"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

202 | maggio 2023

97888948401

Explicit tragoedia. La svestizione del corpo del Re

Serse, Costantino XI Paleologo, Riccardo II

Monica Centanni*

English abstract | English full version
0. Il Re e l’Angelo, monstra del bestiario di Dio

Il re è bastardo: il suo corpo è persona doppia – mixta – il monstrum dell’incrocio fra i geni dell’umano e del divino. Gemello interno, ma anche Christomimétes, come Cristo è unto e figlio di Dio, è però un dio macchiato dal difetto dell’esistere qui, sulla terra, condannato per mandato paterno vulnerabile nella nudità dell’umano (Kantorowicz [1957] 1989, 43-85); ovvero è anche uomo cui l’unzione ha conferito la veste di un’incorrotta eternità.

Nella teoria medievale che Kantorowicz rintraccia e disegna nel suo lavoro, Medieval Political Theology, l’influsso della teologia cristiana sul pensiero politico della sovranità, produce l’immagine – rituale, giuridica, iconografica – dei due corpi del re: due corpi divisi e separati, l’uno esposto alla morte, alla malattia e alla corruzione; unto l’altro, bagnato di quell’olio sacro che lo preserva dagli accidenti dell’umano, veste incorruttibile dell’eterno – e quindi divino. Le vesti, la maschera, che designano la regalità nasconde il mitema di un corpo immortale di cui il corpo fisico è spoglia: “Le roi ne meurt jamais”. L’impianto teorico della riflessione medievale sul problema della regalità pretende questa analisi – che Kantorowicz suggestivamente e lucidamente ripercorre – il cui prodotto filosofico, giuridico, iconografico, è un concreto sdoppiamento dei due corpi regali. In certo senso, il re è quindi “like the angels”, creatura mostruosa (Kantorowicz [1957] 1989, 8). Per l’angelo, però, quell’incrocio è cifra di un insanabile sradicamento da ogni mondo, dal mondo terreno come da quello celeste; è lo stigma dell’infeconda infanzia di un’animalità segnata dal tremendum di una decisione irrevocabile. Il dono divino di un codice genetico straordinario che conferisce al re l’aura potente di una presenza sovrumana è invece per l’altro monstrum del bestiario di Dio – l’angelo – il marchio della scelta, il risultato di quella “libertà spietata” di cui Dio ha voluto fare dono crudele alla razza a lui più prossima tra le sue creature (così nella riflessione della grande tradizione teoretica occidentale sulla figura dell’angelo: vedi per tutti Cacciari 1986, 55 ss., 133 ss.). Per il Re l’incrocio del genoma bastardo di divinità e umanità è la fonte della sua potenza sul mondo, il fondamento che autentifica il suo kràtos. Ma, diversamente dall’angelo, il re non tiene insoluto il nodo geneticamente complesso e miracoloso della doppia natura: il monstrum della persona regale è analizzabile e può essere sciolto in due corpi scissi, rappresentabili in due figure. Il re è quei due corpi materialmente, iconicamente, distinti.

Sotto la ricostruzione di tutte le diverse espressioni di questa idea che Kantorowicz opera nel suo lavoro, corre però una domanda che quell’ipotesi inquieta dalla prima pagina, fino all’Epilogo, le pagine conclusive dei Due corpi del Re in cui quel problema esplicitamente si mostra: l’idea dei due corpi del re è medievale o già classica? cristiana o ‘pagana’? La risposta che lo studioso si dà pare chiara e decisa:

Nonostante le analogie con talune sparse concezioni pagane, la dottrina dei Due corpi del Re deve considerarsi germogliata dal pensiero teologico cristiano e si pone quindi come una pietra miliare della teologia politica cristiana (Kantorowicz [1957] 1989, 497).

È dunque la speculazione teologico-politica cristiana che teorizza e concretamente produce lo sdoppiamento della figura: in più la teoria dei due corpi del Re è un limite teorico (“a landmark”), un marchio di discrimine, proprio del pensiero teologico politico della cristianità medievale. Ma lo stesso Kantorowicz, nel momento in cui presenta le inconfutabili conclusioni della sua ricerca, propone anche il suo suggestivo dubbio:

Vi sono effettivamente alcuni caratteri che inducono a pensare che la concezione dicotomica della sovranità possa avere radici nell’antichità classica. La dottrina degli uffici – la semplice distinzione cioè tra l’uomo e l’ufficio (o gli uffici) ricoperto – era certamente alla portata dell’immaginazione dei pensatori classici. Non v’è bisogno di ricorrere a quei casi estremi che si registrarono nelle monarchie dell’antichità medio-orientale. Basterà qui ricordare Alessandro il grande [...] (Kantorowicz [1957] 1989, 488-489).

E aggiunge in nota:

Va oltre l’assunto di questo studio e le competenze del suo autore passare in rassegna dettagliatamente i precedenti classici. Ma queste brevi note valgano almeno da stimolo perché altri indaghino il problema con maggior profitto (Kantorowicz [1957] 1989, 488 n. 5).

La complessità del problema non fa presagire certo i maggiori successi che Kantorowicz, stimolando la prosecuzione della sua ricerca, pare promettere; ma la sfida va comunque raccolta, la strada tentata.

I. Serse, la prima scena di svestizione

Argyris Xafis interpreta Serse in Persae, regia di Dimitri Lignadi (Teatro di Epidauro, luglio 2020).

Nel secondo capitolo dei Due corpi del Re Kantorowicz propone un’analisi del Riccardo II di Shakespeare: il dramma viene definito come “la tragedia dei due corpi del re” (Kantorowicz [1957] 1989, 24-42. Ma, come Kantorowicz indica con la sua allusione ad Alessandro, la genealogia del doppio corpo regale di Riccardo affonda le sue radici nella classicità. Ha ragione Kantorowicz, uno snodo è la vicenda del corpo di Alessandro imbalsamato a Babilonia che sigla in figura la fine del corpo dell’eroe greco: l’investitura della regalità persiana che Alessandro aveva assunto su di sé, anche concretamente come insegne e vesti per le quali pretendeva la proskynesis, tradisce la luce effimera del corpo dell’eroe destinato a consumarsi e a dissolversi nella pira eroica, e inverte il segno della mortalità, necessariamente iscritta nella cifra eroica, nella mummia del faraone egiziano custodita per sempre ad Alessandria nel “Soma”, il monumento al Corpo del Re. Ma prima, sulla scena del teatro di Dioniso, in Atene, era già accaduto che la monarchia fosse smascherata e sconfitta e apparisse la figura del Re nella maschera deprivata del suo povero corpo mortale – nudo, offeso, umiliato. Nel teatro di Dioniso, Serse nei Persiani di Eschilo dice la stessa tragedia che Shakespeare metterà in scena con il suo Riccardo II, la perdita del corpo regale, il suicidio della maestà.

Da Oriente era avanzata, sconosciuta e minacciosa, l’immagine del re dei re: splendido, altero, divino. Il potere del Re dei Re deriva direttamente da Ahura Mazdā: è il dio in terra cui i sudditi debbono, come agli dei, l’adorazione rituale. Il Re è invisibile a tutti: anche nel giorno del banchetto una tenda di lino separa il re dai nobili eletti, invitati all’interno della sala del palazzo, mentre tutti gli altri, fuori dalla reggia, bevono e mangiano in onore del sovrano divino, sul quale non possono levare lo sguardo (Olmstead [1948] 1982, 122-3).

Diecimila “immortali” circondano e proteggono la sua divina persona: è la guardia del corpo regale, costituita da nobili, splendidamente abbigliati (l’immagine nelle sculture a rilievo dell’apadana di Persepoli, ora al museo del Louvre a Parigi, e negli splendidi smalti al Pergamonmuseum di Berlino): immortali perché il numero è tempestivamente restaurato quando uno dei diecimila viene a mancare. Il corpo di guardia è immortale, come il corpo regale che sono chiamati a difendere: essi spendono la loro individuale mortalità in questo servizio, in cui diventa perfettamente trascurabile la transeunte umanità dei singoli componenti; in cui nessuno dei Diecimila può vantare un nome o un titolo di gloria individuale. Il nome è collettivo, la gloria immortale pertiene collettivamente al corpo di guardia regale: l’immortalità dei Diecimila è aureola che circoscrive e riflette l’inscalfibile durata del corpo regale custodito: nell’officio, il riscatto d'eternità dalla morte singolare dei corpi (“Immortali” nell’inesauribilità del loro numero), i Diecimila sono figura e concreta proiezione dell’inconsunta, perenne continuità del corpo del re che essi chiudono e contornano. Sulla pelle del re, le vesti qualificano la sua identità: addosso al suo corpo la tiara, la kandis purpurea tramata d'oro, le brache bianche bordate di porpora, le babouches blu e oro; ma i Diecimila sono, del corpo regale, l’ultima veste, lo strato esteriore che conferma e garantisce l’incorruttibilità della persona regale. Di questi segni, di queste vesti, sono splendidi Dario prima, e suo figlio Serse poi: in questa forma avanzano verso Occidente alla testa di un immenso, aureo corteo, i due cocchi regali, l’uno grave del corpo del re, l’altro vuoto, riservato all’ipostasi divina della regalità, l’invisibile ma presente padre Ahura Mazdā (Olmstead [1948] 1982, 193).

Serse è perfetto e bellissimo nei segni della regalità: i Persiani di Eschilo sono un dramma costruito sull’attesa della comparsa in scena di quello splendido, sconosciuto corpo regale. Gli spettatori del teatro di Atene, combattenti a Salamina, a Maratona, a Platea che hanno saputo sconfiggere il Gran Re e i suoi eserciti, ma che non l’hanno mai visto, attendono di spiare la maestà divina – e perciò, in greco, empia – di quella figura. Ma fin dalle prime note della tragedia si intende che il re non esibirà in scena i segni della sua maesta: fin dalla parodos corale si sa che il dramma tragico – che tradisce e sublima la verità obiettiva del giudizio storico sulle proporzioni di quella sconfitta – si svolgerà per un percorso di degradazione delle speranze, e dei vanti, di scempio delle vesti della persona regale1. Nell’interim che separa il canto d'apertura della tragedia dall’apparizione di Serse, nel canto conclusivo corale dell’exodos – interim in cui consiste, con cui coincide, l’intera tragedia – la scena si colma di fantasmi. L’azione scenica, per altro inconsistente, è tutta in quei fantasmi; phantásmata incombono sui personaggi del dramma, phántasma il tempo scenico, essendo il presente espropriato di emergenza e significato, tutto proiettato nel ‘prima’ mitico – il tempo dell’era di Dario, rappresentato come un tempo felice e indenne da sconfitte – e nel rovinoso prossimo futuro che la tragedia presagisce – la sconfitta, la morte di tutti gli uomini della Persia – come l’èidolon di Dario annuncia. Intorno alla fisica assenza di Serse ruotano le angosce, le attese, le speranze presto votate a delusione, di tutte le parole e di tutti i canti di cui il dramma si compone: angosce, attese, deluse speranze rendono gravemente sensibile la mancanza del personaggio centrale, il posto vuoto nel cuore della costruzione drammatica che Serse tarda ad occupare e che viene più volte, durante il percorso della tragedia, usurpato. Il corpo del re fino alla fine si sottrae all’esibizione nello spettacolo, ma dalla sua distanza chiama all’esistenza teatrale, produce per supplenza della maschera, protagonista latitante, altre inconsistenti figure: prima compare sulla scena il Messo che porta le parole obiettive dell’evento, la narrazione descrittiva del disastro navale; poi viene evocato il fantasma del padre dall’Ade, il morto Dario che colma di “giuste parole”, di sagge interpretazioni e di avveduti consigli, l’attesa – che è suspense teatrale – del vero e vivente corpo regale. Apparizioni evanescenti e incorporee, ombre che schermano l’assenza dell’atteso: il corpo di Serse impressiona la scena di sue controfigure, cosicché, fino alla fine, a quella scena può sottrarsi. Nei Persiani, Eschilo mette in scena una teoria dell’assenza in cui Serse, prima della (inattesa) apparizione finale porta in scena le stesse figurazioni della sovranità che Kantorowicz legge nel dramma di Shakespeare: re, dio, folle.

Re – ἄναξ Ξέρξης βασιλεὺς “signore e re” è detto Serse nel canto d'entrata del coro (Pers., v. 5); è il Gran Re, del quale tutti i re della terra sono sudditi e schiavi, alla testa del suo formidabile corteo che raccoglie genti in armi da tutte le contrade d'Oriente. Dio – χρυσογόνου γενεᾶς “della stirpe dell’oro” (ai vv. 79-80): egli è divino, la sua stirpe risale a Zeus che sotto forma di pioggia d'oro fecondò Danae, la madre di Perseo, progenitore della stirpe persiana2; perciò egli è “nato dal seme dell’oro”; perciò egli, pur essendo mortale (φώς) è “pari agli dei” (ἰσόθεος). Folle – Serse è θούριος ἄρχων “un signore furioso” (al v. 74) della stessa furia inconsulta di Ares che impazza nella battaglia (al v. 86): γνώμης δέ πού τις δαιμόνων ξυνήψατο “un demone gli ha toccato la mente” (al v. 724), e perciò egli ha avuto l’ardire di aggiogare il collo del mare, di stringere e legare le rive opposte dell’Ellesponto, di frustare e trattare come uno schiavo il Bosforo “sacra corrente”, e così di fare violenza a Poseidone. Fu un demone che indusse Serse alla follia e tutti i persiani alla rovina. Serse: re, dio, folle, come Riccardo.

Una Regina sta in attesa e un’ansia doppia le stringe il cuore (διπλῆ μέριμνα ἄφραστός ἐστιν ἐν φρεσίν, al v. 165). La mente della Regina è turbata da cattivi presagi. Il sogno, innanzitutto: due donne, Persia e Grecia, aggiogate al carro del Re Serse; belle entrambe, sorelle di sangue, eppure così diverse. Docile la prima e “fiera delle sue briglie”, altera e recalcitrante la seconda che smania di liberarsi dalle briglie e dal morso rovescia il carro regale. Nell’incubo della Regina, la Grecia ribelle spezza il giogo, il carro è rovesciato, Serse scaraventato a terra:

χἢ μὲν τῇδ᾽ ἐπυργοῦτο στολῇ / ἐν ἡνίαισί τ᾽ εἶχεν εὔαρκτον στόμα, / ἡ δ᾽ ἐσφάδαιζε, καὶ χεροῖν ἔντη δίφρου / διασπαράσσει καὶ ξυναρπάζει βίᾳ / ἄνευ χαλινῶν, καὶ ζυγὸν θραύει μέσον. / πίπτει δ᾽ ἐμὸς παῖς καὶ πατὴρ παρίσταται / Δαρεῖος οἰκτίρων σφε· τὸν δ᾽ ὅπως ὁρᾷ / Ξέρξης, πέπλους ῥήγνυσιν ἀμφὶ σώματι (Persiani, 192-199).

E una stava ritta come una torre, fiera di quei finimenti e prestava docile la bocca alla briglia; ma l'altra recalcitrava. Ecco… con le mani le bardature del carro fa a pezzi, a forza si strappa: è senza morso, e spezza il giogo a metà. Cade mio figlio; e c'è anche suo padre presente, Dario là in piedi che lo commisera. Serse allora, non appena se lo vede davanti, si fa a brani la veste che aveva addosso.

L’umiliazione di Serse è aggravata dal fatto che, nella visione della Regina, c’è il padre, Dario, che assiste alla scena. E davanti alla figura del padre, Serse si straccia le vesti. Il sogno della Regina è profezia veridica. Arriva in scena il Messaggero a portare il racconto della battaglia navale, il disastro di Salamina: l’esercito persiano, immenso e potentissimo, è stato sorprendentemente sconfitto dalle scarse, agilissime, triremi ateniesi: tutti i nobili condottieri e tutti i loro uomini sono stati uccisi. “Il fior fiore dei Persiani giace a terra, reciso” (al v. 252): ora la Persia e tutti i paesi dell’Oriente resteranno vuoti di uomini, privi di difesa e i letti delle giovani spose saranno per sempre deserti. Ma c’è di più: Serse, che si era posto su un’altura per assistere allo spettacolo della battaglia navale, seduto sul suo trono come fosse a teatro, alla visione del catastrofico esito dello scontro, è scoppiato a piangere e, come la Regina aveva previsto nel suo sogno, si è stracciato le vesti:

Ξέρξης δ᾽ ἀνῴμωξεν κακῶν ὁρῶν βάθος· / ἕδραν γὰρ εἶχε παντὸς εὐαγῆ στρατοῦ, / ὑψηλὸν ὄχθον ἄγχι πελαγίας ἁλός· / ῥήξας δὲ πέπλους κἀνακωκύσας λιγύ, / πεζῷ παραγγείλας ἄφαρ στρατεύματι, / ἵησ᾽ ἀκόσμῳ ξὺν φυγῇ. τοιάνδε σοι / πρὸς τῇ πάροιθε συμφορὰν πάρα στένειν (Persiani, 465-470).

Serse allora pianse: davanti ai suoi occhi quell’abisso di mali; la sua postazione era in vista dell’intero campo, un’altura elevata sulla distesa del mare. Si stracciò le lunghe vesti, acuto si alzò un urlo di dolore e subito dopo [...] fu la fuga, scomposta. / Questa è la disgrazia che si aggiunge a quella di prima, su cui abbiamo da piangere.

Per la seconda volta è evocato in scena lo strazio della veste regale, e ora non è più l’incubo profetico della Regina. Il corpo del re, privo delle vesti, è privo di maestà, non è più riconoscibile come unico e sovrano: fra tutte le disgrazie presenti e future che minacciano le genti persiane, questa è la più grave perché alla svestizione del corpo regale corrisponde la rottura del giogo di potere che teneva stretti i popoli sotto l’impero di Serse:


τοὶ δ᾽ ἀνὰ γᾶν Ἀσίαν δὴν /οὐκέτι περσονομοῦνται,/ οὐδ᾽ ἔτι δασμοφοροῦσιν / δεσποσύνοισιν ἀνάγκαις, / οὐδ᾽ ἐς γᾶν προπίτνοντες / ἅζονται· βασιλεία / γὰρ διόλωλεν ἰσχύς. / οὐδ᾽ ἔτι γλῶσσα βροτοῖσιν ἐν φυλακαῖς· / λέλυται γὰρ λαὸς ἐλεύθερα βάζειν, / ὡς ἐλύθη ζυγὸν ἀλκᾶς. / αἱμαχθεῖσα δ᾽ ἄρουραν / Αἴαντος περικλύστα / νᾶσος ἔχει τὰ Περσᾶν (Persiani, 584-597).

I sudditi d'Asia già più non riconoscono la legge persiana/ già si sottraggono al tributo/ imposto dai loro signori. / Già a terra più non si prostrano: è finita la potenza regale! /La lingua degli uomini non ha più briglie: / il popolo, sciolto, ora parla liberamente. È infranto il giogo del potere! / Intrisa di sangue è la terra / d’Aiace, onde la battono, intorno: / in quell’isola la Persia tutta è sepolta. 

Evocato dal rito necromantico – Coro e Regina – compare in scena il Fantasma di Dario, èidolon anche di un’idea di regalità assoluta di cui lo stesso Fantasma dice la fine, residuo materico destinato a svanire, serba il ricordo di quella forma di perfetta dignitas. Alla fine della sua rievocazione della regalità antica che egli stesso incarnava, presentata come “invincibile” (nonostante la rievocazione della sconfitta di Maratona), il Fantasma del Re raccomanda alla Regina di restituire il kosmos al figlio che l’ha perduto per la sua superbia:

Δαρεῖος
σὺ δ᾽, ὦ γεραιὰ μῆτερ ἡ Ξέρξου φίλη, / ἐλθοῦσ᾽ ἐς οἴκους κόσμον ὅστις εὐπρεπὴς / λαβοῦσ᾽ ὑπαντίαζε παιδί. πάντα γὰρ / κακῶν ὑπ᾽ ἄλγους λακίδες ἀμφὶ σώματι / στημορραγοῦσι ποικίλων ἐσθημάτων
(Persiani, 832-836).

Tu, ora, vecchia madre di Serse, che a lui sei tanto cara, va' a casa, prendi le vesti più belle, e va’ incontro a tuo figlio: per il dolore per tutte quelle sciagure, si è stracciato e sul suo corpo pendono a brandelli le splendide vesti!

La Regina risponde mostrandosi in perfetta sintonia con la preoccupazione di Dario per la veste del Re:

ὦ δαῖμον, ὥς με πόλλ᾽ ἐσέρχεται κακὰ / ἄλγη, μάλιστα δ᾽ ἥδε συμφορὰ δάκνει, / ἀτιμίαν γε παιδὸς ἀμφὶ σώματι / ἐσθημάτων κλύουσαν, ἥ νιν ἀμπέχει. / ἀλλ᾽ εἶμι, καὶ λαβοῦσα κόσμον ἐκ δόμων / ὑπαντιάζειν παιδί μου πειράσομαι. / οὐ γὰρ τὰ φίλτατ᾽ ἐν κακοῖς προδώσομεν (Persiani, vv. 845-851).

O demone, quante sciagure incombono su di me! / Ma più di tutto, questa è la disgrazia che mi morde il cuore: / il disdoro di mio figlio, sentire di quelle vesti stracciate che porta addosso! / Vado, ora; prendo a casa una bella veste / e mi appresto ad andare incontro a mio figlio: è quanto ho di più caro e nella disgrazia non voglio abbandonarlo.

Tante sono le sventure che il demone ha inflitto ai Persiani, ma la sventura maggiore – dice la Regina – è lo scempio del corpo del re: le vesti stracciate che pendono a brandelli sul corpo di Serse smentiscono la dignità regale. La Regina fra tanti lutti – la morte di tutti i condottieri e di tutti gli uomini validi dell’impero persiano, questo il quadro irrealistico che ci presenta la tragedia – fra gli annunci di tante gravi sciagure, per questo si angoscia, per la perdita del kosmos che designa e garantisce la regalità: le vesti, il decoro, in cui la sovranità dura. Sua cura sarà di rivestire nuovamente il corpo del figlio della veste regale, per restaurare quella perduta dignità.

È la terza volta – dopo il sogno, dopo il resoconto del Messaggero – che torna in scena l’evocazione della veste stracciata di Serse. E nell’esodo, inaspettatamente, il Re apparirà in scena a cantare il dolore, il threnos funereo per il suo popolo, ma anche il canto funebre della maestà perduta. Le vesti pendono a brandelli, del corpo del Re si vedono le carni; entra in scena a piedi, non ha più cocchio, non ha più seguito, è privo di tutto; canta il Coro: “Non posso credere che non ci sia nessuno al seguito della tenda tirata da ruote” (ai vv. 1000-1001).

Dario, ombra di Ade, era comparso in scena dall’alto del tumulo della sua tomba, rivestito dei segni della regalità, dalla testa ai piedi, dalla tiara ai sandali di croco (le vesti del Re sono descritte dal Coro ai vv. 658-662); nella figura del re morto si conservava una persistenza di immagine, un èidolon del corpo regale. Invece Serse è spoglio di tutto:

Ξέρξης | ὁρᾷς τὸ λοιπὸν τόδε τᾶς ἐμᾶς στολᾶς;
Χορός | ὁρῶ ὁρῶ.
[…]
Ξέρξης | πέπλον δ᾽ ἐπέρρηξ᾽ ἐπὶ συμφορᾷ κακοῦ.
[…] 
 γυμνός εἰμι προπομπῶν
(Persiani, 1015-1036).

Serse | Vedi cosa resta della mia veste?
Coro | Vedo, ahimè, vedo.
[...]
Serse | Davanti a quel disastro, ho stracciato la veste.
[...]
Sono nudo, non ho più nulla della mia scorta. 

Il Re è γυμνός, il Re è nudo. Il corpo del Re – splendido e invisibile – ora è un manichino rotto, il supporto dei lacerti della veste della maestà. Per tre volte erano state evocate in scena le vesti stracciate del re, ora entra in scena Serse e quel corpo con addosso i brandelli della veste regale è visibile a tutti. La stessa voce di Serse non ha forma di parole, è solo canto: unico personaggio in tutte le tragedie conservate, Serse canta soltanto, non parla. Ma, cantando, è maestro (éxarchos) del compianto rituale eseguito dal suo Coro; così Serse insegna i gesti, i suoni e i versi della lamentazione funebre: il Coro grida, rispondendo al grido del Re; si batte la testa con le mani, si strappa i capelli e i peli della barba e il Re cerimoniere del rito ordina anche al Coro di strapparsi le vesti, ché cadano a brandelli sul corpo dei vecchi persiani come cadono a brandelli sul corpo del Re (al v. 1060 πέπλον δ᾽ ἔρεικε κολπίαν ἀκμῇ χερῶν). E il corteo funebre della regalità di Serse precipita nel rito del crollo della maestà persiana, la terra stessa di Persia non sostiene più il passo del Re e del suo Coro (al v. 1070: Περσὶς αἶα δύσβατος).

I Persiani di Eschilo sono tragedia dell’attesa della comparsa in scena del corpo del Re, di ritorno dalla campagna verso Occidente “laggiù dove il sole si strema” (al verso 232). Entra in scena, alla fine, quel corpo, quando oramai la speranza e l’angoscia della sua visione era stata distratta dai racconti, dai fatti, dalle parole distanti e insensate di messi e di fantasmi; quando quell’attesa, diluita e dispersa in troppe parole, forse non attendeva più soddisfazione. Entra in scena, Serse – quando tutto è stato detto, quando non c’è più attesa, né angoscia, né speranza – per piangere la morte della maestà regale di cui ha fatto sacrificio per la sua empia hybris. E finalmente gli spettatori del teatro di Dioniso in Atene – gli ateniesi, gli spartani, i tebani e gli abitanti delle altre città che avevano combattuto a Maratona, a Salamina, a Platea – vedono in scena il corpo del Re persiano che da decenni aveva proiettato la sua ombra lunga e minacciosa sulla rivendicazione di indipendenza e di libertà delle città greche, ma anche il fascino del suo bagliore fosco e terribile, auratico e tremendo, nelle menti di tutti i Greci. Eschilo, proprio perché consapevole della seduzione che la figura del Re persiano esercitava sui Greci, con un’invenzione teatrale e, insieme, con una chiara intenzione politica, gioca con l’attesa del pubblico, ma poi di quell’abbagliante profilo regale porta in scena un miserabile residuo3.

Nei Persiani la figura del Re era comparsa in scena nella forma evanescente del fantasma di Dario. Ma poi arriva il corpo sconfitto di Serse, persona tragica della regalità che porta in scena soltanto i segni traditi e degradati nell’offesa, esibita, nella carnalità della sua maschera; Serse esibisce la nudità del corpo del Re e, insieme, l’insoluta complessità del corpo regale – nudo, eppure memore della sua veste, doppio e ora ridotto a uno. Non ci sarà, come la Regina ha annunciato, un nuovo kosmos di cui rivestirsi; non c’è un tempo extradrammatico e non ci sarà un altro atto di questa tragedia: la forma perfetta ed essenziale – invisibile e splendida – della regalità persiana, dopo la comparsa scenica di Serse nella tragedia di Eschilo è irrecuperabile. 

II. Costantino XI Paleologo, la morte dell’ultimo imperatore di Roma

I calzari di porpora. Dettaglio da Piero della Francesca, L’Arcangelo Michele, 1454-1469, tecnica mista su tavola, 133x59,5 cm, London, National Gallery4.

La fine di Costantinopoli era stata preannunciata da una serie di funesti segni e profezie. Nella notte del 22 maggio 1453 il cielo si era oscurato per una eclissi di luna; così annota Nicolò Barbaro nel suo Giornale dell’assedio di Costantinopoli, che raccoglie la cronaca degli avvenimenti registrati dal medico imbarcato su una galera veneziana di stanza nella città imperiale, dal 2 marzo 1451 al 29 maggio 14535:

In questo zorno de vintido de marzo, a una hora de la note el parse un mirabel signal in zielo, el qual segno fo quelo che dè ad intender a Constantin degno imperador de Costantinopoli che el suo degno imperio sì se approssimava al finimento suo come con efeto è stato (ed. Pertusi 1976, 26).

Lo stesso Barbaro riferisce che il 25 maggio, durante una processione che attraversava il centro della città per invocare l’aiuto di Maria sulla città assediata, l’icona di Maria era caduta accidentalmente a terra. Ma la profezia più impressionante e funesta è quella, riportata da varie e diverse fonti, che incombe sul nome ‘Costantino’. Universalmente noto il detto: “Da Costantino fu fondata e con Costantino finirà”. Ancora Nicolò Barbaro, in due diversi passi del suo Giornale, così riporta la profezia:

El nostro mixericordioxo misser Jesù Cristo [...] volse longare el termine, perché la profetia avesse suo luogo, zoè quella esser adlimpita, la qual profetia profetizò san Costantin, fio de santa, Lena fo imperador de Costantinopoli (ed. Pertusi 1976, 16).

E ancora:

[La] profetia [...] dixe quando che el se troverà uno imperador che abia nome Costantin, fio d’Elena, soto quelo imperio el se perderà Costantinopoli (ed. Pertusi 1976, 29-30).

La sentenza profetica era certamente molto diffusa, stando alla varietà dei testimoni che ne danno notizia: ad esempio la profezia è citata anche nel testo russo del Racconto di Costantinopoli di Nestore Iskender fatto prigioniero in giovane età dai Turchi e che, convertito, partecipò all’assedio di Costantinopoli6. Secondo la profezia, dunque, l’ultimo imperatore di Costantinopoli avrebbe portato lo stesso nome del primo, Costantino, e sarebbe stato figlio di una ‘Elena’. Si tratta di un duplicato della leggenda che, com’è noto, era sorta anche intorno al nome di Romolo Augustolo che era morto nel 476 e nella storiografia già da età medievale è considerato l’ultimo imperatore romano dell’Impero d’Occidente: il suo nome rievocava il nome del mitico fondatore di Roma e, insieme, il nome del primo princeps. Al medesimo tipo di taboo che collega la rovina di una città o di un impero alla ripetizione del nome fatale del fondatore si iscrive anche la leggenda medievale sul nome dell’ultimo papa con cui si chiude la profezia di Malachia: “In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus Romanus, qui pascet oves in multis tribulationibus, quibus transactis, civitas septis collis diruetur, et Judex tremendus iudicabit populum suum”. La Santa Romana Chiesa crollerà e il “giudice tremendo giudicherà il suo popolo” sotto l’ultimo pontificato di un Pietro II.

Nel 1449, mentre incombeva sempre più urgente e pressante la minaccia turca, sul trono di Costantinopoli succede a Giovanni VIII proprio un “Costantino figlio di Elena”: Costantino XI Dragas, già Despota di Morea. La madre non doveva peraltro prestar troppa fede alle superstiziose profezie che mettevano in guardia contro la genealogia Elena/Costantino se, a quanto pare, Elena Dragas aveva già assegnato lo stesso nome di ‘Costantino’ a un altro suo figlio morto alla nascita o in tenera età7.

Negli anni tra il 1451 e il 1453 si consuma la crisi definitiva che porta al crollo di Costantinopoli e dell’impero dei Romei, territorialmente oramai circoscritto a un’enclave in territorio ottomano e che quasi coincide con l’ampio perimetro delle mura teodosiane che circondano la città e con i territori bizantini in Grecia (Atene e la Morea). Dal 3 febbraio 1451 il giovane ambizioso Maometto II, succeduto al padre Murad II è alla guida dell’impero ottomano e il suo primo desiderio è la conquista di Costantinopoli. Il desiderio di Maometto per la Città si iscrive in un progetto strategico e geopolitico di ampio respiro, ma per il giovane e ambiziosissimo sultano diventa anche un assillo, un’ossessione che non gli lascia tregua: una pagina della Storia di Doukas lo ritrae sveglio la notte, a fare piani per l’assalto e a “disegnare con penna e inchiostro il circuito delle mura della città”8. La passione della conquista prende una piega para-erotica: lo storico Tursun Beg, che con tutta probabilità era al seguito di Maometto durante la conquista della Città, nella sua Storia del signore della conquista9 riferisce delle fasi dell’accerchiamento e dell’assedio, con il linguaggio e le figure di un vero e proprio corteggiamento appassionato che il sultano riserva alla città come fosse una sua “fidanzata novella”:

Per sposare la fidanzata novella – la conquista di Costantinopoli – ordinò che si allestissero tutti gli strumenti necessari per aprire la fortezza […]. Passò quell’inverno [1452-1453] nell’incertezza tormentosa con il pensiero rivolto all’idolo che corteggiava (Tursun Beg e Ibn Kemal, Storia del signore della conquista, ed. Pertusi 1976, 313).

Vani risulteranno i ripetuti appelli del basilèus Costantino rivolti ai sovrani europei (Spagna, Francia, Ungheria), alle potenze italiane (Venezia, Genova, Firenze, Milano) e al Papa per costituire uno schieramento unitario capace di contrastare la minaccia turca.

Durante l’estate del 1452, ultimata la costruzione della fortezza Rumeli‑Hissan che avrà un ruolo strategico importante nell’assedio di Costantinopoli, Maometto dichiara guerra a Costantino, il quale, nonostante le sue sempre più urgenti e disperate richieste di aiuto, non ha ancora ottenuto aiuti concreti dagli alleati occidentali. Nel gennaio 1453 cominciano ad arrivare i primi contingenti da Occidente, ma sono assolutamente inadeguati di fronte alla mole dell’esercito che si va concentrando e organizzando sotto la guida di Maometto. In primavera le mura di Costantinopoli vengono rinforzate e l’accesso via mare alla città è serrato da una catena a chiusura del Corno d’Oro. Arriva un contingente papale, guidato dal vescovo di Kiev, Isidoro, e qualche nave veneziana, ma nel frattempo le mura vengono pesantemente danneggiate dalle bombarde. All’avanguardia anche dal punto di vista tecnologico, Maometto fa ricorso massivo alle armi da fuoco, e in particolare a giganteschi cannoni, forgiati grazie alla collaborazione di un geniere transfuga presso gli Ottomani, Urban: l’imprevista forma che ha assunto la guerra ha un impatto decisivo non soltanto sul piano militare, ma anche sul piano psicologico. Le nuove armi terrorizzano i cittadini che vedono compiersi fatalmente, con gli attacchi delle bombe incendiarie che piovono dal cielo, le profezie apocalittiche sulla fine della città. L’idea di una “ira divina” che si abbatte sulla Città, provocata dal fatto che le due Chiese non avevano trovato un vero accordo, ricorre in varie, autorevoli, fonti; così Leonardo di Chio in una lettera al papa Nicolò V dell’agosto 145310:

Non ergo unio facta, sed unio ficta ad fatale urbem trahebat excidium: quo divinam iram, maturatam in hosce dies, venisse cognovimus (Leonardo di Chio, Epistola ad Nicolaum papam, ed. Pertusi 1976, 128).

L’attacco decisivo è sferrato il 29 maggio: la città cade. Tutte le fonti raccontano, ciascuna offrendo diverse varianti, la difesa disperata e coraggiosissima di Costantino Paleologo e dei suoi11. Diverse sono le versioni sulla fine di Costantino Paleologo, tutte però convergenti nel descrivere l’abnegazione, il coraggio, l’eroismo dell’ultimo imperatore. Dopo la ignominiosa ritirata del comandante del contingente genovese Giustiniani, secondo quanto ci restituisce in uno stile alto e ispirato Leonardo di Chio, queste sarebbero state le sue ultime parole: “Iam perdita urbe me vivere non licet”; quindi avrebbe chiesto ai suoi di ucciderlo “ne maiestas [...] succumbat mea”12. Con una mossa che sottindende la consapevolezza dello sdoppiamento tra i due corpi del re Costantino, dunque, chiede di sopprimere la sua persona perché la sua maestà sopravviva.

Un’altra versione della stessa scena ultima e finale in Nicola Sagundino che, nel riferire della morte eroica dell’imperatore ad Alfonso di Aragona, riporta la notizia di una possibilità di fuga via mare che alcuni dignitari avrebbero suggerito all’imperatore, sentendosi rispondere: “[...] si qui adversi contingeret, regno iam extincto sibi amplius non esse vivendum, quin cum ipsa patria moriendum”13. Finito il regno, il re non ha esistenza possibile. La prima idea è suicidarsi o dare l’ordine a qualcuno dei pochi compagni superstiti di ucciderlo; ma nessuno osa compiere un tale crimine sul corpo sacro del re e comunque così quel corpo non sarebbe stato sottratto alla cattura. È a questo punto che Costantino si spoglia delle insegne imperiali e si getta nella mischia:

Imperatoriis insignibus depositis et abiectis, ne hostibus notas fieret, privatum se gerens, stricto ense in aciem irruit fortiterque pugnando, ne inultus abiret, princeps immortalitate dignus, hostili manu tandem est interremptus ruinisque urbis ac regni casui regium immiscuit cadaver14.

L’imperatore che doveva essere immortale (princeps immortalitate dignus) è ora un corpo indistinguibile nella mischia degli altri corpi. E in quella mischia – di corpi ma anche di rovine della Città conquistata e dell’Impero che muore – Costantino mescola il suo stesso cadavere regale.

Costantino si spoglia delle insegne regali con lo scopo preciso di sottrarre alla cattura del nemico non la sua persona ma la maestà del corpo del Re: così, non indossando più l’abito regale e i calzari di porpora, il cadavere del basilèus confuso nella massa di molti altri cadaveri, non sarebbe stato rintracciato e non sarebbe caduto in mano nemica: e infatti, colpito alla spalle da un turco, cade morto ma “i turchi non sapevano che era l’imperatore e quindi, dopo averlo ucciso, credendolo un soldato qualsiasi, lasciarono lì il suo corpo”15. La spogliazione garantisce la dissolvenza della figura: le fonti sono concordi nel riferire che le ricerche del corpo di Costantino, sollecitate da Maometto, avrebbero alla fine procurato al Sultano una testa identificata con il capo dell’ultimo imperatore soltanto per la labile traccia di una somiglianza. Costantino di Ostrovica, che afferma di essere stato presente ai fatti, ci riporta il nome del giannizzero, Sarielles, che nella mischia dei cadaveri avrebbe identificato l’imperatore e tagliata la testa l’avrebbe portata al Sultano, ricevendo in cambio una ricca ricompensa16. Maometto non doveva essere troppo certo che quella fosse proprio la testa del basilèus se, come ci riportano le stesse fonti, interpellò i prigionieri greci – fra i quali membri della corte che erano stati prossimi all’imperatore – per confermare il riconoscimento “chiedendo loro di dirgli la verità […]. E quelli, presi dalla paura, gli dissero: “Sì, è veramente la testa dell’imperatore”17

Per ragioni simboliche e propagandistiche Maometto avrebbe scelto di prestar fede alla identificazione e si sarebbe affrettato a far imbalsamare la testa del re ed esibirla come trofeo, infilzata su una picca, nell’Augusteion18, per poi portarla in giro, prima per gli accampamenti dell’armata turca e poi in tutte le contrade dell’impero e secondo alcuni ne avrebbe infine fatto dono al re dell’Egitto19 . Secondo la testimonianza di Nestore Iskender, invece, dopo averla baciata, l’avrebbe inviata “al patriarca, affinché la ricoprisse d’oro e d’argento e la custodisse, come egli sapeva. Il patriarca pose la testa in uno scrigno d’argento dorato e lo nascose nella Grande Chiesa, sotto l’altare”20. Invece Isidoro di Kiev nella sua Epistola ad Bessarionem, riporta un atteggiamento del tutto opposto: Maometto avrebbe oltraggiato e insultato la testa del nemico prima di mandarla in giro per l’impero come trofeo21; aggiunge Nestore: “Da altri siamo venuti a sapere che alcuni superstiti, i quali si trovavano con l’imperatore presso la Porta Aurea, quella stessa notte rubarono la testa e la portarono a Galata e la conservarono là”22.

La storia dell’incertissimo riconoscimento e delle peregrinazioni del capo mozzato dell’ultimo imperatore di Bisanzio, avrebbe dato la stura alla versione leggendaria e popolare secondo cui non solo la testa sarebbe stata preservata dall’oltraggio dei vincitori, ma lo stesso Costantino sarebbe scampato all’eccidio: come nella leggenda del Barbarossa (e di altri primi o ultimi Re del mondo), il suo corpo sarebbe stato sottratto miracolosamente alla battaglia da un angelo che lo avrebbe trasformato in una statua, o trasportato in una grotta segreta, nei pressi della Porta Aurea, in attesa di venire risvegliato per riconquistare la sua Città23.

Proprio il moltiplicarsi delle versioni sulla fine dell’ultimo imperatore e il loro proliferare, sia sulle bocche dei Greci e degli Occidentali sia sulle bocche degli Ottomani, confermano che la mossa con cui Costantino ha giocato la morte del suo corpo di Re non è stato un vano atto retorico dettato da una pulsione narcisisticamente eroica, ma un gesto consapevole ed estremo: il Re è riuscito a eludere la sentenza di Scacco Matto, e vince sulla scacchiera della lotta simbolica, prolungando nella luce storica l’aura della sua immagine. Lo splendore della regalità fa epifania nell’attimo in cui implode, nell’ultimo bagliore della sua fine.

III. Riccardo II, la successione impossibile

David Tennant interpreta Riccardo in Richard II, regia di Gregory Doran, Royal Shakespeare Company (London 2013-2020).

Nel secondo capitolo dei Due corpi del Re Kantorowicz propone un’analisi del Richard II di William Shakespeare, il dramma che mette in scena “la tragedia dei due corpi del re” (Kantorowicz [1957] 1989, 24-42). È utile leggere il Riccardo II, e in particolare i passaggi sulla messa in scena della crisi della regalità su cui Kantorowicz insiste, con a fronte il testo dei Persiani di Eschilo, richiamando alcuni passi su cui ci siamo soffermati più sopra.

Nel dramma di Eschilo il corpo di Serse è schermato, fino all’esodo della tragedia, da apparizioni evanescenti e incorporee – la visione del sogno della Regina; il Fantasma del padre Dario – ombre che suppliscono l’assenza dell’atteso: il corpo di Serse impressiona la scena di sue controfigure, cosicché a quella scena si sottrae, fino a che non comparirà alla fine, inatteso. Il corpo, i corpi di Riccardo, invece, riempiono fin dall’inizio la scena del dramma di Shakespeare. Il protagonista è fisicamente presente nelle sue multiple versioni: re sulla costa del Galles, fool nel castello di Flint, dio a Westminster: “L’universale che ha nome ‘Regalità’ comincia a disintegrarsi; la sua ‘Realtà’ trascendentale, la sua oggettiva verità e divina esistenza, così brillanti fino a un momento prima, svaniscono in un niente, in un nomen” (Kantorowicz [1957] 1989, 29).

Come la Regina in Persiani stava in attesa, in angoscia, turbata da cattivi presagi di sventura che non tarderanno ad avverarsi (Persiani, vv. 160-165), così la Regina di Riccardo sta in attesa, tormentata da neri presagi e dall’angoscia delle cattive notizie che non tarderanno ad arrivare:

QUEEN | It may be so; but yet my inward soul / Persuades me it is otherwise: howe’er it be, / I cannot but be sad; so heavy sad / As, though on thinking on no thought I think, / Makes me with heavy nothing faint and shrink.
BUSHY | ’Tis nothing but conceit, my gracious lady.
QUEEN | ’Tis nothing less: conceit is still derived / From some forefather grief; mine is not so, / For nothing had begot my something grief; / Or something hath the nothing that I grieve: / ’Tis in reversion that I do possess; / But what it is, that is not yet known; what / I cannot name; ’tis nameless woe, I wot (Richard II,  II, 2,2).

REGINA | Sarà così, ma l’animo mio nel suo intimo, / mi dice e mi convince ch’è tutt’altra cosa: / e comunque sia, sono triste, nient’altro che triste / ed è una tristezza grave, ese pur penso che non devo avere questi pensieri / è un niente che mi abbatto, / che mi sento mancare.
BUSH | Fantasie nient’altro che fantasie, / mia graziosa signora!
REGINA | No, non è questo! La fantasia del dolore deriva sempre / da un dolore, lontano forse. No, non è fantasia la mia. Niente ha generato in me questo dolore; / o è qualcosa, piuttosto, che ha in sé questo niente che mi addolora. / Che cosa sia, non so; / so che non riesco a dargli alcun nome. / So solo ch’è una pena, una pena senza nome.

“Tis nameless woe” – non ha nome la pena che stringe il cuore della Regina e quella pena si sovrappone e riflette, come un’eco a distanza, i lugubri presagi che “mordono dentro il cuore” della Regina messa in scena da Eschilo. E come presto arriva a Susa il Messaggero ad annunciare la triste realtà della sanguinosa disfatta – “Un mare immenso di sciagure erompe sui Persiani” (Persiani, al v. 433), così “A tide of woes”, una marea di sciagure si abbatterà sulla terra dolente del re inglese (Richard II, II. 2).

“A king, woe’s slave, shall kingly woe obey”: il Re è ridotto in schiavitù, “schiavo del dolore a cui deve regalmente ubbidire” (Richard II, II, 3,2).

Nei Persiani dopo il Messo, era il Fantasma di Dario che prefigurava la macabra visione della gente persiana ridotta a un cumulo di cadaveri (“Questa sarà l’offerta grondante sangue alla terra di Platea, [...] cadaveri a cumuli, fino alla terza generazione”, ai vv. 816-818). Carlisle a Bolingbroke che annuncia la sua empia usurpazione del trono di Riccardo, così profetizza:

The blood of English shall manure the ground, / And future ages groan for this foul act (Richard II, IV, 1).

Gli Inglesi concimeranno la terra con il loro sangue / e le età future gemeranno per questa folle azione.

Nei Persiani, la Regina affermava che, tra tante morti e sciagure, la sventura maggiore era lo scempio del corpo del re, le vesti stracciate che pendono sul corpo di Serse. E così Shakespeare mette in scena la dismissione e il disfacimento della regalità, di cui Riccardo, come prima Serse, si fa officiante. Dapprima Riccardo sembra accettare l’avvicendamento di Bolingbroke nel corpo del Re, sembra lasciare il campo al cugino Bolingbroke, che sarà il nuovo re Enrico: 


RICHARD | God save the king! Will no man say amen? / Am I both priest and clerk? well then, amen. / God save the king! although I be not he; / And yet, amen, if heaven do think him me. / To do what service am I sent for hither?
YORK | To do that office of thine own good will / Which tired majesty did make thee offer, / The resignation of thy state and crown / To Henry Bolingbroke.
RICHARD | Give me the crown. Here, cousin, seize the crown; / Here cousin: / On this side my hand, and on that side yours. / Now is this golden crown like a deep well / That owes two buckets, filling one another, / The emptier ever dancing in the air, / The other down, unseen and full of water: / That bucket down and full of tears am I, / Drinking my griefs, whilst you mount up on high (Richard II, II, 4,1).

RICCARDO | “Dio salvi il re!”... Nessuno che dica “amen”? / Tocca a me far da prete e chierichetto? / Amen, allora! “Dio salvi il re!” / Il re non sono più io? Amen lo stesso, se il Cielo mi considera ancora re. / Per quale servizio sono chiamato qui?
YORK | Per compiere l’ufficio di tua spontanea volontà / fare per tua libera scelta l’offerta / la stanca tua maestà già ti ha fatto fare: /per rassegnare il titolo regale / e la corona a Enrico Bolingbroke.
RICCARDO | E datemi la corona. / Ecco, cugino, prendi la corona; / Ecco cugino / di qua la mia mano, di là la tua. / Ora questa corona d’oro / è come un pozzo profondo / con due secchi che scendono giù rimpendosi a turno: uno vuoto, che penzola nell’aria, / l’altro giù nel fondo, non visto, pieno d'acqua. / Il secchio che sta giù, pieno di lacrime, / sono io, che mi abbevero delle mie profonde pene; tu quello che sale in alto. 

Pare un’accettazione serena dell’avvicendamento, e subito Riccardo si riprende e dà il via a una svestizione:

BOLINGBROKE | Are you contented to resign the crown?
RICHARD | Ay, no; no, ay; for I must nothing be; / Therefore no no, for I resign to thee. / Now mark me, how I will undo myself; / I give this heavy weight from off my head / And this unwieldy sceptre from my hand, / The pride of kingly sway from out my heart; / With mine own tears I wash away my balm, / With mine own hands I give away my crown, / With mine own tongue deny my sacred state, / With mine own breath release all duty’s rites: / All pomp and majesty I do forswear; / My manors, rents, revenues I forego; / My acts, decrees, and statutes I deny. / God pardon all oaths that are broke to me! / God keep all vows unbroke that swear to thee! / Make me, that nothing have, with nothing grieved, / And thou with all pleased, that hast all achieved! / Long mayst thou live in Richard’s seat to sit, / And soon lie Richard in an earthly pit! / God save King Harry, unking’d Richard says, / And send him many years of sunshine days! / What more remains? (Richard II, II, 4,1).

BOLINGBROKE | Sei d’accordo a cedere la corona?
RICCARDO | Sì, no; no, sì... Perche io non sono più nulla; / Perciò no, no: io non cedo a te. / Attento ora a come mi disfaccio: / tolgo via dal mio capo questo peso, / dalla mia mano questo scettro ingombrante, / l’orgoglio del potere, via dal mio cuore. / Con le mie stesse lacrime / lavo via l’olio della sacra unzione, / con le mie stesse mani consegno la corona, / con la mia stessa lingua / rinnego il mio potere consacrato, / con il mio stesso fiato prosciolgo i riti debiti, / fasto e dignità regale, via; / rinuncio ai miei castelli, alle mie rendite, / revoco i miei atti, statuti, decreti. / E Dio perdoni chi ha violato / tutti i giuramenti fatti a me, / e renda per sempre inviolati / quelli fatti a te. / Voglia concedere a me, / che non ho niente, / di non soffrire niente, / e a te di avere gioia da tutto quel che hai ottenuto. / Possa tu vivere a lungo, e a lungo seduto sul trono di Riccardo, / e Riccardo possa giacere quanto prima steso in una fossa, nella terra. “Dio salvi il re Enrico!”, dice il re-non-re Riccardo, / e a lui mandi molti anni / fatti di giorni radiosi! / Che più resta?.

È un atto di cui Riccardo comprende solo eseguendolo, solo in diretta, la portata simbolica ed effettuale; via via la svestizione appare come irrimediabile:

Mine eyes are full of tears, I cannot see: / And yet salt water blinds them not so much / But they can see a sort of traitors here. / Nay, if I turn mine eyes upon myself, / I find myself a traitor with the rest;
For I have given here my soul’s consent / To undeck the pompous body of a king, / Made glory base and sovereignty a slave, / Proud majesty a subject, state a peasant (Richard II, II, 4,1). 

Gli occhi miei, pieni di lacrime, / non vedo più; e il liquido salato li acceca al punto / che io non posso più vedere discernere qui intorno l’assortimento dei traditori. / Anzi, se volgo gli occhi su me stesso / scopro che anch’io sono un traditore come gli altri, / per aver la mia anima assentito / a spogliare di tutta la sua pompa il corpo del Re, / a atterrire la gloria, a fare schiava la sovranità / a fare dell’orgogliosa maestà un suddito, / abbassare il ruolo a quello di un bifolco.

Riccardo ha commesso un sacrilegio che, come tale, è irreversibile. La remissione volontaria del Re dalla sua maestà, la rinuncia al suo status, sigla il disfacimento – completo irrimediabile definitivo – della stessa regalità: rinunciando alla sua veste regale, suicidando la sua stessa maestà, il Re dà scacco matto al Re. Non è una successione, è “la bancarotta della regalità”:

NORTHUMBERLAND | My lord …
RICHARD | No lord of thine, thou haught insulting man, / Nor no man’s lord; I have no name, no title, / No, not that name was given me at the font, / But ’tis usurp’d: alack the heavy day, / That I have worn so many winters out, / And know not now what name to call myself! / O that I were a mockery king of snow, / Standing before the sun of Bolingbroke, / To melt myself away in water-drops! / Good king, great king, and yet not greatly good, / An if my word be sterling yet in England, / Let it command a mirror hither straight, / That it may show me what a face I have, / Since it is bankrupt of his majesty (Richard II, II, 4,1). 

NORTHUMBERLAND | Mio signore …
RICCARDO | Ma che tuo signore, / sei un vero insolente! / Non sono signore di nessuno / Io non ho nessun nome, nessun titolo, / e non ho più nemmeno il nome mio che mi fu imposto al fonte del battesimo. / è stato usurpato. Ah, che giorno terribile è mai questo, / che io, con tanti inverni sulle mie spalle, / non sappia più con che nome chiamarmi! / Oh, fossi un re per gioco, un re di neve, / e al sole di Bolingbroke / dissolvermi in gocce d’acqua! [A Bolingbroke] O tu, buon re, gran re / – seppur non grande per magnanimità – / se ancora la mia parola è moneta che ha corso in Inghilterra, / comanda che mi portino subito uno specchio / ché io vi possa mostrarmi che faccia ho io / dopo che in essa la maestà ha fatto bancarotta.

Riccardo ha ucciso il suo stesso nome e con la soppressione del suo titolo “la maestà ha fatto bancarotta”. Nello specchio che provoca Bolingboke a portargli, più non riconosce il suo volto perché non vede nella propria immagine i segni di quel che ha compiuto:

Give me the glass, and therein will I read. / No deeper wrinkles yet? hath sorrow struck / So many blows upon this face of mine, / And made no deeper wounds? O flattering glass, / Like to my followers in prosperity, / Thou dost beguile me! Was this face the face / That every day under his household roof / Did keep ten thousand men? was this the face / That, like the sun, did make beholders wink? / Was this the face that faced so many follies, / And was at last out-faced by Bolingbroke? / A brittle glory shineth in this face, / As brittle as the glory is the face; / For there it is, crack'd in a hundred shivers. / Mark, silent king, the moral of this sport, / How soon my sorrow hath destroy’d my face (Richard II, II, 4,1).

Qua quello specchio! è qui che io voglio leggere. / Come? Non ha più rughe di così la mia faccia? Con tanto dolore / con tanti colpi inferti, / non vi lasciò il dolore ferite più profonde? Ah, specchio adulatore, / come i miei cortigiani quando ero felice/ tu mi inganni! Questa faccia è la stessa faccia che ogni giorno sotto il tetto della sua casa / teneva diecimila uomini? / La stessa faccia che, come un sole, / costringeva chi stava davanti a chiudere le palpebre? / La stessa /che ha fronteggiato tante follie/ e che infine abbassa la fronte davanti a Bolingbroke? / Una fragile gloria splende in questa faccia, / fragile com’è fragile la gloria è questa faccia! / E perciò, ti frantumo in mille pezzi! / Guarda, un re in silenzio, / la morale di questo scherzo: / vedi con che rapidità / il dolore ha distrutto la mia faccia”.

La regalità è dissolta, come neve di fronte al nuovo sole, e Riccardo rompe lo specchio per mandare in frantumi il suo volto, ora che il suo ruolo più non esiste. Ma non basta; per far finire il corpo del Re serve un colpo violento:

RICHARD| How now! what means death in this rude assault? / […] / That hand shall burn in never-quenching fire / That staggers thus my person. / Exton, thy fierce hand / Hath with the king’s blood stain’d the king's own land. / Mount, mount, my soul! thy seat is up on high; / Whilst my gross flesh sinks downward, here to die.
EXTON | As full of valour as of royal blood: / Both have I spill’d; O would the deed were good! / For now the devil, that told me I did well, / Says that this deed is chronicled in hell. / This dead king to the living king I’'ll bear (Richard II, II, 5,6).

RICCARDO | Ehi là, che c’è ora? Che significato di morte ha questo rude assalto? / [...] / Quella mano bruci nel fuoco eterno / quella che fa crollare così la mia persona! / Exton, con la tua fiera mano / hai macchiato del sangue del suo re / questa terra che è sua. / In alto, va’ in alto, animia mia! / Mentre greve del suo peso mortale la mia carne sprofonda quaggiù, e qui muore.
EXTON | Colmo di valore, come di sangue regale! Io li ho versati entrambi; e magari questa morte fosse stata il bene! / Perché il diavolo che mi aveva detto: “Fai bene” /, ora dice che questa morte è già iscritta sul mio libro dei conti all’inferno. / Questo re morto al re vivo, devo portare.

“Il re è morto: viva il re”. Ma non è il meccanismo dell’avvicendamento ché si è ingrippato; quel che si consuma è il funerale della regalità:

EXTON | Great king, within this coffin I present / Thy buried fear: herein all breathless lies / The mightiest of thy greatest enemies, / Richard of Bordeaux, by me hither brought.
HENRY BOLINGBROKE | Exton, I thank thee not; for thou hast wrought / A deed of slander with thy fatal hand / Upon my head and all this famous land.
EXTON | From your own mouth, my lord, did I this deed (Richard II, II, 5,6). 

EXTON | Grande re, dentro questa bara io ti presento / la tua paura, qui sepolta: / là dentro giace, senza più respiro, / il più grande dei tuoi nemici, il più potente, / Riccardo di Bordeaux: qui te l’ho portato.
ENRICO BOLINGBROKE | Exton, non ti dico grazie: tu hai commesso / un delitto con la tua mano fatale, che chiamerà vergogna / sul mio capo e su questa illustre terra.
EXTON | Ma proprio dalla vostra bocca, mio signore, ebbi l’ordine di eseguire questa morte. 

Enrico, il nuovo Re, non può ammettere di essere il mandante e il responsabile della morte di Riccardo; non può accettare la sua morte fisica per mano di Exton perché non può accettare il suicidio simbolico della regalità commesso dallo stesso Sovrano:

HENRY BOLINGBROKE | They love not poison that do poison need, / Nor do I thee: though I did wish him dead, / I hate the murderer, love him murdered. / The guilt of conscience take thou for thy labour,
But neither my good word nor princely favour. / With Cain go wander through shades of night, / And never show thy head by day nor light (Richard II, II, 5,6).

ENRICO BOLINGBROKE | Non amano il veleno quelli che del veleno hanno bisogno. / Così io te: sebbene lo volessi morto / io odio il suo assassino, e amo lui che è stato assassinato. / Il rimorso di coscienza prendilo tuo, per la tua fatica / ma non avrei nessuna parola mia positiva, non avrai il mio favore di principe. / Va’, con Caino a fianco per compagno, / va a errare per le ombre della notte / e non mostrare più la tua faccia alla luce del giorno.

Nel dramma di Shakespeare il Re, in scena fin dall’inizio, aveva iniziato dall’inizio il suo compianto, fin da quando aveva fatto appello al suo stesso nome di re in difesa del suo corpo minacciato dall’usurpatore. E ora il Re dovrebbe incarnarsi in un nuovo corpo: Bolingbroke, ora Enrico, il nuovo re, potrebbe ricomporre su di sé il corpo regale deposto da Riccardo, dovrebbe proclamare: “È morto il re! Viva il Re”. Il nuovo Re – nota Kantorowicz – secondo quanto richiede il cerimoniale non dovrebbe partecipare al funerale del re defunto: e invece Enrico, come Serse nei Persiani, si pone alla testa del corteo funebre e canta il lutto. Nel finale del Riccardo II in scena sono due corpi di re: il corpo morto – e quindi mortale – di Riccardo e, insieme, il corpo del re vivente di Bolingbroke-Enrico. Il nuovo re, predisponendo il corteo funebre per Riccardo, provoca un cortocircuito e si trova così a condurre non le esequie del suo predecessore ma il funerale della stessa regalità:

Lords, I protest, my soul is full of woe, / That blood should sprinkle me to make me grow. / Come, mourn with me for that I do lament, / And put on sullen black incontinent: / I’ll make a voyage to the Holy Land, / To wash this blood off from my guilty hand. / March sadly after; grace my mournings here; / In weeping after this untimely bier (Richard II, V, 6).

Signori, lo proclamo che la mia anima è piena di dolore / che il sangue deve irrorarmi per farmi crescere. /Venite, piangete con me per ciò che io piango /e indossate subito il cupo nero del lutto: / farò un viaggio in Terrasanta / per lavare questo sangue, via dalla mia mano colpevole. / In marcia, dietro a me, con mestizia; rendete onore al mio cordoglio, / piangendo dietro questa bara intempestiva.

Ma il viaggio in Terrasanta non basterà: non c’è espiazione per questo lutto. Vide bene Elisabetta che reagì con fastidio alla prima rappresentazione della tragedia di Shakespeare nel 1599 e che pretese l’espunzione dell’atto finale; lo sapeva bene il conte di Essex che nel 1601 promosse una messa in scena della tragedia al Globe Theatre per supportare la sua ribellione contro la stessa Regina; lo sapeva bene, ancora, Elisabetta che dopo l’esecuzione di Essex dichiarò: “I am Richard II, know ye not that?”; forse lo sapeva Carlo I che finirà decapitato il 30 gennaio 1649 e che in un componimento in versi a lui attribuito avrebbe parafrasato i versi della autodeposizione di Riccardo: “With my own power my majesty they wound, / In the King’s name the king himself uncrowned. / So does the dust destroy the diamond”; lo sapeva bene Carlo II che ne proibì la messa in scena alla fine del XVII secolo24.

Nessun Enrico può succedere a Riccardo: con il corteo funebre che chiude il suo dramma, Shakespeare mette in scena la morte – ultima e definitiva – del Re.

IV. Explicit tragoedia. Il re è nudo, la monarchia è morta

Tre quadri, tre personae – Serse, Costantino XI Paleologo, Riccardo II – che mettono in atto tre spogliazioni del corpo regale: per tre volte, sulla scena aumentata del teatro tragico ad Atene nel 472 a.C., a Londra nel 1599, e il 29 maggio 1453 a Costantinopoli, nell’atto finale e teatrale dell’ultimo basilèus bizantino, il re si denuda e, privo del suo doppio, mostra icasticamente la fine della monarchia. Per tre volte la monarchia è finita. Perché la battaglia di Salamina, nella rappresentazione tragica che Eschilo inventa, è presentata (antistoricamente ma non è questo che qui conta) come la fine assoluta della monarchia persiana; non è stata, soltanto, una battaglia vinta contro il potente nemico persiano: Eschilo ambienta la sua tragedia in una delle reggie persiane per mostrare che il corpo del sovrano non è più protetto dallo scudo della veste, dall’aura divina, dal corpo fisico dei Diecimila Immortali. Non importa quanto la rappresentazione sia inverosimile e antistorica – quel che Eschilo presenta in scena è la fine del regno “nessuno più obbedisce al Sovrano [...], la Persia tutta è sepolta”); la Regina non tornerà in scena, come pure aveva promesso, per riportare la nuova veste al figlio-Re: Serse è nudo. La morte di Costantino XI sancisce la fine di Roma, dell’impero millenario di Roma – la regalità era stata la forma inattesa della declinazione del potere nella parte orientale dell’impero, linguisticamente e culturalmente ellenofona, pronta, dopo Alessandro e le monarchie ellenistiche, a farsi monarchico, e solo a quel prezzo riuscire a far durare Roma per un altro millennio: Costantino conosce l’importanza della lotta simbolica e, nell’ultimo giorno di Costantinopoli, mette in scena la morte, in figura, del corpo divino del Re. Riccardo II, con la sua svestizione scandita da gesti e formule perfettamente cerimoniali, mette in scena il rituale rovesciato della regalità.

βασιλεία γὰρ διόλωλεν ἰσχύς / “È finita la potenza regale” (Pers. 589/590); regni casui regium immiscuit cadaver / “mescolò il cadavere del Re alla caduta del regno”; “It is bankrupt of his majesty” / “È la bancarotta della sua maestà” (Riccardo II, II, 4,1). Per tre volte il teatro d’Occidente – teatro tragico e storico – mette in scena platealmente la morte del corpo divino del Re e la fine della stessa regalità. Ma non basta. I fantasmi della regalità ritornano a inquietare il mondo dal passato e dal futuro, prossimo o remoto, nell’èidolon di Dario, nella leggenda dell’imperatore che dorme per secoli in attesa del risveglio, nella figura surrogata di Enrico-Bolingbroke. La morte del corpo divino del Re e la fine della monarchia chiedono di essere continuamente presentate e rappresentate perché il bagliore della regalità è resiliente. Servono Eschilo, Shakespeare e lo scenario dell’ultimo giorno di Costantinopoli per presentare degnamente l’attrazione e il pericolo, per far lampeggiare l’abbaglio di quello splendore. E serve, ora e sempre, riattivare Mnemosyne per ricordare che, a ogni svolta della storia, le parole del pensiero della libertà politica devono risuonare come un ribaltamento della formula di rito: “Il Re non è morto. A morte il Re”.

*In questo contributo ho montato, riscrivendoli in forma diversa e in una diversa cornice di senso, materiali da miei lavori già pubblicati: i paragrafi 0, I, III riprendono temi e spunti trattati, in diversa forma e redazione, in Centanni 1990; il paragrafo II ripropone le testimonianze sulla fine di Costantino XI che ho presentato in Centanni 2017, 19-26; sulla figura della Regina in Persiani ho scritto in Centanni 2020, 23-29.

Note

1 | Sulla scrittura metrico-ritmica della parodos in cui sulle parole di orgoglio e di vanto della parata trionfale evocata dal Coro, prevale la tonalità della marcia funebre, ho scritto in Centanni 2012.
2 | Sulla lezione Δαναής τε γόνου / τὸ παρωνύμιον γένος ἡμέτερον, ai vv. 144-146, rimando a Centanni 2021.
3 | Sull’attrazione che i Persiani esercitano sull’immaginario greco, vedi Hall 1989 e Giordano 2019, con aggiornamento bibliografico.
4 | Per l’identificazione del personaggio con Tommaso Paleologo, rimando a Centanni 2017, 263-265, e ai recenti Farinelli 2021 e Dessì 2022.
5 | Il testo della Cronaca di Nicolò Barbaro, autografo dell’autore conservato Ms. Marc., Ital. Suppl. VIII 746, è pubblicato parzialmente in Pertusi 1976, vol. I, 5-38.
6 | Il testo di Nestore Iskender, Racconto di Costantinopoli, è pubblicato In Pertusi 1976, vol. I, 261-298, con nota sull’opera e la biografia dell’autore.
7 | Djuric [1989] 20093,. 30-31; la fonte è il Chronicon di Giorgio Sphrantzes, generale, protovestiario e storico dell’imperatore Costantino Paleologo, in seguito al servizio di Tommaso Paleologo in Morea, autore del Chronicon (ora comunemente definito come Chronicon minus) e testimone diretto degli eventi del periodo intorno alla caduta di Costantinopoli.
8 | Doukas, Historia turco-byzantina, XXXV, 6: Τὰς πάσας οὖν νύκτας ἐκείνας οὐκ ἔλιπε διανυκτερεύων καὶ μεριμνῶν τὰ κατὰ τῆς Πόλεως, λαμβάνων ἐν χερσὶν χάρτην καὶ μέλανα καὶ σκιαγραφῶν τὴν περιοχὴν τῆς Πόλεως [...]; una edizione parziale del testo in Pertusi 1976, vol. II, 160-193 (il passo in questione è a p. 164).
9 | Tursun Beg e Ibn Kemal, Storia del signore della conquista, edizione parziale e in sola traduzione italiana in Pertusi 1976, vol. I, 302-331.
10 | Leonardo di Chio, Epistola [...] ad Nicolaum papam [...] (16 agosto 1453), edizione in Pertusi 1976, 120-171.
11 | Varie le testimonianze sul coraggio di Costantino: si veda, ad es. Isidoro di Kiev, Epistola composita per ser Pasium de Bertipalia (6 luglio 1453), edizione in Pertusi 1976, vol. I, 58-65.
12 | Leonardo di Chio, Epistola ad Nicolaum papam, ed. Pertusi 1976, 162-164,
13 |Nicola Sagundino, Ad serenissimum principem [...] Alfonsum [...] oratio (25 gennaio 1454), edizione in Pertusi 1976, vol. II, 126-141 (vedi in particolare le pp. 134-135).
14 | Nicola Sagundino, Ad serenissimum principem [...] Alfonsum [...] oratio ed. Pertusi 1976, vol. II, 136.
15 | Doukas, Historia turco-byzantina, XXXIX, 13: Τῶν ὄπισθεν δ´ἕτερος καιρὶαν δοῦς πληγήν, ἔπεσε κατὰ γῆς· οὐ γὰρ ᾔδεσαν ὅτι ὁ βασιλὲυς ἐστιν, ἀλλ´ὡς κοινὸν στρατιώτην τοῦτον θανατώσαντες ἀφήκαν (ed. Pertusi 1976, 176).
16 | La fonte è Memorie di un giannizzero, di Costantino di Ostrovikas, che dopo aver combattuto dalla parte degli Ottomani nella presa di Costantinopoli come membro del nuovo corpo dei Giannizzeri (composto di rinnegati cristiani), negli anni ’60 sarebbe passato dalla parte di Mattia Corvino e sarebbe tornato alla religione cristiana; edizione e note biografiche in Pertusi 1976, vol. I, 254-260. Secondo quanto riporta Costantino di Ostrovica in Memorie di un giannizzero, Maometto avrebbe interpellato un certo “Andreas”; secondo Nestore Iskender i “boiari e gli strateghi greci” (Pertusi 1976, vol. II, 288). Secondo un’altra fonte di parte otto­mana Costantino, mentre cercava di fuggire, sarebbe stato ucciso da un soldato moribondo sul quale si era vigliaccamente accanito ma che, con l’aiuto di “Allah, dispensatore dei desideri” recupera miracolosamente le forze, ferisce a morte e infine decapita il Re.
17 | Nestore Iskender, Racconto di Costantinopoli, in Pertusi 1976, vol. I, 296; una versione dei fatti molto vicina a questa è riportata da Laonico Chalcocondyles, Esposizione delle storie, libro VIII (edizione in Pertusi 1976, vol. II, 194-227, 220). La stessa versio­ne del recupero tardivo della testa e dell’identificazione per via di testimoni in Doukas, Historia turco-byzantina, in Pertusi 1976, vol. II, 190.
18 | Doukas, Historia turco-biyzantina, in Pertusi 1976, II, 190.
19 | Nicola Sagundino, Ad serenissimum principem [...] Alfonsum [...] oratio, (25 gennaio 1454), in Pertusi 1976, vol. II, 136.
20 | Nestore Iskender, Racconto di Costantinopoli, in Pertusi 1976, vol. I, 296.
21 | Sul trattamento riservato alla testa dell’imperatore vedi Pertusi 1976, vol. I, 448. 
22 | Un aggiornamento sulle fonti sulla caduta di Costan­tinopoli, con attenzione anche alle versioni di parte ottomana sulla fine di Costantino, è in Phoiba 2010.
23 | La prima fonte che riferisce della leggenda della comparsa di un angelo (ma senza riferimento al corpo di Costantino) è, a quanto mi risulta, Doukas, Historia turco-byzantina, in Pertusi 1976, II, 180.
24 | Così Kantorowicz [1957] 1989, 41, con fonti. Sui riflessi politici del dramma di Skakespeare, v. Catà 2013, con bibliografia.

Riferimenti bibliografici 
  • Catà 2013
    C. Catà, Raccontando “tristi storie della morte dei re”.Testo, contesto e rappresentazioni del Riccardo II di Shakespeare, “Testi e linguaggi. Vol. 7 (2013), 243-256.
  • Centanni 1990
    M. Centanni, Immagini dei corpi regali di Serse e Alessandro, in Gli occhi di Alessandro. Potere sovrano e sacralità del Corpo da Alessandro Magno a Ceauşescu, a cura di S. Bertelli e C. Grottanelli, Firenze 1990, 29-46.
  • Centanni 2012
    M. Centanni, Il ritmo incongruo: metro e testo nella sezione lirica della parodos dei Persiani di Eschilo, “Lexis” 30. 2012, 105-116.
  • Centanni 2017
    M. Centanni, Fantasmi dell’antico. La tradizione classica nel Rinascimento, Rimini 2017.
  • Centanni 2020
    M. Centanni, The Queen on Stage. Female Figures of Regality in Aeschylus, “Skenè. Journal of Theatre and Drama Studies” vol. 6, n. 1, June 2020, 21-43.
  • Centanni 2021
    M. Centanni, Il nome dei Persiani. Δαναής τε γόνου / τὸ παρωνύμιον γένος ἡμέτερον (Aesch. Pers., 144-146, ed. West), “La Rivista di Engramma”, 178, dicembre 2020/gennaio 2021, 27-44.
  • Dessì 2022
    R.M. Dessì, Convenerunt in unum dans l’exégèse et les images : la Flagellation du Christ avec triade de Piero della Francesca, in R.M. Dessì, D. Méhu, Images, signes et paroles dans l’Occident médiéval, 281-348.
  • Djuric [1989] 20093
    I. Djuric, Il crepuscolo di Bisanzio. I tempi di Giovanni VIII Paleologo (1392-1448), tr. it. Roma 2009.
  • Farinelli 2021
    S. Farinelli. Piero della Francesca. Il segreto svelato. Viaggio alchemico alla trasformazione di sé, Roma 2021.
  • Giordano 2019 
    M. Giordano, Aeschylus’ Persians. Empathizing with the Enemy, or Orientalizing Them?, in J. Cahana-Blum, K. MacKendrick (eds), We and They Decolonizing Greco-Roman and Biblical Antiquities, Aarhus 2019, 11-26.
  • Hall 1989
    E. Hall, Inventing the Barbarian. Greek Self-definition through Tragedy, Oxford 1989.
  • Kantorowicz [1957] 1989
    E.H. Kantorowicz, I due corpi del Re. L'idea di regalità nella teologia politica medievale [Princeton 1957] Torino 1989.
  • Olmstead [1948] 1982
    A.T. Olmstead, L’impero persiano [Chicago 1948], Roma 1982.
  • Pertusi 1976
    A. Pertusi (a cura di), La caduta di Costantinopoli, Tomo I: Le testimonianze dei contemporanei, Tomo II: L’eco nel mondo, Milano 1976.
  • Phoiba 2010
    S. Phoiba, 1453. Η ΑΛΟΣΗΣ ΤΗΣ ΚΟΝΣΤΑΝΤΙΝΟΥΠΟΛΗΣ ΣΥΜΦΩΝΑ ΜΕ ΤΙΣ ΒΥΖΑΝΤΙΝΗΣ ΚΑΙ ΤΙΣ ΛΑΤΙΝΙΚΗΣ ΠΕΓΗΣ, Diss. Aristoteleio Panestemio Thessalonikes, Thessaloniki 2010.
English abstract

Three pictures, three personae – Xerxes, Constantine XI Palaeologus, Richard the Second – staging three divestments of the royal body: three times, on the augmented stage of the tragic theatre in Athens in 472 BC; in London in 1599; and on 29 May, 1453, in Constantinople, in the last theatrical act of the last Byzantine emperor, in which the monarch strips himself naked and, deprived of his double, icastically shows the end of royalty. The monarchy thus ends three times. The battle of Salamis, in Aeschylus’ Persians, is presented (anti-historically, but that does not matter here) as the absolute end of the Persian monarchy. No matter how far-fetched and anti-historical the representation is, what Aeschylus presents on stage is the end of Persian monarchic power (“no one obeys the Sovereign any more [...] all Persia is buried”). The queen breaks her promise and does not appear onstage again to return her son-king the new robe: Xerxes is naked. The death of Constantine XI sanctions the end of the Second Rome and of the millennial Roman empire: Constantine Palaeologus understands the importance of the symbolic struggle and, on his last day in Constantinople, stages the figurative death of the monarch’s divine body. Richard II, with his divestment emphasised by perfect ceremonial gestures and formulas, stages the inverted ritual of kingship: “It is bankrupt of his majesty” (Richard II). For three times, Western theatre – both tragic and historical – blatantly stages the death of the king’s divine body and the end of kingship itself. Yet the ghosts of royalty can return to disturb the world, from past and future, from near and far. The death of the king’s divine body and the end of monarchy demand to be continually presented and performed, as the glow of kingship is resilient. Aeschylus, Shakespeare, and the scenario of the last day of Constantinople aptly present the allure and danger of royalty: the splendour of kingship becomes epiphany in the instant in which it implodes, in the last glow of its end.

keywords | Ernst Kantorowicz; Aeschylus’ Persae; Constantinople Fall; Skakespeare’s Richard II.

Per citare questo articolo / To cite this article: Monica Centanni, Explicit tragoedia. La svestizione del corpo del Re Serse, Costantino XI Paleologo, Riccardo II, “La Rivista di Engramma” n. 202, maggio 2023, pp. 43-64 | PDF of the article