"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

New York 1929, New Year’s Eve

Bozzetto per una scenografia

Alessandro Canevari

English abstract

Non è forse appassionante l’idea di far parte 
di qualcosa che sfugge alla nostra comprensione?
Agatha Christie

Hugh Ferriss, Bozzetto per la scenografia di New Year’s Eve in New York prodotto da The Neighborhood Playhouse, carboncino su cartoncino,1929, pubblicato in “Theatre Guild Magazine”, No. 6, Vol. VII, (marzo 1930), 29.

Convinta che la messa in scena di New Year’s Eve in New York di Werner Janssen richiedesse un’ambientazione che di Manhattan “includesse – almeno simbolicamente – tutto, esclusi i tombini”, Irene Lewisohn necessitava della consulenza di un architetto, un intimo conoscitore della città. Portare in scena lo specchio musicale della metropoli – in una delle sue usanze pubbliche più travolgenti e rivelatrici, poi – non era certo impresa per tutti.

Noto all’alba degli anni Trenta come colui che aveva saputo “drammatizzare le costruzioni”, Hugh Ferriss mostrava il proprio “interesse per il grattacielo con un pizzico d’ironia, a patto che non si trattasse di New York”. Quella la “prendeva molto sul serio”, osservandone con “occhio analitico” (New Year’s Eve 1930, 29) la dilagante corsa alla supremazia del cielo. Le oscure profondità brulicanti di vita nascosta delle sue scene notturne, il cui cielo nero squarciato con un effetto vagamente cubista dai bagliori elettrici rinnova furtivo e incessante l’ordine nel chaos, ne facevano il consulente perfetto. Trasfigurare sul palco l’immagine del Capodanno tra quel reticolo di strade congestionate e illuminate, nel quale il giorno e la notte avrebbero presto assunto l’ininfluente carattere di mera contingenza, trasformando la quotidianità in una sorta di eterno dies festus, era davvero impresa per pochi.

Nelle tavole di Ferriss le “geometriche luci che sfolgorano nell’abisso” (Ferriss [1929] 2022, 62) metropolitano emergono quale nuovo elemento estetico e trasformano la tetra Notte di Esiodo, madre di Thánatos, di Apate e di Némesis, in un nuovo tempo d’inedite opportunità per l’unica città la cui breve storia ha espresso nella hỳbris del grattacielo le proprie ambizioni e nel Luna Park e in un distretto di teatri le proprie fiabesche e scintillanti illusioni. Ecco il conoscitore dell’habitus dell’architettura e dell’anima newyorkese di cui la signorina Lewisohn aveva bisogno.

La messa in scena, musica e danza, dei cinque movimenti del New Year’s Eve in New York di Werner Janssen al Mecca Auditorium, sulla 55th Street, prodotta e diretta da Irene Lewisohn non poteva aspettare. Solo tre spettacoli, il 20, 21 e 22 febbraio 1930, con un cast d’eccezione. Nikolai Sokoloff dirige The Cleveland Orchestra con la straordinaria partecipazione solista di Harold Bauer. Sul palco, a guidare il corpo di ballo nel drama-dancing music, Martha Graham e Charles Weidman.

Così, colui che ha aperto The Metropolis of Tomorrow con il levarsi di un ideale sipario sul “ciclopico dramma di forme” (Ferriss [1929] 2022, 15) della New York contemporanea, pur dichiarando con falsa modestia “di non sapere nulla di teatro né di scenografia” (New Year’s Eve 1930, 29), cede alla proposta lusinghiera della fondatrice di The Neighborhood Playhouse. Lo stesso Hugh Ferriss che con dovizia di metafore teatrali ha tracciato – in dialogo con Anne Herendeen sulle pagine del Theatre Guild Magazine l’imminente destino della scena di Manhattan come “il dramma incompiuto della metropoli” (Ferriss, Herendeen 1929, 23) avrebbe partecipato a trasporre sul palco il più paradigmatico dei festeggiamenti tra quelle strade cosmopolite “dove accadono le cose” (Dos Passos, 1925, I, 3, 4). La signorina Lewisohn avrebbe avuto il suo bozzetto. E Thomas Farrar, “che conosceva bene le vie del palcoscenico” (New Year’s Eve 1930, 29), lo avrebbe trasformato in scenografia.

Una sola potente sintesi della metropoli, della sua vita, delle sue aspirazioni, che nell’impeto di un esorcismo di proporzioni urbane e comunitarie, esplode abbandonandosi al rituale e nega, annichilendola, la società stessa che la concepisce, la genera, la informa e la abita all’ombra dei suoi stessi fieri portati – i “giganti del puro mercato” di Henry James (James 1907, 77), che Ferriss aveva saputo trasformare in agenti di legittimazione visiva delle istanze del Capitale. Nell’abbraccio vertiginoso del reificarsi di quelle solide, calcolate profezie positive del futuro, l’auspicato e necessario rifondarsi del kosmos, che ha “periodicamente bisogno di esser rifondato” (Cardini 2016, 238), garanzia d’ordine universale quanto sociale, prorompe incontenibile tra la folla.

Una sola prospettiva condensa e distilla, per mano di Ferriss, tra le ambigue stilizzazioni grasse e sfocate del pastello litografico, i simboli dell’ordine della metropoli blasée, indifferente, noncurante e persino ostinatamente inconsapevole – luogo “dell’intensificarsi della vita nervosa” (Simmel [1903] 2011, 36) del mondo contemporaneo – con i gesti e le urgenze, irrazionali quanto irrinunciabili, di un passato mitico e persino tribale. Istanti effimeri e impulsivamente ripetuti di una città che, repentina e spontanea, sembra abbandonare gli scampoli di contegno puritano d’eredità vittoriana per librarsi all’unisono, nella notte rischiarata dal ronzante fulgore elettrico delle immense avenue, agitandosi in un ritmato, greve movimento sincrono. Almeno così appare dall’esterno.

In quel turbine transeunte, mentre si attenta “a regole che ieri sembravano sante e inviolabili, e che sono destinate a ridiventarlo domani” (Caillois [1950] 2001, 106), ogni spazio della corrente di persone, densa e confusa, si satura nel tentativo comune di sfuggire alla sola eventualità di una prospettiva tradizionale da chi guarda a chi è guardato. L’attenzione collettiva dall’esterno pare convergere, vacua, sul grande eidolon portato in trionfo, l’uomo moderno di Ferriss “creatore della metropoli di domani” (Morshed 2015, 83) con le mani elevate al cielo. In quelle torme di gente accalcata che gareggia per formargli un piedistallo e condurre l’eroe di una notte della città torreggiante – destinato a trasfigurare da dio mortale a superuomo in saturnalicius rex – il vero impeto, e incubo, dei singoli è, pur senza l’accessorio rituale e di seduzione della maschera o del travestimento, “muoversi senza esser visti, spiare, esser riconosciuti pur nascondendosi” (Starobinksi [2006] 2008, 77).

In una città in ruvida transizione che si scopre di individui eterodiretti, la folla è, mai come prima, solitaria. E il gioco di sguardi nella mischia in cui cercare sé stesso nell’altro si fa fatuo, inespressivo e troppo spesso inconsistente. Negli attimi “senza memoria e senza avvenire” consumati nel fragore orgiastico nelle tenebre della avenue festante “le coscienze non sembrano cercare né comunione né comunicazione”. Il piacere di quell’effimero sovvertimento dell’ordine “si consuma all’istante; non ha nient’altro da celebrare se non sé stesso, non ha saputo incontrare che l’acuto sfavillio del suo passaggio” (Starobinksi [2006] 2008, 80).

Mentre la città stessa abbandona progressivamente, non senza attriti, le rigidità di una società a lungo basata sul valore dell’autodirezione, che certo non ritiene la solitudine il “peggiore dei destini possibili” né insegna all’individuo “che deve divertirsi” e che alla folla dovrebbe prendere parte (Riesman [1961] 1999, 135), da un nuovo conformismo emergono persone spogliate della propria individualità. È il protagonista dai mille volti della folla stessa che si nasconde nell’agitarsi, giubilante e fugace, di quella carnevalesca marea umana disomogenea e cosmopolita. E come l’uomo della folla di Poe “non vuole restare solo” (Poe [1840] 1971, 406) e fugge mescolandovisi. Una solitudine se possibile ancor più acuta e struggente nello sciamare soffocante di quella calca festante, che Ferriss restituisce nella sua dinamicità vorticosa con tratti ripetuti, sincopati, caotici ma in fondo composti, nei quali si riconoscono ancora, singoli e solitari, i minuscoli artefici della metropoli nel loro vano protendersi verso l’alto e verso l’altro.

New York è la prima città che ha interi distretti nati per un tempo nuovo, non per la festa, tempo della collettività, né per il lavoro o la famiglia, in cui è possibile, ancor prima del dissolversi postmoderno “dell’obbligatorio nel facoltativo” (Finkielkraut 1991, 174), dedicarsi a qualcosa di diverso da ciò a cui si deve. Dalla dialettica inedita tra lavoro e tempo libero affiora la figura vigorosa quanto tragica dell’uomo-massa. Proprio quell’uomo malinconico che l’intuito lungimirante di Ferriss include come comparsa, iterata quanto anonima, nelle sue scene urbane di diafana quotidianità o, come in questo caso non del tutto unico, di festosa rivoluzione.

L’uomo-massa è mai come prima individuo, seppur costretto ad adeguarsi alle pressanti attese del teatro sociale per rifuggire dalla necessità di un intimo recesso del quale è privato ordinariamente ed ancor più nel tempus terribile della festa, pena l’incombere dello stigma senza tempo della diversità. Un uomo che ha simbiotica necessità della massa di cui è parte insignificante, elemento essenziale ma fungibile, all’interno della quale finisce per sentirsi ancor più solo ed estraneo a sé stesso, vittima, e a sua volta oppressore, di una folla dionisiaca che contribuisce ad animare – contingente epifania del sovrannaturale.

Nel contrasto qualitativamente ormai irrilevante tra il quotidiano e il ‘festivo’ nella metropoli occidentale, l’uomo-massa si smarrisce e trasfigura tra il continuum lineare e monodimensionale del proprio tempo e una ciclicità naturale e sovraordinata che gli è ormai quasi del tutto estranea e della quale il rito ancestrale di rigenerazione del Capodanno è il fulcro. Così, liberato dall’inevitabile densità della massa dell’atavico “timore d’essere toccato” e rassicurato dalla sensazione “che tutto accada all’interno di un unico corpo”, l’individuo vi si rifugia: “quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l’uno dell’altro” (Canetti [1960] 2017, 6). Poi, con “il sollievo della non-decisione e della non-incertezza” (Bauman [1993] 2018, 137) procurato dal serrarsi fitto della folla, gettatosi nella massa, resta in attesa del suo avvenimento principale e fondante, senza il quale “non si può dire che la massa davvero esista”: la “scarica” (Canetti [1960] 2017, 7).

Nell’atteso tempo alto della festa, l’atmosfera di lieta abbondanza, garanzia di molte feste future, è per il singolo nella tradizione un tempo “di rilassamento e non di scarica” (Canetti [1960] 2017, 52), ma non tra le strade di Manhattan noncuranti talvolta sino all’ignavia. In una società mai come prima secolarizzata e parcellizzata, l’eclissi del sacro trasforma per molti la festa in un semplice giorno di astensione dal lavoro. E lo scoccare della mezzanotte – istante archetipico, sacro e tragico, immortalato da Ferriss – spalanca l’abisso, il mondo di sotto lambisce, e a tratti permea, il mondo di sopra: ecco la festa delle feste. Lo scoccare di quella mezzanotte a ridosso del solstizio, in cui la città è riunita impaziente per uno tra i più primordiali e archetipici riti – trasversale a culture e tradizioni, risveglia il cammino del Sole e la massa con lui. Ecco la scarica, ora necessaria, che al suono dei dodici rintocchi la travolge in un rito orgiastico di rigenerazione ormai privato, quasi interamente, del proprio aspetto cerimoniale a favore di quello ludico, e ciò “ch’è stato ritorna eternamente e l’omega non è che un alfa, la fine non è che un principio, la fredda mezzanotte invernale partorisce un sole fanciullo, l’inizio del viaggio degli dèi” (Cardini 2016, 129).

Anabasi e catabasi si rincorrono, alternandosi senza posa, tra quella folla impazzita alla quale la ‘religione civile’ americana – dispositivo essenziale e condiviso di coesione sociale che fa capo alle idee di Rousseau – non nega per una notte il ritorno, mitico e mistico, all’illud tempus, alla trascendenza. Non importa di quale fede né della sua origine, ciascun artefice della metropoli celebra in quella massa il rinnovarsi del logorato cammino ascensionale del Sole e, con lui, della natura e della società: “bisogna cominciare daccapo la creazione del mondo” (Caillois [1950] 2001, 93).

Così, nella gelida notte invernale di Manhattan, tra un teatro di sguardi abbracciato dal concrescere delle torri, “si apre nel cielo il tempo del mattino cosmico” (Cardini 2016, 129). E la festa, tempo della gioia e tempo dell’angoscia, torna per una volta ancora a “mettere in salvo nell’ente la verità dell’Essere per fornire ancora una volta all’uomo storico una meta: diventare il fondatore e il custode della verità dell’Essere, essere il ci” (Heidegger [1936-1938] 2007, 45). Ancora una volta, con gesti di memoria persino etnografica, la folla avanza “caoticamente e non parallelamente”, in assenza di una meta evidente comune a tutti: “la festa è la meta, ed essa è stata raggiunta” (Canetti [1960] 2017, 53).

La compassata e operosa New York di fine anni Venti nel rovesciare festivamente l’ordine sociale precostituito rivive nel Capodanno la prima età del mondo. Nell’istante cristallizzato da Ferriss, Cronie e Saturnali riemergono, sotto lo sguardo severo dell’architettura déco, accanto a gesti arcaici e lontani nel vorticare processionale di quella marcia orgiastica e rifondatrice tra i nudi scheletri dei grattacieli. Ancora privi della facciata che li celerà dietro l’esperanto del linguaggio moderno, i loro orizzontamenti accentrano cupi la prospettiva, conferendo profondità alla scena disegnata e fissa – finestra sul mondo che nel dettato di Alberti mostra i fatti così come sono – presentandosi nel loro più crudo affastellarsi di piani l’uno sull’altro, meri moltiplicatori di superficie fondiaria. In un reiterato indizio di estetizzazione della politica, l’incombente profilo dell’architettura della New York di domani si innalza ctonio e maestoso, divenendo per mano di Ferriss carismatica Massenwirkung. Si innesca, sulla scena come nella città, una cataclismatica reazione tra masse che, scontrandosi, almeno idealmente, si fondono in un inafferrabile scambio corale – qui ancor più esplicito che nelle tavole di The Metropolis of Tomorrow –, un doppio tra folla e costruito, tra individuo e grattacielo.

La marcia dionisiaca si dispiega per la città, confondendosi con la città stessa e divenendo un tutt’uno, mentre invoca “l’Età dell’Oro, l’infanzia del mondo come quella dell’uomo […] regno di Saturno e di Crono che non conosce né guerra né commercio, né schiavitù” (Caillois [1950] 2001, 97). Dinnanzi al farsi esuberante, disordinato e sempre più spesso opprimente della metropoli stessa, una necessaria sospensione del tempo orientato e una effimera, e ciclica, attualizzazione del tempo creativo rovescia un tempo esaurito e logoro che, con fiducia, ci si appresta a rifondare con maggior vigore.

Nella temperata via della mutazione immobile – che nelle proiezioni sulla città di Ferriss, amico di Bragdon, superano la realtà conservandola – dal buio delle gole urbane riemerge, ineluttabile, l’ancestrale e possente immagine del Grand Canyon. Immagine principe attorno alla quale plasmare il mito di New York come quello, utopico, della metropoli del domani. Un’immagine che rivive nell’energia ctonia e tellurica delle costruzioni che, nel prorompere controllate in superficie, si elevano rapide e vigorose contro il cielo – qui insolitamente fulgido per il Ferriss di fine anni Venti – segnando un “ritorno al senso del sublime, portato al suo stadio estremo: l’uomo sopraffatto dall’ambiente” in procinto di ristabilire il proprio rapporto con l’universo (Scully [1969] 1971, 143). Come una foresta di titanici alberi sacri collocati ognuno al centro del nostro mondo, la metropoli si prodiga, nella retorica visuale di Ferriss, nell’incessante tentativo di rinnovare quel legame-pilastro che sostiene la volta celeste che i primi pionieristici grattacieli avevano violato. Le cavità cupe e oscure tra gli scheletri di acciaio e calcestruzzo, che la notte riempie di ignoto, presto scintilleranno della luce dell’alba di una nuova era, il to-morrow, l’alba del nuovo giorno.

Il Carnevale notturno che trionfa al centro esatto delle dodici notti – che la tradizione vuole traggano le sorti dell’intero nuovo anno, concludendosi con l’Epifania, la Twelfth Night di memoria shakespeariana – trasfigura la metropoli propiziandone il radioso avvenire. L’angoscia della fine dell’anno deve essere esorcizzata: “l’anno muore: nulla ci assicura che rinasca” (Cardini 2016, 238). E la città sembra rovesciarsi, e il mondo assieme a lei. Una sospesa eternità tiene faticosamente a freno l’irrimediabile scorrere del tempo, inseguendo quell’alba capace di rinnovarsi. Ogni regola è sospesa, trasgredita. Alla dissoluzione dell’ordine di quella massa fluida e malleabile in protratto stato tra il liminale – serio e minaccioso – e il liminoide – volontario e giocoso – occorre, nel teatro come nella città, uno spazio nel quale confinare il minare le basi del consueto, dell’ordinario e del familiare, nel quale le performance possano aver luogo e possano sorgere e tramontare idoli di una notte. Il fatto che tutto sia “permesso non significa che nulla sia proibito” (Camus [1942] 2013, 64).

Sullo sfondo, come a sorvegliare la massa festante, svetta in tutta la sua cratofanica umanità la torre del Centro per la Filosofia, luogo ideale della città di Ferriss nel quale “arte e scienza si incontrano” (Ferriss [1929] 2022, 136). Ostentazione di un primigenio desiderio estetico e simbolico insito nel dominio dell’altezza, questa atavica nemesi della torre di Babele sfoggia la sua audacia prometeica nel trafiggere il cielo, articolandosi in variazioni di tre triangoli sovrapposti. Una stella a nove punte che cresce per stadi successivi in meticolosa quanto evocativa progressione in rapporto di tre, uno e tre. Un intrepido gesto che viola la sacra immutabilità della volta celeste e del suo Ordine. Gesto qui solo evocato da Ferriss, nascondendo al di fuori della scena la cuspide della torre, punto di contatto del manufatto umano con l’etere – scelta che, se possibile, ancor più della tecnica, dichiara la gravità quale limite obsoleto che può essere sfidato seguendo la via dello Zarathustra di Nietzsche.

Nel canyon artificiale della avenue lo spazio urbano, la strada del quotidiano, si trasforma, muta, rimarcando quella simbiosi tra festa e città che già era propria della polis che nella sinonimia tra agorà e choròs sancisce a Sparta la forma archetipica dellariqualificazione dello spazio quotidiano come luogo deputato alla solennità festiva” (Del Corno 1996, 14). Opportunamente rivalutata per l’occasione, pur senza particolari trasformazioni, una porzione generica della città diventa il luogo della festa, irradiando l’intero tessuto urbano di una particolare solennità e assorbendolo idealmente nello spazio della festa stessa, per la sua stessa durata, risolvendo così “l’opposizione fra lo spazio propriamente ‘normale’ e il tempo ‘eccezionale’ che è peculiare alle feste sacre” (Del Corno 1996, 15-16). Agorà del nuovo mondo, sfondo ordinario di incontri e commerci, la main street americana è il luogo della parade, organizzata o spontanea, civile, militare, religiosa. E Longacre Square – oggi Time Square, epicentro dell’entertainment mondiale – è il tempio, il recinto sacro del Capodanno dal quale la folla euforica si irradia in una processione dionisiaca per le strade della metropoli ai piedi delle torri nella fredda notte invernale, una delle notti più lunghe dell’intero anno, traccia della remota eredità del tempo ciclico “della vita della natura […] e dell’assimilazione di riti agricoli da parte della città” (Del Corno 1996, 16).

Analogamente alla descrizione etnografica di un rito primitivo nel quale “in modo frenetico e orgiastico, con un tripudio notturno di clamore e di movimento che i più rozzi strumenti, percossi a tempo, trasformano in ritmo e in danza […] la brulicante massa umana ondeggia percuotendo il suolo, gira e sobbalza intorno a un palo centrale” (Caillois [1950] 2001, 90), la civilissima folla metropolitana invade la prospettiva di Ferriss ondeggiando e portando in trionfo il proprio eidolon ai piedi della torre del Centro per la Filosofia.

Al contempo, ai piedi del palco, il poema sinfonico di Janssen, evoca con alterni crescendi il vagare irrequieto della folla in attesa della mezzanotte, come spiriti dispersi lungo le avenue. Ma quando “l’orologio batte le dodici regna il pandemonio, […] è introdotta la jazz band e il poema sinfonico diventa temporaneamente un moderno concerto grosso” (O’Connell 1941, 294). Gli strumenti più invadenti e quotidiani del panorama acustico della città moderna, sirene, allarmi e clacson, travolgono assieme a trombette di carta e sonagli l’ordinata esecuzione della partitura, mentre i fiati prorompono in brindisi e rumorosi cori augurali.

Il Capodanno di New York portato in scena quelle notti di fine febbraio al Mecca Auditorium è pervaso dagli spiriti in un sonoro rito goliardico che nella danza si fa greve e tribale. La libera espressione delle emozioni travolge il corpo di ballo. All’unisono, guidato dai movimenti di contrazione e rilascio – innovativi quanto primordiali inarcamenti del busto e veementi spinte in avanti del bacino – di Martha Graham, questo ondeggia in azioni autonome, gesti tutt’altro che leggeri e stilizzati del balletto: “un’immagine muore; un’immagine nasce” (Starobinski [2006] 2008, 93).

Come Goethe si era molto divertito vedendo il pubblico nell’Arena di Verona diventare spettacolo a sé stesso, l’elegante pubblico di Manhattan, in quell’ultimo piccolo rialzo di Wall Street di inizio 1930 – tra il Big Crash di un tragico martedì di fine ottobre e il lungo tracollo degli anni a venire – si rivede sul palco, incrociando gli sguardi, senza maschere, materialmente indossate o quotidianamente interpretate. Il simboleggiare – che è mettere assieme, far corrispondere e coincidere – del bozzetto di Ferriss lega indissolubile il kosmos dell’oggi con il paradigma del rito notturno e infero di rinnovamento antico e necessario, il declino della società e la sua resurrezione. Nel buio de “l’Olimpo dell’eleganza frivola”, il teatro è il luogo in cui “le società si esprimono nei loro spettacoli, e gli spettacoli ricreano il legame sociale”, e il gioco di sguardi tra il pubblico tramuta, ancora oggi come nella drammaturgia greca, la “folla degli spettatori in un solo grande essere” (Starobinski [2006] 2008, 87, 89). Il dramma sociale, la rottura di una regola, trova così sul palco il proprio doppio culturale, sviluppando “una convergenza in modo che […] nei drammi estetici sia implicita la forma processuale dei drammi sociali e […] la retorica dei drammi sociali, e dunque la forma dell’argomentazione, sia tratta dalle performance culturali” (Turner [1982] 1986, 164).

Nel teatro come nel gioco “una realtà del mondo diviene […] realtà psichica, si accende […] quale idea del tutto convincente”, la sua presenza si amplifica e rapisce, divenendo “qualche cosa di ancor più presente”. Tra questo essere “severamente vincolato e arbitrariamente libero oscilla l’atmosfera festiva” che anima l’atto del “creare” contrapposto “al fare quotidiano”. E l’arte – l’arte di Graham, di Janssen, di Farrar, di Ferriss e della signorina Lewisohn – “non fa che fermare la festività di tale nascita” conferendo durata al momento festivo, elevandolo “a una festa fuori del tempo”. Tuttavia, “senza serio abbandono alla realtà, rappresentata nella festa con la parola e con l’azione, […] questa rappresentazione non diviene né creativa né festiva”. Solo insieme, la rappresentazione e la realtà “costituiscono il creare, costituiscono la festa” (Kerényi [1940] 1977, 46-47), “pericolosamente in bilico tra creazione e distruzione, diabolismo ed estasi” (Bragdon 1922, 182).

Così, quel baccanale a ritmo di jazz porta New York a osservare sé stessa, in un gioco di sguardi tra un palchetto e l’altro in raffinate mises da Grande Gatsby, “continuare a danzare senza udire più la musica” (Jesi [1973] 1977, 201) mentre, come nell’ultimo dipinto della Pinacoteca di Filostrato (II, 34, 2), “davanti alle porte del cielo […] stringendosi per mano” dà inizio a una nuova danza delle Ore.

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    V. Turner, Dal rito al teatro [From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, New York 1982], tr. it. di P. Capriolo, Bologna 1986.
English abstract

Werner Janssen's New Year's Eve in New York, a Neighborhood Playhouse production – three performances only – Feb. 20, 21, and 22, 1930, had an outstanding cast: Nikolai Sokoloff conducts The Cleveland Orchestra with Harold Bauer as piano solo; the ballets were led by Martha Graham and Charles Weidman. Ferriss' visionary charcoal drawings – developed by Thomas Farrar into a set design – epitomizes the life of the metropolis, its desires and lusts. Here, overwhelmed by the rush of an urban scale exorcism, the city lapses into an ancestral ritual, annihilating the very society conceiving it, reliving on New Year's Eve in the first age of the world. The frame evokes archaic gestures of an orgiastic parade among the bare skyscraper skeletons, where the Manhattan bourgeois audience watches itself represented on stage – a mise en abîme in-between drawing, play, and reality.

keywords | New Year's Eve; Manhattan; Setting; Skyscraper; Crowd; Ferriss.

Per citare questo articolo / To cite this article: A.Canevari, New York 1929, New Year’s Eve. Bozzetto per una scenografia ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 167-176 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0055