"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

84 | ottobre 2010

9788898260294

Memoria corporale

Claudio Franzoni

Non ci sono lucciole nella Ricotta di Pier Paolo Pasolini (1963), ma c’è la fame, quella di ‘Stracci’, il protagonista, e della sua famiglia; è il ventre di Giovanni ‘Stracci’ che mette in moto la breve storia, ed è una caverna, il ventre della terra, il luogo in cui si svolge il formidabile pasto che porterà il sottoproletario a morire in croce, nel set cinematografico in cui si gira un film su Gesù. Sin dall’inizio, insomma, il cinema di Pasolini parla di corpi, come continuerà a fare, spostando di continuo il punto di osservazione, fino a Salò.

Proviamo a rivolgere a questi corpi di Ricotta domande che potremmo rivolgere anche ad altre immagini dell’inizio degli anni ‘60: da dove vengono (si intende, nei loro movimenti, nelle loro posture, nei loro accessori)? E quali cambiamenti li attendono negli anni seguenti (proprio gli anni in cui sono ormai ‘scomparse’ del tutto le lucciole)? Possiamo interrogare i personaggi della Ricotta per una ragione semplice: perché nel film c’è una varietà di strati sociali assente da altre opere di Pasolini, Accattone ad esempio, una gamma che va appunto dal borgataro-comparsa ‘Stracci’, fino al produttore del film e ai suoi amici.

C’è prima di tutto ‘Stracci’, con la sua camminata e col suo modo di parlare ad alta voce, aprendo il palmo della mano di fianco alla bocca; e poi la ragazza,una comparsa, impegnata in un improbabile strip-tease; all’opposto la camminata elegante della prima attrice, Laura Betti, e la posa rilassata e intensa del regista seduto ("solo come Capaneo" è scritto nella sceneggiatura); c’è poi il giornalista, con le braccia aderenti ai fianchi, impegnato in un continuo, leggero inchino – “le spallacce, curve come un lacchè alla corte di Re Sole, o un caporale di corvée davanti al superiore” – ma rapido a fare le corna, non appena il regista nomina la morte. E la risposta di quest’ultimo è quella di girarsi di colpo e mostrargli le spalle, inveterato segno di disprezzo. Un momento speciale, non a caso l’unico contrassegnato dal colore, è quello degli attori che provano a rifare coi loro corpi le Deposizioni di Rosso Fiorentino e Pontormo. Ci sono poi i movimenti ritmici dei ginnasti lungo l’Appia, e, infine, il calibrato muoversi del corteo, anzi della ‘corte’ del produttore accompagnato da uomini politici, attori e attrici in visita alla troupe; fanno da contraltare a questa pausata eleganza, baciamano compresi, i saltelli dei paparazzi che riprendono l’arrivo del gruppetto.

Da dove vengono dunque gesti, movimenti e posture degli uni e degli altri? Se si eccettua la danza dei fotografi e l’idea dello strip-tease (peraltro un “cattivo spogliarello” per usare un’espressione di Jean Baudrillard), forse non c’è nulla di nuovo. Si potrà dire che è un’ovvietà, ma è un’ovvietà così banale? Quei gesti, movimenti e posture, infatti, sono stati appresi, e in questo senso vengono dal passato: “Il corpo non è mai al presente” dice Gilles Deleuze. Il sottoproletario ha imparato a muoversi in quel modo, il produttore ha imparato a muoversi in un’altra, ben differente maniera; e il sorriso del primo – quando ad esempio si traveste da donna per ‘arranfare’ un secondo cestino di vivande con uno sguardo ‘balordo’ – ha tutt’altra forma e tono rispetto al sorriso, misurato e sicuro di sé, dell’imprenditore; quanto agli abiti dell’uno e dell’altro, non c’è discussione. Viene in mente un passo di Pierre Bourdieu in cui si sostiene che lo stile borghese si differenzia da quello dei ceti popolari nell’“economia di mezzi nell’impiego del linguaggio del corpo”: “la gesticolazione e la fretta, le boccacce e le mimiche si contrappongono alla flemma (“i gesti lenti, lo sguardo lento” della nobiltà secondo Nietzsche), al ritegno e all’impassibilità, che sono il contrassegno del rango”.

In Ricotta, ogni livello sociale viene ad avere così un suo atteggiamento corporeo distinto e ben riconoscibile e l’‘omologazione’, di cui Pasolini parlerà ripetutamente negli anni seguenti, nella Ricotta non è ancora rappresentata; in compenso, attraverso il cinema, egli anticipa quelle riflessioni sul rapporto tra comportamento e cultura (soprattutto dei giovani) che troveranno spazi negli articoli sul “Corriere della Sera”, una decina d’anni dopo. Nel 1974, in polemica con chi lo accusava di estetismo, Pasolini affermerà infatti che “la cultura di una nazione (nella fattispecie l’Italia) è oggi espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio fisico”; quella era la ragione per cui non nascondeva di sentirsi uno di quei “certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento”. E infatti l’anno prima aveva tracciato quella straordinaria storia dei capelli lunghi (maschili), una storia che si svolge in un breve arco temporale, dai pieni anni ’60 ai primi ’70, ma che descrive la parabola di un segno, dal suo imporsi come emblema della contestazione al suo progressivo affievolirsi in una pura "funzione distintiva". I due giovanotti capelloni incontrati a Praga sono silenziosi in quanto per loro parlano appunto i capelli lunghi, perché – a differenza di quanto capita a tutti nel comportamento quotidiano – essi sono esattamente consapevoli della portata del loro gesto: “quel linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi, poteva essere appreso immediatamente, anche perché, semiologicamente parlando, altro non era che una forma di quel ‘linguaggio della presenza fisica’ che da sempre gli uomini sono in grado di usare” (l’articolo di Pasolini Contro i capelli lunghi, 1973, è disponibile in rete in “Engramma” n. 68).

Molti degli ultimi interventi pubblici di Pasolini insistono dunque sul tema della omologazione dei comportamenti: la “scomparsa delle lucciole” viene a coincidere anche col ridursi della ricchezza espressiva della lingua, dei dialetti in particolare, col degradarsi della mimica e della gestualità: da una “corporalità popolare” ancora riconoscibile (naturalmente in opposizione a quella piccolo-borghese) si sarebbe passati a una indifferente apparenza dei corpi, “fisicamente intercambiabili” tra destra e sinistra. Quanto più il suo discorso si fa assoluto (e forse apocalittico secondo Didi-Huberman), tanto più le sfumature e i dettagli si perdono, salvo quelli che ai suoi occhi guastano le belle figure dei giovani, come quando alcuni di essi decidono “di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi”. Quelle di Pasolini sono argomentazioni tanto radicali, quanto generiche(e, in questo senso, la visione senza speranze che Didi-Huberman attribuisce a Pasolini è tale fino a un certo punto); egli ne è pienamente consapevole, come leggiamo in un articolo (Lettera aperta a Italo Calvino: quello che rimpiango, 1974) in cui chiarisce che la propria visione della nuova realtà culturale italiana “riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze” (corsivo mio). Le eccezioni sarebbero i giovani che appartengono “alla nostra stessa élite”, dunque gli uomini di cultura (ma non delle “sottoculture”), gli intellettuali consapevoli della situazione generale e perciò eventualmente destinati ad essere “ancora più infelici di noi”.

E le resistenze, le sopravvivenze? Sotto il riflettore della polemica, le une e le altre vengono di fatto oscurate, sostanzialmente non funzionali al tono dell’invectiva – poiché questo sono gli articoli del Corriere, anche se il bersaglio non è una singola persona, ma una cultura, quella piccolo-borghese che avrebbe ormai assorbito quella popolare e contadina; in un testo del 1970 è proprio questa scomparsa a provocare un inatteso montaggio di oggetti sacri, di epoche e geografie distanti:

Ho pianto di vere lacrime, davanti a un idoletto della tribù Baule, fatto di legno e filamenti vegetali; ho pianto perché quello era il piccolo nume contadino del Lazio di Turno. Lacrime su un mondo perduto anche nelle sue ultime propaggini: infatti il monoteismo contadino dopo essere stato per tanto tempo modulo e strumento di potere viene buttato a mare dal potere industriale.

In definitiva Pasolini polemista è attento ai corpi come superfici sociali – le capigliature appunto, la moda seguita in modo ossessivo, gli accessori e gli oggetti a corredo del nuovo edonismo consumistico –, una superficie sgradevole fin che si vuole, ma pur sempre una superficie. È invece a Pasolini regista che chiediamo una descrizione più piena del corpo, non solo perché nei suoi film si trova un elenco di situazioni mimiche, gestuali e comportamentali, ma perché in essi “la realtà parla con se stessa”, per usare sue parole, e i corpi, potremmo dire noi, parlano con se stessi.

Prendiamo ancora la Ricotta, le scene in cui alcuni giovani ballano durante una pausa della lavorazione del film; i primi due, mentre scorre la sigla, eseguono bene il twist, quanto mai di moda in quegli anni; altri due, ‘il Cipolla e il Capogna’, mentre il giornalista intervista Welles-Pasolini, lo ballano su un brano dell’anno precedente, quell’Eclisse twist composto da Michelangelo Antonioni e Giovanni Fusco, che Mina canta in L’eclisse dello stesso Antonioni (1962). Un brano di una cantante di successo che dunque è anche una citazione, ma del tutto speciale, come lo sono – più avanti nel film – le note della sequenza medioevale del Dies irae suonate da una fisarmonica e la cavatina della Traviata (Sempre libera degg’io) in forma bandistica. Citazioni che sono anche ibridazioni, come è ibridato il twist di questa seconda coppia maschile: “coi sederi in fuori, sporgenti come quelli dei negri, ballano in silenzio orgiastico”; una serie di atteggiamenti buffi che ricordano Totò, più che Adriano Celentano. I due come poi farà anche una comparsa nelle vesti di angelo con la tromba – stanno dunque ripetendo le mosse del ballo, un ballo d’importazione recente e del tutto estraneo a quelli consueti allora in Italia; obbedendo a quale processo le mosse canoniche del twist vengono rifatte e, alla fine, trasformate? Ciò avviene secondo la memoria gestuale del ‘Cipolla’ e del ‘Capogna’, cioè secondo quell’insieme di regole, istruzioni e abilità corporali assimilati fin dall’infanzia.

Il meccanismo che permette di assimilare e conservare questa memoria è l’imitazione: atteggiamento proprio dell’uomo quanto altri mai, aveva già osservato Aristotele; a sua volta, l’imitazione dei corpi degli altri si realizza nella ripetizione dei loro movimenti. Una miniatura della prima metà del Duecento recentemente analizzata da Chiara Frugoni mostra questo meccanismo in azione (tanto più significativo visto che si tratta di una scena sacra tratta da una Bibbia moralizzata); Cristo, in piedi, affida la missione a Pietro e a Paolo aprendo il palmo della mano sinistra – è la ‘mano parlante’ – e alzando l’altra a indicare una generica direzione: Pietro ripete il gesto del palmo aperto, Paolo quello della mano che esorta; il loro riproporre i movimenti di Gesù non è altro che il modo che hanno i due apostoli di dichiarare – cominciando dai loro corpi – la propria obbedienza. Il miniatore medioevale, ben lontano dai procedimenti mimetici classici, non ha descritto ciò che uno spettatore avrebbe visto in quel momento, ma ha tradotto la risposta positiva di Pietro e Paolo in termini corporei; per essere esatti, si dovrebbe aggiungere che i termini corporei sono prima di tutto quelli del miniatore stesso.

Anche nella Ricotta il meccanismo della ripetizione esce allo scoperto due volte, una in chiave parodistica e un’altra in chiave comica. I gesti degli attori che rifanno in quadri viventi le pale di Pontormo e Rosso Fiorentino sono movimenti artefatti, riproducono un dipinto, a sua volta una riproduzione di atteggiamenti, insomma scansano la realtà e per questo, come spiegherà più tardi lo stesso Pasolini, mostrano ciò che un regista non dovrebbe mai fare. Basta un istante di realtà gridato dall’aiuto-regista a una comparsa-manigoldo: “Amorosi, la smetta di scaccolarsi!” e la povertà dell’artificio si dichiara.

L’inserto comico si svolge proprio tra i due quadri viventi: ‘Stracci’ vende il cagnolino dell’attrice principale e se ne va a comprare la ricotta da un venditore ambulante, mentre il ritmo della ripresa accellera ‘tipo Ridolini’; è a questo punto che ‘Stracci’ si gratta una natica, immediatamente seguito, in una sorta di tic di coppia, anche dal ricottaro. Una cosa è la replica, un’altra la ripetizione; la prima ribadisce che il passato è concluso, la seconda apre la possibilità verso un nuovo. C’è dunque qualcosa di drammatico e di comico, ma anche di vitale, nei corpi che si parlano e che rischiano continuamente di cadere in formule stereotipate: come faceva osservare Marcel Jousse, “è grazie a questa tendenza che si forma l’armatura che funge da legame tra le generazioni e che costituisce le mentalità e le culture. Per tale motivo il formulismo è fonte di vita per un popolo quando dà origine a formule viventi, portatrici di realtà”.

Una cosa è il gesto del grattarsi, un’altra il meccanismo che porta a replicarlo, un’altra ancora le istruzioni che portano a eseguirlo in una certa maniera: livelli diversi – per quanto interagenti – e diversamente intrisi di memoria, poiché su di essi il tempo agisce con ritmi distinti. Il livello di superficie, quello immediatamente visibile, non è affatto il meno importante, ma, proprio in quanto più esposto, è quello che tanto è veloce nell’assorbire forme gestuali, quanto è rapido nell’espellerle: qualcuno ha visto di recente il gesto dell’autostop oppure quello delle femministe in corteo? E l’atteggiamento che secondo Flaubert caratterizzava i bellimbusti, ficcare i pollici sotto le ascelle, quanto è durato?

Dunque, nella sfera della corporeità, abbiamo a che fare con un lessico, ma anche con una grammatica (generativa, va da sé), e una sintassi, queste ultime forse meno appariscenti, ma, si direbbe, ben più resistenti; l’uno e le altre caratterizzati da memorie non necessariamente sincronizzate: più ricettiva ma più volatile quella del lessico, più opaca ma più stabile quella della grammatica e della sintassi. Di certo l’uno e le altre ben coese in una testura che ci appare come unitaria.

Una cosa, allora, è osservare che alcune forme gestuali resistono e sopravvivono, un’altra è saper spiegare perché e in che modo questo avvenga. Un esempio tra tanti si trova nel saggio di Chiara Frugoni: una fotografia mostra Aldo Moro mentre, in pubblico, congiunge indice e pollice, come fanno personaggi diversi in certe miniature medioevali; è uno dei tanti movimenti che si compiono durante il discorso o la conversazione, quello in particolare che viene usato nella discussione, per asseverare, per confutare, per spiegare. Lo fa anche Pasolini davanti a Maria Callas, durante le riprese di Medea. Da dove viene questo gesto, qual è per così dire, la sua etimologia? Per quali strade ricompare in epoche e in personaggi eterogenei? Perché il suo senso è lievemente oscillante?

Il punto è che, nonostante ci conforti l’idea che i vari movimenti del corpo abbiano un significato, in realtà essi sono irriducibili a enunciati verbali e per questa ragione non veicolano un significato vero e proprio; secondo Giorgio Agamben, il gesto “non ha propriamente nulla da dire, perché ciò che mostra è l’essere-nel-linguaggio dell’uomo come pura medialità”. Eppure, tanto nel vissuto quotidiano, quanto di fronte alle immagini antiche e a quelle di oggi, siamo impegnati nello sforzo continuo di far parlare i corpi degli altri, sforzo che è spesso sufficiente, ma mai pienamente esauriente. I corpi parlano prima di tutto quel ‘‘linguaggio della presenza fisica, che da sempre gli uomini sono in grado di usare” e non è detto che la memoria che in essi è inscritta proceda con le medesime regole e i medesimi tempi che caratterizzano gli altri spazi della cultura.

Bibliografia di riferimento