"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

199 | febbraio 2023

97888948401

Per una semantica del Nach

Osservazioni di metodo su Warburg, Freud e Benjamin

Raoul Kirchmayr

English abstract
I

Negli ultimi due decenni la critica ha unito in modo sempre più costante e regolare i nomi di Aby Warburg e Walter Benjamin, mentre quello di Freud non ha mai smesso di essere accoppiato all’uno o all’altro, talvolta a entrambi, in nome di una revisione delle Kulturwissenschaften e del loro statuto, in virtù di un intersecarsi dell’estetica, della storia dell’arte, della psicologia, dell’antropologia, ecc. Inoltre, i contributi senza pari ch’essi hanno apportato in generale alla cultura hanno condotto a una revisione del compito dell'intellettuale, del suo posizionamento nel campo della conoscenza e in quello della produzione di discorsi, permettendo così, tra l’altro, di riflettere sulla questione dello ‘stile’ con cui ci si avvicina agli oggetti di ricerca, in particolare per quelli specifici delle ‘arti’, siano esse ‘visive’ o ‘plastiche’. La triade Freud – Warburg – Benjamin è oggetto di una ricerca di studi visivi di Michele Cometa (M. Cometa, Cultura visuale, Milano-Cortina 2021), che procede per accumulazione di contenuti culturali e riferimenti bibliografici convergenti verso la tesi di una “svolta bio-culturale nella teoria delle immagini” (nelle conclusioni del libro, al capitolo Sopravvivenze, 305). Da un punto di vista metodologico, l’ipotesi che avanzo in questo contributo, che sostiene la radicale storicità delle immagini, si pone in antitesi rispetto al lavoro di Cometa.

Tuttavia, difficilmente si potrebbe affermare che un ritorno critico sulla loro eredità consista nell’esporre i risultati dei loro approcci alle discipline implicate dal discorso iconologico, filosofico e psicoanalitico, e neppure nel porre l’accento sul ruolo ch’essi svolgono nell’attuale dibattito. Infatti, in una certa misura, seguendo un principio di economia e, insieme, un criterio ermeneutico, si può considerare acquisita gran parte della storia dei massicci effetti prodotti dai loro discorsi, che sono andati a costituire un corposo archivio delle Wirkungsgeschichten. Ora, a fronte di un ormai cospicuo lavoro di scandagliamento critico, soprattutto sul versante storico-filologico, appare legittimo assumere come punto di riferimento un problema teorico concernente lo statuto epistemologico delle immagini in relazione alla loro storicità. Tale problema si delinea a partire dalla considerazione di un contenuto teorico che pare condiviso dai tre, cioè la definizione dell’immagine in relazione al tempo e come manifestazione sensibile del tempo. Curiosamente, si può notare che su questo punto la letteratura procede spesso senza grande entusiasmo e con limitato investimento critico a proposito di un significante, quello di Nachleben, che esprime invece il singolare rapporto tra immagine e tempo, il loro reciproco intreccio e anche l’effetto disturbante che provoca nei confronti del concetto di tempo.

La semantica del Nachleben (e dei significanti a esso prossimi, come Fortleben e Überleben) scandisce i discorsi di Warburg e Benjamin, svolgendo una funzione di perno teorico. Si può anche facilmente riscontrare come il significante Nachleben sembri riempire uno spazio vuoto nel metadiscorso critico, operando come riempimento di tale spazio, al punto che, con qualche eccezione, esso ha assunto un valore prevalentemente retorico. Piuttosto che confermarne la pervasività nella produzione discorsiva, lo si può pertanto intendere come un significante fluttuante che rimanda al nodo semantico che gli è proprio, quello che lega il tempo e l’immagine, in una scena che è insieme della scrittura e dell’immagine, come d’altronde il motto warburghiano “Vom Wort zum Bild” rievoca. In questa prospettiva, ciò che dev’essere pensato circa la relazione tra immagine e tempo è un resto o un eccesso di senso che possono costituire una risorsa per l’attuale discorso critico sullo statuto delle immagini. Per orientarci in merito alla definizione di tale resto, traduciamo il termine Nachleben con l’espressione di ‘vita postuma’ (vie posthume, afterlife), preferendolo al più diffuso, ma anche più compromesso, ‘sopravvivenza’.

Benché sia un termine soggetto a usura e a volte abusato, il Nachleben è un filo che trama i testi di Warburg e di Benjamin e, sotto il significante di ‘posteriorità’ (Nachträglichkeit), pure in quelli di Freud. In generale, il prefisso nach– e ciò che esso comporta per la comprensione di un tempo non lineare costituisce un plesso problematico costante, i cui echi si fanno intendere anche in autori cronologicamente più vicini, come Derrida, nell’opera del quale la decostruzione del primato metafisico della presenza avviene anche mediante una riscrittura della ‘posteriorità’ freudiana tramite il nesso di différance e après-coup.

II

Occorre ricordare che sul Nachleben come ‘vita postuma’ grava una precomprensione dovuta a uno dei topoi più potenti e duraturi prodotti dall’estetica come discorso di legittimazione dell’attività dell’artista e della sua opera, a partire dalle Vite degli artisti di Vasari, vera e propria matrice testuale e paradigma normativo. La ‘vita postuma’ di un’opera si pone infatti come criterio di giudizio che ne stabilisce la fortuna, cioè la sua forza di produrre degli effetti a distanza di tempo. Inoltre, nel quadro di una concezione classica della produzione artistica, la ‘vita postuma’ si configura anzitutto come indicatore del potere eternizzante dell’arte rispetto ai suoi oggetti, che divengono oggetti estetici in dipendenza del fatto che è l’arte a conferire loro una ‘sopravvivenza’, una conservazione memoriale, anche dopo la loro dissoluzione. L’arte racchiude il potere di ‘salvare’ ciò ch’essa raffigura e rappresenta, sottraendolo al suo destino mondano e temporale, cioè all’obsolescenza e alla morte.

Secondo questo modello, la funzione dell’arte si definisce per tramite della sua potenza con cui il transeunte è salvato e salvaguardato, trasposto sul piano dell’eterno. Proprio per questo l’artista nel senso del ‘genio’ e del ‘maestro’ è colui che dispone del potere, già divino, di rendere eterno il transitorio. Così, ogni creazione artistica entra in un orizzonte teologico che le conferisce la sua ‘aura’, consistente nell’attribuire una ‘vita spirituale’ a ciò che è solo ‘naturale’, mortale o troppo umano, e che rischia sempre di svanire nello scorrere del tempo.

A questo proposito, la diagnosi hegeliana della “morte dell’arte” mostra tutta la sua ambiguità. Per Hegel è nel concetto filosofico e nella vita spirituale che la vita si afferma mediante la sua negazione. L’arte ha storicamente adempiuto al suo compito salvifico, mettendo in gioco il suo limite intrinseco, cioè la sensibilità, segreta debolezza delle opere che le confina in un mondo di ombre (Schattenreich) e pallidi riflessi, un mondo intermedio tra quello sensibile delle impressioni fugaci e quello ideale, eterno e trasparente a se stesso. La gerarchia tra una scienza del concetto e una filosofia dell’arte non può che conferire a quest’ultima uno statuto inferiore e subordinato e pertanto considerare le opere come un riflesso sensibile dell’idea. Così, le immagini svolgono un ruolo ambiguo: tanto come tramiti sensibili verso l’eterno (movimento dal basso verso l’alto) quanto come forme imperfette dell’idea (movimento dall’alto verso il basso).

Quando si riafferma il potere eternizzante dell’arte, non ci si può esulare dal confrontarsi con l’orizzonte sistematico del pensiero hegeliano. Se la storia dell’arte non può che essere rivolta al passato, il suo discorso tuttavia non si chiude ma, per converso, lascia aperta tanto la domanda sul ruolo intermedio delle immagini quanto la domanda sul senso del ‘dopo’, di quel nach- che continua a marcare la forza di sopravvivenza dell’arte in forme nuove e mutevoli. Ciò comporta, del resto, un’attenzione critica tanto verso le mode del ‘post’ quanto verso le loro antitesi, specie quando non ci si è interrogati ancora sufficientemente sul campo descritto, anche operativamente, dal prefisso nach-.

Analogamente, è necessario porre sotto osservazione pure la presunta ‘neutralità’ del luogo in cui ci si colloca quando si prende in esame il significante di Nachleben così come al gesto – tipico e ricorrente nel discorso filosofico – con cui ci si stabilisce in un luogo supposto ‘neutro’, situato oltre la linea del presente storico, da cui si getta uno sguardo analitico verso il passato. C’è una stretta alleanza tra l’impresa filosofica di fondare il discorso sull’arte come ‘cosa del passato’ e l’elogio della moltiplicazione dei discorsi in una retorica del ‘post’ divenuta obsoleta. Se la semantica del ‘post’ è usurata, occorre tentare di estrarvi un altro senso o, quanto meno, di rendere mobile il suo senso cristallizzato.

Non si può sottovalutare l’importanza di questa operazione di decostruzione del ‘post’ che rimette in gioco il senso da attribuire alla posteriorità, e a quella dell’arte in modo particolare. Infatti, il Nachleben non può essere visto semplicemente come un duplicato dell’Überleben, di una ‘sopravvivenza’ che coincide con una ‘vita vera’, una ‘vita autentica’ oltre la morte. E neppure può essere considerato come un duplicato del Fortleben, di una vita che continua il suo cammino secondo una sopravvivenza che deriva da una pienezza originaria, fonte sorgiva che non si inaridisce. Il significante del Nachleben pare invece rimandare a un’altra densità di senso, relativa a un’esperienza estetica non più subordinata all’opposizione metafisica tra la ‘vita’ e la ‘morte’ e dunque a una dialettica (sia nel senso platonico sia in quello hegeliano del termine). Scavare la contraddizione dialettica inerente la sensibilità significa non sottoporre più l’esperienza dell’arte in generale e dell’immagine in particolare al gioco di una conoscenza che conosce in anticipo i suoi oggetti e, così facendo, si garantisce la validità della sua analisi.

Al contrario, ciò significa procedere en piétinant sur place. Il luogo di questo insistere è un Inzwischen, quell’intervallo, nell’iconologia warburghiana, che si configura come il crocevia – o, secondo un lessico fenomenologico, il chiasmo – del visibile e dell’invisibile. L’intervallo è il presupposto di un sapere che si concentra sulle immagini come oggetti dello sguardo, ma interrogandosi sulla sua passiva attività e mostrando quali siano le linee di faglia che attraversano il discorso razionale quando esso si espone al suo altro.

III 

Nella tradizione del discorso estetico della modernità, possiamo riscontrare un farsi carico della forza del pathos di cui le immagini sono intrise. Nelle opere di Kant, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Warburg, Freud e Benjamin si può riconoscere una ben precisa configurazione del discorso filosofico ed estetico a fronte dell’esperienza del pathos. Seguendo la linea del pensiero tedesco tra la fine del XVIII e il XX secolo è possibile dunque ritrovare le linee articolate di una genealogia ‘minore’ che accompagna come un doppio il canone filosofico tradizionale. Tale genealogia minore si sviluppa lungo le trame di un topos che è anche poetico e letterario, quello dello Schattenreich, del ‘regno delle ombre’ come dimensione che denota specificamente la sfera dell’arte.

Così, l’interrogazione sullo statuto della ‘vita postuma’ si apre con la ripresa e l’analisi di tale topos, che descrive l’aprirsi di una dimensione intermedia tra la vita e la morte, tra il visibile e l’invisibile. Per ipotesi, è possibile districare il groviglio di significati che il Nachleben porta con sé, se ci rifacciamo alla genealogia del ‘regno delle ombre’ come Geisterreich, quel ‘regno degli spiriti’ che, a sua volta, è accompagnato dal suo doppio, cioè dal ‘regno degli spettri’. Si profila in questo modo un intreccio che va a comporre un plesso tra la catena significante Schatten-Geist-Gespenst e il Nachleben.

Alla luce di questa ipotesi di lavoro, l’opera di Warburg può essere legittimamente collocata all’interno della genealogia dello Schattenreich, e dunque acquisire una rilevanza filosofica circa il discorso sul rapporto tra immagine e tempo. Le stesse ‘formule di pathos’ come ‘diagrammi dinamici’ che riscontriamo nel grande progetto dell’Atlante Mnemosyne possono essere comprese tenendo ferma la nozione di ‘intervallo’, che rappresenta, in Warburg, un cospicuo investimento metodologico. Lo stesso progetto dell’Atlante si configura come un dispositivo di visibilità delle immagini colte nella loro dinamicità storica, lungo linee di forza invisibili che purtuttavia ne decretano il destino. Le ‘formule di pathos’ denotano una costitutiva instabilità delle immagini, il cui senso può essere colto mediante il riconoscimento di una concezione energetica dell’immagine, che si innesta sulla coppia nietzschiana dell’apollineo e del dionisiaco, la quale si accorda a sua volta con una psicoanalisi delle forze inconsce. Tuttavia, riaffermare la polarità delle forze in Warburg (per esempio con la classicissima opposizione tra ‘vita’ e ‘forma’) rischia di riprodurre uno schema interpretativo noto e consolidato, che si rifà a una dialettica degli opposti che rifiuta la sintesi o la ammette solo come parziale, cioè come compromesso di forze. In questo caso il termine ‘compromesso’ può essere legittimamente inteso in senso freudiano e applicato alle ‘formule di pathos’, dal momento ch’esso descrive la natura sintomale di forze emergenti da un fondo caotico e, al contempo, di forze di figurazione che operano sull’immagine come superficie d’impressione o supporto d’iscrizione.

IV

Non appena si riconduce il Nachleben alla sua genealogia filosofica, si comprende il senso dei cul-de-sac teorici di Warburg, derivanti dal tentativo di rinnovare una storia delle immagini restando sul piano empirico e facendo ricorso a un’antropologia del gesto che incrocia d’altronde alcune linee dell’evoluzionismo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, senza che l’iconologia debba essere con ciò subordinata giocoforza alle scienze naturali, e in particolare alla morfologia. È indubbio che le indagini di Warburg contengano, più o meno implicitamente, il tema della traccia e dell’impronta, ma esso deriva da un energetismo filosofico e da una teoria della memoria materiale e collettiva che presenta delle implicazioni problematiche anche in relazione al problema della temporalità dell’immagine. Da questo punto di vista, l’iconologia coincide con una messa in questione della memoria dell’immagini come memoria del rimosso e dell’immemorabile, il che è del resto un percorso in buona misura affine alla psicoanalisi freudiana e comunque compatibile con essa. Non solo: la psicoanalisi freudiana può ancora offrire le lenti di una strategia d’analisi documentale, una volta che lo stesso discorso psicoanalitico sia considerato e riletto in senso decostruttivo, in particolare quand’esso conduce alla messa a tema dell’Unheimliche, cioè dell’eterogeneo come forza perturbante. In questo modo, il confronto tra iconologia e psicoanalisi avviene sulla scorta di un’operazione decostruttiva che le riguarda entrambe nei loro presupposti e nei loro metodi, piuttosto che lungo le linee di un’estetica psicoanalitica da rilanciare non è chiaro in quale direzione, neppure quand’essa venga recuperata, come sta accadendo da qualche tempo, dal contemporaneo discorso neuroscientifico.

Anche la metafora dell’archeologia, che è centrale nel discorso psicoanalitico freudiano, una volta riconsiderata alla luce di una problematizzazione del tempo stratificato, fornisce una via maestra per la comprensione dei fenomeni di ‘sopravvivenza’ dell’arcaico nel presente, ovvero per una messa a tema di una nozione di temporalità complessa che implica l’abbandono delle forme di rappresentazione lineare del tempo a vantaggio di modelli che richiedono invece l’adozione di una temporalità nachträglich. È questa, infatti, a fornire una chiave d’accesso per la definizione del senso delle revenances di forme e figure nella storia delle immagini. In questa prospettiva il topos della ‘rovina’ non è solo ricorrente, da Diderot a Benjamin e oltre, come sappiamo, ma funge da punto d’intensità figurale o di condensazione di senso. A esso si connette un altro filo estremamente rilevante per un’estetica della spettralità, ovvero la funzione dell’osservatore malinconico in relazione al problema degli strati temporali e dell’evento, a quello della memoria e della transitorietà del presente. Tale discorso assume una rilevanza metodologica per l’operatività dell’archeologia come modello di conoscenza storica e per una rinnovata considerazione dell’importanza dell’elaborazione del lutto non solo e non tanto da una prospettiva psicologica, ma come funzione culturale del processo collettivo di memorizzazione e, al tempo stesso, di considerazione delle latenze storiche. Come si sarà inteso, sono questi altrettanti motivi che convergono nell’Origine del dramma barocco tedesco e che lì sono messi al lavoro da Benjamin, in una sorta di cantiere di lavoro critico-letterario che prepara e rende possibile l’articolazione del progetto della Passagenarbeit e, con essa, dei suoi testi satelliti.

V

Da questa particolare angolatura, che è quella di un esame delle stratificazioni storiche inconsce e del loro riapparire alla superficie dei processi culturali – il che implica di certo anche l’analisi delle alterazioni e delle deformazioni delle figure nel corso delle loro revenances – si può individuare un punto di contatto tra il percorso di Benjamin, a cavallo tra una filosofia della storia e un’archeologia dei media, e quello di Warburg, cioè una ricerca che è votata a una conoscenza senza oggetto proprio. Infatti, entrambi i progetti riguardano – forse addirittura al di là di un approccio kulturwissenschaftlich – un’idea d’inconscio storico che esorbita rispetto alla sua rappresentazione come di una potenza formatrice ‘profonda’ e nascosta, e che si avvicina piuttosto a un modello caratterizzato da un insieme dinamico di rapporti di forza che mutano e si trasformano costantemente, e che pur essendo di per sé invisibili contribuiscono alla configurazione d’insiemi o famiglie d’immagini che si strutturano secondo una temporalità complessa e nachträglich. È in questo modo ch’essi vanno così a comporre l’archivio delle forme culturali che una tradizione sedimenta. L’inconscio storico è accessibile dunque attraverso lo studio delle distorsioni delle immagini nel corso delle loro migrazioni. Se la distorsione acquista così valore sintomale, si comprende come nella figura siano i dettagli a costituire quelle tracce di una differenza che dove essa si manifesta, là anche si cancella. In questo senso, un’ermeneutica del dettaglio – che ancora appartiene all’orizzonte dell’iconologia warburghiana – richiede d’essere integrata da protocolli decostruttivi, mediante i quali l’attenzione per gli scarti, i vuoti, le assenze, ecc. nei processi di formazione delle immagini si indirizza al di là di un reperimento delle origini (e perfino di una loro riattivazione) e dunque non richiede più d’iscriversi in una sintassi dell’Ur- ma, appunto, in una sintassi del nach-.

Per questo tipo d’approccio composito, la psicoanalisi freudiana dell’arte e della letteratura resta un riferimento ineludibile per una teorizzazione del Nachleben, allorquando essa viene fatta entrare in dialogo con l’iconologia warburghiana, attivando così la portata critica e decostruttiva di quest’ultima. Il vantaggio conseguito sarebbe cospicuo: da un lato, i testi freudiani, come è già stato mostrato, contribuiscono alla critica di una metafisica della rappresentazione e dell’immagine, una volta ch’essi siano letti con un’attenzione specifica per la dimensione storico-culturale della produzione delle immagini, e dunque ben diversamente dall’esigenza freudiana di considerarli come espressioni di forze non storiche in quanto ‘naturali’. Dall’altro lato, la costante tensione teorica che scaturisce dalla tendenza, presente in Warburg, a forgiare concetti o formule a spiccato contenuto filosofico, può essere sottoposta a protocolli di lettura analoghi a quelli cui sottoporre il testo freudiano, sottoponendo dunque l’approccio alle immagini a un doppio regime interpretativo, quello di un’iconologia riportata filosoficamente alla sua matrice energetica e quello di una psicoanalisi ripresa filosoficamente attraverso il concorso metodologico della genealogia e della decostruzione.

VI

Lungo questa direzione di marcia, il close reading dei testi, considerati anche nei loro tratti specifici di letteralità, acquista una funzione centrale per l’analisi, poiché permette di riconoscere i diversi strati di significato che si sovrappongono nel discorso sul Nachleben delle immagini. Tra questi strati, a mio giudizio ve n’è uno che assume una particolare rilevanza, ed è quello relativo ai dispositivi tecnici di visione, al loro funzionamento e ai loro effetti, quando tali dispositivi siano considerati come condizioni storico-materiali nella produzione delle immagini, in primo luogo di quelle implicanti la fantasmagoria, l’illusione, ecc., oltre che sulle modalità di ‘presentazione’ (nel senso della Darstellung) delle immagini stesse, com’è appunto nel caso esemplare dell’Atlante Mnemosyne di Warburg. Analogamente a una démarche critica che è stata già intentata per la letteratura, anche la testualità filosofica richiederebbe un’analisi di un sapere tecnico delle immagini che si ripercuote tanto sull’autocomprensione della filosofia come disciplina quanto sugli effetti che tale sapere tecnico ingenera nella creazione di concetti. Per quanto questo lavoro sia iniziato da qualche tempo, una genealogia filosofica dei dispositivi di visione è ancora tutta da scrivere.

English abstract

The author analyses the semantics of the term Nachleben, which expresses the unique relationship between image and time in three authors that the history of scholarship has often juxtaposed: Warburg, Benjamin and Freud. The point of reference from which the reflection starts is the interest of all three in the epistemological status of images in relation to their historicity. Raoul Kirchmayr takes us on a dense and enlightening journey into the significance of Nachleben for the philosophical history of images.

keywords | Nachleben; Aby Warburg; Walter Benjamin; Sigmund Freud; Philosophy.

Per citare questo articolo / To cite this article: R. Kirchmayr, Per una semantica del Nach. Osservazioni di metodo su Warburg, Freud e Benjamin, “La Rivista di Engramma” n. 199, febbraio 2023, pp. 57-66 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.199.0005