"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Le parole della festa e il silenzio dell’arte

Massimo Donà

English abstract

“Io non intendo affatto collocare le arti plastiche nel regno dubbio e nuvoloso delle astrazioni. Il cielo me ne guardi! E al fine di esprimermi in un modo relativo, dirò che le arti plastiche si associano al corso naturale della vita, alla stessa guisa che vi si associano i ricordi”, anche se “le arti plastiche sono del tutto estranee al moto del tempo”, perché “il proprio delle arti plastiche è l’immobilità, mentre nelle altre arti interviene, or più or meno, il fattore ritmo”. Insomma, “solo l’artista plastico concepisce e attua la sua opera direttamente sub specie aeternitatis”.

(Savinio [1922] 2007, 80-81)

1 | Il riposo di Dio – VII giorno della Creazione, stampa dipinta, 1493, in Hartmann Schedel, Liber chronicarum o Libro della Cronache di Norimberga, illustrato da Wolgemut e Pleydenwurff, edito da Anton Koberger, f. 2v; 2 | Arte romana, Applique a testa di Medusa, bronzo da Este-Monte Murale, I sec. d.C., bronzo, Este, Museo Nazionale Atestino; 3 | Giorgio De Chirico, Canto d’amore, 1914, New York, Museum of Modern Art.

1

D’aspetto doveva essere bellissima, se Poseidone non resistette e volle a tutti i costi possederla. L’atto venne consumato nel tempio di Atena, la dea nata dal cervello del padre; ma quest’ultima, particolarmente offesa da un tale affronto, decise di trasformare l’unica mortale tra le tre Gorgoni (le altre due erano Euriale e Steno) in un mostro orribile; le sue mani vennero trasformate in pezzi di bronzo, il corpo venne ricoperto di scaglie e munito di ali d’oro, i suoi denti assunsero l’aspetto di zanne di cinghiale e i capelli divennero un ammasso di serpenti; ma soprattutto Atena consegnò al suo sguardo un destino ‘maledetto’: che l’avrebbe destinata a trasformare in pietra chiunque avesse osato guardarla. Questa, almeno, la versione di Ovidio e di Esiodo.

Poi fu il re di Serifo, ossia Polidette, a mandare Perseo in spedizione punitiva. Doveva ammazzarla. Con i sandali alati, la kibisis (la sacca) e l’elmo dell’invisibilità donatigli dalle Ninfe dello Stige, e con il falcetto donatogli invece da Hermes, Perseo raggiunse le tre sorelle; trovandole intente a dormire. Così, individuata Medusa, con la mano guidata da Atena, le staccò la testa. Vicino alla dimora delle Gorgoni, comunque, Perseo “qua e là per i campi e per le strade aveva visto figure di uomini e di animali tramutati da esseri veri in statue per aver visto la Medusa” (Ovidio, Metamorfosi, IV, 780). Riuscì dunque a non venire pietrificato, solo perché “era riuscito a guardare la forma dell’orrenda Medusa riflessa nello scudo di bronzo che portava al braccio sinistro”. Insomma, ne riconobbe il volto solo quando lo vide specchiato sulla superficie del proprio scudo. Evitò accuratamente di incrociare direttamente il suo sguardo mortificante. Infine, Perseo donò la testa mozzata della Gorgone ad Atena, che la pose al centro della propria egida.

Insomma, parlare di Medusa significa ricordare un mito quanto mai interessante, perché capace di evocare qualcosa che va ben oltre le pur interessantissime interpretazioni che vedono nella punizione inferta a Medusa da Perseo il ripristino del potere maschile sulla donna, la cui bellezza sarebbe sempre stata considerata pericolosa, e soprattutto dotata di un potere incantatorio in grado di far morire i suoi pretendenti. Di qualcosa, cioè, che non si costituisce come la semplice, per quanto preziosa, testimonianza di una ben precisa forma mentis propensa, forse con troppa facilità, a trasformare le vittime (quasi sempre femminili) in veri e propri mostri. Può essere utile ricordare, a questo proposito, che le tre sorelle (le Gorgoni) rappresentavano per gli antichi tre possibili perversioni: Steno quella morale, Euriale quella sessuale e Medusa quella intellettuale. Medusa quindi rappresentava per i Greci la perversione “intellettuale”; quella relativa, cioè, all’atto del conoscere.

Le Gorgoni erano state confinate al di là di Oceano, a significare il fatto che per i Greci le perversioni andavano tenute sotto controllo, ai margini del mondo. Rilevante è dunque il fatto che anche l’attività conoscitiva possa, per i Greci, ‘pervertirsi’; ossia non volgersi al suo oggetto più proprio, ma allontanarvisi irrimediabilmente. Deviando, dunque, rispetto al proprio supposto corso naturale. Ma cosa si vuole conoscere quando si attivano le facoltà intellettuali che ci caratterizzano in quanto umani? La ‘cosa’: quella stessa che l’esperienza ci offre nella forma incerta e confusa con cui abbiamo solitamente a che fare. Ovvero, la cosa individuale, singolare, sempre unica e irripetibile che, proprio per voler conoscere, appunto, rischiamo di lasciarci alle spalle, preferendo di gran lunga la solida certezza garantita dalle idee immutabili – destinate a risolvere l’indecifrabile singolarità in astratta e immateriale ‘universalità’. E costituentisi come oggetti di vera e propria ‘per-versione’ rispetto al reale motore dell’attività conoscitiva. Peraltro, incapaci di ‘stare’ davvero; in quanto costituite quasi sempre di significati non meno confusi delle realtà empiriche che dovrebbero consentirci di conoscere.

Non meno interessante è poi il fatto che i capelli di Medusa vengano trasformati in serpenti. Sì, perché anche il serpente è sempre stato simbolo di metamorfosi – si tratta infatti di un animale che cambia pelle rinnovando continuamente se stesso. Come la temibile Gorgone, insomma, anche il serpente è legato (non solo in Grecia, ma anche in Egitto) al tema della rigenerazione e della ciclicità della vita; un tema ben rappresentato, peraltro, anche dal simbolo costituito dal serpente che si mangia la coda, e che realizza così un cerchio che non ha né fine né inizio (l’uroboro). Merita poi un cenno il fatto che anche il serpente, nella tradizione biblica, è ‘tentatore’; e soprattutto simbolo di conoscenza. Di conoscenza perversa, però. Causa della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, infatti, il serpente infonde nei primi esseri umani il seme del dubbio e della consapevolezza. Anche l’esperienza conoscitiva è intimamente legata a una pericolosissima ‘tentazione’. La stessa che avrebbe fatto naufragare Ulisse – almeno, secondo la versione dantesca della morte dell’eroe omerico.

Sì, il principio di conoscenza è facilmente tentatore; potendo comunque renderci soggetti alla tentazione di voler andare sempre oltre; facendoci credere che, solo oltrepassando ogni limite, anzi solo oltrepassando la condizione limitata propria dell’umano, sia possibile soddisfare un anelito conoscitivo che da ultimo vorrebbe renderci propriamente divini. Ossia, capaci di abbracciare l’infinito. Peccato che voler conoscere l’infinito significa condannarsi all’impossibilità di conoscerlo, e di farcene realmente fare esperienza; sì, perché l’infinito che pur possiamo sognare di poter un giorno conoscere, proprio in quanto ‘conosciuto’, smentirebbe, in ogni caso, di essere l’infinito di cui ci fossimo proposti di guadagnare il possesso, come se si fosse trattato di un oggetto.

Il conoscere, insomma, non può aver a che fare se non con ‘oggetti’, resi tali proprio da una disposizione oggettivante costitutivamente connessa alla natura dell’umano, e del suo riconoscersi come intrascendibile soggetto di conoscenza. Eppure, è proprio la volontà di farsi divini, e in quanto tali capaci di possedere l’infinito (come se l’infinito fosse davvero risolvibile in un ‘oggetto’ di conoscenza per un soggetto), che viene rappresentata dal serpente; fermo restando che, come ci fa capire anche il testo biblico, il serpente ci infonde anche una inestirpabile attitudine al ‘dubbio’. Il conoscere umano, infatti, nella misura in cui cerca di guadagnare una perfezione che non potrà mai possedere, è sempre costitutivamente incerto; e può riconoscersi incerto non solo in quanto essenzialmente ‘dubitante’, ma anche in quanto affidato ad universali sempre e comunque ambivalenti, ambigui e dunque costitutivamente confondibili.

Il serpente, da un lato, e Medusa, dall’altro, sono allora portatori di una costitutiva e sempre faticosa ambivalenza; la Medusa è portatrice di vita e di morte – nello stesso tempo. Il sangue che sgorga dalle vene del suo collo è infatti tanto veleno quanto rimedio capace di resuscitare i defunti. Può condurci dalla vita alla morte, ma anche dalla morte alla vita. Certo, lo sguardo di Medusa pietrifica e dunque fa morire quel che vive, ma nello stesso tempo dalla medesima figlia di Forco e di Ceto nascono tanto il cavallo alato Pegaso (che si narra esser nato dal terreno bagnato dal sangue versato da Medusa dopo la decollazione operata da Perseo) quanto il gigante Crisaore (anch’esso nato dal sangue di Medusa, o secondo un’altra versione, dall’avventura erotica di Poseidone con Medusa). Quel che più ci interessa è comunque il fatto che questa doppiezza possa trasformare anche un atto solitamente considerato quale prova della superiorità dell’umano in espressione di una corrispettiva perversione: riconoscibile come tale dall’effetto pietrificante (ossia, astrattamente universalizzante) prodotto dal suo sguardo. Il medesimo che, in ogni caso, ci consente anche di conoscere; ossia, di realizzare appieno la specificità di un “umano” mai risolvibile nella propria semplice, per quanto inestirpabile, ‘animalità’.

Si tratta di un mito che parla, anzitutto, di una vocazione costitutivamente connessa all’umana conoscenza. Che spiega cioè come mai, nel voler “guardare” al fine di capire dove ci si trovi, ossia nel voler mettere a fuoco il reale per poterlo decifrare nella maniera più corretta e verosimile, ci si trovi condannati a “mortificare” quel che nello stesso tempo ci si propone di cogliere per quel che esso dovrebbe essere. Che vorremmo cioè cogliere nella sua radice vitale, cogliendone anzitutto l’anima, l’essenza, ovvero quel che esso dovrebbe essere nella sua più vera esistenza reale. Insomma, vorremmo conoscere quel che veramente esiste, ma siamo ineludibilmente tentati di ‘oggettivare’, ossia di pietrificare l’esistente; ossia, di risolverlo in immote e immateriali, nonché inesistenti universalità (le idee platoniche). Il fatto è che, anche senza rendercene conto, siamo continuamente tentati di trasformare la natura vivente in natura morta. Fatta di pure ‘universalità’. Spettri privi di vita, ovvero sogni assolutamente privi di concretezza.

Lo sapeva bene anche Goethe, che proprio di questo accusava la forme di conoscenza apparentemente più affidabili del proprio tempo; si pensi ai giudizi non propriamente lusinghieri che il grande intellettuale tedesco ebbe a formulare sulle classificazioni operate da Linneo – medico e naturalista svedese del diciottesimo secolo – in base ad un metodo di classificazione fondato su una nomenclatura rigorosamente binomia (per genere e per specie). Ma le critiche di Goethe, in realtà, andavano a colpire un metodo che aveva le sue origini addirittura in Platone. Già il fondatore dell’Accademia, infatti, s’era mostrato radicalmente convinto del fatto che la vera conoscenza non dovesse lasciarsi ingannare dalla natura sempre incerta e mutevole dell’esistente di cui ‘sappiamo’ in virtù di un’esperienza anzitutto ed eminentemente ‘sensibile’. Già per Platone conoscere il mondo (lo stesso che cambia in continuazione, che diviene, e che mai potremo risolvere in una qualche determinatezza sensibile – appunto perché sono proprio le sue determinatezze sensibili a rendere incerto e inaffidabile tutto quello che potremmo sentirci di poter dire, del medesimo, in base a quel che, di esso, sembra esserci suggerito dall’esperienza sensibile) significa procedere oltre il suo aspetto sensibile. Anche perché non vi sarebbe stato proprio modo di determinare qualcosa come “il suo aspetto sensibile” – stante che quel che, di esso, ci avesse mostrato l’esperienza sensibile, non sarebbe stato in alcun modo riconducibile ad una ben precisa determinatezza. Che si lasciasse concepire appunto come “sua univoca determinatezza”.

L’esperienza sensibile è piuttosto quella che, di qualsivoglia determinatezza, dice il semplice non esser mai quel che sembra essere. Perché il rosso che potremmo esser riusciti a cogliere contemplando un determinato tramonto, e che potremmo anche provare a definire, nel momento in cui cercassimo di fissarlo “nella mente”, non sarebbe già più quello che era. Eppure, la cosa più interessante, anche a questo proposito, è non tanto che l’esperienza sensibile ci faccia toccare con mano l’illusorietà che caratterizza qualsivoglia determinatezza si possa credere d’esser riusciti a cogliere; quanto piuttosto il fatto che, affinché l’esperienza possa testimoniare “l’esser sempre già altro da sé” da parte di tutto quel che pur si fosse riusciti a conoscere, dell’esperienza medesima, è necessario che lo si sia anzitutto ‘determinato’, questo mondo. Un mondo peraltro mai identico a sé – e di cui è abbastanza facile riconoscere il non esser mai identico a sé.

2

Secondo Emanuele Severino la filosofia nasce come sguardo rivolto alla totalità; e come farmaco cui verrebbe assegnato il compito di guarire dal dolore. Cosa che essa sembra in grado di fare solo in quanto capace di rivolgersi a “quel che sta”.

Insomma, il dolore che getta nella follia sembra poter venire sconfitto solo da un sapere stabile, in grado di non lasciarsi smentire; per questo già Eschilo poteva assegnare a Zeus il ruolo di vero rimedio – in quanto collocato all’interno del sapere che sta.

Ma lo ‘stante’ è in grado di ‘stare’, sempre secondo Severino, solo in quanto costituentesi come “identità di tutte le differenze” – sì, perché solo l’identità di tutte le differenze può stare al di là delle differenze. Ossia, può non essere una differenza, un differente – sì che il suo stesso stare al di là delle differenze abbia ben poco a che fare con lo stare “al di là” reso possibile dall’orizzonte delle differenze e nell’orizzonte delle differenze. E quindi può non subire il destino proprio di ogni differenza: ossia, quello di divenire, soffrire e morire, e quindi di essere irrimediabilmente mancante e contingente.

Questo è infatti Zeus, per Eschilo: ciò che non può venire mai meno, in quanto coincidente con l’orizzonte stesso della totalità – ovvero, con ciò che non può lasciarsi ridurre ad una differenza, ad un diverso (che, in quanto tale, sarebbe necessariamente parziale, anche solo in quanto “altro” da moltissime determinazioni costituenti, con tale diverso, la totalità delle differenze). E che, proprio per questo, può venire riconosciuto come lo “stante” per eccellenza.

È infatti nel frammento 70 delle Eliadi (opera di Eschilo, dedicata alle figlie del sole e sorelle di Fetonte, di cui sono rimasti solo alcuni frammenti) che, di Zeus, si dice che è tutte le cose e ciò che sta al di là di tutte le cose.

Ma la potenza di Zeus viene evocata anche da un inno a lui dedicato nell’Agamennone – altra importante tragedia di Eschilo. Infatti, rileva a questo proposito Monica Centanni, “solo Zeus può scacciare dalla mente il ‘peso vano’ dell’ansia: quindi a Zeus il coro si rivolge con devozione” (Centanni 2003, 970).

Anche Emanuele Severino, comunque, si sarebbe premurato di precisare che: “Zeus è l’identità del diverso, l’unità che avvolge tutte le cose, il principio al quale si rivolgono tutti i primi pensatori greci. Eschilo si porta al di là della contrapposizione tra gli dèi del cielo e quelli della terra”. Ed è sempre a questo Zeus, continua il filosofo bresciano, che “va riferito il tratto che nelle Coefore (vv. 127-128) viene attribuito alla terra: di essere ciò da cui tutto si genera e in cui tutto ritorna”(Severino 1989, 26-27). Solo la verità, insomma, sembra poterci guarire dalla follia generata dall’errore; o meglio, la sua (della verità) conoscenza. Che sembra non potersi caratterizzare – stiamo vedendo – se non come “visione” della totalità. Ossia, come abbraccio in grado di non lasciare nulla fuori di sé.

Solo il tutto, infatti, sta; in quanto impossibilitato a divenire, a trasformarsi, a diventare altro da quello che è – ché, se ciò fosse possibile, ossia se il tutto potesse davvero modificarsi, non si tratterebbe del tutto; ma avremmo a che fare con qualcosa di necessariamente “parziale”. Insomma, se il tutto potesse trasformarsi, non sarebbe il tutto; mancherebbe infatti di ciò in cui ancora non si fosse trasformato. E dunque non potrebbe neppure costituirsi come im-parziale – quale ha da essere appunto la sua verità.

Stiamo allora vedendo come già per Eschilo (proprio come per Parmenide), solo nel portarsi avanti da parte del pensiero che si distende sino all’estremo confine del Tutto, tracciando la linea che si impone sulle forze che tentano di trasgredirla, “la linea può stare, imponendosi su di esse”(Severino 1989, 28). Il pensiero deve portarsi in avanti sino a stare su tutte le cose, “raccogliendo sotto di sé il Tutto e dominando tutto ciò che vorrebbe farlo vacillare” (Severino 1989, 28).

Ma lo stare è indicato in primis dalla parola epi-stéme; è con questa espressione, infatti, che i Greci alludono alla scienza vera, inamovibile e incontrovertibile; che da nulla può venire messa in questione. Insomma, un sapere non scalfibile da alcuna forma di dubbio. Che non teme, dunque, gli inganni di alcun serpente.

Sì, perché quel che “rende visibile” non è né questo né quello; e dunque non è un qualcosa, ma la verità di ogni cosa. Ovvero, ciò che “uni-fica” tutte le cose. Vale a dire, una perfetta “universalità”, non riconducibile, in quanto tale, a nessuna esistenza specifica. A nessun ‘questo’ e a nessun ‘quello’. E che pur le tiene tutte (le esistenze specifiche) al riparo; risolvendole, di fatto, nell’orizzonte oltre cui nulla sembra potersi mai dare.

E in relazione a cui neppure dovrebbe potersi determinare alcuna ambivalenza; là dove, cioè, dovrebbe essere impossibile guarire avvelenando, o vedere bene, in modo chiaro e distinto, pietrificando un reale che questo stesso sguardo si troverebbe condannato a falsificare rispetto ad una natura – quella sua propria, propria cioè del reale di cui facciamo quotidianamente esperienza – quintessenzialmente mobile.

Secondo quanto accadeva appunto in relazione a Medusa e soprattutto in virtù dell’ingannevole potere seduttivo attribuito al serpente dal testo biblico.

No, qui “si dovrebbe vedere bene”, appunto, proprio in quanto, del mobile e del diveniente, si fosse in grado di rilevare quel che in essi propriamente né si muove né diviene.

Ossia, solo nella misura in cui si fosse messo a fuoco l’essente a partire da una prospettiva che potremmo tranquillamente definire ‘festiva’ proprio in quanto “libera dalla particolarità” che conviene di fatto ad ogni esistenza reale.

Ma va assolutamente ricordata, proprio a questo proposito, la strettissima relazione che tiene insieme lo sguardo in grado di fare luce, ossia, di illuminare la cosa con tanta forza e precisione da rendere perfettamente riconoscibile il suo cuore divino (la sua strutturale e originaria divinità) e la “festa”, concepita quale condizione nel cui orizzonte, solamente, ci sarebbe consentito di mettere a fuoco quel che nel corso dell’azione mai saremo in grado di rappresentare o dire nel modo più vero. Perché il conoscere è sempre un conoscere quel che, nella cosa, rimarrebbe sempre identico a sé; in quanto verità di una cosa che, nell’umana esperienza (nell’esperienza sensibile), è invece sempre diversa da come era. E che, altresì, identificherebbe la cosa in questione a molte altre, in virtù di un significato incapace di dire alcunché della medesima in quanto concepita nella sua assoluta singolarità.

Nella parola ‘festa’, infatti, troviamo la radice dhe che rinvia chiaramente alla luce. Dhe, fe… che rinviano direttamente alla parola “felice”. Ma chi può dirsi davvero felice? Solo colui il quale sia particolarmente vicino alla fonte di ogni felicità: ovvero, al seno materno – la fonte del latte e della vita. Ossia, di ciò che, prima e più di ogni altra cosa, sembra poter procurare vera gioia.

Insomma, dal sanscrito dha al greco the, dal latino dha sino a thele, che significa, per l’appunto, mammella. Ma dha e bhas rinviano anche alla luce divina; secondo Benveniste, quindi, è probabile che il tema dhas-dhes designi qualche oggetto o rito religioso di cui abbiamo forse dimenticato il senso autentico. Merita poi ricordare il plurale armeno dik (gli dèi), in cui il thes corrisponde appunto al dhes di dik. Da thes poi sarebbe derivato theos. Si pensi comunque anche al thespesios, che evoca il “meraviglioso”, anticamente attribuito al canto delle sirene. Si pensi poi al theskelos che ha ancora una volta a che fare con qualcosa di prodigioso, o meglio con il divino in quanto tale. Ecco, dunque: l’insieme, ovvero il plesso di tutti questi significati, si ritrova trasfigurato nel concetto di “evento festivo”. Una festa che, anch’essa, accomuna tutti i membri della comunità in un unico rito propiziatorio.

Eccoci così tornati, ancora una volta, alla festa. Ovvero, a quel sapere che può dirsi festivo proprio in quanto capace di “fare luce” sulle cose per quel che le medesime sarebbero vera-mente. Capace cioè di guardare ad esse con attenzione, senza distrarsi; come accade, invece, quando ‘guardiamo’ lavorando, ossia quando guardiamo distrattamente, senza poterci concentrare solo su quel che si profila davanti ai nostri occhi. Come accade quando guardiamo di sfuggita o frettolosamente, quando guardiamo, cioè, senza troppa concentrazione, appunto perché impegnati in un’attività lavorativa o comunque in una forma di azione destinata a non lasciare nulla così come è; che è quanto potrebbe accadere solo in virtù di uno sguardo concentrato e poggiato sulla propria perfetta univocità.

Perciò nel testo biblico gli umani vengono invitati a fare come Dio; ossia, a lasciare il sesto giorno libero per la contemplazione festiva. Nel giorno di sabato, insomma, si deve riposare – come ha fatto il Signore. Solo così si potrà vedere bene; ci si potrà, cioè, rendere davvero conto di quel che si è fatto. Che non si lavori nel giorno di sabato, dice Dio al popolo che si era radunato ai piedi del Sinai. Ché si tratta di un giorno consacrato al divino, per l’appunto; o meglio, alla luce divina che tutto rivela nella sua verità. Il giorno in cui lo sguardo degli umani può rivolgersi solo al divino che è nelle cose tutte, nella misura in cui esse non si lasciano semplicemente trasformare, ma sanno farsi custodi anche di una qualche permanenza. Di qualcosa che nessun divenire potrà mai far diventare altro da quello che è. Qualcosa che potrà venire contemplato solo in quanto stabile, in quanto sempre uguale a sé, e dunque non soggetto alla potenza metamorfica in virtù della quale, peraltro, le cose sono esseri in ogni caso “viventi”. Qualcosa che, però, dovrà anche essere rigorosamente non individuale; in quanto ‘significato’ necessariamente concepito in termini di astratta universalità, nella forma del “concetto”. Certo, quando si contempla, non ci si dovrebbe impegnare in quelle attività lavorative (come il cacciare, il raccogliere, il costruire…) che non sarebbero quello che sono indipendentemente dalla trasformabilità dei loro objecta.

D’altro canto, la consonante D rinvia alla luce; da cui il corrispondente sanscrito didyati, che significa brillare e splendere. Dha, comunque, significa anche portare il fuoco. Ovvero, istituire una legge divina mediante il posizionamento del fuoco sacro. Anche l’indoeuropeo bhas evoca lo splendere, l’essere luminoso. Da cui il fas, che mostra la luce. E il fastus; ma anche il festus, ovvero il giorno propizio per i riti sacrificali. Perciò ne-fas significa contro il diritto divino; e il dies nefastus allude appunto al giorno non conforme al diritto divino. Phaos, dunque, dice luce. Phos è anche luce; dall’indoeuropeo dha (far sorgere, fondare); stabilire, porre ciò che vien posto... che nutre e porta energia.

Ma torniamo a dha da cui il derivato dhayati: ovvero, succhiare, poppare, nutrire. Da cui thele, ovvero capezzolo. Insomma, è felice chi ha avuto un buon rapporto con il seno materno.

Da cui il verbo theoreo: assistere ad una festa religiosa, essere spettatori. E la theoria concepita appunto come ‘osservazione’, o contemplazione del dio (theos). Contemplazione di una verità epistemica; che sta e non diviene. Che è sempre uguale a sé. E, solo in quanto tale, sarebbe capace di identificare le differenze; come lo Zeus di Eschilo. Fungendo da astratta e immateriale positività; che, proprio per tale astrattezza, peraltro, sembra poter convenire al singolo tanto quanto il proprio opposto o la propria negazione.

Insomma, una cosa, ormai, dovrebbe essersi chiarita: che non solo è possibile vedere bene, chiaramente, ossia portare alla luce, solo quando non si lavora (cioè, quando non si agisce), ma che si vede davvero bene solo quando, liberando, ossia separando l’universale dal soggetto individuale di cui il medesimo costituisce il semplice “predicato”, lo si libera, almeno provvisoriamente, dall’ambiguità che gli compete in quanto “predicato di un singolo” destinato a costituirsi come sua irredimibile “negazione”.

Ecco la funzione della luce così evidentemente evocata dal concetto di “festa”. Vedere bene significa insomma portare alla luce e liberare da ogni ambiguità. Ossia, separare il predicato universale dalla singolarità in relazione a cui (in quanto suo predicato) il medesimo sembra troppo difficilmente distinguibile dal proprio opposto, o da quel che esso non è. E dunque confondibile con il medesimo. Ossia destinato all’oscurità, all’ambivalenza, e cioè alla poca chiarezza.

Solo interrompendo ogni attività, ci sarà possibile vedere “chiaramente e distintamente” quel che esiste. Ciò di cui pur tuttavia la vita mostra il non esser mai identico a quel che era. Perciò vedere bene significa vedere quel che si lascia ricondurre ad una qualche determinatezza stabile; e di cui sia in qualche modo chiaro il “significato”. Chiaro in quanto non contingente e dunque confuso, o sempre diverso da quel che era. E che proprio per questo sarà stato liberato da una condizione individuale destinata a renderlo sempre ineludibilmente ‘ambivalente’. Ossia, indivisibile dal proprio opposto. E soprattutto temporalmente esistente. Ecco perché vedere le cose nel loro dispiegarsi temporale significa non vedere bene; ché gli esseri viventi, proprio in quanto viventi e agenti, sono incessantemente trasformati dall’agire che li costituisce appunto come viventi. Perciò non li si potrà mai contemplare chiaramente quando ci si trovi impegnati a trasformarli, a modificarli, a realizzare lo scopo in vista del quale sembra originariamente conformata la loro esistenza.

Ecco perché vedere le cose nella loro determinatezza individuale significa poterle sempre confondere. Insomma, si vede bene solo quando ci si ferma e non le si usa, sia pur in relazione a significati astrattamente universali (d’altronde, il significato universale è sempre “pratico”, come suggeriva già Platone ne la Repubblica). Solo in quanto non più agenti, quindi, ci si potrà rapportare a quelle significazioni universali che non possono certo venire modificate, in quanto immateriali e dunque sottratte ad ogni forma di azione concreta. E soprattutto in quanto separate dal quel mondo individuale che, in quanto esistente, è sempre anche confusamente significante. Solo in questo modo le si potrà “conoscere” davvero. Dunque, si vede bene solo quando il veduto si fa stabile, e appare sia come “permanente” che come “universale”. Mostrandoci qualcosa che, nonostante il divenire implicato dalla sua esistenza temporale, sembra poter rimanere nello stesso tempo anche identico a sé. E soprattutto identico in tutte le singolarità di cui fosse riuscito a costituirsi come “significato”. E di rimanere quello stesso di prima; anche perché, se non si desse questa permanenza, neppure potremmo rilevare il suo essersi modificato; ossia, l’essersi modificato di quello stesso che prima doveva essere diversamente.

Per questo, nel vedere bene, vediamo i significati stabili di quel che peraltro esiste in forme sempre diverse. Vediamo cioè i confini che, soli, ci dicono “cosa sarebbe” quel certo diveniente (o esistente); che, in quanto esistente, ci sembra di non poter mai catturare in conformità al suo proprio “significato”. Ovvero, a ciò che, in esso, rimane tale nonostante il suo trasformarsi incessante. Solo così possiamo renderci capaci di dire il “che cos’è” della cosa (rispondendo alla domanda ti esti); quello stesso che, nel corso della vita, mai riusciamo a catturare, quanto meno in forma sensibile. Se non riducendolo a morta universalità priva di corpo. L’universale (ciò che “sta”, e unifica sia diacronicamente che sincronicamente), infatti, può venire colto e abbracciato solo dal Nous. Il cui vedere-bene non è mai, dunque, un vedere quel che ci si potrebbe essere proposti di catturare. Ossia, il vivente; quello che, solo, peraltro, può averci mossi a cercare il suo significato. Il Nous, quindi, vede bene solo “il significato”; che non è appunto una determinazione sensibile della cosa in questione. Vede bene, cioè, solo quel che il mai identico a sé certamente significa; ma non quello che il medesimo “è”. Stante che quello che esso è non sarà mai quel che il medesimo dice di essere. Perciò lo sguardo festivo vede quello che le cose di fatto non sono mai.

Un po’ come sembra accadere in virtù dello scatto fotografico. Il quale, però, fissa sì ciò che nessuno potrà mai dire di aver visto nel corso della propria esperienza – ma che non ha assolutamente a che fare con l’universale. Per quanto si tratti di ciò che, come l’universale, sa metterci in rapporto con l’essere di quel che la visione sensibile mai ci consente di catturare.

Il fatto è che, nell’orizzonte dell’esperienza quotidiana, è concesso solo al Nous di vedere l’universale, nel cuore di quel che non è mai quel che è; essendo solo questa la facoltà che ci consente di conoscere – “determinandolo” direbbe Kant – quel che per altro verso non può fare a meno di continuare a negarsi. Facendocelo conoscere, appunto, nella forma dell’eidos; e dunque anche come fattore comune. Insomma, quel che permane, nonostante l’incessante farsi altro da sé da parte dell’esistente, è lo stesso che ci consente di definire le cose, sempre anche identificandole; ossia, accomunando le une alle altre. Ossia, rompendo il muro che rende invece inaccessibile la singolarità in quanto tale. Sì da renderla “comprensibile”; rendendola comprensibile, cioè, proprio nell’atto di inscriverla in un genere finalmente in grado di identificare una molteplicità di esistenti singolari – quelli stessi che l’esperienza sensibile ci presenta invece come semplici e irripetibili individualità. Certo, anche la fotografia ci consente di afferrare qualcosa di “positivo” (per quanto nello svolgimento concreto dell’esperienza quella medesima positività non sia mai quel che ci fa credere di essere); e dunque di non conforme a ciò che l’esperienza ci fa ogni volta toccare con mano. Ma, nel caso della fotografia, si tratta di qualcosa di unico e irripetibile, oltre che ‘permanente’ – costituentesi cioè come quel che la cosa sarebbe, nonostante il suo ritrovarsi condannata a negare di esserlo. Ovvero, nonostante la sua positiva e sensibile individualità. Un’individualità che sarà comunque sua, e solamente sua. Insomma, è con tale singolarità assoluta, con una singolarità assoluta e positivamente determinata che possiamo entrare in relazione grazie all’obiettivo fotografico; che non coglie mai astratte “universalità”. Che non coglie cioè qualcosa come una identità del molteplice; ma solo ciò che, ogni cosa, continua ad essere anche solo in quanto da noi incessantemente riconosciuta – nonostante il suo incessante divenire. Ma, insisto, non come semplice significato “universale”; quanto piuttosto come significato specifico e assolutamente singolare. Come quella specifica singolarità che nessun “significato” sarà mai in grado di restituirci. Se non nella forma ambivalente e dunque ambigua che rende comunque incerti tutti i concetti di cui l’espisteme crede di potersi vantare.

Lo sguardo festivo ‘blocca’ il divenire; ossia fissa qualcosa, di quel che per altro verso continua anche a divenire. Ma proprio per questo anche lo pietrifica… quanto meno in relazione a quel che, di quest’ultimo, sembra ‘rimanere’ sempre identico a sé, facendo altresì convergere una molteplicità di essenti all’interno di un unico genere o di una specie.

Si può dire, allora, che il vedere festivo abbia la stessa natura dello sguardo di Medusa in quanto, per farci vedere bene, in forma chiara e distinta, non può fare a meno di devitalizzare il vivente. Bloccando il suo corso vitale, ossia immobilizzando il suo incessante trasformarsi. E facendo delle cose ‘diverse’ costituenti ogni manifestazione del mondo, qualcosa di malauguratamente “identico”. Deve cioè ‘strappare’ dal divenire un istante capace di durare; un istante che non passi mai e che, soprattutto, ci consenta di andare oltre la singolarità in ogni caso presente. Sì da poterci confortare quanto meno intorno al fatto che quel certo reale, pur non essendo mai quello che era, sarà comunque sempre lui; e soprattutto porterà alla luce un’universalità in grado di accomunarlo a molti altri essenti; in modo tale che, nel suo non essere mai quel che è, lasci comunque trapelare (quanto meno agli occhi del Nous, ovvero dello sguardo festivo da quest’ultimo reso possibile) l’esserci di qualcosa di cui l’incessante divenire possa configurarsi come continua e incessante “negazione”; per quanto non costretta ad “escludere” il negato. E soprattutto capace di renderlo identico a tutte le cose per altro verso ‘altre’ da esso.

È dunque solo quello dischiuso dal theorein festivo a costituirsi come sguardo destinato alle rigide determinatezze dell’eidos; costretto a mirare realtà pietrificate di cui l’esperienza sensibile sembra non poterci dire alcunché. Proprio come lo sguardo di Medusa, insomma; anch’esso, guarda caso, “mortale”… come il nostro.

Dove le realtà pietrificate con cui finiamo per aver a che fare, lungi dal costituirsi come realtà quintessenzialmente “metafisiche”, dicono il semplice “significato” del sensibilmente esistente. Stante che il “fisico” è destinato a mostrare sempre e solamente il suo non essere mai quel che è; o meglio, il proprio non significare mai quel che il Nous comunque ci consentirà di sapere (determinandolo), del medesimo. Questo, insomma, lo sguardo pietrificante, indipendentemente dal quale, va comunque ricordato, neppure potremmo riconoscere il non esser mai quel che è, da parte della determinatezza sensibile. Infatti, affinché si possa riconoscere questo suo non esser mai quel che è, dovrà comunque darsi quel che ‘esso continuerà comunque ad essere’. Ossia, l’esistenza di cui il divenire, ossia l’esperienza sensibile, costituisce appunto l’incessante e mai risolta “negazione”.

3

Solo l’arte sembra rifiutarsi di indicare un semplice surplus rispetto all’esperienza comune; negando di doversi disegnare come perversione rispetto alla conoscenza della cosa sempre singolare con cui abbiamo di fatto a che fare. Solo essa, cioè, sembra in grado di corrispondere allo sguardo originario; quello in relazione a cui, solamente, il vedere sensibile si renderebbe capace di sperimentare il non essere mai quel che è da parte di tutto quel che è. Ecco perché lo sguardo della Gorgone, che tanto inquietava gli antichi, non ha mai molto a che fare con l’inquietudine provocata dalle cose dell’arte, già secondo Platone. Ecco perché il mito di Medusa altro non è che una felice “profezia” di quel che sarebbe stato reso possibile proprio dalla filosofia, piuttosto che dall’arte.

Eppure, buona parte della coscienza artistica dell’Occidente sembra essersi più volentieri riconosciuta in uno sguardo costitutivamente ingannevole; il cui compito sarebbe stato quello di cogliere il reale per ciò che, del medesimo, doveva esserci restituito dallo svolgimento temporale ben noto all’esperienza sensibile. Tutte le forme artistiche che potremmo definire genericamente “realiste”, infatti, sono tali in quanto intendono restituire alla tela (se ci limitiamo alle forme di arte visiva) proprio il volto mutevole, incerto e confuso di una realtà impossibilitata ad essere qualcosa piuttosto che qualcos’altro. Si pensi anche ad alcune tra le più apprezzate forme artistiche della modernità: mi riferisco all’impressionismo, ma anche al realismo, così come al divisionismo, ma anche all’espressionismo, sino all’astrazione proposta e tematizzata dal russo Kandinsky, o al futurismo di Boccioni e di Balla. Ma l’elenco potrebbe proseguire a lungo. Tutte modalità operative impegnate, nei modi più diversi, a restituire alla tela “il movimento” del reale; o anche, il reale come movimento. Magari come “movimento puro” – nel caso di Kandinsky.

Ecco, di contro a tale strada maestra, si sarebbe comunque affacciata sul palcoscenico della storia anche qualche eccezione; vocata a disegnare un canone, forse minore, ma di sicuro non meno rilevante. Anzi, riconoscibile come vera e propria realizzazione di un originario “sguardo metafisico”, ben diverso anche da quello festivo profetizzato dal mito di Medusa – e indipendentemente dal quale nessuna esperienza sensibile si sarebbe mai potuta costituire.

Penso, a questo proposito, ad alcune esperienze molto particolari come quelle dei due fratelli De Chirico: Giorgio de Chirico e Alberto Savinio – riconosciuti dai surrealisti come i più radicali tra i loro precursori.

Per De Chirico, infatti, la pittura deve anzitutto liberarsi dal gusto per il “tenebroso”, e dunque dare forma ad oggetti “che per chiarezza di colore ed esattezza di misure siano agli antipodi di ogni confusione e di ogni nebulosità” (De Chirico [1919] 2008, 275), e che purtuttavia abbiano un aspetto fondamentalmente irreale. “Nelle grandi opere d’arte – precisa, infatti, De Chirico – la forma è evidente e, nello stesso tempo irreale. Si potrebbe dire che essa non appartiene a questo mondo, tanto essa si fonde con l’atmosfera che la circonda” e che diventa “misteriosa ed irreale proprio perché si distacca dall’atmosfera pur essendo fusa con essa” (De Chirico 2008, 240-241). Da cui una rigorosa soppressione del senso logico e dunque della ‘significazione’ tout court; e l’evocazione “spettrale di quegli oggetti che l’imbecillità universale rilega tra le inutilità” (De Chirico [1919] 2008, 275). Ovvero, della loro pura intoccabile, invisibile e inudibile “singolarità”. Al contrario di quanto si proponeva Mondrian, cercando di restituire alla tela l’universalità dei medesimi concetti tanto cari alla filosofia. Avendo l’artista olandese una sostanziale repulsione nei confronti dell’individualità propria del fenomenico.

Una cosa è certa, comunque: l’evocazione spettrale chiamata in causa dall’arte metafisica, secondo i due fratelli greci, dipende in toto da noi – De Chirico dice infatti che ben più misterioso del sogno è “il mistero e l’aspetto che la mente nostra conferisce a certi oggetti, a certi aspetti della vita”, e che l’arte “è la rete fatale che coglie a volo, come farfalloni misteriosi, questi strani momenti, sfuggenti all’innocenza e alla distrazione degli uomini comuni” (De Chirico [1919] 2008b, 286). L’arte, insomma, mostrerebbe come gli umani siano capaci non solo di “intelligere”; essi possono sempre uscire, infatti, dai confini disegnati dal senso comune, ma non solo per rivolgersi alla pianura delle Idee.

Neppure il futurismo e il cubismo vi sarebbero riusciti; non riuscendo, i medesimi, nonostante gli sforzi profusi, a “trasumanare” le cose rappresentate. Solo “l’insensata e tranquilla bellezza” scoperta dalla vera arte può dunque mostrarci, proprio delle cose dell’esperienza, il lato eminentemente “metafisico”; ovvero, ciò che le sottrae alle catene teleologiche caratterizzanti lo scorrimento temporale delle cose tutte. E dunque anche ad ogni significato.

Nulla a che fare, comunque – sempre secondo De Chirico –, con il vuoto nirvanico o con le fosche visioni tanto care alle menti di molti rappresentanti di una fauna che non sa vedere ciò che pur è custodito dalla “natura del mondo scimunito ed insensato che ci accompagna in questa vita tenebrosa” (De Chirico [1919] 2008, 275). Nulla a che fare, poi, neppure con il tenebroso o l’oscuro; perché questa arte luminosa mostra le cose nella piena luce del meriggio. Le mostra cioè nella loro più piena realitas. Mostrando ciò che la vita e il senso comune continuano imperterrite a confondere, facendolo sembrare sostanzialmente ‘indeterminabile’. O meglio, significabile, sì, ma sempre in modo costitutivamente ambiguo. Solo l’arte metafisica, insomma, consentirebbe il sorgere della nozione di “immobilità terrena”, in virtù della quale “la vita stessa, gli oggetti, le forme, persino gli avvenimenti vengono riguardati nell’aspetto di una loro presunta assolutezza”, consentendo quindi il riconoscimento non tanto “della realtà qual essa è naturalmente visibile, ma di quella particolare realtà plastica che è l’aspetto ineffabile dell’eternità terrestre” (Savinio [1922] 2007, 98-99).

Insomma, per De Chirico “ogni cosa ha due aspetti: uno corrente, quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro, lo spettrale o metafisico, che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica, così come certi corpi occultati da materia impenetrabile ai raggi solari non possono apparire che sotto la potenza di luci artificiali quali sarebbero stati i raggi X, per esempio” (De Chirico [1919] 2008b, 289-290).

Ad ogni modo, anche per il fratello, Alberto Savinio, l’arte metafisica non ha nulla a che fare con l’oscuro, l’astratto e tanto meno con il confuso. Anche per lui, cioè, “tutto quanto cade sotto i sensi materiali, non riguardando la propria essenza delle arti, non trova luogo nelle nostre presenti occupazioni” (Savinio [1922] 2007, 77). Solo l’arte metafisica, quindi, non si lascerebbe distrarre dal corso mutevole della storia e delle cose tutte. E neppure dai significati di cui le avessimo investite in vista dell’agire. Ma si volge, sicura, a quel che, pur compreso nella storia e svolto dal suo dispiegamento, non ha in verità nulla di storico.

L’arte, insomma, sempre secondo Savinio, sembra non aver davvero nulla a che fare con la rappresentazione degli aspetti naturali (o sensibili) della vita. E neppure con quel che, dei medesimi, sembra in grado di dirne la conoscenza intellettuale. Anche lui, insomma, proprio come il fratello, sa bene che le cose della vita sono soggette a un incessante mutamento, ossia a una trasformazione continua, e che, proprio per questo, le medesime possono acquisire un valore, ma solo in senso relativo; d’altro canto, se l’arte dovesse limitarsi a testimoniare questo processo, l’arte per eccellenza sarebbe appunto il cinema; là dove per Savinio, invece, qualsiasi maniera di rappresentare gli aspetti della vita nella loro verità naturale “esclude affatto l’arte” (Savinio [1922] 2007, 79). Ad ogni modo, non si tratta neppure, sempre secondo Savinio, di estrapolare un frammento dello scorrere vitale (quasi si trattasse del fotogramma di una pellicola cinematografica). Altrimenti avrebbero ragione i pittori futuristi, a spezzare il movimento nelle sue parti e a cercare di restituirne l’aspetto attraverso la fissazione di alcune delle sue componenti elementari.

Il fatto è che, soprattutto le arti plastiche, sono per lui “estranee al moto del tempo”, per questo si potrebbe anche aggiungere che sono “fuori del tempo” (Savinio [1922] 2007, 81). Esse, cioè, sembrano non limitarsi a strappare al tempo alcune delle sue componenti particolari e necessariamente parziali. Risolvendole poi in questo o quel significato. L’artista plastico, piuttosto, “concepisce e realizza la sua opera direttamente sub specie aeternitatis”. Insomma, per lui la vera arte altro non è che una “glorificazione del presente”. E questo eterno – di fatto contenuto in tutte le cose realizzate dalla vera arte (e in primis, dall’arte metafisica) – è proprio quello che siamo soliti chiamare “lirismo”, precisa ancora una volta Savinio (Savinio [1922] 2007, 81). D’altronde, è solo in relazione a quest’ultimo che “ogni diversità e ogni carattere si annullano… e un’armonia totale – non contraddistinta da alcun carattere particolare – subentra” (Savinio [1922] 2007, 83-84). Diversità e caratteri, infatti, hanno a che fare con l’ordine della significazione che sempre li determina.

Mentre l’arte metafisica, in forma assolutamente paradossale “è – per il fratello De Chirico – quella giunta oggi al suo più alto significato… proprio in quanto il terribile vuoto da essa scoperto è la stessa insensata e tranquilla bellezza della materia” (De Chirico [1919] 2008, 271-272). Anche perché il nostro ne è fermamente convinto: “il pensiero umano non si esprime, come falsamente si crede, a mezzo di parole” (De Chirico 2008, 242); per questo la verità cui possiamo accedere avrà necessariamente a che fare con il silenzio. Per questo, sempre secondo il fondatore della metafisica, “un pittore di talento, quando dipinge una natura morta, dipinge veramente la vita silenziosa delle cose create dalla natura o fatte gli uomini” (De Chirico 2008, 262).

Ma le arti plastiche, sempre secondo Savinio, escludono anche il ritmo, il movimento e “ogni elemento drammatico”. Volgendo lo sguardo, indifferenti, solo al durevole o al permanente; ovvero, a quel che, nel divenire, non diviene affatto. Consentendoci di cogliere qualcosa che potrà dirsi “vivo” solo in quanto diveniente. Via dunque l’elemento drammatico, messo drasticamente al bando. Solo all’elemento lirico, cioè, guarda il vero artista; che, proprio per questo, è in grado di cogliere quel “che in ogni opera d’arte costituisce la parte durabile e, per così dire, eterna dell’opera stessa”, ecco perché le vere opere d’arte, e in primis quelle plastiche, “non patiscono se non in un modo assai lontano e presso che inavvertibile l’azione distruggitrice del tempo, cioè non invecchiano” (Savinio [1922] 2007, 84-85).

Ma sconfiggere e vanificare la potenza creatrice, nonché distruttrice, del tempo significa necessariamente ritrovarsi a trasformare il reale costringendolo a farsi entità metafisica (per quanto fisicamente o sensibilmente esperita); ovvero, consegnarlo a quella dimensione eterna che tanto ci affascina ma nello stesso tempo (e con non minore intensità) anche ci terrorizza.

Sì, perché nel sognare la fantomatica eternità, gli umani non guardano sempre e comunque ad una condizione di “quiete surreale” o di vero e proprio “silenzio metafisico”. Spesso, e assai più semplicemente, infatti, essi sperano di “continuare a vivere per sempre”. Certo, modificandosi, ossia facendosi sempre diversi… ma continuando purtuttavia ad esistere, appunto, come sempre diversi.

Perciò lo sguardo festivo e quello estetico, nonché la loro strutturale indecifrabilità, hanno sempre affascinato gli umani, ma nello stesso tempo – come sapeva bene già Leopardi – li avrebbero anche profondamente inquietati, in quanto sempre deludenti in rapporto alla vivificante attesa spesso alimentata dai medesimi.

Riferimenti bibliografici
  • Centanni 2003
    M. Centanni, Commento all’Agamennone, in Eschilo, Tragedie, Milano 2003, 961-1031.
  • De Chirico [1919] 2008
    G. De Chirico, Noi metafisici, articolo apparso in “Cronache d’attualità”, Roma, 15 febbraio 1919 ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, Milano 2008, 270-276.
  • De Chirico 2008
    G. De Chirico, Il Signor Dudron, romanzo postumo databile agli anni Sessanta, ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, Milano 2008, 161-263.
  • De Chirico [1919] 2008b 
    G. De Chirico, Sull’arte metafisica, articolo apparso in “Valori Plastici”, I, n. 4-5, aprile-maggio 1919. ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, Milano 2008, 286-291.
  • Savinio [1922] 2007
    A. Savinio, Primi saggi di filosofia delle arti (per quando gl'Italiani saranno abituati a pensare), articolo apparso in “Valori Plastici”, 3.1921/22(1922), ora in A. Savinio, La nascita di Venere. Scritti sull’arte, a cura di G. Montesano, V. Trione, Milano 2007, 77-107.
  • Severino 1989
    E. Severino, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Milano 1989.
English abstract

Medusa's petrifying gaze as a mythical 'intellectual' perversion: in our desire to 'look', to focus on reality, we find ourselves condemned to 'mortify' it. The anxiety for knowledge transforms living nature into dead nature. But knowledge is always a knowing of that which, in the thing, would always remain identical to itself; as the truth of a thing that, in human experience (in sensible experience), is instead always different from what it was. In the word 'feast' we find the root dhe, which clearly refers to light. That is, to that knowledge that can be said to be festive precisely insofar as it is capable of 'shedding light' on things for what they really are. Only by interrupting the daily motion will it be possible for us to see 'clearly and distinctly' what exists. Therefore, in the biblical text, humans are invited to do as God does: to leave the sixth day free for festal contemplation. Thus, in Aeschylus, it is Zeus' gaze on the world as a 'vision' of totality, as an embrace capable of leaving nothing out. In short, seeing means bringing to light and freeing from all ambiguity. That is, to separate the universal predicate from the singularity in relation to which (as its predicate) the same seems too difficult to distinguish from its opposite, or from what it is not. And therefore confusable with the same. That is to say, destined to obscurity, ambivalence, and lack of clarity. Only art seems to refuse to indicate a simple surplus with respect to common experience; denying that it has to draw itself as a perversion with respect to the knowledge of the always singular thing with which we are in fact dealing. Only it, that is, seems to be able to correspond to the original gaze; the one in relation to which, alone, sensitive seeing would make itself capable of experiencing never being what it is on the part of all that is. That is why the gaze of the Gorgon, which so disquieted the Ancients, never has much to do with the disquiet provoked by the things of art, even according to Plato. That is why the myth of Medusa is nothing but a happy 'prophecy' of what would have been made possible precisely by philosophy, rather than by art. It is the "surreal stillness" or the true "metaphysical silence" theorised by the De Chirico and Savinio brothers: the plastic arts also exclude rhythm, movement, turning their gaze, indifferent, only to the lasting or the permanent; that is, to that which, in becoming, does not become at all. Allowing us to grasp something that can only be said to be 'alive' insofar as it becomes. Away, then, with the dramatic element, drastically banished. Only the lyrical element, that is, is looked at by the true artist; who, precisely for this reason, is able to grasp that "which in every work of art constitutes the lasting and, so to speak, eternal part of the work itself".

keywords | Medusa’s gaze; Severino; philosophy; festivity; Metaphisic art; De Chirico; Savinio.

Per citare questo articolo / To cite this article: M.Donà, Le parole della festa e il silenzio dell’arte. “La rivista di Engramma”, n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 353-368 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0043