"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Il Mediterraneo tra III e IV secolo d.C. e la danza delle culture incrociate

Racconti e immagini nelle Etiopiche di Eliodoro

Anna Beltrametti

English abstract

Pieter Paul Rubens, I quattro continenti o I fiumi del Paradiso (dettaglio), olio su tela, 1615, Wien, Kunsthistorische Museum.

Un cerchio di ebano “macchia” la pelle d’avorio, il riconoscimento 

Il re d’Etiopia Idaspe, vincitore dei Persiani nella battaglia di Siene, sta tornando nella sua isola-capitale Meroe, accolto come un dio dai sudditi che hanno attraversato il fiume per andargli incontro. Sullo sfondo Persinna, la regina, attende il suo sposo protetta sotto il portico del tempio. Poco più oltre, ai bordi del prato sacro, i sacerdoti, i Gimnosofisti, hanno predisposto un sistema di tende e di padiglioni dove hanno posato una piattaforma bassa per i loro seggi, ai piedi di un alto piedistallo sormontato dalle immagini degli dèi e degli eroi progenitori. Intorno a loro, disposta in cerchio, una falange di opliti appoggiati agli scudi delimita lo spazio religioso e tiene lontana la folla (Eliodoro, Etiopiche 10. 6).

Il racconto si arresta per costruire una vera e propria scenografia, teatrale e liturgica al contempo, in cui si compirà lo scioglimento dell’intreccio ampio e complesso del romanzo. La scena è pronta per il riconoscimento, anagnorisis, a lungo promesso e rinviato che riporterà Cariclea, l’eroina protagonista insieme con Teagene, il suo innamorato e promesso sposo tessalo, in seno alla propria famiglia, tra le braccia della regina sua madre, immediatamente persuasa e travolta dalla riscoperta della figlia, e del re suo padre, più a lungo diffidente nei confronti della giovane donna dalla pelle bianca, dall’incarnato luminoso, estraneo al popolo degli Etiopi, ἀπρόσφυλον Αἰθιόπων χροιὰν ἀπαυγάζουσα. Così, di estraneità, aveva scritto Persinna al momento di dover esporre la bambina per non essere accusata di adulterio, ricamando in caratteri etiopici regali la storia del suo meraviglioso concepimento sulla fascia che con altri oggetti doveva accompagnare sua figlia e consentirne il riconoscimento (4.8); così, ancora sottolineando l’estraneità della pelle candida al popolo etiope, πρὸς γάρ τοῖς ἄλλοις καὶ χροιᾷ ξένῃ τῆς Αθιοπίδος λαμπρύνῃ, si esprime Idaspe, diffidando dell’identità della giovane donna anche dopo il riconoscimento degli altri gnorismata, compreso l’anello con il sigillo regale donato a Persinna per il fidanzamento (10.14), che ha incastonata la pietra magica, la pantarbe. La breve descrizione della pantarbe e dei suoi poteri segreti si devono al ricamo di Persinna sulla fascia preparata per Cariclea (4.8) e, nel romanzo, la pietra preserva Cariclea dall’incendio appiccato per vendetta dalla persiana Arsace (8.9-11). Filostrato attribuisce alla pantarbe la proprietà magnetica di attrarre, dentro l’acqua, tutte le altre pietre disperse (Vita di Apollonio 3.46).

La lunga scena del riconoscimento al cuore dell’ultimo libro (10. 8-16) è costruita dal narratore con la vividezza, secondo il principio retorico dell’enárgeia, di una scena teatrale giocata su oggetti sorprendenti e preziosi: la graticola di sbarrette d’oro, χρυσοῖς ὀβελίσκοις τῆς ἐσχάρας διαπεπλεγμένης (10.8) per la prova del fuoco a cui saranno sottoposti i due giovani innamorati per saggiare la loro verginità (parthenia) e destinarli, se puri (kátharoi), ai sacrifici tradizionali prescritti dalla legge; le vesti d’oro e di porpora indossate da Cariclea per la prova del fuoco; il quadro di Andromeda. Una scena drammatizzata grazie ai dialoghi efficaci tra il re e la regina e tra il re e il sommo sacerdote, nell’incombenza del sacrificio degli innocenti, motivo tragico per eccellenza. Una scena costruita in parte sul modulo drammaturgico ben collaudato del processo, intentato da Cariclea contro il re davanti ai sacerdoti nel ruolo di giudici (10.10) e commentato dal re Idaspe come un menzognero colpo di teatro (10.12: ὥσπερ ἐπὶ σκηνῆς), una messa in scena, una trovata buona per sfuggire alla morte.

“Ogni causa, ogni processo – sosteneva Cariclea – ammette due tipi fondamentali di prove, i documenti scritti e le affermazioni dei testimoni: produrrò le une e le altre per dimostrare che sono vostra figlia, chiamando a testimone non una persona qualsiasi, ma il nostro stesso giudice (scil. Sisimitre, l’autorevole capo del Collegio dei Gimnosofisti), inoltre presenterò questo scritto che narra la mia storia e la vostra”. Così dicendo tirò fuori la fascia che era stata esposta con lei e che ora lei portava intorno alla vita. La svolse, la consegnò a Persinna che rimase attonita, tremava tutta e grondava sudore: felice di aver ritrovato sua figlia, temeva i sospetti e la diffidenza di Idaspe […]. Idaspe prese la fascia, fece venire i Gimnosofisti e li invitò a leggere insieme con lui. Poi cominciò a scorrere lo scritto e grande fu la sua meraviglia, vedendo che anche Sisimitre era molto turbato […]. Alla fine quando venne a conoscenza dell’esposizione della bambina e del motivo per cui era stata esposta, Idaspe dichiarò: “Che un tempo mi fosse nata una figlia, lo so ed ero stato informato che era morta, ora apprendo che fu esposta”. […] Sisimitre allora replicò: “Colui che ha raccolto la bambina esposta, che la ha allevata di nascosto e poi portata in Egitto, quando mi inviasti là come ambasciatore, sono io […]. Riconosco la fascia che è scritta, come puoi vedere, in caratteri regali etiopici e tu, meglio di chiunque altro puoi riconoscere che essi sono stati ricamati dalla mano di Persinna. Ma vi erano anche altri segni di riconoscimento [γνωρίσματα], che io affidai all’uomo che prese in consegna la bambina, un greco, una persona per bene” […]. “Bianca – continuò Sisimitre – era anche la bambina che raccolsi allora […]. Per la difficoltà [ἀπορία], costituita dal colore della pelle, la fascia [ταινία], ti dà la soluzione: in essa Persinna ammette di avere preso immagini e somiglianze essendosi fissata con lo sguardo su Andromeda mentre si univa a te. Se poi vuoi altre conferme, il modello [τὸ ἀρχέτυπον], è qui disponibile. Guarda Andromeda identica nel dipinto e nella ragazza”. I servi, ricevuto l’ordine, portarono il quadro e lo misero di fronte a Cariclea […]. Idaspe non poté più avere dubbi e rimase a lungo bloccato dalla gioia e dallo stupore. “Resta ancora una cosa – disse allora Sisimitre – si tratta del regno, della successione legittima e, prima di tutto, della verità. Tu, ragazza, scopri il braccio: era segnato da una macchia scura sopra il gomito [μέλανι σπίλωματι τὸ ὑπὲρ πῆχυν ἐσπίλωτο] […]. Subito Cariclea denudò il braccio sinistro e vi era un segno, come un cerchio di ebano che macchiava il braccio d’avorio [ὥσπερ ἔβενος περίδρομοςἐλέφαντα τὸν βραχίονα μιαίνων]. (10. 12-15).

La scena, magnificamente articolata e inserita alla fine del romanzo, è il pregiato punto di arrivo di quel percorso di riconoscimento lanciato dal racconto del vecchio sacerdote egiziano Calasiri al giovane greco Cnemone, ospiti entrambi del mercante greco Nausicle nel villaggio di Chemmi (2.22): un racconto protratto, anche per le continue insistenze del giovane uditore affascinato dal narrare del vecchio, una storia ricca di informazioni e di sapienza antica appresa non solo in Egitto, ma anche presso Delfi (2.26) e presso gli Etiopi (4.12), straripante di incontri, di sogni, di premonizioni (2.21- 5.1), una narrazione a incastri che si alimenta incorporando via via anche le confidenze del sacerdote greco Caricle incontrato a Delfi, il padre putativo della fanciulla di straordinaria bellezza avuta in consegna durante un viaggio in Egitto, con la dote di una fascia ricamata e preziosi gioielli, da un giovane di aspetto nobile, dallo sguardo intelligente e di pelle nera, il gimnosofista etiope Sisimitre (2.29-2.39). 

Due motivi, entrambi sconfinanti nel sovrannaturale o nel meraviglioso, entrambi di ampia diffusione e di lunga durata nell’immaginario greco, sostengono la scena del riconoscimento dopo essere stati introdotti con sofisticata consapevolezza letteraria e figurativa dal narratore con la prima descrizione-lettura della fascia istoriata riportata da Calasiri a Cnemone (4.8): l’estraneità, l’alterità della bambina dalla pelle d’avorio rispetto al popolo etiope di pelle nera nel racconto di sua madre Persinna è ricondotta alla nascita prodigiosa per doppia fecondazione, biologica e culturale, e al potere magico delle immagini. I due motivi, tra loro intrecciati, dovevano essere forti e seducenti sia per lettori più semplici in cerca di avventure in cui calarsi, sia per un pubblico ellenistico di lettori istruiti, pepaideumenoi, ma anche “angosciati” (Dodds 1970) da una circolazione “rivoluzionaria” di culture e di lingue (Brown 2001). Doppia fecondazione e sovraimpressioni delle immagini sul feto si ponevano all’incrocio tra esotismo e superstizione, tra ricerca biologica (la letteratura medica aveva affrontato casi di nascite prodigiose condizionate dall’osservazione delle immagini con  Galeno, con Sorano, che conferma la pratica anche nell’eugenetica animale, e con Oppiano nei Cinegetica) (Gourevitch 1987; Fermi 2014) e tradizioni mitiche, tra sempre aggiornate riflessioni sulla mimesis (Dionigi D’Alicarnasso, Peri mimeseos 6, porta l’esempio del marito brutto che invita la moglie a osservare manufatti belli) e l’interesse nuovo e totalizzante per le immagini. Quell’attenzione per l’arte figurativa che può considerarsi il tratto dominante della cultura imperiale durante e dopo la stagione cosiddetta della Seconda Sofistica, come confermano in II secolo Luciano, con la sua scrittura oltre che con le opere specificamente dedicate all’arte figurativa, e in III secolo la galleria delle Eikones descritta o forse costruita (Pucci 2010) da Filostrato.

Il racconto del riconoscimento di Cariclea e, in particolare, la scena risolutiva non passarono inosservati: il romanzo ebbe notevole fortuna in epoca bizantina e nel Rinascimento quando fu riecheggiato da Cervantes nel postumo Persiles y Sigismunda, mentre l’anomala figura di Cariclea fu ripresa da Tasso nel personaggio di Clorinda, la principessa etiope della Gerusalemme Liberata. Ma la scena del disvelamento di Cariclea, una Andromeda “macchiata” di ebano, nella ricchezza e nella ricercata economia del romanzo, non è che la punta più sporgente di una scrittura che esplora e pratica tutte le possibili e complicate interferenze tra parola, o racconto, e immagini, tutti i possibili punti di vista mobili o fissi, le differenti messe a fuoco, le immagini dipinte o scolpite che generano i racconti e i racconti dettagliati fino al punto di generare immagini in cui condensarsi, in una continua ricerca di effetti di reale per un verso e di forme in cui calare e rendere dicibile l’invisibile per l’altro.

Affacciandosi da un’altura

A dare la chiave di questo visibile narrare, in cui realtà e finzione si confondono, in cui invenzione letteraria e manufatti si sovrappongono, è la scena a tutti gli effetti cinematografica (Buehler 1976) con cui il romanzo si apre, un campo lungo che via via approda a una messa a fuoco sempre più ravvicinata dei due giovani protagonisti. Di Cariclea in particolare, un ritratto che mentre finge estremo realismo dichiara la sua dipendenza dall’immaginario: simile a una dea  – appare Cariclea ai predoni – dunque simile a un’idea e, come la critica non ha mancato di sottolineare, simile a un’idea greca, a un’Artemide in riposo, dunque un personaggio originato dall’ekphrasis di una statua o di statue tipiche replicanti lo stesso modello (Calsiri racconterà a Cnemone di aver saputo a Delfi dal racconto di Caricle che Cariclea si era consacrata ad Artemide, cfr. 2.33).

Stava appena sorgendo una ridente giornata e il sole illuminava con i suoi raggi le cime dei monti, quando uomini armati da predoni, affacciandosi da un’altura presso la bocca del Nilo chiamata Eracleotica, si fermarono e percorsero con lo sguardo il mare sottostante. Rivolti dapprima gli occhi al mare aperto, poiché non si annunciava ricco di prede, rivolsero lo sguardo alla spiaggia vicina. Era lì ormeggiata una nave da carico, priva di uomini, ma carica di merci: lo si poteva capire anche da lontano, perché il peso faceva salire l’acqua fino alla terza fascia della fiancata. La spiaggia brulicava di corpi umani appena uccisi, alcuni morti, altri ancora agonizzanti, altri con pezzi ancora palpitanti che dicevano di uno scontro appena concluso. Erano tracce non di una battaglia vera e propria, ma i miseri resti di un banchetto finito male…c’erano ancora tavole cariche di cibo…crateri rovesciati, caduti dalle mani di chi li aveva presi per bere o per servirsene da armi […] questo era lo spettacolo (theatron) che si presentava ai predoni che, osservando dall’altura, non potevano capire la scena (skene) […] e, pur non capendo l’accaduto, miravano al guadagno e al bottino e si lanciarono verso la nave […] si erano mossi da poco e poco lontano dalla nave e dai caduti si presenta lor uno spettacolo (theama) più strano dei presenti: una ragazza stava seduta su una roccia, di una bellezza irresistibile che sembrava una dea, soffriva per quello che era accaduto e tuttavia emanava un’aria nobile. Aveva sul capo una corona d’alloro e portava una faretra appesa alle spalle, col braccio sinistro reggeva l’arco mentre la mano giaceva abbandonata. Appoggiava il gomito dell’altro braccio sulla coscia destra con il volto abbandonato nel cavo della mano, teneva lo sguardo verso il basso e osservava il giovane che giaceva a terra. Questi era deturpato dalle ferite e sembrava riprendersi un poco da un sonno profondo, una specie di morte (1.1-2)

La scena del riconoscimento e quella dell’incipit forniscono un campionario delle intersezioni e delle interazioni tra racconti e immagini che meriterebbe per numerosità e qualità un’attenzione approfondita. Le descrizioni accostano oggetti rari e paesaggi, si ispirano a opere d’arte o a moduli artistici ricorrenti, come le rappresentazioni di Artemide; drammatizzano le immagini e le mettono in relazione, richiamando spesso esplicitamente a modello la forma teatrale, o le bloccano in forma di icone in cui comprimere le situazioni e il senso delle situazioni; selezionano, manipolano e tagliano le immagini più correnti, come accade a Persinna che, sulla fascia ricamata, racconta di aver fissato uno dei quadri con gli amori di Perseo e Andromeda che abbellivano la stanza da letto regale, non uno qualsiasi, ma quello che ritraeva Andromeda completamente nuda, mentre Perseo la faceva scendere dagli scogli (4.8). E l’elenco potrebbe continuare isolando altri passaggi del romanzo che esplicitamente o implicitamente sono costruiti come vere e proprie drammaturgie con richiami alla tragedia di V secolo – la vicenda di Cnemone ricalca con aggiunte piccanti e amplificazioni, quella dell’Ippolito euripideo – o alla religione, alle liturgie più fastose dei santuari – i giochi delfici in onore di Neottolemo con l’incontro di Cariclea e Teagene (2.34-3.6) come pure la preparazione del sacrificio finale, a Meroe, dei due giovani protagonisti al dio Sole e alla dea Luna, commentata con le diverse reazioni dei singoli e della folla e, ancora, l’aristia di Teagene, all’improvviso deciso a mostrare la propria eccellenza atletica e una natura eroica degna del suo antenato Achille (10. 28-30). Immagine dinamica è anche la scena della lotta che, coltivando lo stereotipo greco della forza bruta battuta dall’astuzia e dall’allenamento nei ginnasi, pone uno di fronte all’altro il gigante nero, un dono offerto dal nipote a Idaspe per la vittoria sui Persiani, e il bellissimo Teagene, (10. 31-32). Un’amplificazione narrativa, questa della lotta tra il nero informe e il bianco armonico, del motivo dei mirabilia che nello stesso contesto dei doni al re annovera piante rare, tessuti preziosi, oro e, infine, il camelopardo/giraffa, lo strano e meraviglioso animale descritto per dettagli alla maniera di Erodoto e, ancora alla maniera di Erodoto, ricondotto dal suo nome composto alla summa ibrida di due animali noti (10.27). Neppure i personaggi in questo romanzo sfuggono alla cura visiva o visionaria del narratore: alla bellezza assoluta incarnata da Cariclea e da Teagene si accostano le trasformazioni di Cnemone, prima assimilato ai Pastori-predoni dai capelli lunghi e incolti e poi, grazie a un opportuno taglio delle chiome, restituito alla civiltà (2.20-21); e ancora, a contraddire i frequenti richiami alla diversità tra i popoli, al colore della pelle e alla differenza delle lingue, quasi un’icona dell’assimilazione possibile, nel romanzo si staglia la figura di un vecchio dai capelli bianchi e lunghi, dalla barba folta e venerabile alla maniera dei sacerdoti, vestito alla greca, che si rivelerà a Cnemone per Calasiri, il sacerdote egiziano che era stato incaricato da Persinna di ritrovare sua figlia (4.12), che si era adoperato per riportare Cariclea, e con lei il suo amato Teagene, dalla Grecia all’Etiopia e che ora, dopo aver perduto le tracce dei suoi protetti, si trovava di nuovo in Egitto, a Chemmi, ospite nella casa del mercante greco Nausicle (2.21-22).

Il tempo che non ha fede in ciò che appare alla luce del giorno

Il romanzo greco non può prescindere dal gusto per le immagini imposto dalle alte scuole di retorica che obbligavano gli studenti a misurarsi nella costruzione dei loro discorsi con la forza iconica dell’arte. In III secolo il romanzo pastorale di Longo Sofista si avvia proprio con il tentativo del narratore di ἀντιγράψαι τῇ γραφῇ, di corrispondere con la scrittura al dipinto scoperto in una grotta delle Ninfe, nella campagna di Lesbo: un affresco di tema dionisiaco, una sorta di hieròs lógos che avrebbe potuto ispirare la vita e l’iniziazione dei due pastorelli o che, a posteriori, ne avrebbe riassunto la storia esemplare. Ancora prima, tra II e III secolo, Achille Tazio, forse il più antico scrittore di romanzi tra quelli a noi noti, si produce in ben quatto ekphráseis di dipinti a soggetto mitologico che fanno da sfondo alle vicende dei protagonisti, ora prefigurandole ora riassumendole (Setaioli 2014). Non sono gli stessi procedimenti né gli stessi meccanismi messi in opera nel romanzo di Eliodoro in cui alle immagini descritte si accostano, e con frequenza maggiore, le immagini generate dal racconto.

Qualcosa nell’uso narrativo delle immagini ricorrente nelle Etiopiche supera il gusto erudito proprio dell’epoca. Lo comprende bene Victor Stoichita. Pur limitando la sua analisi del romanzo al racconto istoriato sulla fascia (4.8) e alla lotta del nero e del bianco (10. 30-32), Stoichita coglie dietro l’impatto estetico delle immagini e dei loro simbolismi forti valenze culturali e politiche:

La confessione della regina […] ben oltre la funzione narrativa assume anche un valore particolare giacché svela il dramma di un incrocio incompleto, finto e fraudolento. Per una visuale moderna, l’interesse principale di questo romanzo risiede non tanto nell’apologia della contaminazione culturale, quanto nella storia del suo fallimento […], quel che all’inizio sembrava la storia di un semplice dubbio di paternità si è trasformata in una narrazione più complessa perché politica. L’accostamento tra la fanciulla e il quadro dà vita a uno spettacolo della rassomiglianza […] fa riferimento al rapporto tra apparenza ed essenza […]. Lo svelamento della macchia ne rappresenta il punto conclusivo […] Cariclea appare bella, bionda e bianca come un’eroina greca pur rimanendo segretamente ed essenzialmente nera […] la macchia d’ebano è un segno di filiazione e di regalità […] più che una favola di incroci di razze le Etiopiche sono una favola sulla colonizzazione culturale […] e il personaggio chiave di questo esito paradossale altro non è che Teagene […] sposo promesso della principessa etiope. Teagene affronta diverse prove, l’ultima e più difficile consiste nel combattere il gigante nero […] la descrizione del confronto torna a metter in scena due diverse maniere di concepire la sinergia tra corpo e mente […]. È così – in modo giusto e democratico, suggerisce il romanzo – che l’uomo greco diventa degno della principessa etiope e quindi anche del regno di Meroe. Si ha così l’impressione, alla fine, che il romanzo altro non sia che un’abile apologia dell’ellenismo e della sua dominante mascolinità mimetizzata in una narrazione simbolica, quella di un’avventurosa traversata del Mediterraneo e di una lenta risalita del Nilo verso l’impero nero dell’estremo Sud (Stoichita 2019, 57-66).

Stoichita coglie senza dubbio nel segno quando legge nel romanzo il tema dell’altro e della diffidenza che l’altro suscita. Fin dal primo incontro di Cariclea con i predoni d’Egitto, il candore di lei si oppone alla pelle scura di loro che vengono scambiati per fantasmi dell’oltretomba e non comprendono la sua lingua (1.2-3). Ma sull’alterità della lingua e della pelle, il romanzo fa prevalere situazioni e immagini di circolazione nelle due direzioni che non possono ridursi alla traversata da Nord a Sud del Mediterraneo e suggeriscono invece uno scambio abituale e costante, ora pacifico ora violento, incentrato sull’Egitto da sempre al cuore dell’immaginario greco, luogo di meraviglie e ponte tra Europa e Africa (2.28). E lascia percepire una reciprocità forse non di tutti, ma sicuramente dei sacerdoti, dunque dei sapienti, e dei mercanti. Anche degli dèi che si traducono gli uni negli altri: Apollo nel dio Sole e Artemide nella dea Luna. Il giovane Sisimitre era risalito con il ruolo di ambasciatore dall’Etiopia all’Egitto e lì aveva incontrato il sacerdote greco Caricle che venne poi raggiunto a Delfi dal sacerdote egiziano Calasiri e che, a sua volta e alla fine degli intrighi e delle lunghe peripezie alla ricerca della figlia perduta, si presenta vecchio e disperato alla corte etiopica riconosciuto con grande pathos da Sisimitre e da Cariclea (10. 34-38). I sacerdoti si intendono, conoscono più lingue e le parlano a seconda dell’occasione e degli interlocutori: il capo dei Gimnosofisti Sisimitre e come lui il re Idaspe parlano la lingua etiope quando vogliono essere compresi dalla folla, ma si esprimo in greco per le comunicazioni riservate (10. 9) e rivolgendosi a Teagene (10.31). Cnemone, fuggito da Atene, parla egiziano e il mercante greco Nausicle è la figura per eccellenza dell’erranza, dell’esperienza del mondo e degli uomini, dell’accoglienza che scaturisce dalla conoscenza (2.22).

Eliodoro proviene dalla città di Emisa, la stessa dell’imperatore Elagabalo che intorno al 220 l’aveva istituita a capitale della Siria Fenicia e a centro del culto del dio Sole. Proviene, Eliodoro, dall’epicentro dell’“angoscia”, l’anxiety di Dodds, che i movimenti e le trasformazioni del II e specialmente del III avevano provocato nelle provincie dell’impero in cui “la Siria insieme con l’Egitto fu teatro di uno dei passaggi essenziali dal mondo classico al mondo medievale” (Brown 1988, 116). Non può leggersi un’inequivocabile apologia dell’ellenismo nel romanzo di Eliodoro, nato in una famiglia sacerdotale legata al culto del Sole e approdato al ruolo di vescovo cristiano della città tessala di Tricca, inquietato dalla complessità del suo tempo, il IV secolo, che si coglie nella struttura, nei personaggi, nelle immagini e nella lingua ibrida del suo narrare. Quello che Stoichita crede di leggere nell’autorappresentazione della regina Persinna e nell’immagine del cerchio d’ebano sul braccio, il “fallimento della contaminazione” può invece essere inteso come la fine o la negazione dissimulata delle differenze. Il racconto e il macrosegno parlano piuttosto che di un’assimilazione mancata, di un’assimilazione compiuta sotto traccia, un mélange non sempre e non per tutti consapevole che ha mescolato il bianco al nero, il Nord e il Sud, l’Oriente indiano dell’ascetismo e l’Occidente del logos e dell’arte, pagani e cristiani, le culture e gli dèi, sconvolgendo l’immaginario dei popoli e consegnando individui e collettività a compensare la fragilità e il disorientamento nel sovrannaturale, all’ossessione per i sogni, gli oracoli, l’astrologia – componenti tutte molto presenti nel lungo raccontare di Calasiri a Cnemone – per tutto ciò che non si vede alla luce del sole, come ribadisce Dodds citando Eitrem e riferendosi ancora ai prodromi del II secolo di Elio Aristide e di Marco Aurelio (Dodds 1970, 45).

Aveva disarticolato, Eliodoro, l’impianto prevalentemente lineare della narrazione classica, moltiplicando i rami dei racconti e ricorrendo alle tecniche dell’incastro e della mise en abîme – il sacerdote egiziano cita, senza mai prenderne le distanze, il sacerdote delfico che riporta il discorso del sacerdote etiope – costruendo un romanzo a immagine della globalità, un melting pot in cui tutto si mescola e si fonde. Un racconto, le Etiopiche, un crogiolo di racconti e di immagini che una dopo l’altro destituiscono e rinnegano l’opposizione del bianco e del nero, anche la superiorità del bianco sul nero che a tratti sembra imporsi. E chi era poi Andromeda, l’antenata modello di Cariclea, se non un’antica principessa etiope dalla pelle bianca? E in origine era bianca, Andromeda, o fu sbiancata ad arte da chi lavorava i suoi miti?

Riferimenti bibliografici essenziali

L’edizione di riferimento per il romanzo di Eliodoro è: A. Colonna, Le Etiopiche di Eliodoro, traduzione e commento di F. Bevilacqua, Torino. Le traduzioni del testo riportate sono di F. Bevilacqua, con piccole modifiche.

  • Angelini 2012
    M. Angelini, Le meraviglie della generazione. Voglie materne, nascite straordinarie e imposture nella storia della cultura e del pensiero medico (secoli xv-xix), Milano-Udine 2012.
  • Brown [1976] 1988
    P. Brown, La società e il sacro nella tarda antichità [London, Berkeley 1976], tr. it. di L. Zella, Torino 1988.
  • Brown [1978] 2001
    P. Brown, Genesi della tarda antichità [Cambridge Massachusetts and London 1978], tr. it. di P. Guglielmotti e A. Taglia, Torino 2001.
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    W. Buehler, Das Element des Visuellen in dem Eingangsversen von Heliodors Aithiopika, “Wiener Studien” N.F. X, 177-185.
  • Colonna 1987
    A. Colonna (ed.), Le Etiopiche di Eliodoro, traduzione e commento di F. Bevilacqua, Torino 1987.
  • Dodds [1965] 1970
    E.R. Dodds, Pagani e Cristiani in un’epoca di angoscia. Aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, raccolta di quattro conferenze tenute alla Queen’s University di Belfast nel maggio del 1963, trad. it. di G. Lanata, Firenze 1970.
  • Fermi 2014
    D. Fermi, Questione di sguardi. Il caso di ‘impressione materna’ in Heliod. 4, 8, 5 e 10, 14, 7, “Quaderni Urbinati di Cultura Classica” n.s. 106/1, 165-179.
  • Gourevitch 1987
    D. Gourevitch, Se mettre à trois pour faire un bel enfant, ou l’imprégnation par le regard, “L’évolution psychiatrique” 52/2, 559-563.
  • Pucci 2010
    G. Pucci (ed), Filostrato Maggiore, La Pinacoteca, trad. di G. Lombardo, Palermo 2010.
  • Setaioli 2014
    A. Setaioli, Il mito nelle descrizioni di dipinti nel romanzo di Achille Tazio, in Aurelio Pérez Jiménez (ed.), Realidad, Fantasía, Interpretación, Funciones y Pervivencia del Mito Griego. Estudios en Honor del Profesor Carlos García Gual, Zaragoza, 535-552.
  • Stoichita [2014] 2019
    V. Stoichita, L’immagine dell’altro. Neri, giudei, musulmani e gitani nella pittura occidentale dell’età moderna [Paris 2014], a cura di L. Corrain, tr. it. di B. Sforza, Firenze 2019.
English abstract

Heliodorus’ narration is based on a complex play of subplots that undermines the linearity of the main story, multiplying scenes, figures and characters of extraordinary vividness. This continous overlapping of different stories and images exceeds substantially the poetics and aesthetics of the erudite ékphrasis typical of the Hellenistic-imperial Greek novel. Urging the reader to the theme of otherness from the color of the skin and the different languages spoken by the characters, the novel lands on the image of Cariclea, the Ethiopian princess with snow-white skin stained by an ebony circle on her arm, above the elbow. It is the macro-sign, the strongest among the other signs, through which Heliodorus expresses in words and images the world of the Mediterranean between the third and fourth centuries, an extraordinary, as well as fascinating and distressing, cultural mélange, where contamination operates under the play of apparent differences.

keywords | Heliodorus’s Aethiopika; Andromeda; Cariclea; Mediterranean Multiculturalism

Per citare questo articolo / To cite this article: A.Beltrametti, Il Mediterraneo tra III e IV secolo d.C. e la danza delle culture incrociate. Racconti e immagini nelle Etiopiche di Eliodoro. ”La rivista di Engramma” n.200, vol.1, marzo 2023, pp. 67-76 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0068