"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Ai margini della festa

Una nota su Enzo Mari

Anna Ghiraldini 

English abstract

Enzo Mari di fronte alla vetrina del Negozio Olivetti di Milano il giorno dell’inaugurazione della mostra “Arte Programmata” (1962) (copyright Mario Dondero).

Nel 1962, inaugura negli spazi del Negozio Olivetti alla Galleria Vittorio Emanuele II di Milano una mostra dal titolo “Arte Programmata”, organizzata da Bruno Munari e Giorgio Soavi, dell’Ufficio propaganda e sviluppo della ditta Olivetti. L’esposizione si svolge dal 15 al 30 maggio, prima tappa di una serie di appuntamenti ospitati successivamente a Venezia, Roma, Trieste, Düsseldorf, Londra e in diverse città degli Stati Uniti. In questa prima edizione, gli artisti che espongono le loro opere sono Enzo Mari, Bruno Munari, il milanese Gruppo T (formato da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi e Grazia Varisco) e il padovano Gruppo N (che raccoglie Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi e Manfredo Massironi). Enzo Mari è incaricato di curare l’allestimento nella sede milanese e il catalogo della mostra, aperto da un saggio di Umberto Eco; partecipa con la Struttura 649 realizzata nell’aprile dello stesso anno, formata da una griglia regolare di sedici lampadine rosse, blu e gialle ad accensione intermittente, programmata su tempi diversi, le cui luci interferiscono attraverso uno schermo a cellule regolari. Una serie di fotografie (Meneguzzo, Morteo, Saibene 2012, 23, 25) ritrae Mari il giorno dell’inaugurazione nel passage milanese accanto alla vetrina del Negozio Olivetti, la postura disinvolta con le mani nelle tasche dei pantaloni del completo scuro, intento a fissare i passanti, quasi fosse egli stesso un totem di segnalazione della mostra; gli altri artisti si trovano all’interno e dall’ampia vetrina osservano i potenziali visitatori.

Nel corso delle visite di ricerca allo studio-archivio di Mari a Milano, conversando con Francesca Giacomelli, assistente del designer per oltre dieci anni, è emerso un tratto essenziale dell’atteggiamento di Mari nei confronti della professione (di artista, designer, teorico e filosofo) e del suo rapporto con la società in cui opera e con cui si misura nel corso dei suoi sessant’anni di attività: provocatore, polemico, voce fuori dal coro, “guastafeste”, outsider. Questa sua facies, che sarà il suo lasciapassare nel prosieguo della sua carriera soprattutto di designer, ha un’anticipazione, forse fortuita, in queste immagini, scattate a pochi anni da quel 1959 che ha sancito la sua consacrazione sulla scena artistica. E proprio prendendo spunto da queste immagini appare interessante raccogliere alcuni degli sguardi e delle interpretazioni di artisti, designer, storici e critici d’arte che hanno seguito, accompagnandolo, il percorso e l’opera di Mari etichettandolo come figura irriducibilmente e perennemente ai margini in tutte le esperienze che lo hanno impegnato in diversi ambiti durante la sua lunga carriera. Come la critica non manca di sottolineare, bisogna ricordare sempre che si ha a che fare con un progettista complesso, impegnato in una ricerca e una progettualità permanente, spesso ai limiti della grande industria, preoccupato dal problema del lavoro, dalla cui realtà alienante si è sempre sentito estraneo ed estraniato (Quintavalle 1983, 11-14).

Nel gennaio 1968 sul numero 458 di “Domus” esce un contributo a firma dello storico dell’arte Tommaso Trini, che presenta alcune opere di Mari prodotte tra il 1965 e il 1967: l’autore descrive Mari come un designer, un ricercatore visivo e un tecnico che sostiene la priorità di chiarire, nel contesto globale, la propria attività specialistica e il proprio inserimento sociale. Mari non fa prodotti di design ma produce design: i suoi oggetti sono “privi dell’aggressività tipica delle mode da consumare”, puntano al significato, comunicano ricerca e comportamento, liberi da connotazioni meramente estetiche e sovrastrutture stranianti. I suoi tentativi di opporsi all’obsolescenza espressiva dei prodotti mirano a “liberare le cose dal loro semplice valore di merce”, preoccupandosi solo “di ciò che con le cose si può comunicare” (Trini 1968, 31).

La necessità di Mari di trasmettere in modo unitario il suo lavoro è testimoniata dalle molte occasioni in cui ha cercato di fare il punto sulla sua attività multidisciplinare. La prima occasione si concretizza nella mostra antologica “Funzione della ricerca estetica” tenutasi al Museo di Castelvecchio a Verona nel febbraio del 1970 corredata da un volume che porta lo stesso titolo, dove Mari ricostruisce la prospettiva problematica del suo lavoro. Nella premessa all’opera, affronta il problema della consistenza della figura dell’artista come operatore culturale, cosciente che la crisi della ricerca estetica moderna derivi dalla mancanza di comunicazione tra l’artista e il fruitore, il primo impegnato a consegnare un prodotto finito senza dichiarare le ragioni della ricerca e il secondo abituato a ricevere oggetti con valenza meramente estetica, senza un impegno di riflessione sul loro significato. Per Mari, “è necessario che ciascuna categoria, a lato e in funzione dell’azione collettiva, contribuisca attivamente al chiarimento di quanto le concerne direttamente” (Mari 1970, 9) per sollecitare un’azione politica di tipo provocatorio.

Alcuni fallimenti negli anni Settanta...

All’inizio degli anni Settanta, Mari è un designer conosciuto e affermato: il suo principale committente di oggetti di design ed edizioni d’arte è la ditta Danese di Milano ma inizia a lavorare anche per altre firme italiane, come Driade e Artemide. In questo periodo, lavora ad alcuni progetti che risulteranno essere veri e propri insuccessi: Day-night, Proposta per un’autoprogettazione di mobili e Proposta per la lavorazione a mano della porcellana.

Nel 1972 Driade mette in produzione il divano-letto Day-night, rifiutato dal pubblico che stigmatizza una sua povertà formale nel confronto con altri oggetti della stessa tipologia. Mari interpreta il fallimento del progetto come segnale del condizionamento sociale esistente nel proprio rapporto con l’ambiente e dello scollamento dell’utente finale da riflessioni di tipo critico sul progetto: tali capacità critiche, secondo il designer, possono nascere solo dal confronto diretto con la progettazione e la pratica del lavoro. Gillo Dorfles, in un articolo per “Casabella” relativo alla ricezione del divano-letto (1973), evidenzia che tra gli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta si è assistito al moltiplicarsi di oggetti “fatuamente edonistici”, prodotti di una società industrializzata che “identifica il design con lo styling” e che produce mobili e oggetti privi di novità strutturali. Puntando all’aspetto etico e politico della progettazione, Mari ha proposto un “design antiedonistico” attraverso il quale il pubblico, ormai vittima dell’inerzia indotta da prodotti compiuti e tecnicamente perfetti, potesse tornare ad apprezzare dell’opera non soltanto l’abilità dell’esecuzione quanto l’effettivo valore, tanto l’oggetto quanto il progetto sotteso. Secondo Dorfles, Day-night è un esempio paradigmatico di buon design che avrebbe potuto apportare alla materia del disegno industriale il recupero di alcune caratteristiche, come funzione e innovazione, che avevano valso al design italiano un plauso generalizzato (Dorfles 1973, 45).

Questo fallimento del progetto, respinto tanto dalla borghesia quanto dalle classi sociali meno abbienti, porta Mari alla Proposta per un’autoprogettazione (1973). Si tratta di un invito alla progettazione autonoma di ciò di cui l’utilizzatore abbia bisogno, sulla base di una serie di progetti suggeriti dal designer liberamente modificabili secondo necessità, seguita dalla richiesta di invio delle foto delle proprie realizzazioni: lo scopo non è in alcun modo un incitamento a una operazione hobbistica, ma una sollecitazione a riflettere sui problemi, il significato e i condizionamenti che derivano da qualunque progettazione, nel tentativo di una ridistribuzione di spirito critico e creatività. Per l’occasione, vengono ideati diciannove modelli da realizzare in legno, con tanto di distinta dei materiali – che si possono eventualmente acquistare pretagliati dall’azienda bolognese Simon International – e inseriti in un libretto, con le istruzioni per acquisire le basi essenziali del costruire e la preghiera di inviare le foto dei modelli realizzati allo studio, distribuito al costo di 1200 lire dalla rivista “L’Erba Voglio”. Il progetto viene presentato alla Galleria Milano nell’aprile del 1974, e all’inaugurazione Elvio Fachinelli, Alessandro Mendini, Tommaso Trini e Virgilio Vercelloni discutono con l’autore.

Le foto e le lettere che pervengono allo studio lodano l’iniziativa, pertanto la finalità sociale dell’esperienza, il pensare con le proprie mani – “il progetto, come tutta la ricerca intellettuale, si fa con le mani” – non viene compresa. La critica imputa a Mari una presunta sfiducia nei confronti dei processi produttivi che coinvolgono le macchine, un tentativo di ritorno alla natura e la complicità nella diffusione del fenomeno del do it yourself. A questo proposito, in un’intervista curata da Elvio Fachinelli, Mari afferma che la sua intenzione è esattamente contraria all’hobby. L’obiettivo di questo progetto è che, nel fare l’oggetto, l’utilizzatore si renda conto delle ragioni strutturali per poter migliorare la propria capacità di valutare in modo critico gli oggetti proposti dall’industria: la finalità sociale dell’esercizio che propone Mari è la manualità intesa come pratica diretta per l’attività di ricerca.

Argan inquadra il progetto all’interno della crisi che attraversa il design italiano dal 1968: il critico sostiene che

bisogna trovare il coraggio di demistificare il design senza ricadere nell’apologia ruskiana e morrisiana delle oneste, benché povere, tecniche artigianali [...]. Da noi [in Italia], con più esplicito impegno ideologico e politico, Enzo Mari, un famoso designer, ha voltato le spalle agli imprenditori illuminati e ora propone un disegno antindustriale. Ha una finalità sociale: regala progetti, disegni esecutivi: chiunque potrà utilizzare questi disegni per realizzarli da sé. A pensare con le proprie mani, fare i propri pensieri, questi risultano più chiari. Mari ha ragione, tutti debbono progettare: in fondo, è il modo migliore per evitare di essere progettati (Argan 1974).

A qualche anno di distanza, rileggendo il lavoro di Mari, Pedio sostiene che la proposta di Mari ha due scopi:

esemplificare istruzioni, eventualmente da alterare, un semplice know-how elementare; e far riflettere i fruitori stessi e sui condizionamenti, materici e statici, di qualunque progettazione [...]. La faccenda venne invece assimilata dal mercato come ultimo strillo dell’arredo rustico; per le moltissime lettere a Mari poche ve n’erano che dimostrassero però comprensione. Probabilmente un atteggiamento produttivo come quello qui sperato presuppone una riappropriazione assai più strutturale (Pedio 1983, 121).

Nel 1973, Jacqueline Vodoz e Bruno Danese, a capo dell’azienda Danese, chiedono a Mari di disegnare degli oggetti decorativi in porcellana. La ricerca impostata dal designer parte dall’analisi dei prodotti esistenti e dal sopralluogo in alcuni laboratori artigiani, dove ha la possibilità di realizzare che la produzione artigianale finisce per essere una condizione alienante come il lavoro in una qualsiasi catena di montaggio. Un altro problema che rileva Mari è il distacco tra il progettista che elabora i modelli formali per la produzione e l’esecutore che è destinato a eseguire in modo pedissequo il progetto: per il designer, invece, la forma si definisce sulla base delle ragioni della materia, e pertanto non può essere imposta come segno dall’esterno da ripetere vuotamente. In relazione alla richiesta di oggetti di tipo artigianale, Mari propone che ogni oggetto sia realizzato completamente a mano dallo stesso operaio. Per la produzione, studia con gli artigiani alcuni modelli, coinvolgendoli quindi nelle scelte formali e lasciandoli poi liberi di proseguire nel lavoro di ricerca. Il testo di presentazione del progetto per il catalogo di Danese è scritto da Sottsass:

Che l’Enzo Mari, tra tutti quelli che fanno questo buffo, ambiguo, incerto e scivoloso mestiere che oggi si chiama “design”, sia uno che insegue con più disperazione e accanimento il sogno di sottrarlo (questo mestiere) al suo peccato originale, di riscattarlo dalla corruzione, di metterlo in qualche modo a disposizione della storia malinconica della gente che cammina per le strade piuttosto che a disposizione delle presunzioni stizzose delle aristocrazie al potere, questo si sa; lo sappiamo benissimo e proprio per questo – se posso dirlo qui – gli vogliamo molto bene: per questa sua impaurita dolcezza per la quale se si mette a fare qualche cosa, lo fa sperando di riempire in qualche modo qualcuno di quei vuoti orribili, neri come buchi di peste, che si vedono o non si vedono (ma che ci sono) sotto la finta pelle perfetta di questo ansante corpo della “civiltà avanzata”.

E mentre guardava “gli uomini, le donne e le ragazze mentre facevano in fabbrica altre porcellane, [...] costretti per via delle esigenze produttive e di mercato a ridurre a zero le loro qualità”, intuisce che la sua ricerca consiste nel trovare il modo di affrancarli da quella situazione in cui la progettazione è loro negata:


Ma l’Enzo Mari io me lo immagino guardare manovelle, stampi di gesso, decalcomanie e pagnotte di argilla, con quei suoi occhi impauriti e accaniti e me lo immagino prendere pezzetti di argilla con le dita, davanti a quegli uomini delusi nella loro storia, e chiedere: “Come si fa? Si fa così?” e invitarli a continuare... 

Gli oggetti prodotti hanno un grande successo di vendita nonostante il prezzo elevato. Tuttavia, come rileva Mari stesso, gli operai non riescono a liberare la propria creatività e, anzi, continuano a lavorare seguendo un certo ritmo di produzione e a copiare, dei modelli suggeriti dal designer, anche le imperfezioni. Il designer riconosce quindi il fallimento della sua proposta, di questo tentativo di recupero della creatività degli artigiani, che avrebbero dovuto essere i primi destinatari del suo “progetto-uomo”.

… e alcune considerazioni dagli anni Ottanta in poi

Il primo volume che raccoglie e organizza il pensiero progettuale e la produzione di Mari è Enzo Mari designer di Renato Pedio, pubblicato nel 1980. Il capitolo “Prologo ai pensieri” ospita un dialogo tra tre personaggi immaginari nella testa del critico che delineano i contorni della figura di Mari come operatore estetico, progettuale e politico, che cerca di tenere uniti e fondere assieme creatività, produzione industriale e socializzazione del progetto. Dallo scambio di battute emergono tutte le linee d’azione, le idee, i contrasti e i compromessi dell’autore: è “uno sospeso tra oggetto e progetto”. Il progetto per Mari è un atteggiamento prima di essere un mestiere, è cooperazione tra due culture, quella operaia e quella intellettuale, in attesa di fondersi in una. L’operaio è il primo utente del design, espropriato non solo del suo lavoro ma soprattutto della sua capacità di lavoro. Inoltre, sostiene Pedio, “ponendo l’autocoscienza collettiva come scopo di tutta la ricerca, Mari mira a socializzare la creatività connessa al progetto. Non se ne comprendono infatti né successi né fallimenti se non si parte dalla sua tendenza alla globalità” (Pedio 1980, 121).

Tra i progettisti contemporanei a Mari, alcune voci delineano in modo chiaro il suo impegno progettuale e politico e le difficoltà che affronta: per Achille Castiglioni, l’obiettivo della ricerca di Mari è la verità, emerso soprattutto durante il periodo di presidenza dell’ADI – l’Associazione Design Industriale – teso a verificare che si trattasse ancora del “luogo di dibattito e confronto culturale da cui aveva tratto – all’origine – motivi e consensi qualificanti”; Mario Bellini ravvisa nel designer tensione e insoddisfazione, segnale di una vigile “autodifesa della coscienza”. Il punto di vista di Alessandro Mendini è in una lettera a lui indirizzata pubblicata in “Domus”:

Da tempo quando giro il mondo per via di questo mio mestiere di cronista del design, di segugio dell’architettura e dell’arte, tutti mi chiedono con curiosità notizie sul design italiano tanto famoso, sulle sue fortune passate e sulle sue speranze future. Allora io parlo dei tempi rosa del Bel Design e del suo tramonto, dell’epoca del design radicale e della sua dura fine. […] A un certo punto in questi miei viaggi succede che la gente mi domandi: “E questo Enzo Mari che assieme agli infiniti oggetti per Danese produce messaggi irritanti come l’Atlante secondo Lenin, questo Enzo Mari chi è? Che cosa rappresenta?”. Allora io non ho dubbi e rispondo: “Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designers, questo importa”. […] A te non interessa il progetto disegnato, se non come freccia da lanciare contro la logica illogica del meccanismo produttivo, come teorema per dimostrare le incongruenze del sistema. A te interessa il progetto del progetto, anzi il progetto del progetto del progetto. Ovvero tu cerchi, proponi e mediti solo sul “progetto dell’uomo”. […] Mentre noi curvi sui nostri tavoli tiriamo le nostre righe cariche di speranza, tu a intervalli regolari ci fai sobbalzare con un tragico nuovo messaggio “finale”, pazzo, santo, severo, candido, alienato e concreto insieme. […] Tu non sembri il solito designer, dico allora alla gente che mi domanda di te, tu sembri un “inquisitore progettuale” che lancia ecumenici e laconici appelli a noi architetti figlioli prodighi: “Vuotate tutto, cambiate tutto, reinventate tutto!” (Mendini 1980, 1).

Nello stesso periodo, Giovanni Klaus Koenig, sulle pagine di “Ottagono”, presenta la mostra “Dov’è l’artigiano?” (1981), incentrata sull’arbitrarietà del confine tracciato tra arte, design e artigianato. L’affondo è contro una certa narrazione del design da parte dell’ADI:

La distinzione fra design ed artigianato passava per l’esame delle qualità estetiche del prodotto, per Kunstwollen del progettista; e non attraverso l’esame dei processi di produzione. Come mai? Principalmente, pro bono pacis; ed infatti i Governi dei due territori – l’ADI per il design e le organizzazioni artigiane dall’altro lato – si limitavano a censire i loro sudditi in base alle leggi ed i loro desiderii, senza nessun interesse ad indagare quanti oggetti di design fossero artigianali e tantomeno viceversa; comportandosi così come si comportano tutti i Governi del mondo con le loro minoranze. Coloro che si muovevano in direzione opposta erano considerati terribili guastafeste su cui pendeva la scomunica. Tipico è stato il caso di Enzo Mari, designer e presidente dell’ADI, che quando volle mettere i puntini sugli i in occasione della rinascita del Compasso d’Oro proprio sulla vexata quaestio – apriti cielo! – non gli restò che dare le dimissioni ed andarsene dall’ADI, tanto grosso sarebbe stato il vespaio che avrebbe suscitato nel design italiano (Koenig 1981, 116).

Lo storico si riferisce all’episodio che allontana Mari dall’ADI, occorso alla fine degli anni Settanta: divenuto presidente nel 1977, nel 1979 progetta con Renato Pedio la mostra “Design & design”, con lo scopo di documentare il dibattito e la ricerca attorno al design dal Secondo Dopoguerra; l’evento accompagna la riproposizione del premio Compasso d’Oro, sospeso dal 1970. Una parte dell’esposizione è un graduale approfondimento di temi e problemi impliciti nei prodotti di design, che si riassumono nel problematizzare la qualità, da un lato, del lavoro di produzione e, dall’altro, della risposta del design ai bisogni materiali e culturali del pubblico. La mostra così progettata non viene realizzata a causa dell’atteggiamento di Mari, ritenuto demistificatorio da parte del Comitato Direttivo dell’ADI, nei confronti del premio: in quell’occasione, rifiutando l’impostazione celebrativa del Compasso d’Oro sostenuta dall’associazione e tacciandola di tendenze reazionarie, rassegna le proprie dimissioni dal ruolo di presidente.

A distanza di pochi anni, viene pubblicato Enzo Mari di Arturo Carlo Quintavalle, catalogo dell’omonima mostra organizzata nel 1983 a Parma: il volume è un importante lavoro di lettura dell’opera di Mari attraverso i progetti donati dall’autore all’Università di Parma. Secondo lo storico dell’arte, la contraddizione entro cui Mari vive è che “il sistema degli oggetti è soprattutto un insieme costituito per rimandi simbolici interni e diviso dalle linee generali della progettazione che stanno fuori, o sopra, le possibilità di intervento del singolo”. Offrendo una sorta di spazio di intervento progettuale all’utente dei suoi oggetti, il designer è “il solo a porre e a porsi il problema del lavoro della progettazione”, riflessione che lo porta a essere ai margini. Per Mari il rapporto con la committenza è conflittuale poiché, alla richiesta di pezzi singoli da immettere nel mercato, il progettista risponde con la riproposizione dei termini di una progettazione complessa e totale. La strada scelta da Mari è quella del “rifiuto di una progettazione chiusa, dunque una progettazione che vuole chiamare in causa consapevolezze a livello di esecuzione e fruizione del lavoro” (A.C. Quintavalle in Pedio 1980, 141).

Nel 1997 esce il volume Perché un libro su Enzo Mari? di François Burkhardt, Juli Cappella e Francesca Picchi. Burkhardt raccoglie e sistematizza i fili dei discorsi fatti da storici e critici nei trent’anni precedenti: nelle sue parole, Mari è la figura più contestata nell’ambito del dibattito sul design italiano dagli anni Settanta in poi e, al contempo, spina nel fianco della critica, delle aziende e dei colleghi per la forza stessa della sua posizione e per il significato del suo discorso.

E torniamo alle immagini che hanno dato lo spunto per questo contributo: Ezio Mari, una figura ai margini della festa, ma che ha fatto della marginalità un luogo privilegiato dal quale, “pazzo, santo, severo, candido, alienato e concreto insieme” ha potuto gridare a pieni polmoni le invettive della sua “inquisizione progettuale”.

Riferimenti bibliografici
  • Argan 1974
    G.C. Argan, “Tanti mobili fatti in casa”, “L’Espresso” 18, 1974.
  • Bill, Munari 1959
    M. Bill, B. Munari, Enzo Mari, Milano 1957.
  • Burkhardt, Cappella, Picchi 1997
    F. Burkhardt, J. Capella, F. Picchi, Perché un libro su / Why write a book on Enzo Mari, Milano 1997.
  • Dorfles 1973
    G. Dorfles, Un oggetto di design anti-edonistico, “Casabella” 379 (1973), 45.
  • Koenig 1981
    G.K. Koenig, Dov’è l’artigiano? La mostra didattica di Enzo Mari, “Ottagono” 62 (1981), 116-121.
  • Mendini 1980
    A. Mendini, Caro Enzo Mari..., “Domus” 607 (giugno 1980).
  • Meneguzzo 2012
    M. Meneguzzo, Arte Programmata cinquant’anni dopo, Milano 2012.
  • Meneguzzo, Morteo, Saibene 2012
    M. Meneguzzo, E. Morteo, A. Saibene, Programmare l’arte. Olivetti e le neoavanguardie cinetiche, Milano 2012.
  • Pedio 1980
    R. Pedio, Enzo Mari designer, Bari 1980.
  • Trini 1968
    T. Trini, Enzo Mari ’67, “Domus” 458 (gennaio 1968), 31-42.
  • Quintavalle 1983
    A.C. Quintavalle, Enzo Mari, Parma 1983.

English abstract

Starting from a series of photographs taken at the inauguration of “Arte Programmata” exhibition (Milan, Negozio Olivetti, 1962), the essay gathers together some observations by artists, designers, historians and critics contemporary with Enzo Mari on his being a lone voice.

keywords | Enzo Mari; Renato Pedio; Gillo Dorfles; Alessandro Mendini; Ettore Sottsass.

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Ghiraldini, Ai margini della festa. Una nota su Enzo Mari. ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 397-404 | PDF