"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

L’altro Omero di Pavese.

La traduzione dell’Inno ad Afrodite e il mito, il rito, la festa

Giuseppe Palazzolo

English abstract
Pavese e il classico

Gemma con Afrodite e Anchise: cornelia con cornice moderna in oro e smalto (3,3 cm); dall'Italia; 25 a.C. circa; The J. Paul Getty Museum (Malibù-Los Angeles).

La relazione di Cesare Pavese con il mondo classico è una vicenda lunga e travagliata, fatta di abbandoni e riprese, di caustiche passioni e profondi ripensamenti. Iscritto all’indirizzo moderno del liceo D’Azeglio di Torino, che prevede lo studio della civiltà greca, ma non della grammatica, è solo dopo la maturità liceale, nell’estate del 1926, che Cesare si tuffa nello studio della lingua, “per potere un giorno ben conoscere anche la civiltà omerica, il secolo di Pericle, e il mondo ellenista” (Pavese 1966a, agosto 1926, 27). L’immersione nella lingua e nella cultura greca continua con l’iscrizione alla Facoltà di Lettere, con il superamento dei relativi esami, tra cui il corso di Letterature e lingue classiche comparate con Rostagni (Dughera 1992, 27), e le lezioni private impartite al giovane Manolo Bodo (cfr. lettera a Ginzburg, Pavese 1966a, 20 agosto 1929, 118-133). Dopo un periodo di allontanamento, l’occasione per il ritorno ai classici greci – l’Iliade, l’Odissea, i lirici, i tragici – è il confino a Brancaleone, dall’agosto 1935 al marzo 1936. Immerso nel paesaggio calabro sente di poter diventare contemporaneo dei greci. Chiede insistentemente alla sorella i testi greci e le scrive (Pavese 1966a, 27 dicembre 1935, 489): 

Fa piacere leggere la poesia greca in terre dove, a parte le infiltrazioni medioevali, tutto ricorda i tempi che le ragazze ὑδρευούσαι si piantavano l’anfora in testa e tornavano a casa a passo di cratère. E dato che il passato greco si presenta attualmente come rovina sterile – una colonna spezzata, un frammento di poesia, un appellativo senza significato – niente è più greco di queste regioni abbandonate. I colori della campagna sono greci. Rocce gialle o rosse, verdechiaro di fichindiani e agavi, rosa di leandri e gerani, a fasci dappertutto, nei campi e lungo la ferrata, e colline spelacchiate brunoliva. Persino la cornamusa – il nefando strumento natalizio – ripete la voce tra di organo e di arpa che accompagnava gli ozi di Paride θεοειδής quando sui pascoli dell’Ida mangiava il formaggio delle sue pecore e sognava gli amori di Ἑλένης λευκελένου.

Passano altri dieci anni ed è la lettura della Fisiologia del mito di Mario Untersteiner a spingere Pavese a riprendere in mano “grammatiche e dizionari” per ‘rosicchiarsi’ Omero, col rimpianto di non poter procedere con la scioltezza desiderata nella traduzione della “lingua terribile – divina e terribile, come la terra secondo Endimione” (Pavese 1966b, 20 novembre 1947, 195). Da questo momento in poi non ci saranno più distacchi. La storia è nota: nel 1947 pubblica i Dialoghi con Leucò, il libro che terrà sul comodino nella notte fatale. È il libro con cui prova un nuovo e antico incanto del mondo, che attraversa il mito per tentare di ricongiungersi con l’origine della propria storia e delle proprie parole. “Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge”, scrive nella presentazione che accompagna il libro. Forte di questa anamnesi progetta nel 1948 una nuova traduzione dei poemi omerici, affidata, su consiglio di Untersteiner, a Rosa Calzecchi Onesti, con la quale intrattiene una fitta corrispondenza. Parallelamente si mette nuovamente alla prova con i poemi omerici, e questo laboratorio di traduzione può essere percorso in tutta la sua ampiezza tra le pagine dell’Opera poetica (Pavese 2021). Nella recente pubblicazione trovano posto – accanto alla Teogonia, ai lirici e ai tragici, e ad altri classici latini – anche la trascrizione della traduzione degli Inni omerici, da me curata, che integra ed emenda in alcuni punti l’edizione precedente (Dughera 1981, insieme alla Teogonia).

Gli Inni omerici

Pavese tradusse tre inni: il V e il VI, entrambi dedicati ad Afrodite, e VII, riservato a Dioniso. Su quest’ultimo non sono mancate valide analisi, ma anche la traduzione dell’Inno V ad Afrodite merita un approfondimento. La traduzione è vergata su 7 fogli numerati, scritti recto e verso, eccetto l’ultimo solo recto, del formato 287 x 210. Gli altri due inni sono su 3 fogli di diversa dimensione (267 x 207) e con caratteristiche uguali al manoscritto precedente. I manoscritti sono conservati, insieme con quello della Teogonia, nel Fondo Sini 22. Il primo editore e i commentatori successivi (Cavallini 2012; Barberi Squarotti 2014) concordano nel collocare queste traduzioni nel 1949, nello stesso periodo in cui Pavese seguiva la versione finale della traduzione di Iliade e Odissea affidata a Rosa Calzecchi Onesti. Nella nota al testo dell’edizione, Dughera afferma che presso il fondo Einaudi si trova l’originale usato per la traduzione, e cioè la ristampa (1946) di Thomas W. Allen, Homeri Opera, V, Hymnos Cyclum Fragmenta Margiten Batrachomyomachian Vitas continens, Oxford 1912, che reca molte annotazioni a margine e interlineari in corrispondenza degli inni tradotti (Dughera 1981, 99). Sulla prima pagina una nota autografa riporta la data 4 gennaio 1949, che rappresenterebbe dunque il terminus post quem per la datazione. Altre informazioni emergono dall’epistolario. L’11 dicembre 1948 Pavese scrive a Erich Linder, chiedendogli notizie dei ‘suoi’ Inni omerici, il tomo V dell’edizione oxoniense, e dei tomi precedenti per la traduttrice (Pavese 1966b, 11 dicembre 1948, 323): 

Caro Linder, la presente è personale e sfogatoria. Tre cose: a) perché avete passato l’incarico dei testi di Omero per la Calzecchi alla sede editoriale, col risultato che quella degna ragazza non avrà mai nulla? Non sei anche ‘libreria’ tu e come tale dedito a ricerche ed acquisti? Adesso lei chiede il volume introduttivo del Mazon (Belles Lettres?) che ci dicevate di aver ricevuto, ed io non so chi sollecitare perché glielo mandi. Idem per l’Allen (Omero inglese), chi è responsabile? Vergogna. b) perché continuate a tacere furbescamente, dopo la vostra cartolina del 10 novembre, sui miei Inni omerici arrivati sì ma bloccati? Vergogna. c) perché non mi mandate The Myth of thè State di Cassirer (Yale Univ. Press, New Haven – 1947 ristampa presso l’Oxford Univ. Press), tanto desiderato e voluto? Volete che lo chiediamo direttamente agli editori con vostro evidente scorno e danno? Vergogna. 

Dall’osservazione dei manoscritti risulta che Pavese abbia seguito l’ordine inverso alla disposizione del volume di Allen, traducendo prima l’inno VII A Dioniso, quindi il VI Ad Afrodite e infine il V Ad Afrodite. La traduzione dell’inno si pone dunque al vertice di un percorso di avvicinamento a quei componimenti in esametri dattilici e in lingua epico-omerica, dall’incerta datazione e raccolti probabilmente dopo la metà del IV secolo. La traduzione di quest’inno in particolare è caratterizzata da un numero di fraintendimenti ed errori superiore alla media delle altre versioni, paradossalmente indice di una maggiore familiarità con la lingua greca, che forse lo ha indotto a servirsi meno di strumenti come lessici e vocabolari. Ci torneremo. Prima registriamo i motivi di interesse dell’inno.

V. Ad Afrodite

L’inno V Ad Afrodite  celebra la potenza della dea e racconta la sua unione con il mortale Anchise. Verosimilmente era recitato durante le feste che accompagnavano, in Grecia e in Asia minore, le cerimonie cultuali in onore della dea. La struttura del componimento è compatta e coerente e anche le digressioni, particolarmente ampie nell’ultima parte (vv. 202-238; vv. 259-272) sono funzionali e non eccentriche, e possono essere considerate una cifra stilistica di un autore che ama raccontare distesamente. Si tratta dell’inno stilisticamente più affine ai poemi omerici: 22 versi su 293 sono in comune con Iliade e Odissea, mentre solo 22 vocaboli non appartengono al lessico dell’Omero epico. La contiguità tra l’Iliade e l’inno è confermata anche dalla profezia sugli Eneadi (Il. XX, 306-8; Inno V, 196-201), che si presenta simile, ma con una importante differenza rilevata da Hoekstra (1969): nel poema omerico Poseidone si riferisce a una dinastia regnante, mentre nell’inno Afrodite sembra annunciare una stirpe nobile discendente da re, ma priva di potere regale.   

Nell’opera di Pavese, la figura e il nome di Afrodite appaiono poco ma in posizione rilevata. Nei Dialoghi con Leucò la dea è direttamente citata in due luoghi: in Schiuma d’onda il dialogo tra Saffo e Britomarti, imperniato sul desiderio che “schianta e brucia”, si chiude evocando la dea balzata fuori dalla schiuma, “quella che non ha nome, l’inquieta angosciosa, che sorride da sola”. E Pavese traduce anche l’inno VI Ad Afrodite, che per la sua brevità da alcuni è considerato l’esordio di un componimento maggiore, dove viene descritta la nascita della dea “per l’onda del risonante mare nella schiuma soave”. Il lago, invece, incuneato tra i due dialoghi odissiaci L’isola e Le streghe, si apre ricordando che “Ippolito, cacciatore vergine di Trezene, morì di mala morte per dispetto di Afrodite”. La vicenda del cacciatore devoto a Diana è rapidamente scorciata nella breve introduzione: il voto di castità dell’eroe, figlio di Ippolita, regina delle Amazzoni, e di Teseo, provoca la vendetta di Afrodite, che suscita in Fedra l’amore per il figliastro, quindi la morte e poi la resurrezione per mano di Diana, che lo trasporta in Italia rendendolo suo sacerdote con il nome di Virbio. “Per gli antichi l’Occidente – si pensi all’Odissea – era il paese dei morti”: così si chiude il preambolo, alludendo alla Nekyia che segna Virbio come doppio di Odisseo. Entrambi gli uomini, infatti, sono assoggettati al desiderio delle dee – Calipso, Circe, Diana – al quale oppongono l’attaccamento all’orizzonte della propria fragilità creaturale. Odisseo risponde a Calipso che quel che cerca lo porta nel cuore e Circe rimane stupita e turbata dall’essere stata, almeno per una notte, Penelope. A Diana che lo ha collocato in una dimensione sospesa, nel “vivo crepuscolo di un mattino perenne”, Virbio chiede di “stringere […] un sangue caldo e fraterno”, sente il bisogno di “avere una voce e un destino” (Pavese [1947] 2021, Il lago 110). Inoltre Pavese ha studiato Il ramo d’oro di Frazer e sa che Ippolito-Virbio era originariamente associato al culto di Diana come Adone lo era a quello di Afrodite. Forse non sa che Ippolito era venerato insieme ad Afrodite ad Atene e a Trezene, e che quindi può essere annoverato tra i paredroi della ‘dea madre’, tra coloro che accompagnano la divinità in posizione subordinata, come figlio o sposo. O entrambi: il sposo-figlio in questo caso simboleggia il raccolto, il seme che muore per poi risorgere, fondendo il sacrificio alla fertilità. Nell’inno il ruolo di paredros è interpretato da Anchise, che dopo il rapporto sessuale prega la dea di non lasciarlo “vivo senza forza” – ζῶντ᾽ ἀμενηνὸν (Inno V 188) – con un termine che talvolta si riferisce alle ombre dell’Ade. La morte o l’evirazione (di cui l’invalidità che colpirà Anchise può essere considerata una benevola sostituzione) era infatti la sorte che attendeva coloro che si univano a una dea.

A questo punto è chiaro che, a dispetto delle scarse occorrenze del nome della dea, l’inno ad Afrodite è profondamente consentaneo ai Dialoghi, e in particolare in riferimento al macrotema dell’uomo tentato e contemporaneamente terrorizzato dall’incontro con la divinità. Il corpo a corpo con il testo greco conferma la resistenza di un’inquietudine che la pubblicazione dei Dialoghi non è riuscita a soddisfare.

La traduzione di Pavese

Seguiamo quindi la traduzione pavesiana. Si conferma l’atteggiamento sourcier (De Balsi 2014), comune ad altre prove traduttorie, che si riscontra ad esempio nella resa degli epiteti esornanti, questione discussa anche con Rosa Calzecchi Onesti (Neri 2007). Ne sono esempi i calchi multaurea, per πολυχρύσου (Inno V 1), bencoronata per ἐυστεφάνου (Inno V 6), tenerapelle per ἁπαλόχροας (Inno V 14), aureasaetta per χρυσηλάκατον (Inno V 16), risamante per φιλομμειδὴς (Inno V 17, 49, 56, 65, 155), mentetortuosa per ἀγκυλομήτης (Inno V 22), reso anche con pensierotortuoso (Inno V 42). Altro tratto caratteristico è il ricorso a espressioni delle lingue moderne, come il francese o l’inglese, per rendere gli avverbi: è il caso di someway (Inno V 95, 111) per πού, di toujours per ἤματα πάντα (Inno V 209, 221, 248). In controtendenza appare invece l’uso del corrispondente latino: non quid per οὔ πέρ τι (Inno V 34), oppure quondam per ποτε, (Inno V 249). Costante appare il tentativo di piegare la sintassi italiana a quella greca, che si realizza nella tendenza a riprodurre anche nella lingua d’arrivo la disposizione delle parole del greco, rispettando il giro di frase e i confini del verso del testo originario. “Musa dimmi le opere della multaurea Afrodite / Cipride, che agli dèi dolce desio eccitò / e domò le stirpi dei mortali uomini, / e gli uccelli cielpiombati e le bestie tutte, / così quante la terra molte nutre come quante il mare”: fin dall’apertura dell’inno Pavese sceglie di marcare strettamente il testo di partenza, senza curarsi di generare costrutti arditi e oscuri. Nelle frequenti inversioni, nei bruschi iperbati, nella tendenza quasi programmatica a disarticolare l’ordine ‘naturale’ della frase italiana si avverte l’inseguimento di un’espressione ieratica, dissonante, in costante frizione con la lingua quotidiana. Rifugge volontariamente dalla musicalità della maggiore linea lirica di stampo petrarchesco-leopardiano per inseguire una propria metrica barbara nella quale alcuni versi battono su evidenti esapodie spesso con clausola dattilico-spondaica (“veneranda sposa fece cose eccellenti sapiente”, Inno V 44; “altare farò, e farò a te sacrifici belli”, Inno V 101), o riecheggiano lunghezze whitmaniane. Così la misura consuetudinaria del tempo è scardinata dal ritmo straordinario del rito e della festa, che rende presente il mito. 
È sulla resa semantica, inoltre, che il traduttore si prende maggiori spazi di manovra. Il desiderioἵμερον –, attributo precipuo della dea e asse tematico dell’intero componimento, viene subito caricato in senso decisamente sessuale: l’aoristo del verbo ὄρνυμι diventa “eccitò”, appena smorzato dall’allotropo letterario “disio”. Al v. 4 conia “cielpiombati” per rendere l’aggettivo διιπετέας, che nei poemi omerici è attributo dei fiumi, di solito interpretato come derivato dalla radice di πίπτω, ‘cadere’ e quindi tradotto ‘che cade dal cielo’ o ‘che viene da Zeus’; in realtà proviene dalla radice di πέτομαι, ‘volare’, e dal dativo διεί, ‘nel cielo’ (Poli 2010, 244-5 n.).
In altri casi Pavese incorre in lapsus che sovvertono il senso originario della frase. Alla forza seduttiva della dea solo tre divinità riescono a resistere: Atena, Artemide ed Estia. In intima aderenza al nome greco Pavese chiama quest’ultima “Istia” e scrive che “questa non volle però duramente rifiutare” (Inno V 25) le avances di Poseidone e Apollo, traducendo l’indicativo aoristo ἀπέειπεν come se fosse un infinito dipendente da οὐκ ἔθελεν; la versione corretta sarebbe invece ‘questa davvero non voleva, ma rifiutò fermamente’. 
Il potere ammaliante di Afrodite non ha risparmiato nemmeno Zeus, spingendolo a tradire la legittima consorte con donne mortali. Il padre degli dèi medita di punire Afrodite facendola innamorare di un uomo, in modo che, marchiata dallo stigma della vergogna, non promuova più accoppiamenti promiscui tra le divinità e gli esseri umani. È il grande tema dei Dialoghi che Pavese ritrova nell’inno: ‘mischiarsi’ – così nell’inno Pavese traduce sempre μιχθήμεναι, l’accoppiarsi di dèi e di donne, o di uomini e dee (ai vv. 39, 46, 50, 52) – deve essere vietato nel nuovo ordine olimpico voluto da Zeus, che stabilisce una rigorosa separazione tra gli elementi – dei / uomini /animali – unificati nel proemio dalla malìa rapinosa di Afrodite. Il potere seduttivo, indifferenziato, anarchico e libertario viene così sottomesso e irregimentato al nuovo ordine costituito, del quale la profezia della nascita di Enea, ultimo nato dall’amplesso di una dea e di un uomo, rappresenta un sigillo. 
Infiammata dalla passione per Anchise, la dea avvia il suo rituale di seduzione (Inno V 58-67), nel quale non sono pochi i possibili riferimenti a testi relativi a Ishtar (Smith 1981, 41). All’arrivo sul monte Ida la dea appare come μητέρα θηρῶν, “madre di belve”, che immediatamente suscita negli animali il desiderio di accoppiarsi (Inno V 68-74). Seppur velata da sembianze umane, la visione induce Anchise in un subitaneo rapimento amoroso (Inno V 75-91). Nella descrizione dell’abbigliamento il programmatico rispetto dell’ordine delle parole dell’originale greco consente al poeta anche ricercati effetti retorici come l’epifrasi al v. 87, “aveva ricurvi ritorti orecchini e luminosi”, (εἶχε δ' ἐπιγναμπτὰς ἕλικας κάλυκας τε φαεινάς), risolvendo così un passaggio che non trova concordi gli studiosi sull’identità degli oggetti designati con ἕλικας e κάλυκας: il primo termine potrebbe indicare fermagli o bracciali, il secondo orecchini. Il discorso che le rivolge Anchise (Inno V 92-106) è esemplato sulla preghiera verso una dea, alla quale si chiede salute e felicità in cambio dell’edificazione di un altare e della fondazione di un culto. Per vincere le resistenze dell’uomo Afrodite deve mentire (Inno V 107-142): inventa un’origine mortale dal re frigio Otreo e quindi l’appartenenza a un popolo alleato. Racconta di essere stata rapita da Ermes, l’Argifonte, che l’ha condotta “per molta terra lavorata da uomini mortali, / molta non divisa e non coltivata, dove le belve / voraci si aggirano per le ombrose vallate” (Càssola 1975). In rapida successione sono individuati i due tipi – la terra coltivata e l’ambiente selvaggio – che condensano simbolicamente il paesaggio della Grecia arcaica. La traduzione pavesiana di πολλὴν δ᾽ ἄκληρόν τε καὶ ἄκτιτον, “molta povera e incolta (terra)” (Inno V 123) evidentemente smarrisce il riferimento alla varietà del Welt presente nel testo greco.

Per aumentare la temperatura patemica della scena, la dea dice che οὐδὲ ποσὶ ψαύσειν ἐδόκουν φυσιζόου αἴης (Inno V 125), “pensavo che non avrei più posto piede sulla terra generatrice di biade” (così Càssola 1975), mentre Pavese traduce “né coi piedi toccare diede l’alma terra”, considerando ἐδόκουν proveniente da δίδωμι, ‘dare’, anziché correttamente da δοκέω, ‘sembrare’. L’ultimo atto della supplica è la promessa di un matrimonio libero e paritario, tra appartenenti a famiglie nobili e consenzienti. 
La risposta di Anchise è costruita su un’impalcatura di apodosi – se è mortale e di alto lignaggio, se l’unione è voluta dagli dèi – che culmina in una protasi fraintesa da Pavese. Il poeta infatti traduce: “Se mortale sei, e donna te generò madre, / Otreo è il padre per nome illustre, come dici, / dell’immortale messaggero per volere qui vieni / Erme, e me moglie chiamerai tutto il tempo” (Inno V 145-148). Nell’ultimo verso ἐμὴ δ' ἄλοχος κεκλήσεαι ἤματα πάντα, “tu sarai detta per sempre mia sposa” (Poli 2010), scambia il nominativo per accusativo, l’aggettivo possessivo per pronome personale e confonde la diatesi del verbo. In questo modo si smarrisce l’acme dell’ironia tragica implicata nella risposta di Anchise, che promette un matrimonio indissolubile se le premesse fossero verificate. Ma le condizioni, che egli pensa essere vere, sono in realtà false. Nel momento stesso in cui stringe in un nesso argomentativo il periodo ipotetico rivela al pubblico dell’inno, che conosce la verità, che le unioni tra uomini e divinità non sono più possibili. Pavese non lo comprende, o finge di ignorarlo. Anche l’iperbole dei vv. 153-4 – βουλοίμην κεν ἔπειτα, γύναι εἰκυῖα θεῇσι, / σῆς εὐνῆς ἐπιβὰς δῦναι δόμον Ἄϊδος εἴσω – risulta sostanzialmente fraintesa. “Acconsentirei poi, o donna pari agli dei, a discendere nella dimora di Ade dopo essere salito nel tuo letto” (Poli 2010), conclude Anchise, accettando la profferta d’amore e suggellandola enfaticamente con la disponibilità a scendere nell’Ade dopo aver consumato il rapporto sessuale. “Vorrei poi, donna simile alle dee, / il tuo letto salendo, entrare la casa d’Ade dentro”, traduce Pavese, forzando il testo greco per stringere in un unico laccio temporale l’amore e la morte, quasi prefigurando la consegna volontaria a un destino fatale.
L’incanto seduttivo di Afrodite ha raggiunto il suo scopo. Anchise prende per mano la dea per guidarla verso il soffice letto “bentappetato”. Con un gesto di finta modestia o di studiata malizia “la risamante Afrodite” abbassa lo sguardo: “voltatasi giù gli occhi belli gettando” (Inno V 156) traduce Pavese, ma la sua memoria sarà corsa a Circe dei Dialoghi, che confessa a Leucò il suo cedimento alla fragilità dell’umano nel caldo abbraccio con Odisseo. “Anch’io quella sera fui mortale. Ebbi un nome: Penelope. Quella fu l’unica volta che senza sorridere fissai la mia sorte e abbassai gli occhi” (Pavese [1947] 2021 Le streghe 116). Anche la descrizione del letto, onusto di pelli animali (“sopra / di orsi pelli giacevano e di leoni cuporuggenti”, Inno V 158-159), rafforza il rimando alla scena odissiaca, così come l’accurata svestizione della dea, quasi rituale nei gesti lenti e misurati.
Afrodite sveglia Anchise dal sonno in cui era piombato dopo aver consumato l’unione e si rivela. L’epifania della dea – e lo svelamento del Dios apate, dell’inganno orchestrato dagli dèi – sortisce nell’uomo la reazione consueta: Anchise si copre il capo e svia lo sguardo, quindi supplica la dea di salvarlo dalla morte o dall’invalidità. A lui Afrodite risponde con un ampio discorso (Inno V 191-290): lo incoraggia, gli ricorda quanto sia caro agli dèi, gli profetizza la nascita di un figlio che regnerà sui Troiani, quindi aggiunge due ampie digressioni. Per confermare il favore che gli dèi hanno riservato al lignaggio di Anchise, la dea presenta gli exempla di Ganimede e Titone. Il primo, rapito da Zeus invaghitosi della sua avvenenza, riceve in sorte immortalità ed eterna giovinezza. Il secondo, rapito da Eos che per lui impetra solo l’immortalità, è condannato a una vecchiaia senza fine. L’eterno ragazzo e il vecchio sottratto al fluire del tempo: sono le due figure, i due poli tensivi tra cui si sviluppa la ricerca pavesiana della ripeness. Ma tra il puer e il senex c’è una terza immagine che conclude il discorso di Afrodite e, di fatto, l’inno. È la profezia della nascita di Enea, frutto dell’incontro di Afrodite e Anchise, il suggello dell’ultimo ‘mischiarsi’ di uomini e dee, l’estrema vergogna per la dea che ha suscitato accoppiamenti poco giudiziosi. Il neonato sarà allevato dalla “ninfe […] montane ampioseno” (Inno V 257), le Oreadi che abitano l’Ida, esseri intermedi tra i mortali e gli immortali. Due versioni, entrambe presenti nell’inno, raccontano la restituzione del figlio al padre: secondo la prima, quando avrà raggiunto la giovinezza sarà condotto dalle ninfe presso Anchise; secondo l’altra versione sarà Afrodite stessa, al compimento del quinto anno del bambino, ad accompagnarlo dal padre. La dea è categorica, infine, nell’imporre il silenzio sulla vera origine del “rampollo […] similadio”, θάλος θεοείκελος: alle domande sulla madre, Anchise dovrà rispondere che è stato generato da una delle ninfe dell’Ida. Vantarsi di essersi unito con Afrodite susciterà l’ira e il fulmine di Zeus. Attento lettore dei Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia di Jung e Kerényi, Pavese avrà riconosciuto nella vicenda di Enea le caratteristiche del Fanciullo divino: orfano, con la madre che contemporaneamente è e non è, in relazione problematica con il padre, è segnato da una ‘solitudine primordiale’ (Sichera 2015 e Lanzillotta 2020). Enea è collocato nello spazio di una cesura e di una censura originarie: cesura con il tempo mitico del ‘mischiarsi’ di uomini e dee e censura sulla propria archè, coperta dalla narrazione mistificante della madre. Nel segreto di questo figlio Pavese avrà rintracciato la dynamis di distacchi e ritorni, di paternità dissimulata, sospesa, rifiutata e cercata, che muove la profondità dei suoi romanzi maggiori, La casa in collina e La luna e i falò.

Riferimenti bibliografici
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    M.L. West, Homeric Hymns, Homeric Apocripha, Lives of Homer, Cambridge (Mass.)-London 2003.
English abstract

The recent publication of Cesare Pavese’s Opera Poetica (2021) makes it possible to return to the theme of Pavese's relationship with myth. In particular, the analysis of Pavese's translation of the Homeric Hymn V Ad Aphrodite is an opportunity to rediscover the macro-theme of man tempted and simultaneously terrified by the encounter with the divinity, the μιχθήμεναι - ‘mixing’ - on which he had structured Dialoghi con Leucò (Dialogues with Leucò). In the poet's version, the forcing of the Greek text also allows other major issues to emerge, addressed through the studies of Frazer, Jung and Kerényi: we recognise the archetype of the Divine Child that animates the profound dynamis of the major novels, La casa in collina (The House on the Hill) e La luna e i falò (The Moon and the Bonfires).

keywords | Cesare Pavese; Translation; Classical myth; Mythocriticism; Anthropology; Homeric Hymns; Dialogues with Leucò; The House on the Hill; The Moon and Bonfires.

Per citare questo articolo/ To cite this article: G. Palazzolo, L’altro Omero di Pavese, ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 123-134 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0085