"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Musica sotto l’albero

Massimo Crispi

English abstract

Presepe popolare alla Vucciria di Palermo (dall’archivio personale dell’autore)

La musique, la plus belle religion du monde
où on ne menace ni ne promet.
Minou Drouet, Lettre au chien des Julliard, 1956

Il Natale, la festa dei bambini per eccellenza – una festa di compleanno, in fondo –, è stato e continua a essere l’occasione per un’indigestione di musica sull’argomento. Oltre alla prevedibile pesantezza postprandiale a causa di eccessi alimentari meno frequenti durante il resto dell’anno, c’è, infatti, l’agguato costante di melense canzoni festive che riescono a diventare ossessive e moleste soprattutto per sovraesposizione. Ovunque, nei supermercati, nei mercatini di Natale, in televisione, alla radio, insistono canti natalizi in tutti gli arrangiamenti, per archi, per organo, per pianoforte, per cori, per voci solistiche, causando un disordinato rumore di fondo costante e stressante da ben prima dell’Avvento almeno fino all’Epifania. Vendevano perfino, fino a poco tempo fa, degli alberi di Natale in plastica con carillon elettronico incorporato che scandiva le carole una dopo l’altra con un orrendo e insistente suono artificiale. Non ti salvavi neanche durante il pranzo da parenti, dove alla chiassosa kermesse familiare si aggiungeva il carillonico sottofondo. Ovviamente gli alberelli sonori erano costruiti in Cina, dove del Natale importa assai poco se non finalizzato all’esportazione indiscriminata di ciarpame natalizio negli ultimi tre mesi dell’anno.

Quella legata al Natale, è una sorta di musica a programma, ossia una musica in cui si narra una storia, a volte senza parole ma più spesso con testi elaborati all’uopo. Le origini di questi canti sono assai remote e di certo prendevano ispirazione dagli angeli che, sfoggiando cartigli musicali e non, come raffigurato nella Natività del 1492 del Ghirlandaio o in quella (trafugata) del Caravaggio del 1600 e in molte altre, si sgolavano sulla stalla sacra svolazzando e cantando il Gloria a voce piena, un po’ per non dispiacere il capo un po’, forse, per reclamizzare il lieto evento e farsi udire a distanza perché la gente accorresse con tanti doni, pastori, Magi e Befana compresi.

La Melurgia bizantina, forse la più antica forma musicale liturgica (se ne hanno notizie dal V-VI secolo), che cela misteri ancor oggi irrisolti, come l’interpretazione della notazione, anche perché si tramandò per molti secoli solo oralmente, abbonda di canti per ogni occasione e quindi anche per il Natale. Alcuni versetti del Salmo 109 (1,2) venivano e vengono tuttora cantati come salmo messianico alla mattina del giorno di Natale, col protopsalte che li recita, appunto, salmodiando e l’assemblea che canta l’Alliluia. Ma col tempo la purezza e la semplicità delle origini, come ognuno sa, si perdono e i barocchismi invadono ogni cosa. Anche la Melurgia bizantina non ne fu immune e i vocalizzi divennero sempre più virtuosistici.

Nel frattempo la liturgia latina sviluppava canti natalizi sempre più elaborati e straordinari, coll’evoluzione della polifonia rinascimentale e barocca, e Tomás Luís de Victoria (1548-1611), Giovanni Gabrieli (1557-1612), Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594), William Byrd (1539-1623) e molti altri giganti della Storia della Musica rivestirono il testo O magnum mysterium di magnifiche note che si diffondono e rimbalzano nelle navate delle cattedrali ancora oggi.

O magnum mysterium
et admirabile sacramentum,
ut animalia viderent Dominum natum
iacentem in praesepio.
O beata Virgo, cujus viscera
meruerunt portare
Dominum Iesum Christum.
Alleluia.

Credo però, a questo punto, che fare una vera e propria storia dei canti natalizi sacri e tradizionali – Quanno nascette ninno, dal testo chilometrico, è stata spacciata per villanella rinascimentale ma è molto più tarda (1754), essendo stata composta da Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) – sia troppo prolisso e forse inadatto a questo saggio. In fondo ci sono pubblicazioni specifiche che possono spiegare con dovizia la produzione liturgica aulica e popolare e mostrarne i capolavori che meriterebbero uno spazio adeguato. Come pure è impossibile enumerare la quantità d’interpretazioni magnifiche di pilastri fondamentali della musica come le cantate e gli oratori dei più grandi autori, barocchi, classici, romantici e postromantici, dalle Prophetiae Sibyllarum di Orlando di Lasso (1532-1594) ai brani di Giacomo Carissimi (1605-1674), dal Messiah di Georg Friedrich Händel (1685-1759) e il Weihnachtsoratorium di Johann Sebastian Bach (1685-1750) a L’enfance du Christ di Hector Berlioz (1803-1869), a Felix Mendelssohn (1809-1847), a Olivier Messiaen (1908-1992) e così via. Siamo sicuri che ne tralasceremmo indegnamente alcuni per privilegiarne altri. Vorremmo pertanto limitarci a illustrare un po’, com’è più consono al nostro spirito di enfants terribles e, soprattutto, allo spirito di questo saggio, gli anticonformisti dei canti di Natale. Non sono pochi, infatti, e sono pure illustri i compositori che hanno osato trattare il Natale in maniera anticonvenzionale, sia buffa, sia onirica, sia tragica. Poi ce n’è anche qualcuno che ha voluto unire alla propria creatività una vigorosa impronta etnica, dando al tutto una cifra surreale ma impattante. Francesi sono i primi tre che analizzeremo e sono tutti e tre vissuti a cavallo tra Otto e Novecento, in un’epoca ribalda dove ormai Dio era bell’e seppellito da Nietzsche.

Cominciamo dall’autore cronologicamente intermedio tra i due come età ma primo della lista perché il suo brano fu composto nel 1905 e quindi ha il diritto di inaugurare questa nostra originale triade. Maurice Ravel (1875-1937) dedicò questa mélodie a M.me Jean Cruppi, la moglie del futuro ministro della III Repubblica Jean Cruppi (1855-1933), un personaggio della sinistra radicale francese assai influente. Madame Cruppi era una brava cantante dilettante, sincera ammiratrice di Ravel, e fu lei che lo sorresse, di lì a poco, nell’avventura della sua opera buffa L’Heure Espagnole, aggiudicandosi così una seconda dedica. E ci sono anche dei legami tra le due composizioni. Il brano s’intitola Noël des Jouets, il Natale dei giocattoli. La tendenza di Ravel a raccontare delle storie attraverso le proprie composizioni è qui ancora più presente che in altre. Infatti, qui il compositore è pure autore del testo fantasioso che però proietta anche un’ombra d’inquietudine futurista.

Ravel ci inoltra subito in una sorta di presepe meccanico fatto tutto di giocattoli-automi, oggetti che gli piacevano molto, tanto da introdurli anche come elementi musicali e scenici in altre sue opere: in L’Heure Espagnole (1907), accanto agli orologi della bottega di Torquemada, figuravano, infatti, automi semoventi come ballerine danzanti, soldatini, uccelli, galletti e altro. D’altro canto quest’attenzione verso gli automi, nella cultura francese, è piuttosto antica e risale al periodo barocco. E non dobbiamo dimenticare che nell’altra sua opera, L’Enfant et les Sortilèges (1925), Ravel anima e fa cantare tutti gli oggetti della stanza dell’Enfant: la tazza cinese, la poltrona, la teiera, le statuine di porcellana, la pendola, situazione magica che fu ripresa nel film d’animazione della Disney La Bella e la Bestia (1991), basato sull’omonima favola, sempre in ambiente francese.

Il presepe meccanico di Ravel, presentato quasi con una tecnica cinematografica di piani sequenza, primi piani, panoramiche, messi in risalto dalla musica che accompagna ogni ‘fotogramma’, è, però, del tutto innovativo e dissacrante.

Le troupeau verni des moutons
Roule en tumulte vers la crêche
Les lapins tambours, brefs et rêches,
Couvrent leurs aigres mirlitons.
Vierge Marie, en crinoline,
Ses yeux d’émail sans cesse ouverts,
En attendant Bonhomme hiver
Veille Jésus qui se dodine.
Car, près de là, sous un sapin,
Furtif, emmitoufflé dans l’ombre,
Du bois, Belzébuth, le chien sombre,
Guette l’enfant de sucre peint.
Mais les beaux anges incassables
Suspendus par des fils d’archal
Du haut de l’arbuste hiémal
Assurent la paix des étables.
Et leur vol de clinquant vermeil
Qui cliquette en bruits symétriques
S’accorde au bétail mécanique
Dont la voix grêle bêle:
“Noël! Noël! Noël!”

Il gregge verniciato delle pecorelle
Avanza tumultuoso verso la mangiatoia.
I conigli tamburini, con suoni rapidi e secchi,
coprono quello acuto dei mirlitoni.
La Vergine Maria, abbigliata in crinolina
Dagli occhi di smalto sempre aperti,
In attesa del Bonhomme hiver
Protegge Gesù, che si dondola nella culla,
Perché, non lontano, sotto un abete,
furtivo, avvolto nell’ombra, 
Belzebù, la bestia oscura,
è in agguato dal bosco sul bambino di zucchero dipinto.
Ma i begli angeli infrangibili,
Retti da fili d’ottone,
Dall’alto dell’albero invernale
Garantiscono la pace delle stalle.
E il loro volo di vermiglio sgargiante,
Dal simmetrico ticchettio,
S’armonizza al bestiame meccanico
La cui flebile voce bela:
“Natale! Natale! Natale!” (trad. di Massimo Crispi).

Che raduno è mai questo di giocattoli natalizi meccanici? Un presepe surreale di greggi verniciate che si muove rumoreggiando mentre i conigli suonano il tamburo, talmente forte da azzerare i suoni striduli dei mirlitoni, flauti di canna, zufoli spesso utilizzati dai bimbi, come i moderni kazoo, una Madonna bambolina con occhi di smalto aperti in perpetuo sbigottimento, un bambinello Gesù di zucchero o forse di marzapane dipinto, gli angeli infrangibili appesi all’albero di Natale che proteggono la pace della stalla mentre il diavolo, in agguato nell’ombra, non aspetta altro che assalire la mangiatoia e divorare il bambino sacro, probabilmente proprio perché di marzapane.
Tutto il brano musicale è in 6/8, classico ritmo di pastorale natalizia, qui declinata in un pianoforte che imita un carillon, strumento che spesso accompagna il movimento di molti automi: sembra la pace apparente che regna nel laboratorio di Coppelius, mentre passano in parata i giocattoli, ognuno colla propria caratteristica. È l’inizio del canto che armonizza tutto, legando alla sua melodia avvolgente la visione della cinepresa che vola come un drone sul paesaggio meccanico e descrivendo i personaggi per posarsi lieve come un velo sull’immagine di Maria che veglia sul bambino insidiato da Belzebù! E qui Ravel, con inquietanti accordi d’intervalli di seconda e tritoni (diabolus in musica, per l’appunto, è chiamato il tritono), clima che riprenderà in seguito per introdurre l’arrivo della Bestia nel valzer Les entretiens de la Belle et de la Bête, brano della suite infantile Ma Mère l’Oye (1910), i Racconti di Mamma Oca, avverte dell’atmosfera che Belzebù vorrebbe turbare coi suoi disegni maligni, mentre la voce recita in un tono sinistramente infantile, come si fa per spaventare i bambini, quando si racconta che lì nel buio è in agguato l’Uomo Nero.

Il ritmo del carillon è sempre costante e il drone riprende a volare sulla scena, lasciando Belzebù nella sua ombra e rilassando gli animi. Ecco quindi che arriva la stretta finale: gli angeli guardiani di latta dalle ali vermiglie, appesi per un filo d’ottone all’albero di Natale, assicurano che nella stalla del bambino si possono dormire sonni tranquilli; il rumore di ferraglia del loro svolazzare meccanico si accorda perfettamente con quello dell’avanzare del gregge di tutti i giocattoli, le pecore, i conigli tamburini e il resto, mentre il pianoforte e la voce incalzano il tempo producendo un fragore ritmico percussivo, che sembra aver ispirato la conclusione di Laideronnette, impératrice des pagodes, ancora in Ma Mère l’Oye, per finire con la parola d’ordine Noël!, triplice rintocco che conclude questo volo onirico in un inquietante mondo infantile di automi.

Non ci sono bambini in carne ed ossa in questa visione, non ci sono canti natalizi tradizionali. Ci sono solo giocattoli senza vita animati da una chiave, azionata da chissà chi, che gliela fornisce temporaneamente, fino a che possano portare a termine la loro recita e il loro ruolo, come un mondo autonomo di robot in una dimensione parallela dove non è prevista la presenza umana. Siamo sicuri che sia proprio un brano per bambini?

Il Natale di Claude Debussy (1862-1918) è invece cantato direttamente dai bimbi, attraverso un portavoce. Noël des enfants qui n’ont plus de maisons è il titolo della mélodie di Debussy, su parole scritte da lui stesso, anche in questo caso, scritta e pubblicata esattamente dieci anni dopo il brano di Ravel, nel dicembre 1915, a guerra iniziata. Sarà la sua ultima mélodie prima della morte, avvenuta nel 1918 a causa di un incurabile cancro. Debussy la compose alla vigilia di un’operazione, in uno stato di grande tristezza per sé stesso e per la sanguinosa guerra che avanzava.

Nous n’avons plus de maisons!
Les ennemis ont tout pris, tout pris, tout pris,
Jusqu’à notre petit lit!
Ils ont brûlé l’école et nôtre maître aussi,
Ils ont brûlé l’église et monsieur Jésus-Christ,
Et le vieux pauvre qui n’a pas pu s’en aller!
Nous n’avons plus de maisons!
Les ennemis ont tout pris, tout pris, tout pris,
Jusqu’à notre petit lit!
Bien sûr! Papa est à la guerre,
Pauvre maman est morte!
Avant d’avoir vu tout ça.
Qu’est-ce que l’on va faire?
Noël, petit Noël, n’allez pas chez eux,
N’allez plus jamais chez eux, punissez-les!
Vengez les enfants de France!
Les petits Belges, les petits Serbes, et les Polonais aussi!
Si nous en oublions, pardonnez-nous.
Noël! Noël! surtout pas de joujoux,
Tachez de nous redonner le pain quotidien.
Nous n’avons plus de maisons!
Les ennemis ont tout pris, tout pris, tout pris,
Jusqu’à notre petit lit!
Ils ont brûlé l’école et nôtre maître aussi,
Ils ont brûlé l’église et monsieur Jésus-Christ,
Et le vieux pauvre qui n’a pas pu s’en aller!
Noël! Ecoutez-nous, nous n’avons plus de petits sabots!
Mais donnez la victoire aux enfants de France.

Non abbiamo più una casa!
I nemici ci hanno preso tutto, tutto, tutto,
Perfino il nostro lettino!
Hanno bruciato la scuola e il nostro maestro,
Hanno bruciato la chiesa e il signor Gesù Cristo,
E il vecchio povero che non è riuscito a scappare!
Non abbiamo più una casa!
I nemici ci hanno preso tutto, tutto, tutto,
Perfino il nostro lettino!
E già… Papà è al fronte,
La povera mamma è morta!
E prima di aver visto tutto questo.
Che faremo adesso?
Natale, piccolo Natale, non andate da loro, 
Non andateci mai più, puniteli!
Vendicate i bambini francesi!
E anche i piccoli belgi, i piccoli serbi e pure i piccoli polacchi!
Se ne dimentichiamo qualcuno, perdonateci.
Natale, piccolo Natale! Ma soprattutto niente balocchi,
Cercate di ridarci almeno il pane quotidiano.
Non abbiamo più una casa!
I nemici ci hanno preso tutto, tutto, tutto,
Perfino il nostro lettino!
Hanno bruciato la scuola e il nostro maestro,
Hanno bruciato la chiesa e il signor Gesù Cristo,
E il vecchio povero che non è riuscito a scappare!
Signor Natale! Ascoltateci, non abbiamo più neanche gli zoccoletti!
Ma regalate la vittoria ai bambini di Francia (trad. di Massimo Crispi).

La struttura ritmica suggerisce fin dall’inizio un continuo fuggifuggi all’unisono dei bambini, come se scappassero via dalle bombe, dai nemici tedeschi che li inseguono, mentre la scuola e le case bruciano. L’accompagnamento del pianoforte, in 12/8, coll’effetto di anapesti in contrattempo, è una rapida marcia-cavalcata verso un luogo più sicuro dove ripararsi, che non c’è, mentre la voce, in 4/4, forma il contrasto duina contro terzina che accentua il carattere smarrito e zoppicante di questa massa di infanti francesi malconci in fuga. L’ascolto ricorda un po’ la Corsa verso l’abisso, in do minore, dalla Dannazione di Faust (1846) di Hector Berlioz (1803-1869), poco prima del Pandemonium, dove la figurazione ritmica è simile e il tempo in 4/4, ma l’indicazione del metronomo dell’unità di misura, la semiminima puntata per Debussy e la semiminima per Berlioz è identica: 144. In Berlioz l’accompagnamento ritmico alterna le terzine alle crome e semicrome ribattute, in autentico ritmo anapestico, nello scattante galoppo dei cavalli neri di Mefistofele verso l’abisso infernale. L’effetto doveva essere quello, una cavalcata di morte, tra scheletri, fantasmi, rovine, che era ciò che lasciavano i tedeschi dietro di sé.

Il brano di Debussy reca l’indicazione Doux et triste, in la minore. L’atmosfera è assai cupa, assai simile alla desolazione del panorama intorno a Faust e Mefistofele di Berlioz. Ed è un’atmosfera che è sempre la stessa, in ogni guerra, da quelle dell’antichità a quelle attuali, in Africa, in Medio Oriente, in Ucraina, ovunque. L’immensità di questo piccolo capolavoro liofilizzato sta proprio nell’eternità del messaggio, la ramificazione della percezione del tempo verso le interrotte speranze del futuro ma anche verso le terribili e tangibili certezze del passato, soprattutto quello immediato, colle ferite ancora aperte. Si potrebbe dire che la mélodie di Debussy ha tutti i caratteri di una sorta di parodia infantile in chiave musicale, anticipata di due anni, dell’Angelus Novus (1920) di Paul Klee (1879-1940), che, interpretato da Walter Benjamin (1892-1940), nelle sue Tesi di filosofia della storia, mostra come l’angelo sia stupefatto nell’osservare l’orrore da cui si allontana per immergersi in un futuro pieno d’insicurezza che non può vedere perché gli rivolge le spalle.

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, e le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine cresce davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta (Benjamin 1940, 79).

Prima di parlare del quadro, Benjamin cita a proposito i versi ispirati di Gershom Gerhard Scholem, filosofo suo caro amico che gli sopravvisse e che scrisse una sua biografia nel 1965:

Mein Flügel ist zum Schwung bereit, 
ich kehre gern zurück, 
denn bleib ich auch lebendige Zeit, 
ich hätte wenig Glück.
Gerhard Scholem, Gruß vom Angelus

La mia ala è pronta allo slancio,
volentieri ritorno indietro
perché anche se restassi un tempo vitale
avrei poca fortuna.
Gerhard Scholem, Saluto dell’Angelo

I bambini inviano la loro lettera al signor Natale, momento agognato di riunione familiare, di doni, di gioie, raccontandogli che hanno perso tutto ciò che avevano perché i nemici hanno distrutto ogni cosa, perfino la scuola è bruciata col maestro dentro, la chiesa col signor Gesù Cristo, e manco il poverello che chiedeva l’elemosina si è salvato. Implorano il signor Natale di non andare da quei malvagi dei nemici, mai più, perché la massima punizione per il nemico è non avere mai più un Natale, il momento più gioioso dell’anno per un bambino e per la sua famiglia. Lo implorano di vendicare tutto ciò che hanno passato i bambini francesi, e anche i bambini belgi, serbi, polacchi, e se ce ne fossero altri, anche quelli che hanno omesso. Signor Natale, soprattutto non portateci dei balocchi, in un momento simile è meglio che ci portiate qualcosa da mangiare, che ci dia la sicurezza di sopravvivere ogni giorno, non abbiamo neanche gli zoccoletti per camminare… 

Lo strazio dei poveri bimbi era reale. Ciò che avviene durante una guerra è sempre un disastro per tutti, da una parte e dall’altra, ma soprattutto per i più deboli, che non possono difendersi e non sono autonomi. I bambini sono sempre le vittime più fragili, quelle che non si rendono conto del perché tutta questa distruzione avvenga. Debussy, che aveva sempre un occhio attento al mondo infantile, queste cose le comprendeva bene.

Ma c’è anche una lettura più intima e profonda di questo brano. Il momento difficile che Debussy stava passando a causa della malattia che lo consumava probabilmente ispirò questa mélodie straordinariamente toccante, l’ultima della sua produzione. Forse il compositore si sentiva come un bambino che non aveva più una casa, il nemico che lo stava erodendo dall’interno gli stava togliendo tutto, il lettino, la famiglia, la vita, e l’avvicinarsi del Natale più triste per la Francia, dopo decenni di un’appena naufragata Belle Époque, la lieta stagione che aveva reso Parigi la capitale della musica, delle arti, della tecnologia, avrà fatto il resto. Debussy non vedrà la fine della guerra, morirà pochi mesi prima.

Tutt’altro stile e scanzonato è il Natale di Francis Poulenc (1899-1963). Ma non poteva essere diversamente per il carattere iconoclasta e anticonformista che caratterizzava buona parte delle sue composizioni, ispirandosi quasi sempre a testi surrealisti o ironici di autori francesi. Nel 1934 mise in musica quattro poesiole per bambini di Jean Nohain alias Jean Legrand (1900-1981), noto come Jaboune, autore prolifico e animatore pioniere della radio e della televisione, soprattutto in trasmissioni per l’infanzia. Nohain e Poulenc furono compagni di scuola al Lycée Condorcet. La prima delle Quatre chansons pour enfants s’intitola Nous voulons une petite soeur. Lo stile cabarettistico tipico delle canzoni rende questa raccolta un capolavoro di leggerezza e d’ironia del ragazzaccio di Nogent.

Madame Eustache a dix-sept filles,
Ce n’est pas trop, mais c’est assez.
La jolie petite famille,
vous avez dû, dû, dû la voir passer.
Le vingt décembre on les appelle:
Que voulez-vous, mesdemoiselles, pour votre Noël?
Voulez-vous une boîte à poudre?
Voulez-vous des petits mouchoirs?
Un petit nécessaire à coudre?
Un perroquet sur son perchoir?
Voulez-vous un petit ménage?
Un stylo qui tache le doigts?
Un pompier qui plonge et qui nage?
Un vase à fleur presque chinois?
Mais les dix-sept enfants en choeur
Ont répondu: Non, non, non, non, non.
Ce n’est pas ça que nous voulons,
Nous voulons une petite soeur(e)
Ronde et joufflue comme un ballon
Avec un petit nez farceur,
Avec les cheveux blonds,
Avec la bouche en coeur,
Nous voulons une petite soeur.

L’hiver suivant, elles sont dix-huit,
Ce n’est pas trop, mais c’est assez.
Noël approche et les petites
Sont bien emba, ba ,ba,
Sont vraiment bien embarassées.
Madame Eustache les appelle:
Decidez-vous, mesdemoiselles, pour votre Noël.
Voulez-vous un mouton qui frise?
Voulez-vous un reveil-matin?
Un coffret d’alcool dentifrice?
Trois petits coussins de satin?
Voulez-vous une panoplie
De danseuses de l’Opéra?
Un petit fauteuil qui se plie
Et que l’on porte sous son bras?
Mais les dix-huit enfants en choeur
Ont répondu: Non, non, non, non, non.
Ce n’est pas ça que nous voulons,
Nous voulons une petite soeur(e)
Ronde et joufflue comme un ballon
Avec un petit nez farceur,
Avec les cheveux blonds,
Avec la bouche en coeur,
Nous voulons une petite soeur.

Elles sont dix-neuf l’année suivante,
Ce n’est pas trop, mais c’est assez.
Quand revient l’époque émouvante,
Noël va de nou, nou,
Noël va de nouveau passer.
Madame Eustache les appelle:
Decidez-vous, mesdemoiselles, pour votre Noël.
Voulez-vous des jeux excentriques
Avec des piles et des moteurs?
Voulez-vous un ours électrique?
Un hippopotame à vapeur?
Pour coller des cartes postales
Voulez-vous un superbe album?
Une automobile à pédales?
Une bague en aluminium?
Mais les dix-neuf enfants en choeur
Ont répondu: Non, non, non, non, non.
Ce n’est pas ça que nous voulons
Nous voulons deux petites jumelles,
Deux soeurs exactement pareilles,
Deux soeurs avec des cheveux blonds!
Leur mère a dit: C’est bien,
Mais il n’y a pas moyen.
Cette année vous n’aurez rien, rien, rien.

Madame Eustache ha diciassette figliole,
Non sono poi troppe però sono abbastanza.
Avreste dovuto vedere
La lieta famigliola a passeggio.
Il venti dicembre vengono interpellate:
Che cosa desiderate, ragazze, per il vostro Natale?
Volete una scatola di cipria?
Volete dei fazzolettini?
Un piccolo nécessaire per cucire?
Un pappagallo sul suo trespolo?
Un piccolo set di pulizie?
Un pompiere che si tuffa e nuota?
Un vaso da fiori similcinese?
Ma le diciassette figliole
hanno risposto: No! No! No! No! No!
Non è per niente ciò che vogliamo,
Noi vogliamo una sorellina,
Rotonda e paffuta come un pallone,
Con un nasino buffo,
Con una bocca a cuore,
Vogliamo solo una sorellina.

L’inverno successivo sono diciotto,
Non sono troppe ma, forse, abbastanza.
Natale s’avvicina e le piccole
Sono davvero imbarazzate.
Madame Eustache le convoca:
Decidetevi, care signorine: che cosa volete per Natale?
Volete una pecora che si arriccia il pelo?
Volete una sveglia?
Una confezione di alcool dentifricio?
Tre cuscinetti di raso?
Volete una panoplia
Di ballerine dell’Opéra?
Una poltroncina pieghevole
Da portare sotto il braccio?
Ma le diciotto bambine in coro
Hanno risposto: No! No! No! No! No!
Non è ciò che vogliamo,
Noi vogliamo una sorellina,
Rotonda e paffuta come un pallone,
Con un nasino buffo,
Con una bocca a cuore,
Vogliamo solo una sorellina.

L’anno appresso sono diciannove,
Non sono troppe ma, forse, abbastanza.
All’avvicinarsi del periodo carico d’emozioni,
Natale sarà lì ancora una volta.
Madame Eustache le convoca:
Decidete, signorine care: che cosa volete per Natale?
Volete dei giochi eccentrici
A pile e a motore?
Volete un orso meccanico?
Un ippopotamo a vapore?
Volete un magnifico album
Per incollare le cartoline illustrate?
Un’automobile a pedali?
Un anello in alluminio?
Ma le diciotto bambine in coro
Hanno risposto: No! No! No! No! No!
Non è ciò che vogliamo,
Noi vogliamo due gemelline,
Due sorelle uguali uguali,
Coi capelli biondi.
La mamma dice loro: ne prendo atto,
Ma non ci sono i mezzi,
Quest’anno non avrete un bel niente (trad. di Massimo Crispi).

Come si vede è una canzone surreale, tipica filastrocca per bambini che proclama la morale: chi troppo vuole nulla stringe. L’attenzione, anche qui come per Ravel - ma senza l’aspetto inquietante di un mondo robotico - verso giocattoli meccanici di fantasia, l’ippopotamo a vapore, l’orso meccanico, giochi “eccentrici” a pile e a motore, che all’epoca dovevano essere all’avanguardia, denota una familiarità con questi oggetti in Francia. Infatti, i fabbricanti di automi meccanici, capaci anche di suonare strumenti musicali, boîtes-à-musique, e così via, a Parigi tra il 1860 e il 1910 erano molti: Roullet & Decamps, Vichy, Phalibois, Renou, Lambert e Bontems, e ancora oggi si possono trovare presso collezionisti e musei le loro creazioni, uccelli canterini, Pierrot scrivani, ballerine prigioniere in cupole di cristallo, e così via. Sia Nohain che Poulenc avranno probabilmente conservato una memoria infantile di tutti quei congegni. Era quindi naturale l’intromissione della tecnologia nei testi poetici per bambini, per i quali, ad ogni modo, questo tipo di giocattoli ha sempre un aspetto magico. Oggi con tutte le diavolerie digitali per l’infanzia disponibili, probabilmente apparirebbero oggetti affatto obsoleti.

La musica del brano di Poulenc è quella di una tipica canzone francese da cabaret, e dà notevoli chance agli interpreti per sbizzarrirsi nella recitazione, soprattutto nell’elenco di possibili regali alle incontentabili ragazzine, quasi uno scioglilingua. Le incontentabili, dopo essere interpellate dalla mamma, si esprimono: non ci interessa un bel niente di tutte queste cianfrusaglie, noi vogliamo unicamente una sorellina.

Peraltro non viene messo in evidenza il contributo casalingo e notturno di un Monsieur Eustache, senza il quale la diciottesima e la diciannovesima sorellina non potrebbero esistere. Inoltre è assai singolare che sia stabilito il sesso delle nasciture senza alcuna ecografia: le bambine vogliono una sorellina e la sorellina spunta, coi capelli biondi e paffutella, proprio come desiderano, maschietti niente. Monsieur Eustache in questa canzone non viene proprio considerato, questo mondo eccentrico di capricci è esclusivamente muliebre. E si può anche capire come una signora, dopo diciannove gravidanze, possa essere un po’ stufa. A meno che Monsieur Eustache, il collaboratore necessario e invisibile affinché la sorellina potesse arrivare, non si sia eclissato con una biondona e sia partito per la Polinesia, abbandonando la tribù femminile di Madame e le diciannove capricciose. Troppe donne in una sola casa. C’è da dire, a onore delle ragazzine, come esse non siano assolutamente sedotte dal consumismo natalizio e dal profluvio di regali proposti dalla mamma: vogliono una nuova sorellina e basta. Una scelta anche lungimirante, oggi, in un periodo di calo delle nascite in Europa.

Procediamo, nella nostra ricerca d’inconsueti gioielli musicali natalizi, spostandoci sulla sponda occidentale meridionale dell’Atlantico, prima in Brasile e poi in Argentina.

Oscar Lorenzo Fernández (1897-1948), compositore brasiliano di origine spagnola, uno dei più poetici e atemporali artisti che il Brasile abbia mai sfornato, compose i Presentes de Noel, op. 46, suite infantile per pianoforte, nel 1927. Dura solo otto minuti e consiste di quattro brani dai nomi evocativi, che si riallacciano al presepe meccanico di Ravel:

1) A Dançarina Automática (la ballerina meccanica)
2) A Boneca Sonhadora (la bambola sognatrice)
3) O Soldadinho da Perna Quebrada (il soldatino colla gamba rotta)
4) A Monótona Caixinha de Música (il carillon monotono)

Questi regali un po’ degni, forse, delle figliole di Madame Eustache, non sono altro che i regali di Natale un anno dopo essere stati donati. È il destino di molti giocattoli: si sa che i bambini spesso rompono il giorno stesso i loro doni o per maldestrezza o per dispetto, per invidia del fratellino o della sorellina, o perché il regalo si rivela troppo fragile. Si scopre così che alla ballerina meccanica, dopo averle dato la carica e averla lanciata in una deliziosa samba, si allenta la molla di tanto in tanto, un po’ come accade all’Olympia nei Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach (1819-1880), forse per eccessive prestazioni richieste dalla bambina destinataria del dono, e quindi perde il ritmo.

Analogamente la bambola è sognatrice perché il meccanismo che le faceva aprire e chiudere i begli occhi di smalto si è rotto e quindi gli occhi restano perennemente chiusi, facendola apparire sognante, appunto: una deliziosa ninna nanna con degli improvvisi rallentamenti e misteriose armonie.

Il povero soldatino ha perso una gamba, forse per un uso improprio del bimbo che l’ha ricevuto in regalo, e zoppica, ma chissà che non sia un richiamo traslato ai soldati malconci che riuscirono a tornare a casa dopo il massacro della Grande Guerra, evento ancora vivo nel mondo a distanza di appena dieci anni. Nel brano si accenna il tema della canzone brasiliana per bambini Marcha, soldado cabeça de papel (marcia, soldato, testa di carta), che però s’interrompe sull’ultima sillaba -pel, suggerendo che forse il bambino sta cantando la canzone mentre armeggia col soldatino, il quale si rompe la gamba proprio in quel momento.

La canzoncina infantile ha, comunque, risvolti e doppi sensi inquietanti, come tutte le composizioni per bambini. La cabeça de papel si riferisce a un elmetto di carta, quello che si fa per gioco, ripiegando i fogli di giornale, o a una testa vuota, leggera come la carta, pronta per essere riempita dagli ordini dei superiori? Meno male che la citazione della canzoncina s’interrompe lì perché il seguito del testo è terribile: il soldato che non marcia ben dritto viene messo in carcere e il carcere brucia, probabilmente col soldato dentro! O, forse, il carcere viene incendiato per una rivolta dei detenuti, incarcerati solo per non aver marciato bene. Poveri bambini, sempre indottrinati dal sadismo degli adulti. Ma l’antimilitarismo dell’autore non finisce qui perché Fernández compose poco tempo dopo, sempre nello stesso anno, una Marcha dos soldadinhos desafinados (Marcia dei soldatini stonati), inserita in Peças Burlescas, op. 53. Vi sono descritti i soldati che marciano verso il fronte ma tutti tremanti perché hanno paura dell’ignoto che la guerra rappresenta. Per darsi coraggio i giovani suonano e cantano, ma a causa del tremore e della paura sono tutti stonati.

L’ultimo brano della raccolta infantile è una piccola boîte à musique ‘monotona’, forse perché le mani esploratrici del bambino o della bambina hanno esplorato troppo a fondo e hanno rotto alcune lamine del meccanismo, impedendo così alla macchina di potersi esprimere appieno, nel suo perpetuo riproporre la medesima melodia.

Questa piccola suite si aggiunge alle serie dedicate all’infanzia, dalla Sinfonia dei Giocattoli attribuita per molto tempo a Leopold Mozart (1719-1787) e oggi, allo stato attuale delle ricerche, al benedettino Edmund Angerer (1740-1794), a Kinderszenen di Robert Schumann (1810-1856), ai primi volumi di Mikrokosmos di Béla Bartók (1881-1945), a Children’s Corner di Claude Debussy e decine di altre composizioni blasonate ma ho voluto ricordarla in questa mini rassegna di opere musicali natalizie outsider.

Il poeta Félix Luna (1925-2009) e il compositore Ariel Ramírez (1921-2010), entrambi argentini, sono entrati nella leggenda per aver composto in una sola notte del 1964 il racconto della Natività: Navidad Nuestra, una sorta di presepe musicale con tutti gli episodi dall’Annunciazione alla Fuga in Egitto. Ma fin qui non ci sarebbe niente di strano, alla fine è una storia che conoscono tutti da secoli, arricchita dai cantastorie di turno con dettagli più o meno locali, un po’ come i presepi napoletani, che incorporano personaggi contemporanei autoctoni o più esotici, che nulla hanno a che vedere colla narrazione mediorientale. Ebbene, i due argentini per illustrare il mito di duemila anni prima, in un’altra parte del mondo, il loro Natale, si servono nientemeno che delle danze tipiche argentine, ognuna diversa, propria di varie provincie, per ogni episodio della narrazione. La danza, in genere, è parte integrante di una festa, l’esprimersi del corpo nello spazio, oltre sé stesso, il momento in cui ci si lascia andare in compagnia su facili melodie per godere tutti insieme della celebrazione e il Natale è una festa in piena regola.

Si comincia con La Anunciación, un chamamé, che viene dalla provincia di Corrientes, al confine col Paraguay, e infatti era anche conosciuto come Polka dei Corrientes ed è una delle danze più influenzate dalla cultura guaraní.

Jinete de un rayo rojo, viene volando el Angel Gabriel,
Con sable punta de estrella, espuela ‘e plata estaba caté.
Que Dios te salve Maria, la más bonita cuñataí.
La flor está floreciendo, crece en la sangre tu cunumí.
Soy la esclava del Señor, que El haga su voluntad,
Capullo que se hace flor y se abrirá en Navidad.
El Angel Gabriel ya vuelve al pago donde se encuentra Dios.
¿Mamó parehó Angelito, que tan contento te vuelves vos?
He visto a la reina ‘el mundo, la más bonita cuñataí.
Sus ojos son dos estrellas, su voz el canto del yerutí.

Si continua con una huella pampeana, una danza picaresca che prevede episodi di galanteria moderata, tipica della pampa; questa danza è utilizzata per l’episodio della ricerca della stalla per partorire, La Peregrinación.

A la huella, José y Maria, por las pampas heladas, cardos y ortigas,
A la huella, cortando campo, no hay cobijo ni fonda, sigan andando.
Florecita del campo, clavel del aire, si ninguno te aloja ¿Adónde naces?
¿Donde naces, florcita que estás creciendo, palomita asustada, grillo sin sueño?
A la huella, a la huella José y Maria, con un Dios escondido, nadie sabia.
A la huella, a la huella los peregrinos, préstenme una tapera para mi niño.
A la huella, a la huella soles y lunas, los ojitos de almendra, piel de aceituna.
¡Ay burrito del campo! ¡Ay buey barcino! ¡Que mi niño ya viene, háganle sitio!
Un ranchito de quincha sólo me ampara, dos alientos amigos, la luna clara.

Una vidala catamarqueña, della Catamarca, la terra del vino, quasi una ninna nanna, caratterizza El Nacimiento.

Noche anunciada, noche de amor
Dios ha nacido, pétalo y flor.
Todo es silencio y serenidad,
Paz a los hombres, es Navidad.
En el pesebre, mi Redentor,
Es mensajero de paz y amor.
Cuando sonríe, se hace la luz
Y en sus bracitos, crece una cruz.
Angeles canten sobre el portal,
Dios ha nacido, es Navidad.
Esta es la noche que prometió
Dios a los hombres, y ya llegó.
Es noche buena, no hay que dormir,
Dios ha nacido, Dios está aquí.

Segue l’adorazione dei pastori, Los Pastores, una chaya riojana (chaya in lingua quechua significa: bagnare) de La Rioja, nel deserto occidentale presso le Ande, una danza di corteggiamento, che si balla con fazzoletti e castagnette.

Vengan pastores del campo, que el Rey de los Reyes ha nacido ya.
Vengan antes que amanezca, que ya apunta el dia y la noche se va.
Albahaca y cedrón, tomillo y laurel, que el Niño se duerme al amanacer.
Lleguen de Pinchas y Chuquis, de Aminga y San Pedro, de Arauco y Pomán,
Antes que nadie le adore quesillos y flores le vam’ a llevar.
Albahaca y cedrón, tomillo y laurel, que el Niño se duerme al amanacer.
Pidanle a Julio Romero caballos de paso y su mula de andar,
Con cajas y con guitarras iremos cantando por el olivar.
Albahaca y cedrón, tomillo y laurel, que el Niño se duerme al amanacer.
¡Ay Navidad de Aimogasta! Aloja y añapa no habrá de faltar.
Mientras la luna riojana se muere de ganas de participar.
Albahaca y cedrón, tomillo y laurel, que el Niño se duerme al amanacer.

Un Takirari (Taquirari), che in realtà è una danza boliviana, è lo sfondo musicale per Los Reyes Magos, forse perché vengono da lontano. E, in effetti, la danza, che, in origine, nell’Amazzonia boliviana era una danza propiziatoria per la caccia, fu tramutata poi dai coloni cattolici e adattata ai propri riti. Anche questa è diventata una danza di corteggiamento, sia da parte dell’uomo che della donna. È stata influenzata, nella versione coloniale, dalla lontanissima sardana catalana.

Llegaron ya, los reyes y eran tres, 
Melchor, Gaspar y el negro Baltazar.
Arrope y miel 
le llevarán 
y un poncho blanco de alpaca real.
Changos y chinitas, duermansé, 
que ya Melchor, Gaspar y Baltazar
Todos los regalos dejarán 
para jugar mañana al despertar.
El niño Dios muy bien lo agradeció, 
comió la miel y el poncho lo abrigó.
Y fue después 
que sonrió 
¡y a medianoche el sol relumbró!

Una vidala tucumana, proveniente dal Tucumán, l’estremo nord del paese, terra di Mercedes Sosa (1935-2009), che è stata anche forse la massima interprete della suite, chiude la narrazione con una vena triste, la fuga in Egitto, La Huida.

¡Vamos! ¡Vamos! ¡Burrito apurá! 
¡Vamos! ¡Vamos! ¡Burrito apurá! 
Si no te apuras los van a pillar…
Largo el camino, largo el salitral.
Ya tocan a degollar, 
ya está sangrando el puñal.
Si no te apuras los van a pillar…
¡Vamos! ¡Vamos! ¡Burrito apurá! 
¡Vamos! ¡Vamos! ¡Burrito apurá! 
Ninõ bonito, no llorís mi amor, 
ya llegaremos a tierra mejor.
Duérmete ya, no llorís, 
cuna en mis brazos te haré.
Bombos legüeros en mi corazón. 
¡Vamos! ¡Vamos! ¡Burrito apurá! 
¡Vamos! ¡Vamos! ¡Burrito apurá!

Quest’opera geniale dei due argentini, che hanno creato altri capolavori come il ciclo Mujeres argentinas, altro successo di Mercedes Sosa, da cui è tratta la celeberrima canzone Alfonsina y el mar, trasporta la vicenda mediorientale nel paese andino, con lo strumentale tipico (quena, charango, chitarra, bombo, bandoneon, a cui si uniscono il clavicembalo e il pianoforte, eccetera) solisti e coro, raccontando in una lingua mista, castigliano popolare e semplice con termini guaraní, la vicenda di Giuseppe, Maria e Gesù. Maria è detta la mas bonita “cuñataí”, la fanciulla più bella, giusto per fare un esempio. Anche i doni dei Tre Re non sono oro, incenso e mirra, cose che il popolo andino non capirebbe, ma oggetti o preparati alimentari della tradizione rurale argentina: il poncho blanco de alpaca real, un poncho bianco di alpaca di qualità superiore, contro il freddo di montagna; l’arrope, che, in Argentina, è una sorta di sciroppo ottenuto dal carrubo, dal fico d’india, dal fico o dalla tuna, una fabacea locale, differente da quello spagnolo, ottenuto dal mosto d’uva, apprezzatissimo dai bambini perché dolcissimo; e, per finire, il miel, il miele. Il bambino sacro gradirà i tre doni: mangerà il miele e l’arrope e si metterà il poncho di alpaca. Una perfetta favola musicale per i bambini argentini, proprio per sottolineare che si tratta di una Navidad nuestra, che ci appartiene. Proprio per questa ragione, i pastori non verranno ad adorare da Gerusalemme o da Gaza ma da luoghi dell’interno dell’Argentina, come San Pedro, Pomàn e Aminga o, addirittura, da Arauco, in Cile, e da Chuquis, in Perù. Ed è proprio nella canzone Los Pastores che si scopre il luogo della nascita del loro Niño Jesús: Aimogasta, nella provincia di La Rioja che sta a 830 metri di altitudine, poco più di Betlemme, 777 metri. Resta da capire come il Niño Jesús potesse stare al freddo e al gelo nella mangiatoia il 25 dicembre a quelle latitudini, dove, nonostante l’altitudine, è appena iniziata l’estate e le temperature sono comprese tra la minima di 21° e la massima di 33°, con un sole sfolgorante e un caldo da squagliarsi. Ma sono dettagli.

Un capitolo a parte merita uno dei balletti classici più famosi e straordinari che siano mai stati composti. Stiamo parlando dello Schiaccianoci (1892) di Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893), tratto dalla versione di Alexandre Dumas padre (1802-1870), Storia di uno Schiaccianoci, del racconto molto più gotico di E.Th.A. Hoffmann (1776-1822) Schiaccianoci e il Re dei Topi (1816), ambientati nella notte di Natale. Il Natale è visto come teatro degli eventi, la festa dei bambini, non c’è alcun accenno all’importanza religiosa della ricorrenza. La versione di Dumas, più zuccherosa e scorrevole, sicuramente meno inquietante del racconto di Hoffmann, si può ricondurre a un dualismo sempre presente nella narrazione: il contrapposto tra le leggi della scienza e della fisica, dominio di Drosselmayer, costruttore di congegni, orologi e giocattoli meccanici, doni per i bambini per la notte di Natale, e la libertà della fantasia, dell’immaginazione infantile, di Clara in particolare, la protagonista della storia – che nell’originale si chiama Marie –, alla quale viene regalato un goffo schiaccianoci di legno, e del loro mondo. Anche qui, come per la canzone di Poulenc, i giocattoli meccanici sono ciò che più viene percepito come regalo adatto per un bambino, ricco, ovviamente, perché gli automi costavano. Questo contrasto tra la tecnologia e la fantasia viene messo in luce nel libretto del balletto dal coreografo Marius Petipa (1818-1919) – che si occupò all’inizio dell’allestimento ma dovette essere poi sostituito a causa di una malattia da Lev Ivanovič Ivanov (1834-1901) – e, soprattutto, dalla musica.

La partitura del balletto di Čajkovskij è senza dubbio una delle più complesse mai concepite per un balletto classico dell’Ottocento, ma, si sa, le rivoluzionarie orchestrazioni dell’autore russo erano abbastanza anticonformiste, eclettiche ed estetizzanti. Lui fu il primo a rivoluzionare la musica per il balletto classico, fino ad allora assai più semplice e spesso mediocre, con connotati spesso bandistici, rendendo invece la partitura una vera opera sinfonica e aprendo la strada ai grandi compositori di balletto del Novecento: Stravinskij, Prokof’ev, Chačaturjan, Ravel, Debussy, Dukas e molti altri, che composero opere da suonare anche in versione concertistica e non solo rappresentativa. Fino a Čajkovskij le partiture dei balletti romantici erano musicalmente meno elaborate, sebbene ci fossero stati grandi inventori di melodie e danze, come Adolphe Adam (1803-1856) e il più ricercato ed elegante autore di melodie Léo Delibes (1836-1891), il quale pure attinse a Hoffmann per Coppelia (1870) e ruppe, con quest’opera, le convenzioni di un ambiente romantico di spiriti e di silfidi, per accogliere, anche qui, il mondo dei giocattoli meccanici.

La curiosità di Čajkovskij verso i nuovi strumenti musicali era nota. Nel 1891, avendo visto per la prima volta a Parigi la celesta, un metallofono inventato nel 1886 da August Mustel (1842-1919), costruttore francese di strumenti a tastiera, il compositore ne rimase talmente impressionato che decise di utilizzarla per primo in una compagine orchestrale proprio nel nuovo lavoro che stava componendo per il Teatro Marinskij di San Pietroburgo. Addirittura Čajkovskij la fece arrivare in Russia di nascosto, perché temeva che Korsakov e Glazunov, suoi ‘rivali’, potessero avere la sua stessa idea e precederlo. In realtà la celesta, semplificazione del nome originario dello strumento, voce celeste, era la diretta discendente del dulcitone, altro metallofono ideato nel 1860 dal padre di August, Victor Mustel (1815-1890), e rivendicato nello stesso periodo anche dal britannico Thomas Machell (1841-1915). Il suono argentino che lo strumento creava, simile a un Glockenspiel ma ancora più luminoso e sonoro, peraltro attraverso una tastiera del tutto simile a quella del pianoforte, a cui lo strumento assomigliava anche esteriormente, permetteva di creare impressioni e fraseggi mai espressi a livello timbrico. La Danza della Fata Confetto, una delle più iconiche del balletto, è, infatti, interamente scandita dai suoni cristallini della celesta che si espandono, all’inizio, su un tappeto di pizzicato degli archi e di lugubri scalette discendenti del clarinetto basso, per contrasto; la ballerina, grazie alla suggestione creata da questa musica eterea e dalle coreografie, tutte sulle punte, sembra quasi galleggiare su quei suoni.

L’atmosfera della sera natalizia di una famiglia borghese nella Germania ottocentesca si svolge in successione dall’Ouverture in miniatura all’addobbo dell’albero di Natale, all’arrivo dei parenti e soprattutto dello zio padrino Drosselmayer, un personaggio che conserva aspetti misteriosi e che nelle drammaturgie e coreografie che si svilupperanno negli anni a seguire assumerà ruoli e caratteristiche diverse. I fanciulli ricevono, come di consueto, armi e cavallini, e le fanciulle le bambole, preparandoli ai destini dei maschi e delle femmine in quella società. I regali di Natale di Drosselmayer, invece, sono del tutto particolari e sono più rivolti a stimolare la meraviglia e la curiosità nei bambini più che la coscienza dei loro ruoli sociali. A un cenno dello zio mago il soldato e la bambola diventano conturbanti soggetti animati, con un altrettanto conturbante accompagnamento musicale, e stupiscono tutti. Fritz e Clara vorrebbero tutti quei giocattoli ma vengono rimproverati dai genitori che glielo vietano. Clara piange e Drosselmayer, per consolarla, tira fuori dal mantello un brutto schiaccianoci di legno che Fritz, il fratellino di Clara, disprezza ma che viene subito adottato da Clara, la quale se ne innamora. A Clara vien fatto notare dai genitori che lo schiaccianoci non è solo per lei e lei è costretta a farlo usare anche a Fritz. Ma Fritz, volendo schiacciare una noce troppo grossa lo rompe e lo getta in un angolo. Il padrino Drosselmayer rimprovera Fritz e ripara l’oggetto, affidandolo nuovamente alla figlioccia, come se sapesse cosa succederà in seguito. Clara culla lo schiaccianoci in una ninna nanna, sempre molestata dai giochi bellici dei maschietti. La festa volge quindi al termine colla danza dei nonni e tutti vanno via.

Più tardi, quando scocca la mezzanotte e tutti ormai sono andati a dormire, è il momento della magia. Nel sogno di Clara, danzano nell’ombra i soldatini di stagno, lo schiaccianoci, i topi, le bambole, l’albero si ingigantisce, tutto diventa fuori misura. La musica, nella prima parte dell’Atto I leggiadra e ballabile, ispirata da modi settecenteschi, tanto cari al compositore, colle danze dei bambini, dei parenti e del nonno, si adegua cambiando radicalmente e diventando onirica, con fischi, tremoli, rintocchi, strumenti giocattolo. Tutto si trasfigura nel regno inconscio di Clara. Il Re dei Topi vuol rubare lo Schiaccianoci a Clara e, a questo punto, l’oggetto si anima e l’incubo si sviluppa in una battaglia tra i soldatini di Fritz, lo Schiaccianoci e il Re dei Topi col suo esercito. Clara assiste ansiosa a questa lotta e, proprio nel momento in cui lo Schiaccianoci sta per essere sopraffatto, interviene lanciando la sua ciabatta sul topo che viene stordito e poi ucciso dallo Schiaccianoci. Ed ecco che accade la metamorfosi. Colla morte del Re dei Topi l’incanto si rompe e lo Schiaccianoci di legno diventa un bellissimo Principe che prende Clara per mano e insieme attraversano il tempo e lo spazio.

Scrive Dumas:

Et, en même temps, d’un mouvement instinctif, sans se rendre compte de ce qu’elle faisait, Marie détacha son soulier de son pied, et, de toutes ses forces, elle le jeta au milieu de la mêlée, et cela si adroitement, que le terrible projectile atteignit le roi des souris, qui roula dans la poussière. Au même instant, roi et armée, vainqueurs et vaincus, disparurent comme anéantis. Marie ressentit à son bras blessé une douleur plus vive que jamais; elle voulut gagner le fauteuil pour s’asseoir; mais les forces lui manquèrent, et elle tomba évanouie (Histoire d’un casse-noisette, vol. I, 93).

E, allo stesso tempo, d’istinto, senza rendersi conto di ciò che stava facendo, Marie si tolse la ciabatta e, con tutte le sue forze, la lanciò nel bel mezzo della battaglia, ma con tale precisione che il terribile proiettile colpì il re dei topi, che rotolò nella polvere. In quello stesso istante, re ed esercito, vincitori e vinti, disparvero annientati. Marie sentì un dolore al braccio, forte come non mai e volle raggiungere la poltrona per sedersi; ma le mancarono le forze e svenne (trad. di Massimo Crispi).

Entrambi volano quindi su foreste di abeti imbiancate mentre i fiocchi di neve danzano un valzer che più russo non si può, coadiuvati dai vocalizzi di un coro di voci bianche, per irrompere di seguito nel Regno dei Dolciumi: il sogno di ogni bambino, soprattutto durante le feste natalizie dove i dolci abbondano, almeno sulle tavole delle famiglie borghesi e ricche e sull’albero si appendono frutti e biscotti aromatizzati alla cannella e allo zenzero. Questo è il regno del Principe e della Fata Confetto, sua madre. Qui, nel momento clou del balletto romantico, il divertissement, si susseguono le danze di carattere: la Cioccolata (Danza spagnola), il Caffè (Danza araba), il Tè (Danza cinese) e poi i Bastoncini di zucchero (Danza russa), i Pastori di marzapane (Danza dei mirlitoni), Mamma Zenzero (o Mamma Chioccia) e i suoi pulcinelli, il lussuoso Valzer dei Fiori, pieno di reminiscenze viennesi, e il magnifico Pas de deux del Principe e della Fata Confetto come ricco dessert finale.

Alcune melodie delle danze sono prese dalla tradizione popolare. Per esempio, per la Danza araba, la melodia è la stessa di una ninna nanna georgiana, Iav nana, ripresa varie volte e allungata con melismi per accentuare il carattere “arabo” della danza. Per Mamma Zenzero e i suoi pulcinelli Čajkovskij s’ispira a due canzoni infantili francesi: Giroflée Girofla e Cadet Rousselle.

Cadet Rousselle a trois maisons, [bis]
Qui n’ont ni poutres, ni chevrons, [bis]
C’est pour loger les hirondelles,
Que direz-vous d’Cadet Rousselle?
Ah! Ah! Ah! Oui, vraiment,
Cadet Rousselle est bon enfant!
 
Cadet Rousselle a trois habits, [bis]
Deux jaunes, l’autre en papier gris, [bis]
Il met celui-ci quand il gèle,
Ou quand il pleut, ou quand il grêle...
Ah! Ah! Ah! Oui, vraiment,
Cadet Rousselle est bon enfant!
[seguono altre nove strofe che noi omettiamo]

La prima, risalente al XVII secolo, divenne una canzone-danza per bambini; la seconda, scritta da Gaspard de Chenu (1717-1795) nel 1792 come parodia delle canzoni di Jean de Nivelle (1422-1477), entrò presto nel repertorio per bambini ed è presente ancora oggi nelle antologie di canti infantili. Inoltre diede il titolo a un’operetta di successo di Charles Lecoq (1832-1818), del 1874. L’arrangiamento orchestrale dei due brani è palesemente circense, adatto ai personaggi che la danza deve rappresentare. Un’altra canzone popolare, entrata nel repertorio infantile a Ottocento inoltrato, e usata nel primo atto, dopo l’ingresso dei parenti, è Bon voyage, monsieur Dumollet, tratta dall’atto unico Le Départ pour Saint-Malo ou La suite des “Trois étages” (1809) e unica canzone sopravvissuta, come fama, alla sua opera, di Marc-Antoine-Madeleine Désaugiers (1772-1827), prolificissimo compositore e chansonnier popolare dalla vita molto avventurosa tra le Antille, gli Stati Uniti e la Francia nel periodo pre e post rivoluzionario, passando dal quasi sacerdozio alla satira sociale e politica. Fu lo stesso Marius Petipa a richiedere questa canzone a Čajkovskij durante la stesura del libretto.

Bon voyage, Monsieur Dumollet,
A Saint-Malo débarquez sans naufrage;
Bon voyage, Monsieur Dumollet,
Et revenez si le pays vous plaît.

Si vous venez voir la capitale,
Méfiez-vous des voleurs, des amis,
Des billets doux, des coups, de la cabale,
Des pistolets et des torticolis.

Là vous verrez les deux mains dans les poches,
Aller, venir des sages et des fous,
Des gens bien faits, des tordus, des bancroches,
Nul ne sera jambé si bien que vous. 

Des polissons vous feront bien des niches,
À votre nez riront bien des valets,
Craignez surtout les barbets, les caniches,
Car ils voudront caresser vos mollets.

Alla fine del sogno di Clara tutto tornerà alla dimensione borghese della famiglia tedesca di Norimberga, il mondo fiabesco, già raccontato nel Lago dei Cigni e nella Bella Addormentata nel bosco, i precedenti capolavori di Čajkovskij, sarà il passato, Clara crescerà e sarà probabilmente la ragazza di buona famiglia che un giorno si sposerà e farà la mamma, magari raccontando ai suoi bambini il suo viaggio col Principe Schiaccianoci nella notte di Natale.

Però, a dispetto della musica fascinosa e dell’idea magica del libretto, lo Schiaccianoci alla sua prima, il 18 dicembre 1892, non ebbe subito successo, anzi. E ciò nonostante la presenza di Antonietta Dell’Era (1860-1945) come Fata Confetto e Riccardo Drigo (1846-1930), compositore e direttore d’orchestra assai reputato, che in Russia dirigeva tutte le opere e i balletti ai Teatri Imperiali. Dell’Era riscosse molto successo più come Aurora nella Bella Addormentata. Forse l’accoglienza tiepida fu dovuta alla coreografia di Ivanov che non seppe, probabilmente, mettere in risalto le intenzioni del grande e rinomato Petipa infortunato. Modest Čajkovskij, fratello del compositore, racconta le perplessità del pubblico alla prima di Schiaccianoci, come cita Lischke:

Outre le sujet, trop éloigné des traditions du ballet et donnant, durant tout le premier acte, les rôles principaux aux enfants et non aux ballerines, la faute revient au maître de ballet. [...] Là où il n’y avait que de la danse, c’est-à-dire dans le second tableau et dans le second acte, il réussit parfaitement son travail, mais toutes les scènes avec les enfants, et tout particulièrement la guerre entre les souris et les jouets, furent complètement ratées (A. Lischke, Piotr Ilyitch Tchaïkovski, Paris 1993, 679).

Oltre al soggetto, troppo lontano dalle tradizioni del balletto classico, c’era anche la distribuzione delle parti principali danzate, in tutto il primo atto, e la responsabilità ricade sul maestro di ballo. [...] Laddove non c’era che la danza, ossia nel secondo quadro e nel secondo atto, il lavoro era perfettamente riuscito, ma tutte le scene coi bambini, e in particolare la guerra tra topi e giocattoli, ebbero un pessimo risultato (trad. di Massimo Crispi).

Quasi dimenticato nel periodo successivo, ventisette anni dopo, nel 1919, Aleksandr Alekseevič Gorskij (1871-1924) firmò una nuova coreografia. Gorskij fu il primo a pensare le scene oniriche del balletto come un vero e proprio sogno di Clara e a sostituire i bambini danzatori con adulti, facendo intravedere una storia d’amore tra Clara e il Principe. Ma a cogliere gli allori di queste idee fu il successivo coreografo, Vasilij Ivanovic Vainonen (1901-1964), che nel 1934 riprese la coreografia originale di Petipa e Gorskij, e decretò un successo spettacolare del balletto, ma fuse il personaggio di Clara con quello della Fata Confetto.

Vari coreografi si sono succeduti nel raccontare lo Schiaccianoci. Oggi si tende ad accentuare una visione psicoanalitica della favola di Dumas e del racconto di Hoffmann, del rapporto inquietante del padrino scienziato Drosselmayer, dalla benda sull’occhio e dagli strani capelli di vetro – che si potrebbe assimilare a Coppelius, alias Coppola, il fabbricante di automi, personaggio hoffmanniano dell’Uomo della sabbia –, coi bambini, soprattutto Clara, che sogna e si confronta colle proprie paure, le proprie inquietudini, i propri desideri. E l’innamoramento col Principe è la fase successiva del passaggio dall’infanzia alla maturità, non più fantocci ma uomini in carne ed ossa.
La musica, sicuramente, si presta molto a queste indagini introspettive, ricca com’è di spunti melodici, timbrici e armonici, con momenti magici trattati in maniera diversa e innovativa rispetto agli altri due grandi balletti precedenti.

L’11 dicembre 1954 George Balanchine (1904-1983) mise in scena Schiaccianoci per il suo New York City Ballet, da lui fondato, anche se il balletto completo era già stato importato negli Stati Uniti nel 1944 da Willam Farr Christensen (1902-2001), che creò una sua coreografia per il San Francisco Ballet. Balanchine conosceva bene il balletto perché aveva danzato Schiaccianoci quando era allievo della scuola dei Teatri Imperiali di San Pietroburgo, sia come bambino che, successivamente, come ballerino nella Danza russa (Trepak) e anche come Principe. La versione di Balanchine è basata principalmente sul racconto di Hoffmann, ripristinando innanzitutto il nome della protagonista: non è più Clara Silberhaus, come nel libretto di Petipa, ma Marie. Varie parti da coreografie precedenti ideate da Petipa furono riprese e perfezionate, ma la sua concezione estetica e drammaturgica prese alcune distanze dall’originale. Per dare più risalto al corpo dei danzatori, Balanchine ridimensionò i costumi dando anche una dinamicità diversa all’insieme, per esempio. Inoltre, Drosselmayer, non solo introduce tutti i suoi giocattoli meccanici, ma porta con sé un nipote bellissimo, di cui Marie s’invaghisce subito, ricambiata. Nel sogno-incubo di Marie lo Schiaccianoci diventa il Principe, che altri non è, però, che il nipote di Drosselmayer, sovrapponendo tutto. Per ciò che riguarda la danza, i passi dei ballerini, soprattutto i movimenti dei piedi e i salti, furono ben più articolati rispetto alle coreografie ottocentesche. Ad esempio, nel ruolo della Goccia di Rugiada, che col suo tocco e la sua grazia fa danzare i Fiori nel loro valzer, furono introdotte variazioni molto più difficili per la ballerina: interpretando una ninfa dell’aria, nei suoi passi doveva assicurare leggerezza, agilità e velocità. Il coreografo poi ripristinò il grande Pas de deux del Secondo Atto del Principe e della Fata Confetto, che all’arrivo nel Regno dei Dolciumi avevano presentato a Marie le gustose specialità provenienti da ogni parte del mondo, facendo tornare Marie una spettatrice. Probabilmente, però, c’era di più in questo suo recupero del balletto, oltre a un frugare nell’inquietudine del racconto hoffmanniano. I ricordi dell’infanzia e della giovinezza, passate nella nativa Russia, legate a un passato borghese totalmente cancellato dalla Rivoluzione, stimolate dalla russissima musica di Čajkovskij e sommate alle suggestioni letterarie più di Hoffmann che di Dumas, ebbero un ruolo determinante nel ridar vita allo Schiaccianoci. C’è una nostalgia, nella sua interpretazione, per un mondo infantile perduto eppure vivissimo nella memoria, quasi proustiana, e George Balanchine’s The Nutcracker, così ribattezzato, attinge al pozzo profondo di quell’immaginario archetipico dando un immenso spazio ai danzatori bambini e alla realtà vista da loro. Questa versione, una delle più ricche dal punto di vista dei personaggi, è ancora oggi molto rappresentata, soprattutto negli Stati Uniti e a New York e introdusse la consuetudine di eseguire il balletto principalmente nel periodo natalizio rendendo la festività più importante del Cristianesimo una doppia festa. In Italia è approdata alla Scala solamente nel 2018.

Nella versione del 1967 per Stoccolma, portata alla Scala due anni dopo con Carla Fracci, di Rudolf Nureyev (1938-1993), immenso ballerino e coreografo del secolo scorso, Drosselmayer e il Principe Schiaccianoci coincidono, nel sogno di Clara (e di Nureyev): sarà per lei la liberazione dal passato attraverso la maturità, la consapevolezza dell’evoluzione dal conformismo familiare verso un’alienazione da dolci e giocattoli, collo sconvolgimento della scoperta dell’età nuova. Si può dire che Nureyev abbia plasmato il personaggio di Drosselmayer su sé stesso, accentuandone il mistero. Il grande danzatore russo era, infatti, perpetua preda di turbamenti, all’incessante ricerca della perfezione in sé e negli altri. I passi che inventò nella sua interpretazione di Schiaccianoci sfiorano il limite delle possibilità dei ballerini. E scelse la Scala per la rivisitazione dei suoi balletti, in un rapporto privilegiato coll’Italia, che lui amava alla follia.

La danza che apre il secondo quadro, dopo la vittoria dello Schiaccianoci sui topi, è indicativa. È lì che avviene il passaggio: dalla materna ninna nanna che Clara fa allo Schiaccianoci, oggetto regalo del padrino e magico portale verso un’altra dimensione, allo sbocciare dell’amore per il Principe, alias Drosselmayer metamorfosato.

Dumas scrive:

– Ah! ma chère demoiselle Silberhaus, maintenant que j’ai vaincu mon ennemi, quelles admirables choses nepourrais-je pas vous faire voir si vous aviez la condescendance de m’accompagner seulement pendant quelques pas. Oh! faites-le,ma chère demoiselle, je vous en supplie! 
Marie n’hésita pas un instant à suivre Casse-noisette, sachant combien elle avait de droits à sa reconnaissance, et étant bien certaine qu’il ne pouvait avoir aucun mauvais dessein sur elle.
– Je vous suivrai, dit-elle, mon cher Drosselmayer; mais il ne faut pas que ce soit bien loin, ni que le voyage dure bien longtemps, car je n’ai pas encore suffisamment dormi (Histoire d’un casse-noisette, vol. II., 85-86).

– Ah, mia cara signorina Silberhaus, adesso che ho vinto il mio nemico, che cose straordinarie potrei farvi vedere se aveste la condiscendenza di accompagnarmi solo per qualche passo. Vi prego, fatelo, cara signorina! 
Marie non esitò un solo istante a seguire lo Sciaccianoci, cosciente che la riconoscenza verso di lei era un suo diritto e ben certa che lui non avrebbe avuto alcuna cattiva intenzione nei suoi confronti.
– Vi seguirò – disse – mio caro Drosselmayer; ma bisognerà che si vada molto lontano né che il viaggio sia troppo lungo, perché non ho ancora dormito abbastanza (Dumas 1844, 85-86).

All’inizio del secondo atto, Clara e il Principe, in viaggio verso il suo regno fatato, dopo un lungo tête-à-tête, ci sono le ultime inquietudini di un mondo di adulti che non vorrebbero far crescere Clara – i parenti, in veste di pipistrelli neri, che si prendono gioco di lei e le strappano il fantoccio dalle mani – ma il Principe li scaccia e la fa assistere alla nuova realtà che l’aspetta.

In questo Regno non ci sono più i dolciumi e i giocattoli, ma i parenti che, paludati nelle vesti arabe, cinesi, russe, eccetera, appaiono come se fossero delle porcellane, dei soprammobili decorativi semoventi: il divertissement cessa la sua funzione puramente dolciastra e baloccosa e diventa qualcos’altro destinato a una più matura comprensione da parte di Clara. I parenti non possono influire più sulle sue scelte ma diventano caricature di sé stessi. Sparisce l’episodio di Mamma Zenzero e i suoi pulcinelli, perfino nel Valzer dei Fiori i fiori non ci sono più e il grande valzer viennese diventa un ballo delle debuttanti: il debutto in società di Clara. E il grande passo a due ne è la conferma: ormai in questa rapida corsa verso la maturità, nel sogno condotto da Drosselmayer, così come il padrino e il Principe si identificano, Clara e la Fata Confetto coincidono anch’esse e Clara danza col suo Principe, ormai regina del Regno. Ma il sogno è destinato a finire e, dopo il Valzer generale, in cui riappaiono tutti i protagonisti del divertissement, Clara si risveglia nel momento in cui termina la festa di Natale in casa Silberhaus del primo atto, quando i parenti vanno via e lei si ritrova col fantoccio in mano, riprendendo il brano musicale dove il sogno era cominciato. Lo spettacolo, così, finisce in sordina, senza l’Apoteosi che invece chiuderebbe il balletto originale. Resta a Clara la consapevolezza, tutta nuova, di essere cresciuta.

L’inquietudine e lo scavo psicologico dei personaggi erano molto importanti per Nureyev, fermamente convinto di proiettare la vicenda in un mondo più moderno. Nureyev spinge il pedale sulla metamorfosi che avviene nella psiche di un’adolescente che scopre improvvisamente il mondo degli adulti che prima non comprendeva e da cui viene affascinata: il padrino Drosselmeyer, così affezionato a Clara, viene sublimato nell’immaginazione erotica di lei del sogno e diventa il Principe di cui si innamora, è lui che la traghetta verso il mondo nuovo. È il tipico innamoramento degli adolescenti, maschi e femmine, per una figura più matura, che dia sicurezza nel disorientamento dell’attimo del cambiamento e che li guidi. Un’opera iniziatica, alla fine, e non solo verso la maturità psichica e fisica ma verso la danza in sé.

Maurice Béjart, nel 1998, a Torino, interpretò a sua volta la trama utilizzando la chiave della memoria, ponendo l’attenzione sulla nostalgia della mamma perduta. Molti altri coreografi, John Cranko, Roland Petit, Frédéric Olivieri, Nacho Duato. Amedeo Amodio hanno creato le proprie coreografie per il principe dei balletti e sicuramente altri ancora ne saranno ispirati.

La sfolgorante partitura-féerie di Čajkovskij conobbe anche delle versioni per piano solo, sia trascritte dallo stesso autore che da altri compositori-pianisti. La più completa e fedele all’originale è quella del 1892 di Sergej Ivanovič Taneev (1856-1915), allievo di composizione di Čajkovskij e pianista talentuoso, oltre che studioso di ogni ramo della sapienza umana: storia, filosofia, matematica e scienze sociali. Fu egli stesso interprete del pianoforte solista del Concerto n.1 del suo maestro, il quale fu talmente contento della lettura dell’allievo che gli chiese di essere il primo esecutore del Secondo Concerto per pianoforte e orchestra. Dopo la morte di Čajkovskij fu Taneev che completò il suo Terzo Concerto. La sua riduzione pianistica del denso testo ballettistico del maestro, destinata a pianisti assai virtuosi, fu in parte semplificata dallo stesso Čajkovskij, forse perché considerata troppo difficile da suonare. Certo, tutte le sfumature coloristiche e la quantità delle frasi dello sterminato strumentale orchestrale non si potevano ottenere solamente in due pentagrammi e con due sole mani, però, se l’esecutore è capace di trarre tutte le sfumature possibili dal suo strumento, il risultato è comunque assai suggestivo e pregevole.

Un’altra versione, ridotta e più agile, è quella più recente di Michail Vasil’evič Pletnëv (1957-vivente), che arrangiò le suite dei tre balletti di Čajkovskij in una rilettura virtuosistica che oggi viene di tanto in tanto presentata nelle sale da concerto, e ne segnaliamo anche altre, per pianoforte a quattro mani, come quella, del balletto completo, di Anton Stepanovič Arenskij (1861-1906) e quella per due pianoforti di Nicolas Economou (1953-1993), che si rifà alla nota suite dal balletto. Quest’ultimo realizzò la sua trascrizione per le allora giovani figlie della grande pianista argentina Martha Argerich (1941-vivente) ed esiste una splendida registrazione per DGG eseguita da Argerich ed Economou nel 1983.

C’è, però, una versione della suite dal balletto che, all’epoca, diffuse ulteriormente l’interesse per la partitura ciaikovskiana negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Si tratta della celeberrima realizzazione di Walt Disney (1901-1966) nel suo film d’animazione Fantasia (1940), dove fu utilizzata solo una parte della suite da concerto e precisamente la Danza della Fata Confetto e alcune danze caratteristiche. Insieme a un corpo di ballo di fatine alate che pattinano sulle punte sopra stagni ghiacciati, a danzare sono soprattutto fiori, funghi, semi, foglie, pesci, rugiade e altri elementi della natura. Totalmente decontestualizzato dall’atmosfera natalizia che invece è alla base del balletto, lo Schiaccianoci di Disney proviene dalle Silly Simphonies, piccoli cortometraggi d’animazione che pretendevano dare un’altra funzione semantica e descrittiva a capolavori della Storia della Musica mondiale, totalmente distinta dalle intenzioni degli autori.

Le Fate Confetto, in Fantasia, non sono solo una dunque, ma tante, come nella consuetudine delle ballerine serializzate tipiche delle coreografie nelle commedie musicali americane, ad esempio quelle del corpo di ballo tutto femminile in Gold Diggers (1933), o delle famosissime Rockettes del Radio City Music Hall, o in molti altri Musical. Nel cartone animato, sono tutte quelle fatine che danzano simmetricamente a occuparsi di risvegliare la natura colle loro bacchette magiche, volando da un fiore all’altro. I pesci neri dalle lunghe code si esibiscono nella Danza araba del Caffè, senza che alcun caffè sia presente, così come il tè non appare nella Danza cinese, danzata in cerchio da gialli funghi, ovoli buoni, probabilmente, dagli occhi a mandorla e i cappelli rossi. Cardi e orchidee animano la Danza russa, il Trepak, per terminare col trionfale Valzer dei fiori, dove le stesse Fate Confetto che avevano risvegliato la primavera, giocando colle stagioni, adesso danno il via all’autunno e all’inverno, in un vortice di foglie dorate e di piumosi semi volanti, dove tutta la natura è coinvolta, nel più puro stile coreografico di Broadway. Per chi volesse approfondire le sue conoscenze sullo Schiaccianoci e della sua importanza per l’infanzia, consigliamo il prezioso e ricco saggio di Virginie Tellier Casse-noisette de Tchaïkovski. Une œuvre patrimoniale pour l’enfance (in Littérature de jeunesse et Europe romantique, dir. par Caroline Raulet-Marcel et Virginie Tellier, Paris 2019, 139-158).

Andiamo avanti. Qui arriviamo a un altro colpo di genio, assai elaborato e spettacolare, giacché nasce e si sviluppa ancora una volta nel paese più contraddittorio del pianeta, un paese che più di tutti distrugge il passato proprio e degli altri, ma talvolta lo trasforma in qualcosa di diverso che spesso non c’entra nulla coll’originale. In questo caso l’operazione è positiva perché si tratta di una vera opera d’arte contemporanea, una metamorfosi di un classico sempreverde in un altro (ormai) classico sempreverde, tant’è che il progetto ancora oggi, dal 1992, viene rappresentato in giro per il mondo, con artisti diversi. E funziona. Funziona perché la musica è un metalinguaggio che va oltre ogni barriera cronologica, culturale, estetica. Funziona anche perché si parte da un capolavoro, certamente. Funziona perché gli artisti che hanno rielaborato quel capolavoro hanno un fervore tutto loro che travalica ogni barriera.

In genere, quando si compiono delle operazioni di questo tipo, il risultato finale non è così scontato. Per esempio, quando qualcuno si mette in testa di ambientare le grandi opere liriche in scenari suggestivi ma totalmente arbitrari, lo spettacolo si scinde inevitabilmente perché, nella maggior parte dei casi, tra il testo scritto e ciò che viene rappresentato non c’è alcuna connessione.

In questo caso, l’operazione fatta da un gruppo di eccezionali artisti americani, tutti neri, è assolutamente coerente e anzi produce qualcosa di nuovo che affonda le proprie radici in una pietra miliare della Storia della Musica. È quasi un ritrovare le origini irrimediabilmente perdute e sepolte a causa della devastante deportazione dall’Africa in un continente alieno, quantunque attraverso l’opera di un arcaico artista che componeva per il re inglese, ossia il re dei pirati, dei mercanti di schiavi e dei padroni, quindi l’opera di una cultura egemone che aveva schiacciato le culture originarie e primitive dei deportati. Però, quando l’opera d’arte è sublime e senza tempo ed è diventata un pilastro culturale per tutto il mondo, perché eseguita, dal momento della sua composizione in poi, in Europa, nelle Americhe, in Asia, in Africa, in Oceania, tutto quanto diventa qualcosa di completamente diverso.

Come al solito, ovviamente, c’è molto di più oltre la superficie. Il legame tra il passato e il presente non è solamente la musica, per quanto possa essere un metalinguaggio, appunto, ma si aggiunge il carattere religioso e spirituale che la caratterizza. E quella religione che è così sentita tra i neri d’America, la religione dei padroni che però fu adottata dagli schiavi come unica speranza per una vita ultraterrena di libertà, illusione che puzza di truffa, era la religione cristiana. E quando l’opera d’ispirazione è il Messiah di Händel lo shock è assicurato.

Figurarsi! Come può essere possibile fare una versione moderna e pure nera di un monumento come il Messiah senza urlare al sacrilegio da parte dei puristi o, quanto meno, senza lo sbigottimento dell’uomo medio che non si intende proprio di musica barocca ma che conosce l’Hallelujah perché lo cantano in chiesa? Eppure è accaduto. Succede, ogni tanto, che qualcuno abbia un’idea e che provi a realizzarla, riuscendoci.

Norman Miller (1943-2012), un manager e produttore di gruppi di musica gospel, un mattino come un altro si svegliò e si disse: ma se provassimo a dare un tocco soul al Messiah? Miller era proprio curiosissimo di come la comunità cristiana afroamericana potesse elaborare una versione diversa del Messiah. Tutti conoscono il Messiah, soprattutto nel mondo anglosassone, perché per Natale, oltre che in chiesa, si canta nelle scuole, nelle Università, nelle sale da concerto, è una musica che ognuno ha nel sangue e l’esecuzione è strettamente accademica, con orchestra, solisti e coro. Ma farne una versione tutta black music era un’idea assolutamente stramba. Eppure Händel utilizzò per il Messiah gli stessi testi della Bibbia e del Vangelo che cori integralmente neri cantavano in tante versioni diverse nelle chiese americane, nelle chiese battiste, in quartieri di seconda mano, in città di seconda classe. E anche nei campi di lavoro, con tutti i significati di linguaggio cifrato che gli schiavi usavano per comunicare tra loro davanti ai padroni bianchi e i loro guardiani, utilizzando gli argomenti sacri. Era un terreno comune su cui si poteva lavorare.

Quasi quasi ne parlo con qualcuno, di questa mia insana idea, secondo me può avere un seguito, si dev’esser detto Miller. E, infatti, Miller contattò la manager di uno dei gruppi Gospel a cappella più famosi del momento, i Take 6.

Gail Hamilton rimase sbigottita all’idea di fare una versione diversa del Messiah, che non fosse quella classica a cui tutto il mondo era abituato. E ci credo. Anche lei, come studentessa, aveva cantato il Messiah di Händel, e le risultava impossibile credere che si potesse profanare l’oratorio del maestro, cosicché la sua risposta traboccava di dubbi. Però, da manager coscienziosa, iniziò a studiare e a informarsi, scoprendo che la prima rappresentazione del Messiah a Dublino, il 13 aprile 1742, fu un concerto di beneficenza. E lei, che aveva avuto un passato di lavoratore sociale ebbe l’illuminazione: se si fosse dato uno scopo umanitario al progetto era fatta. Così fece e ne parlò a Mervyn Warren (1964-vivente), uno dei componenti dei Take 6, che aveva ricevuto un’eredità di canto sacro dalla sua famiglia, perché il nonno e il padre erano sacerdoti nella Chiesa Avventista del Settimo Giorno a Nashville, lui era stato un Preacher’s kid: il Messiah, per lui, era pane quotidiano. Warren era anche compositore, arrangiatore, un inventore straordinario di musica per voci e strumenti e fu messo in contatto con Miller. Ma, naturalmente, anche lui aveva dei dubbi: come arrangiare quella presenza ingombrante di un compositore come Händel nella vita di ogni persona di chiesa, eseguito e ascoltato sempre in un’unica maniera, quella classica?

Miller parlò con Warren che gli aprì le porte del Paradiso dicendogli che l’idea era di fare una versione del Messiah completamente nera, con tutte le libertà e gli stili contemporanei possibili, una sorta di compendio della musica nera. In fondo quando Händel lo scrisse, quella era musica contemporanea e rifletteva lo spirito dei tempi.

I primi artisti che Gail Hamilton contattò rimasero a bocca aperta, non comprendendo cosa davvero lei volesse, ma quando spiegò che lo spirito motore di tutto era ritrovare la motivazione di ogni brano originale e lasciare libera espansione alla creatività dell’esecutore le cose cominciarono a essere più chiare. In fondo quegli artisti erano dei maestri d’improvvisazione e poi c’è anche da dire che una “profanazione” dei classici Bach e Händel era stata fatta già trent’anni prima da un gruppo vocale (pur non essendo formato da cantanti neri) nel mondo del jazz: gli Swingle Singers, che erano in origine un prodotto francese, fondati a Parigi nel 1962, si erano sbizzarriti ad arrangiare in chiave swing il Clavicembalo ben temperato e vari brani strumentali di Händel e Mozart. Ma qui si trattava di far emergere il pianeta della musica nera in tutti i suoi aspetti e a poco a poco, componendo dei brani e facendoli ascoltare ad artisti in tutti gli Stati Uniti, in modo da coinvolgerne il maggior numero possibile, il convoglio si mise in movimento.

Warren pensava, giustamente, che il coro Hallelujah dovesse essere il gran finale, anche se non è così nell’originale di Händel, perché è comunque il climax emotivo dell’oratorio ed è talmente coinvolgente che oltre non si può andare. Avrebbe dovuto essere un coro di tutti gli artisti del progetto, tutte star della black music. Inoltre l’Hallelujah lo conoscevano veramente tutti. E qui arriva l’intuizione creativa della manager.

Gail Hamilton contatta un vecchio amico, nientemeno che Quincy Jones (1933-vivente), che era stato, nel 1985, il produttore dell’operazione artistica umanitaria targata U.S.A. in favore dell’Etiopia We are the world, di Michael Jackson (1958-2009): un coro all stars, che ancora oggi resta uno dei dischi singoli di beneficenza più venduti del mondo. L’Hallelujah del Messiah, per il suo impetuoso carattere corale avrebbe dovuto essere qualcosa di simile.

Ma Gail ignorava che l’Hallelujah era già stato arrangiato nel 1969 da Jones in chiave pop. Si trova infatti nella colonna sonora del film di Paul Mazursky (1930-2014) Bob & Carol & Ted & Alice, rivoluzionario e ironico film sui costumi sessuali moderni, insieme ad altri pezzi di Jones. Il nuovo Hallelujah, sorprendente opera corale stracolma di vedette della black music, fu registrato negli stessi studi A&M dove era stato registrato We are the World! Quincy Jones qui diviene il direttore d’orchestra e dei cori. Le sue parole sono molto chiarificatrici sul significato di questo progetto:

L’Hallelujah è un pezzo semplice, al di là del tempo e poderoso. In questo senso è perfetto per un arrangiamento e segue una tradizione molto forte della black music. Si può paragonare ad Amazing Grace, che credo fosse, all’inizio, un inno metodista o presbiteriano usato dai bianchi e che fu riadattato per le chiese dei neri. Esattamente come fu fatto per Amazing Grace molti anni fa, noi abbiamo preso l’opera di Händel e l’abbiamo trasformata in un inno battista.

L’operazione si chiamò Handel’s Messiah: A Soulful Celebration e fu prodotta soprattutto da Mervyn Warren, che si appassionò totalmente all’idea di Miller, come ci illustra Marianne Meyer in una ricca recensione dell’operazione (The Sound of Handel’s Messiah, “The Washington Post”, 29 novembre 1992).

Già dall’Overture, annunciata da un frinire di grilli campestri notturni e percussioni quasi tribali si capisce che qualcosa di strano sta per avvenire: poi arriva il tema suonato a un tasto solo dall’organo mentre le percussioni continuano l’atmosfera negra. Tutto tace all’improvviso e arrivano le voci a bocca chiusa che intonano un coro gospel sempre sul tema principale dell’Overture. Subito dopo che il coro ha esposto il suo punto di vista arriva un pianoforte honky-tonk, rigorosamente scordato, che continua il discorso interrotto dal coro in stile ragtime, una delle prime espressioni della black music alla fine dell’Ottocento, e così si prosegue a passare in rassegna i vari stili negri giungendo al tempo presente, fino alla fine del brano, quasi un compendio di un secolo e mezzo concentrato in cinque minuti. Man mano che l’oratorio rivisitato si svolge, molti degli stili negri si appropriano dei recitativi, delle arie e dei cori trasfigurandole in impensabili pezzi funky, R&B, jazz fusion, hip hop, rap, pop, soul, big band, spirituals, con un effetto assolutamente travolgente. Anche perché gli esecutori sono i Take 6, Mervyn Warren, Stevie Wonder, Vanessa Bell Armstrong, Patti Austin, Dianne Reeves, Sounds of Blackness, Johnny Mathis, The Yellowjackets, The Boys Choir of Harlem, Al Jarreau, Lizz Lee, Chris Willis, Quincy Jones, Linda Hopkins, e un’infinità di altri artisti, tutti neri, tranne uno, il produttore di Patti Austin (e di un esercito di artisti americani), David Pack, che partecipa al gran finale.

Naturalmente, per gli amanti delle musiche festive più tradizionali, esistono centinaia di migliaia di dischi, DVD, video su youtube delle carole natalizie e i cantanti lirici, quelli pop e i gruppi ne sfornano a getto continuo, inondando l’etere, non sempre con risultati apprezzabili. Noi ci siamo limitati a segnalare solo quelli più ribelli o innovativi ma è chiaro che ce ne sono molti di più e ci spiace di non poterli descrivere come meriterebbero, dal My Kind of Christmas di Christina Aguilera a He is Christmas dei Take 6 a A Christmas Album di Barbra Streisand a Aznavour chante Noël… Senza fine.

Un posto a parte lo meritano due gruppi. Il primo è quello, semplicemente pirotecnico, dei Pentatonix, una sorta di madrigalisti del XXI secolo che con cinque voci al di fuori del comune riescono a creare un’orchestra e un coro contemporaneamente. Questi artisti hanno creato vari album dedicati al Natale: That’s Chrismas To Me (2014), A Pentatonix Christmas (2016), Christmas Is Here (2018), We Need a Little Christmas (2020). Le canzoni non sono solo i tradizionali canti natalizi ma anche opere in cui si parla del Natale, perfino come semplice sfondo di una qualche vicenda, ed è proprio questo che rende l’operazione appetibile. L’intreccio vocale che i magnifici cinque riescono a creare, senza mai perdere di vista la melodia principale della carola ma rivoltandola in tutte le sue possibilità e palleggiandosela è qualcosa di assai interessante ed emotivamente coinvolgente come, solo per fare un esempio, in Little Drummer Boy: sembra quasi un madrigale di Monteverdi invasato da un demone fantasioso e birichino, a cinque dimensioni, che conduca una carrozza a cinque cavalli che danzano variando il loro percorso, mentre dei ballerini immaginari piroettano con evoluzioni inarrivabili su ciascuno di essi per poi saltare in ordine sparso ma restando sempre uniti su un percorso principale, cavalli, carrozza e ballerini trasfigurandosi vicendevolmente senza sosta. Una specie di Cirque du Soleil fatto tutto esclusivamente colle voci. Certo, buona parte degli effetti sonori sono possibili solamente grazie al microfono e alla postproduzione, cosa che nel campo della musica acustica è meno scontato, ma il prodotto è abbastanza interessante.

Il secondo gruppo, di tutt’altro genere, è la band greca Orion’s Reign, che nel 2018 ha sfornato uno strepitoso (strepitoso è il termine più adatto proprio per il letterale strepito organizzato degli arrangiamenti) album di canzoni natalizie tra le più melense, rigorosamente in inglese, in un’iconoclasta versione sinfonica heavy metal, piena di ironia e rimandi: Joy to the World. Ascoltare questi arrangiamenti di We wish you a Merry Christmas, Santa Claus is coming to town, Joy to the World e molti altri canti di Natale, in cui dialogano il diavolo e l’acqua santa, sono un’operazione di cross over veramente encomiabile. Chi l’ha concepito è un genio, del bene o del male non importa.

Alla fine, molti di questi artisti, credenti o no, creano un loro punto di vista sul Natale che può rivelarsi interessante, soprattutto quando una vena ironica s’insinua a prepotenza nelle compassate carole sempre uguali a sé stesse e riproposte in un’atmosfera di melassa consumistica che parla soprattutto inglese, relegandole a paccottiglia Biedermeier di seconda scelta.

Un’operazione interessante e all’avanguardia potrebbe essere quella di immettere tutti le informazioni di questo breve saggio in una banca dati dell’Intelligenza Artificiale (1956 –vivente) (sui cui vedi almeno la voce di F. Amigoni, V. Schiaffonati, M. Somalvico nell’Enciclopedia della Scienza e della Tecnica del 2008), chiedendole di elaborare nuove carole natalizie e farne un CD di un cantante inesistente, anch’esso inventato dall’I.A. Dopo gli esiti degli esperimenti pittorici, letterari e musicali che le sono stati ultimamente affidati, sono certo che verrebbe fuori qualcosa di birbante.

Comunque, tutto sommato, ha proprio ragione Minou Drouet: la musica è veramente la religione più bella del mondo.

English abstract

In this article, the author illustrates and narrates some Christmas carols in a non-conformist manner. Massimo Crispi focuses on illustrious composers who have interpreted Christmas in an unconventional, comic, dreamlike and tragic way. The first three authors, of French origin, are Maurice Ravel (1875-1937), Claude Debussy (1862-1918) and Francis Poulenc (1899-1963), who lived at the turn of the 19th and 20th centuries. 
The author moves to the southern western shore of the Atlantic, first to Brazil and then to Argentina with Oscar Lorenzo Fernández (1897-1948), a Brazilian composer of Spanish origin; the poet Félix Luna (1925-2009) and the composer Ariel Ramírez (1921-2010), both Argentineans. 
A chapter is dedicated to one of the most famous and extraordinary classical ballets ever composed, that of the Nutcracker (1892) by Pyotr Il'ič Tchaikovsky (1840-1893), based on Alexandre Dumas father's (1802-1870) version, History of a Nutcracker, of the much more gothic tale by E. Th.A. Hoffmann's (1776-1822) Nutcracker and the Mouse King (1816), set on Christmas night, followed by interpretations and re-adaptations of ballets, dance-songs that are world-famous and known to the present day.

keywords | Christmas carols; songs; composer; Nutcracker.

Per citare questo articolo / To cite this article: M.Crispi, Musica sotto l’albero”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 259-290 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0036