"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Una festa finita male

Considerazioni sul tema nelle opere dell’Alberti e in particolare nel Momus

Alberto Giorgio Cassani

English abstract

1 | Matteo de’ Pasti, Medaglia di Leon Battista Alberti, 1446-1450 ca., bronzo, recto: Ø 9,34 cm, 205,24 gr, Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection, inv. n. 1957.14.648.a. Iscrizioni: • LEO BAPTISTA • ALBERTVS •
2 | Matteo de’ Pasti, Medaglia di Leon Battista Alberti, 1446-1450 ca., bronzo, verso: Ø 9,34 cm, 205,24 gr, Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection, inv. n. 1957.14.648.b. Iscrizioni: • OPVS • MATTHAEI • PASTII • VERONENSIS • QVID • TVM •

Se il riso può senz’altro essere considerato una componente essenziale della festa, non vi è dubbio che questa espressione emotiva del comportamento umano non manca, anzi è centralissima, nel pensiero di Leon Battista Alberti. Ma il riso dell’Alberti è una “reazione nervosa” del tutto particolare che non esprime gioia o allegria, ma ha una funzione “terapeutica”, come abbiamo appreso, da molto tempo, grazie agli studî di Roberto Cardini.

A partire dalle Intercenales fino al Momus compreso, i suoi scritti comici non sono, per l’Alberti, vacanza e evasione dalla morte, non sono roba da carnevale, e neppure sono un “rilassamento”, una “dimensione fisica e psichica”: sono una terapia e un’autoterapia, ma anzitutto sono conoscenza, sono un “genus quoddam philosophandi” (Cardini 2022, XV).

Del resto è lo stesso Leon Battista, nel Proemio al Libro I delle Intercenali, dedicato all’amico Paolo dal Pozzo Toscanelli, a dichiarare la funzione “curativa” di quest’opera:

Cepi nostras Intercenales redigere in parvos libellos, quo inter cenas et pocula commodius possent perleg. Tu quidem, ut ceteri physici, Paule mi suavissime, amaras et que usque nauseam moveant egrotis corporibus medicinas exhibes; ego vero his meis scripts genus levandi morbos animi affero, quod per risum atque hilaritatem suscipiatur (Cardini 2022, 2).

Ho incominciato a raccogliere e ordinare in libriccini le me Intercenali, perché si possano più agevolmente e compiutamente leggere durante le cene, tra un bicchiere e l’altro. Tu certamente, mio dolcissimo Paolo, come tutti gli altri medici, somministri ai corpi ammalati medicine amare fino a provocare la nausea; io invece con questi miei scritti propongo per alleviare le malattie dell’animo un modo che passa attraverso il riso e l’allegria (Cardini 2022, 3).

Come anche nei Profugiorum ab ærumna libri III, dove uno dei dialoganti, Agnolo Pandolfini, individua nei giochi e nelle feste, secondo il precetto degli antichi, un’ottima cura dell’infelicità e delle miserie:

Ma perché pare, quando siamo soli, meno possiamo non repetere e’ nostri mali, e quando siamo non soli più troviamo da consolarci co’ e’ ricordi e ammonimenti di chi ne ascolta, però mi piace quel precetto antiquo che in tue infelicità e miserie sempre fugga la solitudine. E a questo lodano trovarsi co’ cari noti e amici in teatro, ne’ tempi, e dove siano feste e giuochi privati e pubblici (Grayson 1966, 181).

E, anche chi scrive, ha provato, qualche anno fa, a tracciare una fenomenologia del riso nei dialoghi in volgare dell’Alberti (Cassani 2019). In realtà, chi si avvia a leggere le Intercenales, si accorge ben presto che anche il risus e l’hilaritas promessi da Leon Battista, non sono separabili dal pianto e dallo humor nero. Come scrive infatti ancora Cardini:

Al contrario che nel serio ludere nella comicità perseguita dall’Alberti riso e pianto (dunque “dolore”) sono strettamente congiunti. La mescolanza di riso e pianto ne è anzi l’essenza (Cardini 2022, XVI).

Lo dimostra bene il Momus, il capolavoro latino dei lusi albertiani. Nel Libro III, Apollo, inviato da Giove sulla terra per cercare di carpire dai filosofi qualche idea sul miglior modo di rifondare il mondo, imbattutosi in Democrito, intento a vivisezionare un granchio alla ricerca del cervello, prova a fargli il verso tagliando una cipolla. Il che gli induce inevitabilmente delle lacrime e in questo modo Apollo veste dunque i panni di Eraclito, il topico alter ego del filosofo di Abdera; il primo piange mestamente di fronte alla sorte degli uomini, mentre il secondo ride sonoramente:

Me enim despectato subridens: “Heus,” –inquit – “tu, quid facis lacrimans?”. Tum ego contra despectans: “At enimverotu quid facis? Quid rides?”. “Te” – inquit ille – “prius rogaveram”. “Tibi” – nquam – “ipse prius respondi”. Paratum inde adeo litigium videns grandius arrisit. […] “[…] Verum etquidnam, quid hscein extiscepariis, quid ingrate invenisti quod plores?”. Tum ego: “Viden” – inquam – “istic diviso in cepe litteras c atque o? Num eas clare aperteque admodum sentis quid proloquantur?”. Tum ille: “Quid? Tune eloqui cepe, cum et cælos cantare aliqui dixernt, existimabis?”. Tum ego: “Minime, sed præ se ferunt. Iunge o atque c: aut occidet, inquiunt, aut corruet. Disiunge: nonne itidem enuntiant corruiturum orbem?”. Tum ille vehementer ridens: “Tu” – inquit – “igitur, o piissime, orbis excidium atque interitum ploras! Sed heus, tu! Ubinam huius qui nunc constat mundi rudera superi reicient, si demoliri aggrediantur?” (Furlan 2019, 193, 195).

Mi squadrò, infatti, dall’alto in basso, e, sorridendo “Ehi”, disse, “che cosa stai facendo in lacrime?”. Io allora, squadrandolo a mia volta dall’alto in basso: “Che cosa fai tu, piuttosto? Di che ridi?”. “Sono stato io il primo ad interrogarti”. “Ed io”, dissi, “il primo a risponderti”. Vedendo che la cosa stava degenerando in litigio, rise più forte […]. “[…] Ma che vedo? Che cosa hai trovato di spiacevole in queste viscere di cipolla, che ti fa piangere?” Ed io: “Le vedi qui, in questa cipolla tagliata a mezzo, le lettere c ed o? Non senti quello che esse dicono del tutto chiaramente?”. E lui: “Ma non penserai mica, come alcuni hanno detto che i cieli cantino, che le cipolle parlino?”. Ed io: “Nient’affatto; ma te lo mettono sotto gli occhi. Metti insieme la o e la c: occaso, dicono, o crollo; separale: non preannunciano lo stesso, che l’orbe crollerà?”. Allora, rumorosamente ridendo, disse: “È dunque per questo che tu, pietosissimo, piangi, per la distruzione e la morte del globo? Ma rifletti: se i celesti cominceranno davvero a demolirlo, dove getteranno le macerie di questo mondo attualmente esistente?” (d’Alessandro, Furlan 2007, 235, 238-239).

Per cui, alla fine di questo straordinario dialogo, Apollo-Eraclito è costretto a riconoscere tutta la sapienza del suo interlocutore: “Habes tu quidem cerebrum quod te non habere fueram dicturus, quando illud in cancro quæreres” (Furlan 2019, 195) “«Eh sì, quel cervello che, visto che lo cercavi in un granchio, stavo per dire che ti mancasse, ce l’hai, invece, eccome!»” (d’Alessandro, Furlan 2007, 239).

Detto questo (per evitare fraintendimenti), nelle opere dell’Alberti – siano trattati, dialoghi o lusi, secondo la tripartizione fissata qualche decennio fa da Francesco Furlan (Furlan 2003, 7-10) – riscontriamo, nelle opere volgari, termini quali: “giuoco”, “giuoco lupercal”, “festa”, “grande festa”, “publica festa”, “dì festivo”, “festivo”, “festività”, “festeggiare”, “festereccio”, “festivissima”; e, nelle opere latine: “festinum”, “ludibundus”, “festivus”, oltre naturalmente a “ludus”, che compare anche nel titolo di un suo celebre divertissement scientifico, offerto all’amico Meliaduse d’Este, i Ludi rerum mathematicarum.

Ma già dalla seconda prova letteraria di Leon Battista – dopo la sua opera prima, la Philodoxeos fabula – il De commodis litterarum atque incommodis, appare chiaro che il tema della festa non ha molto a che vedere con la vita del letterato, figura, quest’ultima, cui l’Alberti appartiene fin dalla primissima formazione alla scuola di Gasparino Barzizza e poi allo studio di Bologna.

Namque, ut cetera omittam, celebritates quidem nuptiarum, choreas, cantus, iuventutis ludos, amena hec quis ignoret quam litteratorum presentiam dedignentur atque oderint? (Regoliosi 2021, 200).

Infatti, tralasciando il resto, a chi può sfuggire quanto le feste nuziali, le danze, i canti, i divertimenti dei giovani, insomma tutte queste cose tanto piacevoli, rifiutino e sdegnino la presenza delle lettere? (Farris 1971, 57).

Sit idcirco studiosis ex cibo et Venere nulla aut perexigua voluptas, sit somni et quietis brevissima copia, sitque iocorum et festivitatum rarissima modicaque licentia (Regoliosi 2021, 203).

Gli studiosi, quindi, non si permettano alcun piacere tratto dal cibo e da Venere, proprio eccezionalmente possono concederselo, ma estremamente modesto; brevissimo sia poi il tempo dato al sonno ed al riposo, sia sempre molto rara e limitata la loro partecipazione a giochi ed a feste (Farris 1971, 61).

Sed eiusmodi litteratorum voluptas est ut eam rectius possis dolorem dicere quam voluptatem: sedere enim sempiterne, continuo lectitare, assidue meditari, perpetuo esse in solitudine, eternum privari festivitate et ioco, hanc ipsam vitam degere, non sum ita agrestis aut durus homo id ut ausim dicere voluptuosum esse (Regoliosi 2021, 207).

Tuttavia il piacere dei letterati è di un tal genere, da poterlo più propriamente chiamare dolore che piacere. Stare continuamente seduto, leggere senza interruzione, riflettere da mattina a sera, stare perennemente solo, essere sempre escluso da ogni festa o divertimento, insomma una tale vita, non sono io uomo tanto rozzo ed incolto, da osare chiamarla piacevole (Farris 1971, 69 e 71).

Escludendo, dopo i piaceri, anche la possibilità di arricchirsi, visto che tra le follie che producono enormi perdite di denaro, vi è proprio una festa, la laurea:

Preterea super accessisse temerarias illas pompas quas doctoratum nominant: illic donata et dissipata esse quam multa, erogatas ingentes pecunias, factas vestes et togas, structum epulum; tum domus refulcita et ornata, ac postremo multis modis insanitum, ut pene fortunas omnes familiares exhauserit (Regoliosi 2021, 211).

Non diciamo poi quel che avviene se, a tutto ciò, si aggiunge quella pazza festa, solitamente chiamata di laurea. In tale occasione puoi appunto scorgere quanto immense siano le sostanze disperse e sciupate, l’enorme quantità di danaro spesa, le vesti e le toghe tessute con arte e ricchezza per l’occasione, il banchetto apparecchiato con dovizia, la casa tutta rimessa a nuovo ed adorna ed infine il festeggiato che, pressoché impazzito, dà quasi fondo all’intero patrimonio di famiglia (Farris 1971, 79).

Con queste premesse, Leon Battista non sembra molto predisposto a feste e festini. Infatti, anche quando un dialogante delle sue opere letterarie si spinge a lodare le qualità della festa, spesso la dichiarazione è fatta per nessun’altra ragione che per fornire un motivo di smentita da parte dell’altro colloquiante. Nel primo caso, l’incarico è assunto da Lionardo, nei confronti di Adovardo:

Quella età poi che a questa segue, ne viene con molto diletto, col riso di tutti, e già cominciano a proferire e con parole in parte dimonstrare le voglie sue. Tutta la casa ascolta, tutta la vicinanza riferisce, non manca ragionarne con festa e giuoco, interpetrando e lodando quel fece e disse. […] Se adunque così è, Adovardo, se le sollecitudine de’ padri sono e piccolissime e con molto diletto, tutte piene d’amore e di buona speranza, di riso, di festa e giuoco, queste vostre maninconie in che sono elle? Gioverammi saperne ragionare (Romano, Tenenti [1969, 1994] 2022, 33).

Nel secondo è lo stesso Battista, nei confronti, questa volta, di Lionardo:

Essendo bene errore, qual uomo per freddo e insensato che fusse potrebbe non assentire ai molti diletti, co’ quali amore lietissimo e amenissimo si porge? Quale austero e in tutto solitario e bizzarro uomo fuggisse questi sollazzi, suoni, canti e feste, e l’altre molte maravigliose, sanza quella ultima della quale ora dissi, voluttà atte e valide a convincere ogni offermato e molto constantissimo animo, come veggo o sua o naturale legge, o difetto pure degli uomini, sempre ne’ mortali l’amore vincendo usò suo imperio? (Romano, Tenenti [1969, 1994] 2022, 88-89).

Oppure, nelle opere albertiane sull’amore, la festa, che per tutti gli altri è un’occasione di allegria, per l’innamorato non corrisposto o la fanciulla alle prese con “problemi d’immagine” dal punto di vista sociale, non lenisce, ma addirittura accresce il dolore: “Non mihi dies festi, non ludi, non iocus aut locus ullus potest tam suavis, tam letus, tam amenus offerri qui me recreet” (Cardini 2022, 352) (“Non c’è festa, né divertimenti, né gioco o luogo alcuno tanto dolce, tanto lieto, tanto ameno da darmi sollievo”, Cardini 2022, 352).

Nel De amore. “A Paolo Codagnello”, la promessa della festa – Il sabato del villaggio! – delude sempre le aspettative dell’amante:

Mentre che tu ami, fue mai che tu non aspettassi quella festa posdomani e poi quell’altra, e poi in quel dì quell’ora e quella ancora? E questi tempi tanto da te espettati, vennero essi mai non in tutto altri e contrari a quanto avevi a te persuaso! E se pur così a tuo desiderio tempi lieti e festivi rari accaggiono, tu con grandissimo desiderio aspettasti quella da te amata venissi in mezzo allo spettaculo, ed ella per altro caso o per sua bizzarria non uscì in pubblico (Grayson 1966, 253).

Nell’egloga dialogica Tyrsis, Floro ammonisce l’amico Tyrsis a non fidarsi troppo dei momenti felici: “Tu, Tirsis, che oggi vivi in gioco e festa, | già lieti più di te qui vidi esclusi” (Alberti 2002, 103, v. 83). A controbilanciare ciò, alcuni versi della frottola Venite in danza, o gente amorosa: “Però levate su, tosto, | donne innamorate! | Gite, onorate | questa festa!” (Gorni 2002, 131, 133, vv. 332-335), uno dei pochi momenti in cui Leon Battista sembra lasciarsi trascinare nelle danze! Nella Versione volgare della “Dissuasio Valerii” di Walter Map, la festa attesa da Ercole si trasforma ben presto in un giorno di lutto: “Deianira si vendicò, e quello era preparato a festività e letizia condusse a lagrime, e chi doveva vestirsi la camicia spogliò sua vita” (Grayson 1966, 378). Così, nell’intercenale Naufragus (che annovera anche un’autotraduzione in volgare dello stesso Alberti, Naufragio), la festa preannunciata e attesa – doppia: di nozze per la fanciulla, di cene spensierate, per gli altri naviganti – si trasforma, in un attimo, a causa di un’improvvisa tempesta, in tragedia:

Navi valida et munitissima trecenti ferme homines percommode ac ludibundi plenis veli siam tum ex alto conspicuos procul a nobis visos portus petebant. Nosque atque imprimis pulcherrima que una comes aderat puella, quam paratis nuptiis adolescens primarius proximo ad portum oppido prestolabatur, veste et huiusmodi rebus, ut fit, ad exitum ornabamus. Erantque inter nos plerique qui amenissimo illo in portu cenas et festum diem, qui annuus per id tempus autumni celeberrimus habebatur, velle postridie, cum appulissemus, summa cum voluptate agere constituissent. Denique omnis navis letitia et congratulationibus ardescebat. Interea – o fragilis hominum spes! – repente, quasi emissa celitus peste, procella oborta est tam atrox, ut vi austri et pondere velorum navis provoluta atque miserandum in modum obruta inter undas extiterit (Cardini 2022, 268, 279).

Eravamo circa in trecento e stavamo comodamente e spensieratamente navigando a vele spiegate su una nave solida e ben attrezzata, e, da lontano, si poteva vedere ormai il porto. Noi tutti, e in primo luogo una bellissima fanciulla che era con noi, che un nobile giovane attendeva per le nozze in una città vicina al porto, ci preparavamo per l’arrivo riordinando, come si usa fare, le vesti e altre cose del genere. La maggior parte di noi aveva in programma per il giorno dopo, una volta sbarcati in quel porto così ameno, di darsi ai piaceri, banchettando e partecipando ai ben noti festeggiamenti che avevano luogo ogni anno nel pensiero autunnale. Insomma, sulla nave cresceva in tutti la letizia e l’allegria. Ma, ad un certo punto – o fragilità delle umane speranze! – scoppiò improvvisamente, come una pestilenza venuta dal cielo, una tempesta così spaventosa che la nave, per la violenza del vento e il peso delle vele, si rovesciò e fu miseramente sommersa dalle onde (Cardini 2022, 269, 271).

Una festa è anche quella preparata dai mercanti nel porto di Taranto per “superis congratulari, quod secundis ventis et percommoda navigatone exacta patriam repetissent” (Alberti 2022, 36) (“rendere grazie agli dèi per essere ritornati in patria con il vento a favore e una placida navigazione”, Alberti 2022, 37) nell’intercenale Felicitas. A questa festa sono invitati anche gli schiavi Sciti che, per la verità, avrebbero ben poco da festeggiare. Ma la “pietas”, “humanitas” e “facilitas” dei mercanti fa sì che essi cerchino di lenire il dolore degli schiavi, facendoli partecipi del dies festum, ma con un excamotage: lenendo e mitigando il loro dolore e la loro acerbità con un grande sedativo: il vino.

Sperate ergo atque expectate a nobis que a piissimis hominibus sperari aut expectari uspiam possint. Interim vino omnem merorem et acerbitatem lenite et mitigate, festoque hoc die tristia desideria obliviscamini. Itaque tu, dispensator, prebe merum: vos vero considentes bibite ac dehinc bene epoti cantate (Cardini 2022, 36).

Da noi aspettatevi dunque fiduciosi tutto quello che ci si può aspettare fiduciosi da uomini giusti e timorati. Intanto lenite e addolcite il vostro acerbo dolore con il vino e, in questo giorno di festa, è opportuno dimentichiate la vostra tristezza e nostalgia. Tu, coppiere, versa il vino, e voi sedete e bevete e, dopo aver abbondantemente bevuto, cantate (Cardini 2022, 37).

Terapia quasi imposta per TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), come ben si vede nel finale. Dopo la lunga lamentatio degli schiavi, i mercanti forniscono a questi ultimi, in abbondanza, il vino che induce al sonno, definito nei Profugiorum ab ærumna libri III: “dolce dimenticatore d’ogni male” (Grayson 1966, 176), parente stretto della “grande consolatrice”:

Has igitur lamentationes mercatores cum audissent, commiserate illico silentium lugentibus imposuere vinaque abunde misceri iussere, ut eiusmodi turbulentas curas largo mero abluerent et denique tristiam et angorem somno sepelirent (Cardini 2022, 40).

Sentendo questi lamenti, i mercanti, presi da compassione, fecero tacere gli schiavi in lacrime e fecero versare vino in gran quantità, perché affogassero nel bere quei loro torbidi pensieri e soffocassero infine nel sonno quella struggente malinconia (Cardini 2022, 41).

Vino che, già nei Profugiorum ab ærumna libri III, Battista aveva indicato come una cura, assieme al sesso, delle ærumnæ: “Ma che diremo del vino? Rammentati in quanti luoghi egli adoperi el vino a sollevare le triste gravezze dell’animo. […] E ancor veggo che questo uso del vino non in tutto dispiacque a più e a più ottimi e degnissimi uomini” (Grayson 1966, 177); mentre la stretta relazione tra vino e convivium è sancito dal dictum dell’intercenale Convelata: “Et quod aiunt: vinum in convivio fudisse omem bonum, liberalitatem etiam profusam in conviviis laudari interpretamur” (Cardini 2022, 264) (“Il detto: versare il vino in un convito è un buon presagio, lo interpreto nel senso che nei conviti è apprezzabile una munificenza anche molto generosa”, Cardini 2022, 265). Anche se il rapporto tra l’Alberti e il divin succo è assai ambivalente:

Pertanto non vorrei in mie parole parere men sobbrio ch’io mi sia sempre stato in ogni mia vita. Voglio in questa causa da me essere preiudicato e preconstituito questo, che io in ogni altro uso del vivere biasimo la immodestia del vino. E vidi e notai in molti altrove robusti e vivacissimi uomini che la intemperanza del vino gli atterrò e abbreviò loro vita e privogli di sanità. E non mi estenderò di raccontargli in quanti modi l’essere poco sobbrio oppressi e’ nostri corpi di gravissime infermità (Grayson 1966, 176).

Nel Theogenius, addirittura, la condanna della bevanda bacchica è senz’appello:

Né di questo sazi, con tanta fatica, con tante spese, con tanta sollicitudine, solo fra tutti animanti a cui fastidii l’acqua naturale e ottimo liquore, trovarono el vino, non tanto a saziare la sete, quanto a vomitarlo, come se in altro modo non ben si potesse versarlo delle botti (Grayson 1966, 93).

Così come, “lieti e pieni di vino”, sono anche i Proci, ignari della presenza di Ulisse, nei Profugiorum ab ærumna libri III (Grayson 1966, 152). In un caso, ancor più interessante per il nostro tema, presso gli antichi, l’uso del vino è strumentale, da parte dei padroni di casa nelle feste, per educare i figli a fuggirne, mostrando loro gli “osceni” effetti indotti sui servi:

Appresso degli antichi, certo dì festivo dell’anno, e’ padri della famiglia paravano a’ servi la cena ben copiosa con molto vino, e voleano che loro figliuoli e minori vedessero le ubriachezze loro, acciò ch’egli imparassero biasimare, odiare e fuggire tanta oscenità. Ottimo instituto tra le cose ottime sempre fu el discorrere e riconoscere el male (De iciarchia, in Grayson 1966, 231).

L’anziano Battista, nel De iciarchia, chiuderà la partita sul tema della festa, nell’ottica dell’aurea mediocritas degli antichi. Est modus in festis!: “A me canti, suoni, festività, alacrità diletterebbono, e insieme qualche sale in una e un’altra risposta non dispiacerebbe, pur ch’ella uscisse in tempo e senza fiele” (Grayson 1966, 257).

Ma forse nulla è più emblematico del finale del già citato Momus per capire l’ambiguità della festa nel pensiero dell’Alberti. Siamo verso la fine del Libro III: Calore, Fame e Febbre, avendo saputo dell’intenzione di Giove di rifare il mondo, distruggendo l’attuale, iniziano a portarsi avanti coi lavori, cominciando a far morire molti tra gli esseri viventi. Di fronte a questa calamità, gli uomini, sapendo quanto gli dèi siano sensibili ai voti aurei – tema centralissimo del Momus –, indicono “ludos […] diis maximos et eos dicu incredibile quam grandi apparatu et theatri et scænæ quantave impensa ornarint” (d’Alessandro, Furlan 2019, 203) (“grandiosi giochi da consacrare agli dèi, che sarebbe incredibile a dirsi con quale grande apparato di scene teatrali e con quanta spesa ornassero”, Furlan 2007, 248). E l’Alberti descrive con la sua solita brevitas l’impianto della festa:

Sino musicos, ludiones, poetas, quorum innumerablis populos omnibus ab provinciis exterisque usque ab orbis oris confluxerat. Quicquid erat rerum dignarum ubivis gentium, id ad temple, ad sacrificiorum ad ludorumque ornatum convexerant (d’Alessandro, Furlan 2019, 203).

Non starò a ricordare i musici, i giocolieri, i cantastorie, che in folla innumerabile erano convenuti da tutte le province ed anche da paesi stranieri. Se c’era presso qualunque popolo qualcosa di degno, quello lo avevano radunato lì per adornare e sacre cerimonie e giochi” (Furlan 2007, 248).

Ma la brevitas dell’Alberti un po’ s’attenua quando l’architetto che è in lui deve descrivere i luoghi in cui si svolgeranno i ludi in onore degli dèi: il teatro e il circo massimo.

Sino cætera: illud operis vastitate non posponendum, quod theatrum circusque maximus aureis velis pictis acu, opus vastum et incredibile, superne et quaquecircumversus integebatur. Honoratissimis in gradibus maximorum deorum simulacra extabant, omnia circum auro gemmisque nitebant et – quod aurum gemmasque vinceret specie quantum ab iis dignitate vincebantur – omnia floribus conspersa ad venustatem conveniebant, omnia sertis fumorumque deliciis odorata et redimita. Tabulæ insuper pictæ alabastritæque mensæ et varia speculorum miracula ad complendos non admiratione, sed stupore homines accedebant (d’Alessandro, Furlan 2019, 203).

Non starò a ricordare il resto: ma non sarà, per l’imponenza dell’opera, da mettere all’ultimo posto il fatto che e il teatro e il circo massimo – opera incredibilmente imponente – erano coperti sopra e tutt’intorno da veli ricamati in oro. Nei piani più onorevoli delle gradinate si ergevano le statue dei più grandi tra gli dèi; tutto, intorno, risplendeva d’oro e di gemme, e – cosa che oro e gemme di tanto superava per bellezza, di quanto per fasto essi ne erano vinti – i fiori che su tutto erano stati sparsi, i serti che tutto incoronavano, gl’incensi che tutto odoravano, tutto concorreva alla venustà. E quadri, inoltre, e tavole d’alabastro e meravigliose varie specchiere contribuivano a riempire le persone non d’ammirazione, ma di stupore: anzi, perché niente non fosse stracolmo di meraviglie, in capo ad ogni corridoio tra l’una e l’altra fila di colonne erano state poste statue d’eroi (Furlan 2007, 248-249).

Oltre alla descrizione del teatro (e non del circo massimo) – che ricordiamo sarà analizzato con ben più respiro nel Libro VIII, capitolo VII del De re ædificatoria; il circo e l’anfiteatro, invece, nel capitolo VIII –, emerge, da un lato, quello che sarà un tema che ritornerà due volte nel corso del Libro IV del Momus: l’amore di Leon Battista per i fiori – titolo, tra l’altro, di un’intercenale, Flores, mentre su un cuscino di fiori, adagiata su un prato fiorito, sta Felicitas, figlia di Pace in un’altra intercenale, Picture –, tema, quello della passione per i fiori, messo in luce per la prima volta da Eugenio Garin (Garin 1975, 2007, 163) e ripreso da chi scrive (Cassani 2005, 57-83); e, dall’altro, compare il termine “stupor”, forse non un caso, visto che un dio del tutto ridicolo e “ineptissimus”, dall’omonimo nome, Stupore, sarà uno dei co-protagonisti del Libro IV.

Di fronte a tale dimostrazione di amore e devozione da parte degli uomini, e incoraggiato da un discorso in loro favore pronunciato da Ercole, da sempre in prima fila come avvocato del genere umano, a sua volta spalleggiato nella sua perorazione in favore della salvezza del mondo da divinità come Giunone, Bacco e Venere, Giove decide di non procedere nella sua decisione de orbe innovandi e, alquanto sollevato per non dover affrontare un’impresa tanto onerosa, approfitta della situazione per scaricare Momus che già da tempo aveva perso la sua virilità per mano di Giunone e delle altre dee. Ma l’apparente lieto fine per il principe degli dèi e per la sua corte si trasformerà a breve in una sorta di ridicola Götterdämmerung. È quanto accadrà, appunto, nel Libro IV, che si apre con una descrizione dei preparativi della festa:

Iam vero omnes hominum, ut ita loquar, torrentes in urbem confluxerant ludorum spectaculorumque gratia. Canebant tubæ, subaudiebantur tibiæ ad modosque cadebant crotala et sistra et litui et omnis musica. Ipsæ deorum superum testudines maximo istarum rerum concentu resonabant. Addebantur his hominum murmur latum atque ingens multorumque multiplices variæque voces et huiusmodi, quo insolito atque immani sontu cuncti cælicolæ ad rei admirationem excite stetere (d’Alessandro, Furlan 2019, 213).

Fiumi di uomini, se così posso dire, erano ormai confluiti in città per assistere ai giochi e agli spettacoli. Cantavano le trombe, meno di esse potenti si udivano i flauti, cadevano a tempo i crotali i sistri i liuti ed ogni strumento; rimbombavano a quel vasto concento gli stessi soffitti a conca degli dèi; e si aggiungeva il mormorio, alto e diffuso per largo tratto, degli uomini e il molteplice vario vociare di molti ed altri simili suoni, talché a quell’insolito ed immane romorìo tutti gli abitatori del cielo ristettero, colpiti, ammirando (Furlan 2007, 259-260).

Un’ammirazione e una curiosità che, da parte degli dèi, si estende a tutti i luoghi della terra in cui gli uomini si sono raccolti a celebrarli, in vere e proprie folle, e che li fa ammutolire (trasformandoli indirettamente tutti nel dio Stupore!):

Eccam patritiorum pompam et civium ordines matronarumque deinceps nurumque greges, cum sacris lustrare urbem aggreditur. Tæda et multa lampade noctem illustrem reddunt. Virgines porticibus conspicuæ urbem ornant atque carminibus cantuque ad saltum et tirsum deos venerantur. Tantas res superi intuentes obmutuerant atque uti quisque se receperat loco pendebat maxime intentus, maxime stupidus (d’Alessandro, Furlan 2019, 213, 215).

Ecco la processione dei patrizi e gli ordini dei cittadini e le schiere delle matrone e delle spose con i sacri arredi fare il giro della città: afferrano le torce e con grande numero di lampade luminosa fanno la notte. Le vergini, in vista sotto i portici, adornano la città e intonando lor carmi e, insieme, danzando e ballando venerano gli dèi. I celesti, alla vista di tanto spettacolo, erano ammutoliti; e, ciascuno nel posto in cui si era messo, tutti attenti, tutti stupefatti restavano sospesi (Furlan 2007, 261).

A questo punto ricompare sulla scena Momo, che, dopo essere stato cacciato dall’Olimpo, era stato incatenato a uno scoglio in mezzo all’Oceano come Prometeo. Avendo saputo da dèi e semidei marini quello che stava accadendo sulla terra in onore degli dèi olimpi, mosso dall’invidia, emette un sospiro talmente lungo da trasformarsi in una distesa di nubi che nasconde la vista della terra agli occhi dei numi. Questi, non contenti di ascoltare le voci e i suoni della festa, ma desiderosi di vedere con i loro occhi – la vista supera l’udito nella visione del mondo albertiana, l’“occhio alato” lo dimostra, se ce ne fosse bisogno – compiono un’azione rischiosa e sicuramente avventata: lasciare la loro sede superna e prendere posto sui “Mortalium […] tecta” (d’Alessandro, Furlan 2019, 215), i “tetti dei mortali” (Furlan 2007, 263). Curiosamente, la stessa azione compiuta da Neofrono nel Defunctus (cfr. Alberti 2022, 400-471): questi, per poter meglio vedere, dopo morto, cosa succede al suo funerale, acquisisce così, per la prima volta, una “vista alata” che gli farà cadere tutte le illusioni cullate da vivo (vedendo la moglie infedele, i figli che si spartiscono l’eredità, i parenti che distruggono la sua biblioteca e i suoi opuscoli, l’odiato vicino che scopre per caso il tesoro da lui nascosto sotto l’acquedotto); quelli, gli dèi, non ottenendo nemmeno questa, pur dolorosa, capacità di vedere la verità delle cose.

Nonostante i prudenti consigli di Ercole a non fidarsi degli uomini, gli dèi entrano nel teatro e Giove, per primo, ammira – fin troppo (“plus satis”), come scrive l’Alberti – “pario ex marmore ingentes innumerasque columnas, maximorum montium frustra, gigantum opus” (d’Alessandro, Furlan 2019, 217) (“le monumentali e innumerevoli colonne di marmo pario, veri e propri pezzi di altissimi monti, opera di giganti”, Furlan 2007, 264), rimpiangendo di non essersi rivolto agli architetti, anziché ai filosofi, quando aveva avuto l’idea di rifare il mondo.
Mentre le torme di uomini tornano alle loro case per rifocillarsi e prepararsi alle celebrazioni del giorno seguente, approfittando della loro assenza, gli dèi decidono di assistere ai ludi e alle scænæ previsti l’indomani. Ma pernottare dove? In cielo o nei templi, case degli dèi? Alla fine, per un qualche sfortunato fato avverso agli dèi, sottolinea l’Alberti, viene accolta l’opinione di chi consiglia di trasformarsi nella rispettiva statua eretta nel teatro, evitando le fatiche (sic!, essendo dèi non avrebbero dovuto sudare poi troppo…) di un viaggio di andata e ritorno.

Ma ormai il dado è tratto, il destino degli dèi è segnato: la festa si trasformerà in un armageddon. Detto in breve, come amerebbe l’Alberti: nella vicenda entrano due nuovi personaggi, Caronte e il defunto filosofo Gelasto, che accompagna il primo nel suo desiderio di vedere la terra prima che venga distrutta. Entrati, dopo varie avventure, nel teatro, la barca di Caronte viene colpita da una pesante pietra scagliata da un ubriaco, protagonista, insieme al filosofo Enope, vecchia conoscenza terrestre di Gelasto, di alcune peripezie avvenute in precedenza. A quel colpo, Caronte, spaventato, urla così forte da far rintronare tutto il teatro e, infine, se ne fugge “saltitans” (d’Alessandro, Furlan 2019, 245), “a saltelloni” (Furlan 2007, 299), richiamato vanamente da Gelasto.

Di fronte a quello spettacolo, gli dèi emettono una divina risata che, però, si trasformerà in una “maximam, inauditam insperatamque” calamitas (d’Alessandro, Furlan 2019, 245) (“una terribile, inaudita, imprevista calamità”, Furlan 2007, 299). Non è certo un caso, ancora una volta, che il riso, nell’Alberti, si trasformi in pianto! Questa dialettica, come detto, è continuamente presente nelle sue opere letterarie. Nell’intercenale Naufragus, dove, a seconda del punto di vista, c’è chi piange – paradossalmente i soccorritori – e c’è chi ride – altrettanto paradossalmente i naufraghi:

tanta in nobis perpesse calamitatis inditia apparebant, quos piscatores cum intuerentur commoti pietate collachrimarint. At nos inter nos pre letitia, uti arbitror, desipientes, alterutros visus irridere ac mute rogare cuinam esset facies ad sponsalitum decentior (Cardini 2022, 282).

in noi le tracce delle sofferenze patite erano talmente grandi che, a guardarci, ai pescatori veniva da piangere per la compassione. Noi invece eravamo così felici che la gioia, credo, ci faceva sragionare, ridevamo ciascuno dell’aspetto dell’altro e ci chiedevamo a vicenda chi avesse l’aspetto più appropriato per una festa di matrimonio (Cardini 2022, 283).

La stessa cosa accade a Filoponio nell’intercenale Erumna che, in un attimo, passa dal riso al pianto (Cardini 2022, 152), ma soprattutto al Neofrono del Defunctus che, alternativamente, un po’ Eraclito e un po’ Democrito, non sa se piangere o ridere di fronte ai suoi casi e a quelli dei suoi simili; e in Neofrono ritorna il giovane Alberti del De commodis litterarum atque incommodis, quando dichiara: “Tanti in litteris versari existimabam ut fortunas meas omnes ac publica et domestica ea quevis negotia amicorumque sermones diesque festos voluptatesque omnes neglexerim”, Cardini 2022, 432) (“Consideravo così importante dedicarmi allo studio, da trascurare tutti i miei affari e qualsiasi impegno pubblico e privato, le conversazioni con gli amici, le feste e tutti gli altri piaceri”, Cardini 2022, 433). Inoltre, se in quello che sarebbe dovuto essere un giorno di lutto, moglie, figli, parenti e amici si comportano in un modo così scellerato, a morto ancora fresco, come si potranno comportare gli esseri umani “ubi dies festos, ebrios et solutos voluptate”? (Cardini 2022, 466) (“nei giorni di festa, dedicati all’ebrezza e al piacere”, Cardini 2022, 467). Per cui Neofrono fugge dai viventi, rinunciando al suo proposito di viaggiare tra terre e genti lontane (“orbis regiones pervagari”, Cardini 2022, 408).

Tornando al Momus, dopo un intermezzo che riguarda le disavventure terrene di Caronte, Alberti ci descrive finalmente la scena madre accaduta nel teatro. A causa della risata degli dèi, il dio Eolo esce dal suo antro per informarsi su quanto accaduto. Allora i venti, anch’essi curiosi di vedere gli dèi e lo spettacolo a loro apparecchiato, rompono le porte e i catenacci in cui sono rinchiusi e, irrompendo nel teatro, rotte le corde, “velum […] cum parte muri traherent in ruinam sequentibus una statuis quas fastigiis murorum nonnulli cælicolarum deposuerant” (d’Alessandro, Furlan 2019, 257) (“fecero crollare il tendone insieme con una parte del muro e, conseguentemente, le statue che alcuni degli abitatori del cielo avevano collocato sul fastigio dei muri”, Furlan 2007, 312). Il che, naturalmente, provoca una vera e propria “caduta degli dèi”: “Namque ali quassati, alii obruti ruina, nulli non aliqua ex parte collisi extiterunt” (d’Alessandro, Furlan 2019, 257) (“alcuni, in effetti, furono ammaccati, altri sepolti sotto la rovina, nessuno che non restasse in qualche modo ferito”, Furlan 2007, 312).

Nemmeno il principe degli dèi, Giove, si salva. Rimanendo comicamente impigliato nelle corde del tendone, “ita deturbarunt ut resupinis pedibus, naso retunso rueret in caput” (d’Alessandro, Furlan 2019, 257) (“fu tanto violentemente colpito che, piedi all’aria e naso contuso, rovinò a capo fitto”, Furlan 2007, 312). Cupido, per poco non schiaccia la dea Speranza, colpendola comunque di striscio a una spalla e staccandole un’ala (riducendola a una “mezza” Speranza); questa, a sua volta, colpisce al petto Cupido (proprio nel punto dove di solito era lui a colpire con le sue frecce gli altri!). Giove, rientrando nei panni del principe, temendo che gli uomini, vedendo il teatro spogliato delle sue statue, pensassero che gli dèi non avevano gradito i giochi organizzati per loro e dunque non volessero più onorarli, ordina a ciascun dio di rimettere al proprio posto le rispettive statue di marmo, evitando anche, in tal modo, che i mortali, saputo quello che era accaduto, ridessero degli dèi. Ancora, e sempre, il tema del riso che ritorna.

Tutti eseguono l’ordine tranne alcuni dèi. E qui l’ironia di Alberti entra in gioco: a mancare all’appello, nell’Olimpo, saranno l’“ineptissimus” dio Stupore, la dea Speranza, mutilata di un’ala, Plutone – il dio del denaro, a suo agio tra gli uomini e protagonista dell’intercenale omonima, Pluto – e la dea Notte. E in una pagina serratissima, Leon Battista ci spiega il perché del loro non rientro in sede. Apollo raccoglie per sbaglio la statua di Notte, che aveva ritrovato la perduta borsa coi responsi di proprietà del primo e l’aveva nascosta per paura dei ladri, notoriamente ben rappresentati tra gli uomini. Ma Notte, presa la statua di Apollo e accortasi dell’errore, temendo che Apollo avesse scoperto il furto degli oracoli, fugge da sua figlia, l’Ombra, dea amata perdutamente da Apollo (inevitabilmente, essendo il Sole!). La borsa, però, viene ritrovata da Ambiguità – i responsi, si sa, sono ambivalenti – e Apollo, saputolo, adirato contro Notte, la insegue senza sosta, per sempre; lei si difende, rifugiandosi nel grembo della figlia. Un raffinatissimo gioco albertiano sulla dialettica luce/ombra.

Plutone, dal canto suo, viene imprigionato da alcuni lenoni che gli legano una corda al collo e lo conducono via. Alcuni di loro, poi, con una pietra, lo colpiscono a un piede, sperando che fosse d’oro massiccio; altri cercano di cavargli gli occhi confidando che fossero gemme. E tanto fanno che lo rendono orbo. A quel punto, Plutone, non sopportando il dolore e l’affronto, massiccio e pesante com’è, si abbatte sui suoi avversari, schiacciando loro piedi e mani. Abbandonato nel foro, “dicitur aberrare luminibus captus” (d’Alessandro, Furlan 2019, 259) (“si dice che vada errando privo della vista”, Furlan 2007, 316). Come la Speranza, sulla terra, non può più volare come vorrebbe, dimezzata di un’ala, così la ricchezza è distribuita a caso, e quasi mai ai virtuosi e meritevoli.

La festa che gli uomini avevano predisposto per ingraziarsi gli dèi, distogliendo il loro principe dall’insano proposito di distruggere il mondo per rifarlo nuovo, si è trasformata in tragicomica farsa. A ricordarlo, in eterno, l’“imminutus nasus” (d’Alessandro, Furlan 2019, 273) (“il naso troncato”, Furlan 2007, 332) di Giove.

3 | Giovanni Bellini, Tiziano Vecellio, Il festino degli dèi, 1514-1529, olio su tela, cm 67 × 74,
Washington, National Gallery of Art.

 
Riferimenti bibliografici
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  • Grayson 1966
    C. Grayson (a cura di), L.B. Alberti, Versione volgare della “Dissuasio Valerii” di Walter Map, in Id., L.B. Alberti, Opere volgari, Volume secondo: Rime e trattati morali, Bari 1966.
  • Regoliosi 2021
    M. Regoliosi (a cura di), L.B. Alberti, De commodis litterarum atque incommodis, tomo I, Firenze 2021.
  • Romano, Tenenti [1969, 1994] 2022
    R. Romano, A. Tenenti (a cura di), Leon Battista Alberti, I libri della famiglia, Torino [1969, 1994] 2022.
English abstract

In this essay, the author approaches the role of the festive element in Leon Battista Alberti, particularly in his play Momus, as well as the importance of irony and dark humour. If laughter can certainly be considered an essential component of any celebration, there is no doubt that this emotional expression of human behavior is very central in the thought of Leon Battista Alberti. But Alberti’s laughter does not express joy or cheerfulness, but has a “therapeutic” function (see Cardini). Thus, occasionally, he uses terms such as “gioco”, “giuoco lupercal”, “festa”, “grande festa”, “publica festa”, “dì festivo”, “festivo”, “festività”, “festeggiare”, “festereccio”, “festivissima”; and, in his works written in Latin: “festinum”, “ludibundus”, “festivus”, in addition of course to “ludus”. But the fundamental aspect of the celebration in Alberti is its “ambivalence”: laughter often turns into tears, and vice versa. The most sensational example is the finale of Momus, where the laughter of the gods soon turns into their disastrous fall.

keywords | Leon Battista Alberti; Momus; Dark humour; Intercenales; Theater; Flower.

Per citare questo articolo / To cite this article: A.G.Cassani, Una festa finita male. Considerazioni sul tema nelle opere dell’Alberti e in particolare nel Momus. ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 183-196 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0049