"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

200 | marzo 2023

97888948401

Festa mitica

Aby Warburg e Furio Jesi

Margherita Piccichè

English abstract

Morire quando è necessario, senza eccedere.
Rinascere quando occorre da ciò che si è salvato
(Wisława Szymborska, Autonomia, in Id, Ogni caso, Milano [1972] 2003)

Il dibattito novecentesco a proposito dell’autonomia del sacro, del mitico e del simbolico ha aperto un significativo squarcio nel panorama della cosiddetta ‘scienza del mito’. La fascinazione che provò Aby Warburg per il mito è ormai nota, lo stesso non può dirsi fino in fondo a proposito di un autore come Furio Jesi, mitologo torinese che delineò una sua propria e precisa scienza del mito.

Scomparso prematuramente nel 1980, Furio Jesi fu davvero uno dei protagonisti dello scenario culturale del secolo scorso. Emergendo appena quindicenne come egittologo, fu studioso geniale e eruditissimo, in grado di incrociare temi di ricerca anche molto lontani fra loro, che però sempre ebbero a che fare con la storia antica, il ritorno della classicità, la letteratura e la politica. Nonostante l’impianto della sua riflessione sia ancora poco noto, negli ultimi anni si è tentato di restituire questo ‘genio isolato’ al contesto intellettuale e al dibattito coevo, grazie ad un rinnovato interesse e alla pubblicazione di opere inedite o non più reperibili. In Mito, violenza, memoria (2012), ad esempio, Enrico Manera traccia una biografia intellettuale di Jesi, analizzando problemi e snodi del suo pensiero e consegnandoci una guida pratica per sciogliere le complessità dell’autore, illustrandone le ragioni di attualità.

Con la premessa di una ricerca ancora in fase aurorale, questo contributo propone di assecondare e visualizzare la consonanza di prospettive presenti tra le linee di ricerca di Furio Jesi e quelle dello storico della cultura Aby Warburg, ibridandole, a proposito del tema ‘mitico’ della festa. 

Jesi e Warburg: il mito

La corrispondenza tra le due figure è già stata evidenziata dai principali studiosi attuali di Jesi, Andrea Cavalletti e Enrico Manera, nonché da Michele Cometa: le due linee teoriche, sicuramente differenti e non omogenee, e che da entrambe le parti ci hanno consegnato promettenti opere inconcluse, si incrociano nel segno della ricerca delle sopravvivenze dell’antichità classica e, se analizzate, potrebbero avere il vantaggio di mettere meglio a fuoco il lavoro di questi due autori densi e complessi. La grande differenza che è possibile individuare si trova innanzitutto nel mezzo di indagine: se Warburg si serve prevalentemente di immagini per definire non solo problemi storico-artistici, ma la propria effettiva interpretazione del mondo, Jesi si serve della letteratura (e soprattutto letteratura contemporanea) come dispositivo di analisi e di azione. Tuttavia, così come in Warburg esiste un significativo rapporto tra immagine e parola, anche in Jesi l’immagine assume valore determinante, come sottolinea Cometa (2010) in L’immagine in Jesi: la rappresentazione sconfina nell’immagine, anche letteraria, e Jesi finisce per occuparsi ben spesso di immagini, a partire dallo studio dell’archeologia, sua prima palestra intellettuale, passando per l’utilizzo frequente del mezzo immaginifico dell’ekphrasis.

Come già accennato, uno spazio centrale della ricerca jesiana è dedicato al ‘mito’. Tale indagine epistemologica accompagnerà Jesi per tutta la vita, prima in continuità e poi in aperta rottura con il mitologo ungherese Károly Kerényi. Nel tentativo di definire l’ontologia di una scienza del mito, nel 1972 Jesi arriverà all’introduzione del modello ‘macchina mitologica’ (cfr. Jesi [1973] 2008, Jesi [1973] 2007, Jesi [1979] 2011), dispositivo teorico che ne rende il pensiero di grande attualità, e che si dimostra produttivo non solo nella scienza del mito, ma nell’antropologia, nella filosofia e nella prassi politica (Cavalletti, 2013).

Come Warburg, Jesi sviluppa un percorso intellettuale che, fin dal principio individua come suo centro il tema delle sopravvivenze:

Al momento in cui un fenomeno cessa di essere vitale, non scompaiono automaticamente le sue tracce, bensì le vestigia di fenomeni trascorsi possono essere individuate in civiltà cronologicamente posteriori, travisati e alterati quando la loro stessa natura permetteva l’attribuzione a un nuovo tipo di significato, in rapporto a un nuovo tipo di civiltà (Jesi, 2010, 235-236).

Il motivo della traccia che non scompare, che, insepolta, sopravvive al suo tempo e viene risignificata di civiltà in civiltà si richiama a sonorità assolutamente warburghiane.

Tuttavia, rispetto a Kerènyi, che intendeva il mito come un ‘a priori’ reale, un eterno presente trascendente e conoscibile, Jesi svuota la materia mitologica di tale metafisica assolutezza, sganciandosi dal maestro ungherese. Tale divergenza porterà a una vera e propria rottura con Kerènyi, che avrà toni violenti e accesi e culminerà con un allontanamento sia teorico che personale. Jesi considererà sempre il mitologo ungherese “il suo vero maestro”, assecondando in senso letterale Giorgio Pasquali e il corvo di pasoliniana memoria, per cui “i maestri sono fatti per essere mangiati in salsa piccante”. Da tale pasto intellettuale, l’orizzonte del mito viene spiegato da Jesi come una sorta di “inconscio culturale”, secondo una metapsicologia culturale piuttosto che una metafisica.

Questo inconscio culturale, questa engrammatica memoria sociale, di fronte alla materia del mito si scioglie in emozione profonda: la commozione “che coglie gli uomini di oggi di fronte alle opere dei loro più remoti predecessori è la forza viva che consente all’uomo di riconoscere se stesso, di là dalle barriere del tempo” (Jesi 1996, 95). Nell’analisi dell’esperienza che si fa del mito ancestrale, Jesi restituisce una descrizione che quasi delinea la concretizzazione dell’engramma in Pathosformel, l’estasi violenta che afferra l’uomo di fronte alla ‘sopravvivenza’ dell’immagine mitologica.

La vertigine del passato è panica e fondamentalmente conoscitiva. Furio Jesi sviluppa una profonda e disarmante analisi sul mito, che è stata definita da Michele Cometa:

Il più avanzato tentativo in Italia di porre le basi per un’antropologia dell’immagine, e dell’immagine mitologica in particolare, nonché la più lucida teorizzazione, dopo Warburg e forse in assenza di altre letture iconologiche, del tema delle ‘sopravvivenze’ visuali del mito (Cometa 2010, 239).

La festa

In Conoscibilità della festa (Jesi 2013), Jesi continua il proprio lavoro a proposito dell’origine del fatto mitologico, concentrandosi sul tema della festa, che intende come “fatto sociale totale”.  La festa è il fatto mitico per eccellenza: necessario, inserito in un contesto dotato di quei presupposti sociali e culturali che garantiscano un’esperienza prima di tutto collettiva e che “nel più profondo” sia “più affine alla giocondità che alla malinconia” (Jesi 2013, 41). L’idea di ‘vera’ festa, per Jesi, recupera una rappresentazione fortemente estetica del momento collettivo, che insieme si muove e soprattutto si commuove, che si svincola dal piano dell’esperienza quotidiano e esplode in una dimensione altra, garantendo:

Un'emozione profonda che annulla […] la personalità di ciascuno in un unico flusso, inalterato e perenne attraverso gli anni (Jesi 2010, 363-264).

La massa che Elias Canetti descrive in Massa e potere si condensa e cola lavicamente, raggrumandosi festosa nella celebrazione della collettività:

Vita e piacere sono assicurati durante la festa. Molti divieti e molte separazioni sono stati aboliti, accostamenti del tutto inconsueti vengono consentiti e favoriti. L’atmosfera per il singolo è di rilassamento e non di scarica. Non c’è meta comune a tutti, che tutti insieme dovrebbero raggiungere. La festa è la meta, ed essa è stata raggiunta (Canetti 1972, 219-228).

La motivazione per cui, per Jesi, la realtà della ‘vera’ festa si esaurisce ben presto, si rivela nella natura mitica di questa. Per Jesi, la festa è costituita di un certo materiale mitologico, un prodotto storicamente verificabile, che per questo si differenzia dal mito (a cui tutto allude, ma che non riusciamo mai a raggiungere) e che, per essere esperibile, deve esprimersi collettivamente e pacificamente. Una festa vera, una piena esperienza di questo precipitato del mito, del senso del ‘festivo’ e di ‘giocondità’ collettiva, però, per Jesi, è preclusa all’uomo moderno.

Come indica Mario Pezzella in un proficuo schema (Pezzella 1989, 300 ss.) utile a interpretare complessivamente l’opera di Jesi, una componente rilevante va individuata nella dimensione “festiva del simbolo”, che è sempre appartenente al passato e inattuabile nella modernità. Possibile da intravedere solo nelle sue versioni mortifere, nelle sue “polarizzazioni negative” (recuperando un termine caro alla dialettica warburghiana), l’esperienza della festa vera ci è inconoscibile a causa dei fenomeni storico-sociali che caratterizzano (anche e soprattutto politicamente) la modernità, per cui a partire almeno dal XVIII secolo, non è più garantita la medesima qualità di collettività del ‘festivo’, impedendo alla festa di verificarsi in una dimensione di armonia pacifica (Jesi 2013). Jesi sostiene, dunque, che è sì possibile fare esperienza del mito della festa, per averne contezza, ma solo all’interno di due tipi di interpretazioni, segnate entrambe da un bagliore di morte.

Una prima festa autentica viene rintracciata nella “festa interiore”, che conserva intatto il rapporto fra l’uomo moderno e il senso di festivo: è tuttavia un fatto esclusivamente individuale, che non apre in nessun modo ad un’esperienza di “giocondità” collettiva. È una festa che ci rammenta il nostro perduto rapporto con la collettività, e per questo malinconica.

Un’altra festa autentica è, per Jesi, la festa crudele. In questo caso, energie mitiche si risvegliano di fronte a un’esperienza abbacinante e ricca di pathos, necessariamente collettiva, ma nella cifra del dolore e della violenza: Jesi vede feste crudeli nel racconto della peste di Atene di Tucidide, nel terremoto di Lisbona che ci consegna Voltaire, nella peste di Milano o nell’insurrezione della plebe milanese, narrate nei Promessi Sposi (per questo il tempo della festa è compagno del tempo della rivolta, vedi Jesi 2000):

Festa crudele senza implicazioni metafisiche, semplice esperienza umana collettiva di un’ora angosciosa e tuttavia ‘festa’: ‘festa’ in negativo, forma in cavo di ciò che era la ‘festa’. Quando la festa non è più possibile, poiché non esistono più i presupposti sociali e culturali per un’esperienza della collettività che “nel più profondo” sia “più affine alla giocondità che alla malinconia”, la memoria della festa antica e perduta assume nel rimpianto uno spicco così netto da attrarre nell’ambito della ‘festa’ in negativo, della forma in cavo, ogni esperienza che sia collettiva, dolorosa, e che in qualche misura corrisponda – appunto in negativo – alle caratteristiche della vera festa (Jesi 2013, 41).

Jesi traccia un preciso confine temporale, entro il cui spazio possiamo circoscrivere la possibilità per la festa di esistere, indicando nelle feste settecentesche un ultimo barlume del reale concetto di festa. Tuttavia, è nella cultura rinascimentale che Jesi vede l’ultimo momento in cui il mito visse in una forma veramente autentica, dove “essi ‘vissero’, o credettero di vivere, il mito” (Jesi 2008, 30):

La cultura umanistica rinascimentale fu ricchissima di esperienze mitiche: scrive giustamente il Kerényi che nel citato dipinto del Botticelli “vi è almeno altrettanta mitologia viva, quanta ve n’è nell’Inno omerico [ad Afrodite, tradotto da Marsilio Ficino e trascritto nelle Stanze dal Poliziano]”. Ma proprio questa eccezionale ricchezza di epifanie mitiche, questa singolare e appassionata disponibilità ad accoglierle, tennero l’umanesimo rinascimentale lontano dalla “scienza del mito”, e cioè da quell'attività critica che indaga in termini razionali l’origine, la formazione, la storia e i valori dei miti, trovando nel suo rigore razionale una compensazione al rimpianto per il perduto rapporto diretto con le epifanie mitiche. Così intesa, la “scienza del mito” è peculiare di epoche e di culture povere di genuina mitologia, e non deve quindi stupire la sua scarsa presenza nel rinascimento (Jesi 2008, 37-38).

E sarà proprio l’autenticità armonica del mito e della festa rinascimentale ad esercitare una corrosiva fascinazione su Aby Warburg. Sebbene non esista un lavoro compiuto e omogeneo in proposito, il tema della festa dovette essere di grande interesse per lo studioso di Amburgo, che dedica le tavole n. 28/29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36 del suo Atlante Mnemosyne proprio a tornei, feste, arazzi, fiabe mitologiche e scambi tra Nord e Sud, in particolare tra la Firenze del primo Rinascimento e le Fiandre.

A partire da Burckhardt, infatti, Warburg riprende l’idea che le feste rinascimentali segnino “nella loro forma più elevata […] un effettivo passaggio dalla vita concreta all’arte”, rintracciandovi uno scarto fondamentale per l’espressione del Nachleben, per il riaffiorare delle sopravvivenze del mito nel momento più alto in cui si manifesta la vita in movimento. Presso l’archivio del Warburg Institute, è presente un fascicolo d’oltre duecento pagine dall’emblematico titolo Festewesen (WIA, 62.1), che avrebbe dovuto costituire la base per una ricerca più ampia in merito.

In Rinascita del Paganesimo antico, Warburg scrive:

Le fasi della oscillazione tra i poli della atarassia (contemplatio) e dell’estasi (kinesis) sono riconoscibili come leggi del movimento circolare se noi concepiamo la prassi cultuale, le cui forme affievolite abbiamo fissato come feste profane, come una scala intermedia tra religione e concetto in quanto funzione catalitica nella coniazione dei valori espressivi, dato che la prassi cultuale raccoglie, formandole, la somma delle impressioni, sebbene tale prassi continui ad essere un movimento sofferente (Warburg 2007, 259-270).

La festa costituisce per Warburg un fatto decisivo, nella prospettiva di un processo della festa come “prodotto della seconda natura umana”: l’interesse per queste manifestazioni si attesta in virtù dell’esplicazione di un’intensificazione della realtà, tema a cui Warburg diede la caccia per tutta la vita. Nei suoi appunti, lo studioso associa e giustappone i concetti di “Lotta – Festa – Trionfo – Cerimonia – Regola – Stile”, identificando il momento della festa come un riadattamento vitale di un modello remoto. Qui, l’intera città rinascimentale si mette in scena, in uno straordinario processo di rielaborazione collettivo, reinventando temi e modi mutuati dall’Antico.

Come sottolinea Andrea Cavalletti, in un felice contributo su “aut aut” 321/322, intitolato Aby Warburg. Brevità dell’immagine, in cui innesta la propria conoscenza ‘mitologica’ in un terreno di studi segnatamente warburghiano:

Burckhardt aveva riconosciuto l’evento festivo come “momento di entusiasmo nel quale le idealità religiose, morali e poetiche assumono una forma visibile”, e aveva quindi osservato che “le feste italiane nella loro forma più elevata segnano un vero passaggio dalla vita reale a quella dell’arte”. Quest'ultima frase, come ha fatto notare Gombrich, doveva essere particolarmente cara a Warburg. Già in una pagina fondamentale del saggio su Botticelli e Poliziano, egli scrive: “Se è lecito supporre che le feste ponevano sotto gli occhi dell’artista le figure nel loro aspetto fisico, quali membri di una vita realmente in movimento, il processo della raffigurazione artistica appare evidente”; e aggiunge: “Il programma del dotto consigliere perde allora quella sfumatura di sapore pedantesco, e l’ispiratore non avrebbe suggerito il tema dell’imitazione, ma ne avrebbe semplicemente agevolato l’enunciazione” (Cavalletti 2004, 72).

L’“entusiasmo artistico” che Warburg individua nel dispiegarsi della festa rinascimentale fa sì che le indicazioni dell’‘architetto’ – dotto umanista non rendano affatto stucchevole e falso l’articolato e artificiale momento della festa, anzi è proprio lì che il tema mitologico rivive al di là del suo significato.

Tale festa rinascimentale, per il suo carattere mitico e ben equilibrato, si rispecchia in quella che Jesi chiama “festa pacifica”. Un evento che non sfocia nella semplice evasione e nella sospensione del tempo storico, ma ripristina la vita nella sua dimensione più energica e armonica, intensificandola grazie al raggiungimento di una collettività reale e dell’esperienza di comunità, “ove l’arte non si traduce semplicemente in un superficiale accessorio, ma si manifesta in un evento che resiste alla violenza e al degrado generalizzato che può soffocare la vita stessa” (Ferrario 2022, 5).  La festa pacifica e vera ha sicuramente una sua bilanciata matrice dionisiaca e apollinea, attraverso la quale l’uomo (il selvaggio, colui che letteralmente si salva) tende a manifestare in modo totale la propria umanità, nel modo più mite: la gioia tende a divenire sentimento orgiastico, la mitezza si traduce nello stato di quiete elementare dell’animale soddisfatto (dal cibo, dalle bevande inebrianti, dalle pratiche sessuali, cfr. Jesi 2013). 

La festa rinascimentale, che ci restituisce una memoria raccontata e dipinta, priva di un supporto materiale che ne trasporti rigorosamente il senso, è comunque il luogo in cui si verifica il “riemergere mnemico di valori espressivi della commozione (massima)” (WIA 102.1.2, traduzione di M. Ghelardi); è qui che la commozione che afferra e scuote diventa un fatto sociale, conoscitivo, fondazionale.

Attraverso la commozione si determina una conoscenza che non segue le pacificate vie dell’episteme scientifica; essa è semmai ‘esser presi’ in una rete di significati e di immagini: la commozione, dunque, costituiva l’elemento fondamentale caratteristico di tali immagini. Esse nascevano da un flusso di commozione e lo cristallizzavano in forma perenne. L’uomo le percepiva come la stretta della commozione su di lui, e l’essere così ‘afferrato’ non rappresentava una limitazione, bensì la facoltà stessa di espandersi (Jesi 2010, 454).

Jesi, mutuando il concetto di ‘commozione’ da Frobienius, identifica nel movimento delle figure proprio l’elemento residuale, la sopravvivenza:

L’harmonie du mouvement, c’est-à-dire l’élément qui dans toutes ces figurations devait, à ce qu’il semble, rester inchangé, demeure toujours telle (Jesi 2010, 192).

Queste figure che dalla commozione vengono afferrate e scosse, agitate ed eccitate nella festa mitica, danno luogo ad un movimento che, se da un lato è sicuramente la chiave della Pathosformel, dall’altro assume significato finale quando applicato alla rappresentazione più piena della collettività che è la festa. Il pathos dionisiaco si estrinseca nella festa vera e rinascimentale, calmato delle storture e rielaborato nella dimensione panica e gnoseologica della collettività: il mito si riconsegna alla comunità, apre uno spiraglio alla contemplazione dell’arte.

La festa impossibile e il mito del potere

Jesi, la cui scienza del mito si sviluppa attraverso incursioni attente nel mondo letterario, indica la trilogia pavesiana composta dai romanzi: La bella estate, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole come la descrizione più emblematica della fine della dimensione collettiva e festiva, dove il mito era garanzia di rigenerazione (Manera 2012, 50):

L’antica festa conferiva valore all’esperienza collettiva della notte e del sesso, e nel suo ambito si scopriva vera la realtà dei grandi simboli della morte, della terra, della luna, del sangue. Venuta a mancare la festa, le immagini sessuali e notturne sopravvivevano sul limitare dell’esistenza degli uomini come la campagna ai margini della città, e facevano brevi e precarie incursioni nella vita del singolo che ancora possedeva il senso di festività, ma che non poteva più manifestarlo insieme con la collettività in feste davvero salvatrici. La sequenza della trilogia […] è divenuta una sorta di paradigma dell’impossibilità di salvare il tempo storico mediante la tecnica rituale dell’antica festa (Jesi 2002, 164).

Se la festa vera, che incarna la commozione e l’essenza della pathosformel warburghiana, smette di essere conoscibile, in assenza di condizioni che ne garantiscano la collettività e l’armonia, non è detto però che questa sparisca per sempre.

Wavrin Master, Danza moresca. Da: Pierre de la Cépède, Paris et Vienne, terzo quarto del XV sec. Bruxelles, Bibliothèque Royale, Ms. 932-33, fol. 168r. Già in Tavola 32, Atlante Mnemosyne.

Rimanendo, infatti, all’interno di una ricognizione delle sopravvivenze, Jesi contrappone alla festa pacifica, la festa guerresca. Si può dire che avvenga una vera e propria inversione energetica, una modificazione del significato ultimo, che ne svela l’intrinseca polarità. Se il mito è per sua natura plastico, il ‘movimento’ che necessariamente lo anima:

Consiste proprio in una capacità di convertire o invertire le tensioni […]: una polarità può essere portata al suo ‘grado massimo di tensione’ oppure trovarsi, in determinate circostanze, ‘depolarizzata’ (Didi-Huberman 2006, 227).

La festa pacifica, mantenendo il connotato imprescindibile di movimento che sopravvive, si trasforma in una festa altra, che esalta le disposizioni guerresche dell’uomo, in cui i partecipanti preferiscono subire la cerimonia, omologandosi alla rappresentazione simbolica dell’evento, piuttosto che gioire insieme collegialmente e disinteressatamente, nel tentativo di mettere in scena una forza, presente o passata, atta a comprovare una differenza di grado tra individui o gruppi sociali (Ferrario 2022). Una festa che non è più festa, perché l’attività guerresca, per l’uomo, non può che essere un dovere:

Si ha il dovere di combattere per il sovrano, per la patria, per l’ideale, per la classe ecc. Di conseguenza, […] la festa guerresca non può essere un momento di decondizionamento, di essere senza dover essere; la festa guerresca sarà, piuttosto, il momento in cui il dovere [di combattere] trova ritualmente conferma e rappresentazione (Jesi 2013, 56).

La degenerazione della festa pacifica porta ad uno sbilanciamento verso una festa dionisiaca degli eccessi. Il mito della collettività festante si trasforma in un mito del potere, della collettività imbrigliata che, però, continua ad agitarsi. A ‘muoversi’. C’è coercizione, c’è esercizio del potere, c’è una festa che è la festa del potere, un mito non metafisico ma che apparteneva a tutti, ormai manipolato, ‘tecnicizzato’ e trasformato in uno strumento per combattere, per uccidere e far guerra. Nella festa guerresca si riflette una delle preconiazioni antiche individuate da Warburg, Griff nach dem Kopf, letteralmente “afferrare per la testa”: assistiamo nuovamente alla messa in scena di un pathos bollente, di una commozione attonita e collettiva, ma stavolta si riflettono sentimenti urgenti e per nulla pacifici: panico, difesa, furia, disperazione. Chi ci afferra stavolta non è un’estasi commossa e collettiva, è la violenza menadica di Dioniso Omestes.

Nell’inversione energetica, nella tecnicizzazione della festa, emerge chiaramente l’interesse di Jesi per l’analisi della mitologizzazione della politica e del potere, e da una lettura attenta sono chiari anche tutti gli sforzi che Jesi compie nel tentativo di una demitologizzazione di questi (che somiglia tanto alla de-demonizzazione di Warburg). Lo studio dei miti del potere e delle culture di destra, della riattivazione e disattivazione di energie passate, nella sistematica jesiana si rivela sicuramente più denso ed esauriente rispetto all’attenzione che Warburg dedicò agli stessi temi, che fu parziale ma non assente. In numerose tavole di Mnemosyne, infatti, è possibile notare messe in scena simili a queste ‘feste del potere’: si pensi alla tavola 7, dedicata al pathos del vincitore, a tavola 78 e 79, dedicate all’attualità della memoria e alle celebrazioni del potere ecclesiastico del 1929.

Se la festa pacifica glorifica il momento collettivo e permette di scorgere il passaggio dalla vita all’arte, questa ci è, dunque, tuttavia irraggiungibile. Tutto ciò che ci rimane della festa sono i suoi residui, le feste crudeli in manifestazioni catastrofiche e impossibili da controllare, e le feste interiori, riservate unicamente ad uno sguardo individuale. Solo l’inversione della festa pacifica, questa festa guerresca sfrenata e brutale, può consolarci della perdita e trasformarsi in strumento d’indagine del mito: la festa, che si modifica e diventa oggi mito politico e tecnicizzato, ci riserva inaspettatamente la piena esperienza estetica della violenza del potere.

Riferimenti bibliografici
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English abstract

The present contribution aims to compare the thought of the mythologist Furio Jesi with that of the historian of culture Aby Warburg about the specific theme of the feast. According to a line of consonance, we investigate different kinds of realization of the feast: the inner feast, the cruel feast, the warlike feast, and, mostly, the possibility of the ‘true feast’, which for Jesi coincides with the Renaissance festival, from which also Warburg is fascinated, considering it a passage from life to art. Following the thought of the two authors, we will see how energetic inversion can turn the feast into an instrument of political power.

keywords | Aby Warburg; Mnemosyne Atlas; Myth; Politics; Political Imagery; Feast; Festival; Furio Jesi.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Piccichè, Festa mitica. Aby Warburg e Furio Jesi, ”La rivista di Engramma” n.200, vol.2, marzo 2023, pp. 169-178 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.200.0093