"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

La potenza dell’effimero

Architetture festive e contesto urbano nella Roma secentesca

Flavia Zelli

English abstract
Introduzione

L’atteggiamento nei confronti delle immagini non è sempre stato univoco, tutt’altro. La loro forza icastica è stata assimilata e utilizzata dagli uomini in modo multiforme nei secoli, soprattutto se relazionata all’autocoscienza religiosa: “dall’approccio magico demonico alla pura contemplazione estetica” (Warburg [1923] 1998, 102). Vi è stato però un periodo in cui questi due estremi atteggiamenti si sono fusi in uno solo, assegnando alle immagini il ruolo di veicolo di informazioni filosofiche, religiose o sociali, trasmesse in forma allegorica attraverso il fenomeno che maggiormente lo ha contraddistinto, ovvero quello della festa. É ciò che accade a Roma durante il Barocco, con il bagaglio di macchine e allestimenti effimeri che lo ha caratterizzato, segnando un’epoca e ponendosi come fondamentale luogo di sperimentazione di future architetture stabili. Allo stesso modo, i suddetti apparati hanno instaurato una relazione particolarmente feconda con la città: ogni occasione festiva, sacra o profana che fosse, veniva sempre pensata in relazione ad uno specifico spazio fisico, da cui ricevere gli input iniziali ma anche da modificare con la propria presenza, in un dialogo costante senza il quale non avrebbero avuto la stessa risonanza, soprattutto per la particolare valenza ideologica, politica e sociale legata ad ogni singolo luogo.

Obiettivo di questo lavoro è evidenziare come proprio attraverso la festa, forma simbolica del Barocco nonché “autentico tessuto connettivo e forse la vera immagine strutturale di quel fenomeno nella sua globalità” (Fagiolo dell’Arco, Carandini 1978), le architetture effimere ad essa connesse abbiano modificato profondamente la città stessa, quinta privilegiata in cui i dispositivi festivi venivano inscenati e di cui sono poi diventati parte integrante.

Molto spesso, le difficoltà di comprensione di una determinata fase storica e delle sue opere sono imputabili all’estraneità delle tematiche, di cui non siamo più in grado di percepire la forza immaginativa ed il significato, poiché realizzate per essere lette con il bagaglio culturale di un’altra epoca. Emblematica, in tal senso, un’affermazione di John Livingstone Lowes:

Una delle ironie ineluttabili del tempo è il fatto che le creature dell’immaginazione, le quali non appartengono ad alcuna epoca e allo stesso tempo sono fatte per tutte le epoche, debbano tuttavia pensare e parlare e agire in termini e modi che sono tanto transitori quanto esse stesse sono permanenti. Il loro mondo (…) diventa strano e antiquato nel corso di poche generazioni e prima di poter essere letto deve essere decifrato (Wind [1963]1997, 90).

È quanto accade nel caso del cosiddetto ‘Barocco’, il cui termine stesso contiene, sin dall’etimo, un’intrinseca accezione negativa, fondamentalmente ascrivibile al suo essere stato in armonia profonda con la sensibilità della propria epoca e dunque espressione di un certo ordine religioso, sociale e politico; quando questo ordine si è indebolito, l’arte che ne era la diretta emanazione – e di cui l’occasione festiva rappresenta la sintesi primaria – ha cessato di essere comprensibile. Senza volerci addentrare nella questione, ci limiteremo a circoscrivere il contesto storico e dottrinale del Barocco, in cui il fenomeno festa e l’architettura effimera si realizzano, in modo da recuperarne le conoscenze contingenti per poter meglio capire accenti, modulazioni e corrispondenze di tali opere nella città: in una parola, il suo senso stesso, poiché non si può prescindere dal Barocco e dalla sua produzione, se si vuole comprendere Roma.

Filippo Gagliardi e Filippo Lauri, Giostra dei Caroselli, 1656-1659, olio su tela, Roma, Museo di Palazzo Braschi.

Roma barocca, Barocco romano. Contesto culturale

I secoli XVII e il XVIII sono stati determinanti per la futura immagine della città. In proposito, Olivier de la Brosse, citando J. Maury e R. Percheron, affermava:

Bisogna amare il barocco, o rinunciare a vivere a Roma. Questa forma d’arte, è stato detto, costituisce in effetti il vero classico di Roma. Se si rinuncia a penetrare nel suo spirito, ci si mette al tempo stesso nell’impossibilità di assaporare l’insieme dello scenario urbano, il tracciato delle strade e delle piazze, la fisionomia delle fontane, la facciata dei palazzi e naturalmente delle chiese. Si rinuncia a scoprire ciò che costituisce l'anima stessa della città ecclesiastica e profana […]. (De La Brosse [1979] 1997).

Il domenicano riesce, in questo brevissimo ma efficace paragrafo, a riassumere come lo spirito barocco definisca l’attuale conformazione della città, cui non a caso si rivolge con la terminologia teatrale di ‘scenario’ urbano, lungamente usata in relazione alla metafora barocca di Roma ecclesiastica e profana gran teatro del mondo. Nella prima metà del Seicento la città si presenta piena di contraddizioni e dualità: nonostante il progressivo impoverimento della vita civile e politica, infatti, resta pur sempre ‘Belvedere d’Europa’, nodo viario e centro di notizie, città cosmopolita e officina della Controriforma; allo stesso modo, seppure reduce dalle ingenti trasformazioni urbanistiche durante il pontificato di Sisto V, è comunque una città disaggregata, scomoda, difficilmente fruibile dai viaggiatori, oltre che economicamente destrutturata. Eppure non esita ad investire tutte le proprie risorse nell’occasione festiva, ostentando un tenore sfarzoso e ossessivo, quasi fosse completamente assorbita nella dimensione del rito e dello spettacolo.

Da un punto di vista sia politico che religioso – spesso nel Seicento i due termini si confondono – siamo nel contesto di una Controriforma riuscita, un momento di forte crescita e rinnovamento della funzione politico-religiosa cui anche l’urbanistica e l’architettura rispondono, non più come immagine dell’equilibrio provvidenziale del creato cinquecentesca, ma come lo strumento della devozione collettiva che impetra dal basso. Non bisogna dimenticare, a riguardo, che la devozione dell’epoca più che nell’estasi si realizza nell’orazione, secondo gli Esercizi spirituali promulgati da Sant’Ignazio, in cui svolge un ruolo fondamentale la disposizione dei luoghi, poiché colui che prega deve sforzarsi di visualizzare gli elementi della scena evangelica cui si riferisce. Lo scopo ultimo dell’architettura, dunque, si evolve rispetto al secolo precedente, poiché la stessa necessità di determinare la figura di Roma in quanto luogo ecumenico ed immagine della potestà divina si secolarizza, in relazione al ruolo politico della Chiesa che – reduce dal conflitto sul dogma – punta alla persuasione delle masse. Conseguenza irrimediabile, in termini artistici, è che non si parli più di ispirazione, bensì di immaginazione, ma un’immaginazione aristotelica, autonoma e primaria, il cui prodotto è in grado di riempire la coscienza, senza lasciare spazio alcuno alla riflessione e al giudizio. In tal senso, la salvezza è l’immaginare stesso, cui l’arte – insieme prodotto e stimolo – deve persuadere, in una funzione liberatoria che prefigura l’ideologia, giustificando il suo rapporto con la città e con lo Stato.

Roma, città di Dio, modello della città-capitale, diviene città ideologica, immaginaria e immaginata, che si magnifica legando la manifestazione sensibile della propria autorità alla spettacolarità della storia (i monumenti antichi, presenza materiale del classico) e della natura (l’acqua, i giardini). In un’ottica di questo tipo, emerge come non abbia più senso distinguere tra spazio reale e spazio illusorio, architettura costruita e apparato scenico, poiché essendo tutti elementi della percezione rientrano parimenti e a pieno titolo nella fenomenica dell’immaginazione, libera di muoversi nel tempo e nello spazio; uno spazio dinamico, tra continuità e progressione, in cui il cittadino/spettatore che ne vuole prendere possesso deve muoversi e diventare attore, operando un traslato in scala architettonica degli artifici della scenografia. Non a caso la piazza, luogo di ritrovo in cui l’unificazione si verifica attraverso il dinamismo, diviene l’elemento urbanistico dominante; così come la cerimonia, tramutata in festa, è l’occasione in cui sintetizzare e mettere in atto le precise intenzionalità del secolo.

La festa, macchina di persuasione retorica

In un contesto del genere, la festa costituisce un momento topico per la città nonché un’esperienza irrinunciabile nella vita dell’individuo, per il quale è non solo momento di allegrezza, ma anche di riflessione e scelta, con le sue implicazioni politiche, in relazione alle quali assume valenze essenzialmente propagandistiche. La festa, infatti, dispiega i propri apparati in luoghi abituali, lungo percorsi che ricalcano i principali assi viari della città, su cui negli improvvisi spazi liberi delle piazze si aprono fabbriche più complesse, momenti di sosta del flusso processionale nei quali lo spettacolo si produce in una cornice fissa. La forza espressiva degli allestimenti si pone lo scopo di segnalare il potere del committente – Papa, nazione o famiglia che sia – veicolando concetti presso il popolo attraverso la loro trasposizione allegorica, metodo cui neanche la Chiesa si sottrae: gli esercizi spirituali della quaresima, la predicazione pubblica, le processioni popolari sono tutte occasioni di regie sofisticate che utilizzano ogni risorsa del movimento e dello scenario.

Tali occasioni dimostrano come – attraverso un dispiegamento di musiche, rappresentazioni, fuochi e macchine – si persegua la meraviglia, in un rapporto globale con il pubblico tutto basato sull’immagine e al fine di persuadere. Lo spettacolo festivo diventa, in tal senso, richiamo di popolo, principale momento di aggregazione sociale ed efficace strumento di diffusione ideologica. Per questi stessi motivi è usato indistintamente e con i medesimi mezzi dal potere sia civile che religioso, fino a confondere e a non permettere più l’intelligibilità delle occasioni attraverso l’utilizzo delle stesse categorie percettive, delle stesse articolazioni sociali e infine degli stessi comportamenti espressivi.

Da una parte, dunque, l’utopia controriformistica di risacralizzazione globale della vita umana; dall’altra la formalizzazione barocca della vita come Gran Teatro: la festa quindi come tempo della Chiesa – nel progetto didattico gesuita, pienamente consapevole delle potenzialità eversive del carnevale – e come tempo dello spettacolo, in relazione agli avvenimenti della politica e della religione e all’ideologia culturale di un’aristocrazia al potere. Non bisogna dimenticare, infatti, come ogni spazio cittadino sia segnato da specifiche valenze politiche, ideologiche e storiche perfettamente rispettate dalle cerimonie che, realizzando il loro percorso, sovrappongono a Roma il tracciato di una città ideologica in cui traspaiono con evidenza anche i conflitti di potere e le istanze propagandistiche. Si pensi, ad esempio, al valore di Trinità dei Monti per le nazioni rivali di Spagna e Francia, o a quanto significhi il Campidoglio nella cavalcata per il possesso papale.

La città, attrice sulla propria stessa scena

Nel XVII secolo Roma si presenta dunque al visitatore straniero come una città totalmente assorbita nei luoghi e nei ritmi del rito festivo, costume riconosciuto sin dai cronisti coevi come una peculiarità della vita cittadina, di cui individuano la portata secondo una precoce coscienza, per merito della quale è attualmente possibile attenersi ad una ricchissima documentazione di riferimento, per lo più relazioni e disegni degli stessi autori alla regia dell’evento (Fagiolo dell’Arco, Carandini 1978).

Analizzandone gli elaborati si rileva come uno dei segni caratteriali dell’allestimento festivo sia la ridondanza, una moltiplicazione degli elementi – anche in funzione allegorica – cui si affianca una concezione architettonica intesa come organismo nello spazio urbano sul quale si inserisce, trasformandolo. In un grandioso tentativo di razionalizzazione nel XVII secolo alla città antica si sovrappongono i nuovi quartieri e le chiese dei nuovi ordini; così come nuovi percorsi viari in cui vengono pensati particolari poli prospettici. È l’ideale urbanistico di Sisto V, che si perfeziona per l’Anno Santo del 1600, immagine che stampe e piante riproducono e diffondono in tutto il mondo e matrice su cui si svilupperanno gli interventi dell’architettura barocca, completando la scenografia della città. La festa dispiega i propri apparati, rendendo piazze, ruderi ed edifici la quinta scenica di un immenso teatro – del resto già connotato con elementi dalle forti valenze ideologiche e allegoriche – su cui prospettare soluzioni inedite, inventando ulteriori schemi spaziali e figurazioni plastiche: nata per la città, la festa effimera lascia tracce evidenti nello spazio della stessa.

Questi interventi, infatti, ne modificano la struttura, anticipando ulteriori sviluppi urbani in un rapporto di reciproche quanto feconde suggestioni tra spazio della festa e spazio cittadino, cosicché le soluzioni scenografiche e le invenzioni spettacolari della festa si sviluppano a partire dalla struttura del luogo e dalla sua storia, ma allo stesso tempo le esigenze dello spettacolo ne condizionano l’assetto.

In tal senso, le strutture effimere possono di volta in volta operare collegamenti ottici lungo il percorso viario, delineare in una piazza uno spazio scenico unitario o recintare aree per giochi con palchi e tribune per il pubblico e non è detto che questi interventi non lascino un’impronta nell’immagine della città, che può riproporsi anche a distanza di secoli. Le fontane, ad esempio, sono quasi sempre collegate al valore dell’effimero (se non di diretta derivazione, come nel celebre caso della fontana dei fiumi a piazza Navona) così come gli obelischi, realizzati con precisi significati simbolici e poi lasciati in situ.

Del resto tali occasioni si sono sempre più configurate come luogo privilegiato della ricerca architettonica, in cui sperimentare nuove soluzioni realizzando giganteschi modelli di studio in scala reale; non è un caso che il ricordo visivo e strutturale della festa sia rimasto vivo nell’opera stabile di molti architetti che per essa hanno lavorato. Per riportare un’unica architettura realizzata secondo una concezione da festa effimera, a titolo esemplificativo si può citare il caso di Sant’Andrea al Quirinale, la cui organizzazione diventa comprensibile se letta come macchina di persuasione retorica gesuita, in cui la fede è espressa nello spazio-tempo dell’effimero e rivolta ad uno spettatore attivo.

Conclusioni. L’esempio di Piazza del Popolo

Alla luce di queste considerazioni, appare evidente quanto la realtà culturale seicentesca si configuri come volontà di rappresentazione, in cui interagiscono quattro fondamentali fattori: gli attori protagonisti delle sfilate; gli spettatori; gli apparati provvisori e infine la città reale, reinterpretata attraverso il confronto con la città effimera. In tal modo la storia delle feste, nella Roma dell’età moderna, si interseca indissolubilmente con la storia dell’architettura e con la storia urbana. Sarebbe difficile, ad esempio, comprendere le sistemazioni berniniane di piazza Navona, piazza San Pietro o ponte Sant’Angelo senza conoscere le idee e le innovazioni effimere a questi stessi spazi legate.

Lo stesso si può dire per Piazza del Popolo, caso esemplare per il tema dell’interdipendenza tra teatro, architettura e città, dimostrazione di un itinerario mentale che identifica l’idea di Roma con la sua apparenza teatrale. Il suo attuale assetto, infatti, pur costituitosi definitivamente nell’Ottocento, rintraccia la propria matrice nella configurazione secentesca della piazza in quanto frons Romae, vera e propria anteporta della città barocca. Non è un caso, fa notare Marcello Fagiolo, che vi siano presenti fin dal principio gli elementi della Rometta a Tivoli – ovvero obelisco, templi che alludono ai sette colli e cinta muraria – che Pirro Ligorio utilizza per identificare Villa d’Este come scena di Roma (Fagiolo 1982).

A partire dal Quattrocento la piazza, oltre a trasformarsi in teatro del carnevale da cui assistere alla partenza dei cavalli barberi verso il Corso, è considerata ingresso monumentale alla città per quanti vi giungano da nord, sino ad essere considerata – per molti secoli a venire – il più importante snodo urbano, pendant civile di Piazza San Pietro. Questa sua vocazione di accesso trionfale ha fatto sì che nei secoli subisse tutta una serie di interventi mirati a configurarla architettonicamente in tal senso, secondo una morfologia in forte debito proprio con le sperimentazioni secentesche: celebre, a riguardo, il caso dell’allestimento effimero di Porta del Popolo, realizzato da Bernini per l’ingresso di Cristina di Svezia sotto il pontificato di Alessandro VII (1655) e poi trasformato in opera duratura, con tutto il suo apparato iconografico. Praticamente coevo l’intervento dell’architetto in Santa Maria del Popolo che – affiancato alla Porta e posto in sintonia con la stessa – è quasi programmaticamente effimero nell’utilizzo di singoli elementi potenzialmente removibili (quali timpani, festoni e coronamento) per correggerela facciata della chiesa, così come all’interno privilegia materiali propri della festa (stucchi e legno).

Lo stesso Bernini partecipa alla sistemazione della piazza con le fronti templari e le cupole gemelle di Santa Maria in Montesanto (1669-1675) e Santa Maria dei Miracoli (1972-1975), concependo le due chiese come propilei della città, in una forma simbolica che fonde antico e moderno, Pantheon e San Pietro. Del resto, vi era un rimando alla concezione effimera teatrale anche dietro il primo progetto per questo spazio, per il quale Carlo Rainaldi aveva ipotizzato facciate di case al posto delle chiese (1655): la matrice di questa scelta compositiva è infatti rintracciabile in un disegno scenico di dieci anni prima, inerente la scena del Teatro Olimpico, ad opera di Giacomo Torelli.

Questi stessi propilei verranno poi significativamente completati più volte nell’Ottocento con archi trionfali, traduzione in forma effimera dell’idea della piazza come frontespizio, scena simbolica di Roma. Parallelamente, verranno intuite anche le vere potenzialità teatrali della piazza, ad opera di Valadier che – in rimando ai palchi allestiti durante il carnevale – dopo vicende alterne la configura nel suo aspetto definitivo, pietrificando con le esedre gemelle la sua vocazione ad anfiteatro, teatro laico contrapposto al colonnato beniniano di San Pietro, teatro dell’Urbe e dell’Orbe.

Riferimenti bibliografici
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English abstract

The iconic power of images has been assimilated and utilised by men in a multiplicity of manners over the centuries, especially when related to religious self-consciousness. In Rome, during the Baroque period, two extreme attitudes merged into one, and images became vehicles of philosophical, religious or social information, transmitted in allegorical form through its most unique phenomenon, the festival. The wealth of scenic machines and ephemeral displays characterised it, marking an epoch and serving as a fundamental place for architectural experimentation. These apparatuses established a particularly fruitful relationship with the city: every festive occasion, whether sacred or profane, was always place-specific. The aim of this work is to highlight how ephemeral architectures profoundly modified the city itself, the privileged backdrop in which those festive devices were staged, sometimes as prodromic episodes of more permanent structures. 

keywords | Baroque Rome; Urban festival; Ephemeral architecture.

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Zelli, La potenza dell’effimero. Architetture festive e contesto urbano nella Roma secentesca. ”La rivista di Engramma” n.200, v.2, marzo 2023, pp. 373-380 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0065