"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Quel fulgore d'Astrea

Pensiero mitico e progresso in un manifesto di G.M. Mataloni

Francesco Trentini

English abstract

1 | Giovanni Mario Mataloni, Società anonima per la incandescenza a gas brevetto Auer, 1895, cromolitografia su carta, Treviso, Museo Nazionale Collezione Salce.

È un’immagine piena di fulgore, calata come un’enigma su una società ebbra di luce e progresso, l’opera che inaugura la storia della cartellonistica moderna in Italia in piena seconda rivoluzione industriale. Una potente immagine simbolica, degna di essere messa in dialogo con le inquietudini sollevate da Aby Warburg nella memorabile conferenza del 21 aprile 1923 in riferimento al destino del pensiero mitico nella civiltà delle macchine (Warburg [1923] 1998, 11-66). Il manifesto [Fig. 1], una cromolitografia su carta di 150x100 cm, nella sua prima versione reca la firma del cartellonista Giovanni Mario Mataloni, la data 1895 e il nome dell’Istituto Cartografico Italiano, che ne curò la pubblicazione. Committente, la Società Anonima per la Incandescenza a gas, detentrice dell’esclusiva sul brevetto elaborato dal dottor Carl Auer von Welsbach dell’Università di Vienna, nel settore dell’illuminotecnica la tecnologia più apprezzata per efficacia e rendimento alla fine del XIX secolo (Nuovo becco a gaz 1895).

A dispetto dei toni esuberanti, l’opera vide la luce in circostanze assai critiche per l’azienda. Il 1895 è un anno segnato da forti tensioni. Avviata una serie di querele contro terzi per la contraffazione delle celebri lampade a reticella di biossido di Torio e diossido di Cerio (Querela per contraffazione 1895), il 29 agosto di quell’anno si procede alla pubblicazione di una diffida alla fabbricazione e all’acquisto di lampade a incandescenza all’infuori della Società stessa (Gazzetta Ufficiale 1895, 1412). Quest’ultima rivendicazione mirava a contenere l’impatto della sentenza di annullamento del brevetto Auer emanata dell'Ufficio imperiale competente il 7 novembre 1895, conseguenza delle molte cause mosse in Germania da diverse importanti case industriali che miravano all’annullamento della privativa Auer (I brevetti Auer 1896, 90-100). Gli effetti dell’atto non si sarebbero fatti attendere, anche sul mercato italiano. La congiuntura apparve tale da esigere una decisa campagna di comunicazione volta a catturare l’attenzione del pubblico ricorrendo agli effetti speciali messi a disposizione dalla rampante ricerca tecnico-scientifica della seconda rivoluzione industriale. Si decise per il manifesto su muro, prodotto ad elevata riproducibilità, pratico e versatile, adatto a supportare strategie di comunicazione di massa nello spazio pubblico volte a raggiungere e orientare quel Leviatano ora mostruoso ora terribilmente poetico che fu la folla nella città moderna.

Per questo motivo il lavoro di Mataloni non manca d’indulgere in concessioni all’ottimismo dell’epoca. La destinazione alle vie dello spazio urbano appare esaltata come valore assoluto, secondo la nuova sensibilità dell’horror vacui ornamentale che dopo aver saturato gli interni degli edifici pare destinato a rivestire gli esterni, se necessario anche attraverso la simulazione litografica di una piastrellatura in maiolica inquadrata da un’ampia cornice a mosaico. Il foglio sottile della cromolitografia non rinnega dunque il suo essere pellicola epidermica di una parete reale ma, anzi, si pone in relazione ad essa come presentazione di un paramento possibile entro un serrato dialogo dell’immagine con il contesto di destinazione. In un certo senso va nella medesima direzione anche quella specie di fregio, ottenuto dal combinato del lampione in basso a destra sovrapposto ai condotti metallici attorno ai quali si avvolgono le spire di tubi flessibili ascendenti sui lati del manifesto, elementi tecnologici funzionali alla costruzione del messaggio pubblicitario ma anche modi per strutturare l’estetica della città industriale.

Risponde ad esigenze pubblicitarie l’introduzione da parte di Mataloni del “fiore luminoso” del lampione a gas, sorta di secondo termine di paragone funzionale a evidenziare l’eccezionalità dell’invenzione di Auer, presentato dapprima in forma descrittiva nell’angolo inferiore destro e poi in chiave d’astrazione decorativa tra i girali vegetali del fregio superiore. La flebile luce rossa dell’illuminazione comune svaniva in presenza della lampada a incandescenza Auer, che nell’immagine di Mataloni appariva fluttuante a mezz’aria tra la sorridente fanciulla e lo spettatore, accuratamente descritta finanche nell’elegante anello metallico sagomato alla base della lampada come pure nel tubo di vetro dalla caratteristica forma a campana allungata. La luce bianchissima, immobile e piacevole alla vista, era una delle qualità innovative del brevetto Auer; la più celebrata, nelle riviste tecnico-scientifiche dell’epoca, insieme alla contenuta emissione di calore e alla (per allora) ragguardevole vita operativa di quasi 2000 ore, pari a circa un anno d’illuminazione (Pintsch 1887).

Tuttavia, eccedendo di molto le esigenze aziendali di mobilitazione della domanda, il manifesto di Mataloni presenta caratteristiche finora non adeguatamente evidenziate che autorizzano a riconoscerlo come una forma estrema di celebrazione del numinoso e di manifestazione del demonico scaturita in tempo di festoso progresso e di rischiosa soppressione del mito in nome della civiltà delle macchine. Vittorio Pica – con ampio seguito fino a oggi – preferì risolvere il perturbante faccia a faccia con la misteriosa fanciulla, ammiccante paradosso visivo senza spazialità, limitandosi a riconoscervi una signorina dal sorriso accattivante chiamata a salutare gli affrettati passanti della grande città fin-de-siècle con la promessa di un’istante di innocente seduzione a costo zero (Pica 1904, 355-56, 361; Ojetti 1942, 291; Cimorelli-Ginex, 1997, 55; Benatti, Toni 1997, 19). Recentemente, seppur in termini generici, è stata avanzata la proposta di riconoscervi un’ “allegoria femminile” e delle “semi-nudità adatte a una divinità” (Salsi 2007, 51) ma senza ulteriori precisazioni. Va quindi dato a Eugenio Manzato il merito di aver fatto il passo più deciso verso il disvelamento dello specifico potenziale iconologico dell’immagine, notando una suggestiva associabilità tra il circolo stellato sul manifesto e la corona dell’Immacolata, salvo poi censurare il tutto rubricandolo come gesto irriverente da parte del grafico e preferendo mantenersi entro il perimetro di una rigida valutazione morale anziché indagare a fondo il mito nascosto oltre la presunta maliziosità di veli trasparenti e levigate nudità (Manzato 2003, 28).

Eppure, lungi dall’essere rubricabile come trouvaille volta a rappresentare l’alone di luce della lampada in modo provocatorio, l’invenzione del circolo tempestato di sedici stelle proposta da Mataloni rinviava certamente alla Vergine Maria, ma per raggiungere un’altra vergine ben più congruente con la sfida dei tempi e del progresso: Astrea, figlia del titano Astreo, manifestazione della giustizia divina, la sola disposta a vivere stabilmente tra gli uomini durante il remoto regno di Saturno, prima che l’umanità cadesse in una progressiva inarrestabile degenerazione (Graf 2006). Sul piano iconologico il cerchio stellato è notoriamente un tratto simbolico condiviso da diverse figure, tutte in vario modo assimilate alla Vergine astrale, tutte espressioni di verginità feconda capace di generare una momentanea congiunzione o un rinnovato vincolo tra Cielo e terra (Yates 1990, 40-49). In connessione con la Corona Borealis, costellazione di forma subcircolare sita nell’emisfero nord tra Bootes ed Hercules, esso rinvia al catasterismo della corona nuziale di Arianna, gettata in cielo da Dioniso (Ov, Met. VIII, 176-182) (Ovidio 1994, 302-303). Ma il circolo di stelle incorona anche il capo di Urania, la musa preposta a dischiudere all’umanità la conoscenza del Cielo, offrendo in tal modo la possibilità della fondazione di un tempo armonico e illuminato nella società degli uomini (Hunter 1980, 106-113). Le fonti registrano la suggestiva assimilazione tanto di Urania con la Vergine astrale quanto della stessa costellazione della Vergine con Arianna, quest’ultima supportata da Luciano, Properzio e Manilio (Yates 1990, 89, n. 13). D’altro canto la corona stellata, per il filtro della quarta Ecloga virgiliana ormai letta come profezia sincretica pagano-cristiana, interviene anche a sancire l’era inaugurata dalla nascita di Cristo come tempo nuovo escatologico ed età dell’oro definitiva facendo la sua comparsa sul capo della Vergine dell’Apocalisse. Non un semplice attributo, dunque, ma il corrispettivo visuale del sostrato tematico che correla la dimensione astrale all’idea di una feconda verginità femminile destinata a manifestarsi in una mitica età dell’oro; ecco perché può comparire anche sul capo di Astrea come ad esempio nei costumi del corteo per l’ingresso di re Giacomo I a Londra (Wiggins, Richardson 2015, 85).

L’immagine di Mataloni nasceva nel contesto della Seconda Rivoluzione Industriale, dall’interno di una società propensa a pensarsi come la progressiva realizzazione di una nuova età dell’oro che aveva nel progresso tecno-scientifico i suoi fondamenti. In sostituzione del mito regressivo e dell’eterno ritorno adombrato dai Classici, l’utopismo positivista preparato dal pensiero di Condorcet e Saint-Simon e perfezionato da Auguste Comte invitava a riconoscere l’età dell’oro come una condizione di perfezione d’ordine a-venire, destino futuro di un’umanità disposta ad abbracciare l’idea di un inarrestabile progresso tecnologico e conoscitivo (Condorcet 1847; Saint-Simon 2012; Comte 2001). Entro la cornice di questo “messianismo del progresso”, l’illuminazione a gas, come qualsiasi altro ritrovato di una scienza applicata alla tecnologia in perfetto spirito baconiano, partecipava alla realizzazione di quella Nuova Atlantide delineata da Francis Bacon come utopia ma recepita nel XIX secolo quale progetto compiutamente realizzabile.

Alla luce di queste idee, raccolte, amplificate, dibattute dalla stampa italiana coeva, la misteriosa fanciulla di Mataloni ben si prestava a rappresentare Astrea, finalmente ridiscesa dal Cielo ad abitare tra gli uomini. La condizione di un progresso che ambisse alla qualifica di età dell’oro necessitava infatti il ritorno della dea. La carica politica intrinseca al mito e rielaborata particolarmente in epoca medievale e protomoderna qui veniva lasciata sotto traccia in favore di una rivisitazione della proposta virgiliana di una Vergine Astrea intrinsecamente legata alla realizzazione di un utopico Tempo Nuovo.

2 | Leopoldo Metlicovitz, Distillerie Italiane, 1899, cromolitografia su carta, Treviso, Museo Nazionale Collezione Salce (Direzione regionale Musei Veneto. Su concessione del Ministero della Cultura).
3 | Giovanni Mario Mataloni, Il Mattino, 1896, cromolitografia su carta, Treviso, Museo Nazionale Collezione Salceo (Direzione regionale Musei Veneto. Su concessione del Ministero della Cultura).
4 | Giovanni Mario Mataloni, Elba Champagne della Villa Imperiale di Napoleone I, 1900, cromolitografia su carta, Treviso, Museo Nazionale Collezione Salce (Direzione regionale Musei Veneto. Su concessione del Ministero della Cultura).

Pienamente signora di sé, la fanciulla divina di Mataloni concede che il circolo stellato transiti sulla lampada Auer accompagnandolo con il gesto della mano destra; nondimeno chinando il capo continua a detenere il privilegio della corona luminosa scongiurando il rischio di una piena esautorazione. L’impressione è che, pur nell’ebbrezza di una generalizzata positivistica fede tecno-scientifica, Mataloni avverta la necessità di affermare la continuità tra la forza del dio e i nuovi orizzonti di manipolazione dell’energia. La forza dell’idea di Mataloni fu recepita da un altro grande della cartellonistica italiana, Leopoldo Metlicovitz, per rovesciarla drasticamente nel manifesto per le Distillerie Italiane (1899) [Fig. 2] dove la dea ormai inghiottita dall’ombra si vede costretta a cedere il suo circolo luminoso a tutto vantaggio della nuova illuminazione a gas. È l’eclissi del dio sotto l’aggressione della tecnica. In Mataloni invece la condivisione della corona di stelle tra Astrea e il dispositivo Auer contribuisce a fondare l’idea che la nuova illuminazione a incandescenza abbia natura totalmente astrale, divina. Lo ribadisce giocosamente il dettaglio del girasole rivolto verso la fonte luminosa a incandescenza. Il mito di Clizia, metamorfosata nel fiore che insegue il sole, consumatasi non più ricambiata d’amorosa adorazione per il dio Apollo, qui implicitato, è funzionale all’esaltazione della forza luminosa della lampada, luce che non conosce tramonto e la cui epifania è tale da attrarre persino la ninfa-fiore appassionata. L’idea che qui sia semplicemente in gioco il ricorso a una risibile iperbole naturalistica – la pianta ingannata dall’artificio umano – quale efficace formula pubblicitaria non è sufficiente a rendere ragione della densità semiotica in atto nell’immagine. Piuttosto, in forza dello spessore iconologico complessivo, essa si pone in palese opposizione al riduzionismo tecno-scientista troppo positivisticamente ripiegato sulla mera regolarità delle leggi naturali (Warburg [1923] 1998, 61). Ma dove Aby Warburg avrebbe denunciato l’ineluttabile annientamento del pensiero mitico sotto i colpi dell’elementare razionalismo della civiltà delle macchine (Warburg [1923] 1998, 62-66), Mataloni ricorrendo ad Astrea prova a tenere aperto lo spazio per la scoperta di una dynamis divina inabitante l’evento della luce, che l’illuminotecnica gestisce senza tuttavia dominare.

Il carattere sorgivo e il ricorso all’intelligenza simbolica per l’elaborazione del presente attraverso il pensiero mitico è particolarmente evidente nella produzione di Mataloni soprattutto nei primi anni di attività, per poi lasciare il passo all’antiquaria e alla ricostruzione pseudo-storica dell’antichità romana. Un anno dopo il manifesto Auer, Mataloni ritorna sul mito dell’amore di Clizia per Apollo, nella copertina per “Il Mattino” di Napoli del 1896 [Fig. 3]. La ninfa figlia di Oceano e Theti compare nella sua nuda sensualità su un lembo di terra lambito dal mare e da un’onda schiumeggiante. Non è un sonno languido, quello di Clizia, ma l’attesa dell’unione con il dio Apollo che scende a lei nel sole nascente, la chioma come fiamma agitata dal vento, e già accarezza il braccio di lei. Fuori scala rispetto al brano di paesaggio bucolico punteggiato di capre e giumente, verde giaciglio e ancor più verdeggiante cuscino alla ninfa, Clizia tiene in mano delle spighe di grano, attributo sottratto alla Vergine Astrea per dire forse della sua illibatezza. Con la leggerezza di un gesto Art Decò, Mataloni non rinuncia a dire del destino di lei, tragedia incombente sull’idillio; del tradimento di Apollo invaghitosi di Leucòtoe e del consumarsi di Clizia gelosa e vendicativa in quel suo amore non più ricambiato, fino a divenire elitropio, fiore che fissa in eterno il volto del dio (Ovid., Met., IV, 234-270) (Ovidio 1994, 142-145).

5 | E. Brucke, Bellezza e difetti del corpo umano, Torino, Bocca, 1898: il torso del Belvedere nella copertina di Mataloni. Treviso, Museo Nazionale Collezione Salce (Direzione regionale Musei Veneto. Su concessione del Ministero della Cultura).

Antico e mito dunque; spesso in equilibrio tra evocazione simbolista, citazionismo e cultura antiquaria, come risulta dall’affiche pubblicitaria realizzata da Mataloni nel 1900 per lo Champagne Elba [Fig. 4], dove sullo sfondo dell’Isola omonima, Venere emergente dalle acque e un satiro fanno tintinnare le coppe alla presenza di un’Artemide “Efesia”. La citazione diretta di marmi antichi ritorna del resto a più riprese nell’opera di Mataloni, sempre accompagnata da una forte adesione creativa per lo più declinata in chiave concettuale come nella copertina di E. Brücke, Bellezza e difetti del corpo umano (1898) [Fig. 5] con il torso del Belvedere incoronato da rami di alloro e di rosa, o nel manifesto per la festa carnevalesca dell’Associazione Artistica Internazionale (1900) [Fig. 6] dove l’Afrodite dei Musei Capitolini si pone quale archetipo del femminile in costume che ad essa si accompagna.

Ben più complessi, e tuttora in attesa di una piena spiegazione, sono invece i tratti di affinità tra il nume femminile di Mataloni e la figura di Astrape, personificazione del fulmine di Zeus, visibile su un Loutrophoros apulo di IV secolo a. C. oggi conservato al Getty Museum (inv. nr. 86.AE.680), in Jentoft-Nilsen, Trendall 1991, 6-9 [figg. 7-8]. Di fatto l’aureola, il dettaglio della veste trasparente stretta sotto il seno tale da lasciare nudo il petto della dea e forse alcune assonanze compositive come la contrapposizione tra un braccio disteso nell’atto di afferrare qualcosa e un braccio flesso con la mano rivolta verso lo spettatore, suggeriscono una qualche conoscenza della figura da parte di Mataloni. Il pezzo del museo americano è stato acquisito solo nel 1986 sul mercato europeo attingendo alla collezione dei restauratori Fritz e Harry Bürki di Zurigo. Impossibile fornire elementi filologici dirimenti sulle precedenti collocazioni del pezzo come pure sulle circostanze del ritrovamento. Per il momento nulla esclude che il Loutrophoros avesse fatto parte di quelle migliaia di manufatti messi in circolo dal collezionismo di vasellame antico tanto di moda presso l’alta borghesia italiana nella seconda metà del XIX secolo. Lo sforzo per una più circostanziata documentazione della storia del pezzo dovrà accompagnarsi tuttavia all’approfondimento (per ora appena agli esordi) degli indizi di un non episodico coinvolgimento di Mataloni in ambienti di punta della ricerca antichistica e archeologica italiana frequentati da figure quali Ettore Ciccotti, Giulio Vaccai, Rodolfo Lanciani, gli stessi che avrebbero gravitato tra l’altro sulla Piccola Biblioteca di Scienze Moderne, la collana d’avanguardia culturale di respiro internazionale a cura degli editori Fratelli Bocca per la quale il Nostro, dal 1897 e per diversi anni, sarebbe stato responsabile della veste grafica. La sua copertina per le Feste antiche di Roma (1902) di Giulio Vaccai nel selezionare il motivo del tripode pieghevole esemplato sui reperti di Villa Giulia e del Museo della Civiltà Romana documenta una non comune sensibilità antiquaria, tale da rendere plausibile una sua informazione sul pezzo del Getty o su un manufatto analogo circolante in ambito collezionistico. Quanto all’equivoco Astrape/Astrea, esso sarebbe potuto nascere da una confusione sul piano lessicale magari dovuta a un errato ricordo del pittore, o piuttosto derivare da una consapevole connessione tra Astrea e il fulmine di Zeus sulla base di alcune rivisitazioni d’età moderna del mito in cui era in discussione il volto vendicativo della dea, conseguente alla sua fuga dalla Terra in odio alla corruzione del genere umano (Simons 1656, 488; Metastasio 1741, 290; Grillo 1789, 66, 145-146).

6 | Giovanni Mario Mataloni, Associazione Artistica Internazionale…, Teatro Costanzi Grande festa carnevalesca in costume, 1900, cromolitografia su carta, Treviso, Museo Nazionale Collezione Salce (Direzione regionale Musei Veneto - “su concessione del Ministero della Cultura”).
7 | Pittore del Louvre MNB 1148 (attr.), Loutrophoros, IV sec. a. C., terracotta, Los Angeles, Getty Museum, inv. nr. 86.AE.680.
8 | Pittore del Louvre MNB 1148 (attr.), Loutrophoros (dettaglio), IV sec. a. C., terracotta, Los Angeles, Getty Museum, inv. nr. 86.AE.680.

Nella logica di un manifesto pensato da Mataloni anche come struttura di riconduzione del progresso presente allo spazio del pensiero mitico per il tramite della forza delle immagini, il richiamo all’Astrape del Loutrophoros, se confermato, avrebbe supportato il disvelamento dell’intrinseca polarità presente anche in Astrea. Solo a condizione di sottrarne la figura a una lettura univocamente irenica, la dea poteva garantire la permanenza dell’uomo contemporaneo nella coscienza dell’elemento tragico dell’esistenza, agendo nel contempo come principio di governo del negativo (Warburg [1923] 1998, 28, 61-62). In ogni caso un ricordo di questa ambivalenza era affidato anche al sorriso della fanciulla di Mataloni, che scaturisce certo da una reazione divertita al movimento di Clizia verso la lampada, ma rivela molto di più. Il sorriso dei numi dice infatti del loro acquietamento, di un’inversione della polarità del simbolo; nel caso di Astrea, della sua riconciliazione con l’umanità, intesa virgilianamente come ritorno a condizioni di ordine e armonia tali da rendere possibile la convivenza tra dei e uomini. Conciliante misura del nume placato, quel sorriso combinato allo sguardo rivolto altrove dice di una separatezza, di una distanza divertita della dea rispetto alle pur fulgide vicende umane dell’età del Progresso. La dea offre se stessa nell’involucro della lampada Auer ma non vi si lascia contenere, e nel suo sorriso afferma un’irriducibile eccedenza rispetto all’apparente perfezione del tempo nuovo.

Sulla base della proiezione dell’età dell’oro in un a-venire di progresso anziché in un a-priori regressivo, secondo la dottrina difesa da Saint Simon e poi da Comte, scaturisce dunque la possibilità per Mataloni del ritorno ad Astrea quale misura necessaria a conservare la novità presente nell’orizzonte del kosmos preservandola dal rischio dell’assalto al cielo e della hybris incontrollata. Alla definitiva eclissi del mito in nome del razionalismo tecno-scientifico, il manifesto di Mataloni reagisce rilevando l’enigma esistenziale, rimosso ma non risolto dalla volontà di dominio esercitata dall’uomo razionale appoggiandosi a una rappresentazione della realtà ridotta alla sola regolarità elementare delle leggi scientifiche. A meno di non leggere la conquiste del controllo tecnico in termini di puro dominio dell'umano, l'illuminazione artificiale che squarcia il buio per Mataloni partecipa in un certo senso della stessa dynamis dell’illuminazione astrale ed è dunque coerente, per un’umanità tuttora aperta all’enigma, celebrarla come dono di un dio rilevando il numinoso nella forza di cui la macchina dispone senza mai poter attingere all'archè.

Fonti
  • Grillo 1789
    L. Grillo, Favole esopiane, Paris 1789.
  • Metastasio 1741
    Pietro Metastasio, Astrea placata ovvero la felicità della Terra, in Opere drammatiche, IV, Roma 1741, 279-296.
  • Metamorfosi
    Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi.
  • Simons 1656
    Joseph Simons (Emmanuel Lobb), Leo Armenus sive impietas punita, in Tragoediae quinque, Leodii 1656.
Riferimenti bibliografici
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    D. Cimorelli, G. Ginex, Storia della comunicazione dell’industria lombarda 1881-1945, Cinisello Balsamo 1997.
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    C. Salsi (a cura di), Pubblicità & Arte. Grafica internazionale dall’affiche alla Pop Art, Milano 2007.
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  • Yates [1978] 1990
    F. Yates, Astrea. L’idea di Impero nel Cinquecento, Torino 1990.
English abstract

Focusing on the well-known poster made in 1895 by Giovanni Mario Mataloni for the Auer incandescent gas light company in Italy, perhaps the first modern Italian affiche on a par with the French ones, the present paper aims to present the iconological subtlety of the masterwork as a conscious response to the phaenomenon of the removal of the mythical thinking provoked by technological progress, in coherence with Aby Warburg's Kreuzlingen Lecture. Thanks to his involvement with antiquarian networks and groups of archaeologists gathered around the publishing house F.lli Bocca, Mataloni could figure the return of Astraea sharing her crown with the ‘divine’ Auer lamp, thus creating a symbolic image for the deliverance of the numinous within an age of industrial innovation and scientific progress.

keywords | Art; Myth and Technology; History of the Poster.

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Trentini, Quel fulgore d'Astrea Pensiero mitico e progresso in un manifesto di G.M. Mataloni, ”Rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 313- 324 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0082