"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

“The more we study Art, the less we care for Nature”

La bellezza anarchica del Tardogotico: tre postille pisanelliane a una mostra

Fabrizio Lollini

English abstract

1 | Pisanello, Struttura architettonica in scorcio, ritratti di profilo verso sinistra di Gianfrancesco Gonzaga e Niccolò III Este, ritratto di Faustina maior di profilo verso destra, disegno a inchiostro bruno, tracce di carboncino, Paris, Musée du Louvre, département de Arts graphiques, RF 519r, ca. 1430-1435.

La citazione nel titolo è il parere di Vivian, uno dei due personaggi del saggio dialogico contro il realismo di Oscar Wilde, The Decay of Lying, contenuto nelle Intentions del 1891 (ne ha parlato di recente su questa rivista, ma in tutt’altro contesto, Scatasta 2021); e continua così:

What Art really reveals to us is Nature’s lack of design, her curious crudities, her extraordinary monotony, her absolutely unfinished condition. Nature has good intentions, of course, but, as Aristotle once said, she cannot carry them out. When I look at a landscape I cannot help seeing all its defects. It is fortunate for us, however, that Nature is so imperfect, as otherwise we should have no art at all. Art is our spirited protest, our gallant attempt to teach Nature her proper place. As for the infinite variety of Nature, that is a pure myth. It is not to be found in Nature herself. It resides in the imagination, or fancy, or cultivated blindness of the man who looks at her (Wilde ed. 2000a, p. 215).

Il concetto stesso di naturalismo, e/o di realismo, viene a costituire spesso, ancora ai nostri giorni e non solo nelle sedi di divulgazione, una sorta di dato valoriale assoluto – nel Medioevo non c’è, nel Rinascimento sì, compare già nel Tardogotico pur se in forma rapsodica (c’è nei singoli elementi, non nella visione generale), e quant’altro, assieme a ulteriori formule topiche più o meno sensate. Gli assunti di fondo – espliciti o impliciti – sono due. Una scala ascendente, magari soffusa e sottotraccia ma pur spesso presente, di tipo evolutivo vasariano rispetto a un supposto ‘progresso’; e l’idea che le forme convenzionali ordinate e razionali siano entità di maggiore vicinanza al reale perché confezionano di quest'ultimo una versione standardizzata e più comprensibile (almeno ai competenti), affidabile e replicabile. Ciò corrisponde a una sorta di versione laica – modellata sulla combinazione ragione/regola e non più sulle istanze spirituali – del Mind’s Eye medievale, in cui l’intelligibilità ricostruita del dato naturale prende il posto della visione anagogica per visibilia ad invisibilia, nel passaggio dall’età di mezzo alla nuova era moderna (sul tema della visione sovracorporea, cfr. almeno Kessler 2019, speciatim alle pp. XIV, 39, 94, 111, 208-209, 215, 227).

Un caso di studio emblematico in questo senso è senz’altro quello di Pisanello, che reinventa la medaglia all’antica operando un Rinascimento precoce e raffinato, ma si esprime nelle forme pittoriche in forme antitetiche rispetto a un Masaccio, o a un Domenico Veneziano: Painter to the Renaissance Court, per citare il sottotitolo della mostra londinese del 2001-02, nel quale – in un contesto geografico in cui la cronologia culturale è diversa dalla nostra – ‘rinascimentali’ sono le corti più che l'artista (Pisanello 2001). Il maestro (presuntivamente) veronese si sottoscrive in lettere epigrafiche romane di ottima qualità filologica nel bronzo delle medaglie, in un lettering invece suggestivo, definito talvolta gotico-fiammeggiante, e certo, come già notato, in stretto rapporto visivo con l’apparente naturalezza delle erbette lì presso (data anche la comunanza del pigmento impiegato), nella tavola di Londra (le più utili visioni globali su Pisanello sono Degenhart, Schmitt 1995; Pisanello 1996a; Pisanello 1996b; Pisanello 1998; Pisanello 2001; Degenhart, Schmitt 2004, per il corpus grafico; Centanni 2017, pp. 199-252, per il rapporto con l’Antico; Pisanello 2022 – tutte con amplissime bibliografie, l’ultima specificamente orientata sul dipinto murale pisanelliano del Palazzo Ducale dei Gonzaga; per l'Apparizione della Madonna col bambino ai santi Antonio abate e Giorgio alla National Gallery, cfr. ora la scheda III di L’Occaso in Pisanello 2022, 104-105, con bibliografia, tra cui cfr. almeno Pisanello 1996b, scheda 133, 224-226, Cordellier, Gordon 2003, 296-309, e Barreto 2013).

Mi pare che la recente  e bellissima mostra monografica di Mantova, e gli studi che sono stati condotti per l’occasione, abbiano evidenziato e ripreso tre punti su cui l'artista marca la distanza dai fondamenti normativi stessi della nuova tendenza, che, come noto, ben conosceva e studiava, come si vede nel disegno che copia l’Antico in versione second life del pulpito di Prato di Donatello (e Michelozzo), per dire (Milano, Biblioteca Ambrosiana, F 214 inf., c. 13v; cfr. Degenhart - Schmitt 2004, 139 n. 254, 155, 180, 208-209, 230, 236, 239-240, 272, 274, 289-290, 364, 366, 370-377 cat. 744v, figg. 196, 296, tav. 41; il disegno, più che probabilmente di bottega, è come noto ripreso alla lettera nell’edicola di presentazione del ritratto di Alessandro Magno nella copia di traduzioni latine delle vite plutarchee realizzata per Malatesta Novello di Cesena, alla c. 1r del ms. S.XV.1 della Malatestiana, da cui la mia proposta di riferimento autografo pisanelliano per questo ritratto e quello successivo di Giulio Cesare, data la loro palese superiorità formale rispetto ad altri reimpieghi, come quello nel foglio del breviario di Lionello della Houghton Library a Cambridge [Mass.], ms. Typ. 301, probabilissima opera di Matteo de' Pasti; cfr. Lollini 2009, 437-444).

Un atteggiamento che esibisce, sia scientemente che spontaneamente, una volontà artistica ricca di imagination; che non rifiuta ma semplicemente evita la regola; del tutto coerente con un’estetica del bello sensuale, della netta valorizzazione dei materiali, e della varietas, motivata dalla possibilità di chi produce arte di trascegliere ciò che più preferisce, fuori dalla monotony. E tra l’altro (siamo comunque già nel Quattrocento) senza più dover motivare questo con raffinate e complesse allusioni teologiche o filosofiche come nei secoli del pieno Medioevo: un momento breve di libertà in cui l’art è davvero quasi pour l’art – certo un gallant attempt.

1. Faustina la gotica

Lo stacco tra Tardogotico e Rinascimento rispetto alla conoscenza dell’Antico è come noto meno quantitativo che qualitativo. A parte i manufatti di architettura e scultura monumentale rimasti sempre visibili, ancora in pieno Quattrocento Grecia e Roma si conoscevano più grazie a frammenti, sacchetti di monete e di medaglie, qualche gemma lavorata: collezioni ricche erano tutto sommato rare, come dimostra quello che è noto dell'officina di Squarcione. Non solo poco Antico, ma anche random: lavori e personaggi di non eccelsa rilevanza formale o storica giungevano a essere celebri improvvisamente per recuperi casuali.

Non sappiamo quali tramiti precisi portarono la moglie di Antonino Pio, Faustina maior, a una fortuna improvvisa già nel XIV secolo. Un ruolo rilevante lo ebbe senz’altro Petrarca, che nelle postille alla sua copia della Historia Augusta, ms. Lat. 5826 della Bibliothèque nationale di Parigi, alla c. 8r, chiosa Aug. Pius, 5  “Uxorem Faustinam Augustam appellari a Senatu permisit”, con “Hac appellatione est Faustina maior, me penes, in auro, similiter et minor, sed eo amplius Pij Aug. fil.”, confermando il suo interesse e la sua perizia rispetto ai reperti numismatici antichi, come ribadito da Ciccuto (l’altra Faustina, sua figlia e moglie invece di Marco Aurelio, dunque appunto minor, viene come noto da lui citata in Trionfi, I, 102). Al di là di questioni di filologia storico-artistica che non voglio affrontare qui, e che interessano tra gli altri il rilievo col ritratto della Diva Faustina del ‘Maestro delle sculture di Viboldone’, della metà del XIV secolo o poco prima (con molta probabilità caratterizzato però ad personam solo a metà Quattrocento con l’attuale suo titulus scolpito nel busto), e la medaglia già riferita al ‘Medaglista degli imperatori’, poi accorpata al corpus del Filarete, sul 1445-50, questa figura femminile era sicuramente già celeberrima quando Pisanello la inserì in un suo foglio di disegni (fig. 1), al Louvre di Parigi (Cabinet des Dessins, RF 519r; sul disegno, cfr. ora la scheda XI, in Pisanello 2022, 120-121, M. Zibordi, con bibliografia, tra cui fondamentali Pisanello 1996b, scheda 70, 126-127, D. Cordellier, e Degenhart - Schmitt 2004, 121, 152, 180, fig. 96; per la nota di Petrarca e l’attitudine del protoumanista verso le medaglie e le monete antiche, Ciccuto, 204-206 e n. 5, e Ciccuto 2007, 167-168 e n. 5 – ma già de Nolhac 1907, 63-65; per il rilievo del maestro attivo a Viboldone, Giovanni da Milano 2008, scheda 4, 152-155, Cavazzini; Cavazzini 2015, 83-86; Arte lombarda 2015, scheda I. 16, 100-101, Cavazzini; Eccher 2017-18, 14, 141, 210, 214, 245-247; sulla questione Filarete / ex anonimo medaglista, cfr. Pollard 2007, 243-249, nello specifico per la Faustina maior cat. n. 229, 248-249). Dopo questa fase di transizione – che coinvolge anche Ghiberti – Faustina maior divenne poi un must della cultura classicista del pieno Rinascimento, come dimostra la nota vicenda del busto appartenuto a Mantegna e da lui venduto nel 1506 a Isabella d’Este: ma questo e altri sequel di una figura che diverrà iconica ed esemplare, anche a livello di abbigliamento e acconciatura, non sono qui pertinenti, e dunque non ne tratto.

Derivata con molta probabilità da una moneta, l’immagine pisanelliana è stata letta in funzione eventualmente progettuale di un manufatto numismatico o (a mio parere più probabilmente, nel caso) di un piccolo dipinto, che per l’artista poteva certo essere un bel cadeau prezioso da offrire in una delle corti per cui lavorò nel corso della sua carriera. Quello che qui interessa, però (come già notato), è che l’imago di Faustina è campita entro una struttura architettonica squisitamente e autenticamente gotica: una finestra ogivale ad arco polilobato, sostenuto da pilastrini compositi, sul cui parapetto Pisanello campisce un’altra sua firma (ciò che rende l’appunto visivo di ancor maggiore rilevanza), e in forme epigrafiche. A fianco, nella compulsione accumulativa tipica di questi strumenti di replicazione della realtà, che come noto sono morfemi riutilizzabili anche a distanza cronologica (più che disegni preparatori, quindi, di repertorio), i ritratti di Gianfrancesco Gonzaga e di Niccolò III Este, e una struttura architettonica in scorcio.

Nessun imbarazzo nel trapianto di un frammento di Antico in un contesto contemporaneo e alla moda, né scrupoli desunti da convenzioni filologiche: solo la volontà di fruire di tutti gli spunti visivi a disposizione. L’Antico come bacino di belle immagini autorevoli, da impiegare, lavorare e meticciare (dal disegno deriva forse pure l'imago femminile del citato foglio di Cambridge, ma senza l’intelaiatura gotica di presentazione), come la realtà naturale dei posteriori di cavalli o degli squisiti uccellini, o degli impiccati. Si vuole giocare proprio su quella varietas di forme e riferimenti culturali che i primi umanisti, appunto, gli attribuivano come eccelso complimento, in un postura mentale eclettica, in cui i volti dei potenti greci e romani (metafora stessa, e incarnazione, della classicità, e al contempo comodo veicolo dei desideri di autorappresentazione dei novelli Augusti del primo Quattrocento) si devono ampliare al busto, ciò che come noto crea spesso qualche discrasia. Davvero una felix medietas, come scrive Centanni nelle sue pagine fondamentali per capire l’estetica fluida di Pisanello, che copia rilievi e medaglie (e certo ne possedeva), rielabora motti ed emblemi, modella come detto firme autorevolmente epigrafiche, ma si compiace appunto di una «libera ricreazione dell'antico», non solo – forse – “favolosa in quanto non perfettamente depurata dalle incrostazioni medievali”, ma soprattutto gestibile come elemento autonomo e incrociabile con altri (Centanni 2017, 250 per la citazione, 219-222 sulle firme, 226-227 sull’allargamento del taglio visivo del ritratto).

2. Visione cinetica vs. visione statica

2 | Pisanello, Torneo al castello di re Brangoire (particolari), sinopia e pittura murale (non completata), Mantova, Palazzo Ducale, 1430-33.

Il bel saggio di Vincenzo Gheroldi e Sara Marazzani, nel catalogo della citata esposizione di Mantova, dopo aver scrutinato in modo esemplare la realtà tecnica e materiale del grande murale pisanelliano a raffinato tema cavalleresco – incentrato sulla figura di Bohort, personaggio del Lancelot du lac, e sul torneo al castello di re Brangoire – riscoperto in Palazzo Ducale cinquant’anni fa (figg. 2-3), che si presenta (al di là delle sezioni perdute) in differenti gradi di finitura nelle singole aree, si muove dall’oggetto al suo fruitore, e conclude che

Emerge l’immagine generale di un dipinto soggetto a sistemi di valutazione e di osservazione diversi dai nostri, nel quale la convergenza tra materiali lussuosi e lavorazioni estremamente elaborate costituiva uno dei principi fondanti della qualità artistica e le discontinuità ottiche e materiche producevano la finzione tattile delle raffigurazioni.

Poco dopo – e ovviamente si pensa subito ai ponteggi innalzati per la camera picta di Mantegna, in quello stesso palazzo (per una bella coincidenza, e comunque senza consapevolezza rispetto a questi temi, dalla parte specularmente opposta dell’edificio, nell’area del Castello di San Giorgio) – si sarebbero però palesate una scala di valori differenti, e soprattutto

l’incompatibilità fra il mutare dei riflessi causato dalle variazioni della luce e l’illusione ottica della nuova pittura prospettica. La luce, adesso, doveva essere uniforme. L’osservatore, immobile (Gheroldi, Marazzani 2022, 79 per entrambe le citazioni).

La prospettiva scientifica, proporzionata, a punto di fuga e di visione unico, basato su una visione monoculare e una proiezione piana e non convessa, costringe l’uomo in posizione statica,  anche se lo mette, come si dice, al centro dell’universo (giusto per citare un altro topos manualistico: in realtà questa costrizione monofocale e fissa in alcuni casi non soddisfa il Rinascimento, con episodi che arrivano fino al XVI secolo, così come potrebbe essere una delle concause della scelta di una visione più naturale nella pittura romana antica, che, a parere di non pochi studiosi, evitava la prima come chiave interpretativa globale pur avendone contezza). Le piccole tavole pisanelliane, così come i grandi dipinti parietali dell’artista, sono invece per l’occhio un esercizio ginnico, tra visione da distante per coglierne le elaborate pur se non bilanciate organizzazioni globali, e da vicino, per goderne i singoli dettagli, in un mondo che non soggiace a sistemi ottici fissi, in cui l’organo della vista è libero di perdersi e di vagare, proprio come l’intero corpo dello spettatore, che è predisposto a una percezione cinetica.

Quella stessa con cui l’arte medievale dei secoli precedenti determinava la narrativa pittorica o scultorea, in modi diversi. Facendo spostare il pubblico (spesso – ma non sempre – da sinistra verso destra, secondo il senso della scrittura), per seguire un racconto; o spingendolo a identificarsi con iconografie legate al movimento; o ancora inducendolo a girare fisicamente attorno a realtà tridimensionali, come nel caso delle arche-reliquiario dei santi, oppure (in area liminale tra esterno e interno) in quello dei trumeaux delle cattedrali gotiche (a puro titolo di esempio: Kessler 2019, 42, 44 fig. 25, 143-144, 224, a proposito dell’elemento centrale col Beau Dieu del portale maggiore della cattedrale di Amiens; Capriotti 2019 e 2020, sull’Ingresso di Cristo a Gerusalemme biduinesco di San Lorenzo al Frigido e sulla fruizione in movimento di Sant’Antimo; Lollini c.d.s., per il caso dell'arca di San Domenico a Bologna).

Lo faceva anche guidando il fruitore visivo nel percorso grazie a raffinati e complessi escamotages: con la disposizione delle posture dei soggetti, col flusso dello storytelling, o – appunto – con la stella polare dell’attenzione al cangiantismo vibrante degli effetti della luce esterna, reale (naturale o artificiale, diretta o indiretta, zenitale o tangente), e del loro mutare, modellati grazie all’impiego di smalti, vetri, specchiature di foglia metallica in oro e argento, e, insieme, degli effetti luministici invece intrinseci alla tecnica della pittura, e della scultura dipinta. In Pisanello anche la percezione cronologica è libera e anarchica, “irregolare”, per citare il titolo di un recente contributo di De Marchi:

La cosa più sorprendente del torneo illustrato da Pisanello è che non ha un luogo delimitato, si propaga in tutte le direzioni, e in esso regna apparentemente una caotica commistione, per cui si fatica a capire chi si stia battendo e contro chi, cavalcando alla lancia o nel corpo a corpo alla spada, chi si stia preparando, chi abbia già combattuto. Coesistono, par di capire, temporalità distinte, con un voluto effetto stordente (De Marchi 2022, 63).

Senza ovviamente avanzare confronti forzati con certe categorie oggi molto diffuse, siamo davanti a una sensibilità assai prossima alle aspettative della nostra contemporaneità, cui per molti versi – si pensi per esempio all’attenzione sinestetica che ci è ben nota nelle ekfraseis di questo tratto di tempo (seminale Baxandall 1994, 127-129, 132-139, 179) – il mondo tardogotico si apparenta ben più di quanto non avvenga con l’arte del Rinascimento.

3. Quando è l’oro a parlare, nulla può qualsiasi altro discorso (Erasmo da Rotterdam)

3 | Pisanello, Madonna della quaglia, tempera e oro su tavola, Verona, Museo di Castelvecchio, 1420 circa.

A proposito di metalli preziosi. Leon Battista Alberti, ce lo rammentano ancora Gheroldi  e Marazzani, critica – nello specifico, su tavola –  le stesure in foglia d’oro, biasimandone la reazione al mutare delle condizione di luce:

E ancora veggiamo in una piana tavola alcune superficie ove sia l’oro, quando deono essere oscure risplendere, e quando deono essere chiare parere nere.

Ben lo sanno i fotografi che cercano di evitare l’offuscamento visuale derivato dall’eccesso di luce riflessa. Ma a parte le ricadute ottiche dal punto di vista percettivo, è anche la materialità esibita come valore in sé, pure come status symbol, che disturba la visione pura del teorico rinascimentale; immediatamente sopra, infatti, ancora nel De pictura troviamo scritto:

Truovasi chi adopera molto in sue storie oro, che stima porga maestà. Non lo lodo. E benché dipignesse quella Didone di Virgilio, a cui era la faretra d’oro, i capelli aurei nodati in oro, e la veste purpurea cinta pur d’oro, i freni al cavallo e ogni cosa d’oro, non però ivi vorrei punto adoperassi oro, però che nei colori imitando i razzi dell’oro sta più ammirazione e lode all’artefice (Alberti ed. 1973, 88 per entrambe le citazioni).

Rendere il senso cromatico tramite i pigmenti, e non applicando fisicamente la foglia preziosa sulla tavola o sul muro, diviene quasi una norma, che definisce nel primo Rinascimento un elemento di merito (ovviamente solo nel senso di un Kunstwollen astratto: il committente, con le sue abitudini percettive e i suoi bisogni di rappresentanza socioeconomica, aveva comunque l’ultima parola). E questo è uno degli assunti più chiari rispetto allo switch da un’idea materiale e artigiana della produzione artistica alla valorizzazazione dell'ingenium, dell’abilità, e più globalmente ancora dell’intellettualizzazione – anche tecnica – dell’artista come auctor e non più come artifex.

La citazione che riporto sopra di Erasmo (Erasmo ed. 2013, n. 2216, 1771, in riferimento a Gregorio Nazianzeno, PG, 37, col. 927, 143-144, ma con un topos che parte dall’Antichità e arriva a Howard Hawks: Tosi 2017, n. 2350, 1617-1618) si riferisce ovviamente alla possibilità di comprare le persone, e alla forza persuasiva del denaro che prevarica quella del discorso. Ma per estensione si può dire che anche nel mondo dell’arte si afferma a partire appunto a partire dalle élites culturali del XV secolo rinascimentale l’idea dell’oro (anche dell’argento e degli altri materiali preziosi) come facile strumento per allettare gli occhi degli incolti e della massa, stupendoli – per così dire – con effetti speciali, senza dover durare fatica con la propria capacità di elaborazione e la propria eloquentia visiva.

I tempi del filosofo olandese sono gli stessi in cui opera Amico Aspertini, pittore eccentrico e grottesco per definizione, che nei suoi due riquadri del ciclo di affreschi dell’oratorio di Santa Cecilia a Bologna, e in altri per cui è stata proposta un suo eventuale coinvolgimento da definire, recupera per alcuni dettagli l’uso dell’oro applicato in foglia su spessa base di gesso e colla: un dato letto giustamente spesso come neo (o post) medievale, che nelle tavole di Pisanello, tra le quali figurava nell’esposizione mantovana la Madonna della quaglia di Castelvecchio (fig. 4), trova forse la sua glorificazione (la scelta materiale aspertiniana potrebbe anche servire a chiarire certi aspetti di cronologia e attribuzione della serie felsinea, molto discussi, che qui ovviamente non ha senso affrontare, e palesa comunque – come alcune opzioni iconografiche del ciclo – una scelta davvero interessante di continuità con ideali old fashioned; sulla tavola a Verona bastino Pisanello 1996b, scheda 35, 78-80, Cordellier, e Pisanello 2022, scheda I, 98-102, Fabbri, con altra bibliografia). Ma l’oro, da solo, non è sufficiente, nella sua valorizzazione evidenziativa: bisogna andare oltre, implementare il suo tasso di preziosità, trattandolo in modi differenziati e complessi, come si era iniziato a fare in modo particolarmente intenso nei decenni centrali della prima metà del Trecento, ad aggiungere lusso al lusso ed eleganza a eleganza. Con buona pace di Alberti, questa linea riemerge in forma carsica, e in modo diacronico.

Fino al recupero dei fondi dorati da parte di Damien Hirst, dove talvolta – come in Midas and the Infinite, 2008: per questo suo sviluppo, all’epoca recente, cfr. Damien Hirst 2012 – galleggiano anche le splendide ed effimere creature in cui proprio Wilde si compiaceva di identificarsi (The Importance of Being Earnest «is written by a butterfly for butterflies», scrisse in una lettera del febbraio 1895 ad Arthur Humphreys: Wilde ed. 2000b, 630), e spesso dipinte da Pisanello (figg. 5-6): le farfalle. Vere.

4 | Damien Hirst, Midas and the Infinite (particolare), farfalle, zirconi e smalto oro su tela, collezione privata, 2008.
Pisanello, Ritratto di nobildonna estense (particolare), tempera su tavola, Parigi, Musée du Louvre, 1440 circa.

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    Oscar Wilde, The Major Works, edited by Isobel Murray, Oxford 2000.
English abstract

Moving from a well-known passage by Oscar Wilde, and from the recent Pisanello exhibition in Mantua, the contribution takes into account three canonic issues of the contrast between Late Gothic and Renaissance. The first is the different mental habit towards Antiquity. The second is the problem of unity in space and time. The latter is the way in which, in all medieval art (in which Late Gothic is included), so to say, “matter matters”.

keywords | Pisanello; Faustina; Wilde, Oscar; Late Gothic.

Per citare questo articolo / To cite this article: F.Lollini, “The more we study Art, the less we care for Nature.” La bellezza anarchica del Tardogotico: tre postille pisanelliane a una mostra, ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 35-46 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0070