through symbolic heraldry, allegory of history and mirabilia Dei.Thus, orations and academic discourses, panegyrics and Lenten sermons whose metaphorical starting point is the allegory of the spectacle and the tópos of ‘all the world’s a stage’, can be included not only in the pro fide genre but also as de facto emblems of a new way of reading reality and depicting knowledge of cosmic order. The spectacle is not only a new agency of the meaning of living and social action, facing the disintegration of Renaissance Man and the looming of History, but also the paradigm of a radical change.

keywords | sacred oratory; Baroque spectacle; theatre and predication; performing infinity.

Per citare questo articolo / To cite this article: S. Tomassini, La clausura dell’infinito. Lo spettacolo come paradigma nel Seicento italiano, ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 289-298 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0010