Teatro della conoscenza, incontro tra Luca Ronconi e Gianfranco Capitta, Festival della Mente, Sarzana 2012, Archivio privato di Gianfranco Capitta.
Luca Ronconi era molto ‘romano’ anche se nato, quasi per caso, a Susa in Tunisia, dove quell’anno la madre insegnava. Lo rivelava il suo accento romanesco leggero (che a tratti calcava, con accenti volutamente comici) e anche il rapporto con l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, come allievo, quando era diretta in persona dal fondatore Silvio d’Amico, e poi con la riconoscenza mantenuta per sempre al suo maestro Orazio Costa. Di quell’esperienza e di quegli anni (quelli di frequenza e quelli immediatamente successivi) resta qualche testimonianza anche divertente, come nella versione televisiva (1957) di Fermenti di Eugene O’Neill, in cui il giovane attore dava vita allo spregiudicato giovanotto che per far ingelosire la sua recalcitrante futura fidanzata, si mette a corteggiare la ‘dissoluta’ del paese, ovvero Monica Vitti (all’anagrafe Ceciarelli, cambiato quando era proprio compagna di corso all’Accademia del futuro regista).
Costituirebbe una divertente letteratura da raccogliere, quella dei rapporti con i suoi compagni di corso ancora viventi, tra i quali spicca, raccontato dalla stessa interessata, e proprio a Santa Cristina, il corteggiamento silenzioso e dissimulato verso Anna Maria Guarnieri, futura protagonista di diverse regie ronconiane tra Perugia, Torino e Milano. Proprio con lei si trovò poi a lavorare assieme il giovane Luca, in quella che sarebbe diventata la gloriosa Compagnia dei Giovani, nel 1957: regista De Lullo, Guarnieri e Romolo Valli protagonisti, aiuto regista Lina Wertmuller (che non a caso dopo l’Orlando furioso sarà chiamata come vecchia conoscenza a dirigere La cucina di Wesker al Valle con gli attori dell’Orlando momentaneamente disoccupati).
Nello stesso tempo, tenendo come docente dei corsi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, Ronconi conosce e forma molti nuovi attori, cui potrà attingere per i suoi spettacoli, così come suo allievo fu Armando Pugliese, che sarà poi il suo fidato aiuto regista per l’Orlando furioso, e in diverse altre creazioni, ma anche rivale quando con alcuni attori della compagnia (e con Paolo Radaelli manager) darà vita al Teatro Libero, subito reso celebre dal successo del Masaniello, inizio di una robusta carriera, con la ferita della mai più totalmente compiuta riconciliazione con l’antico amico.
Dopodiché Luca Ronconi ha continuato a lavorare in teatro e in comparsate e piccole parti in cinema e tv (un ricordo personale viene da uno struggente sceneggiato tratto da Graziella di Lamartine, protagonisti Ilaria Occhini e Corrado Pani, che trent’anni dopo per altro il regista avrebbe chiamato come coppia protagonista del Pasticciaccio di Gadda/Ronconi all’Argentina.
Come un ‘marziano’, ma solo in apparenza, continua dunque a muoversi per Roma, tra attori amici e compagnie importanti. E fa di tutto, attore in testi classici, contemporanei, grandi e piccole produzioni, lasciando crescere dentro di sé qualcosa che da tempo andava covando: creare un ‘suo’ spettacolo, passare insomma alla regia.
Significativa, e interessante, questa sua crescita, che faceva tesoro delle esperienze che andava accumulando. E soprattutto del legame che lui, all’apparenza così distaccato, stringeva via via con i compagni e le compagne di lavoro. Soprattutto attrici: penso alla temibile formazione di future signore della scena che andarono a costituire la prima esperienza di una nuova formula organizzativa, la Cooperativa Tuscolano (così chiamata perché lì, allora estrema periferia romana, si trovava l’ex cinema Folgore che li ospitava, e poi vedremo come si sarebbe ancora ripetuta in qualche modo vent’anni dopo un’esperienza simile). I nomi sarebbero divenuti importanti, in pochi anni: basti citare attrici che sono poi state protagoniste del “nuovo teatro”, da Barbara Valmorin ad Anita Laurenzi. Tutta maschile invece la triade leader della compagnia, con responsabilità via via consolidatesi, anche se destinate a grandi, periodiche separazioni e inevitabili riavvicinamenti: Luca ovviamente per la responsabilità artistica, Paolo Radaelli per quella organizzativa (ma allora ancora attore) e Giovanni Arnone per quella legale.
Le sue prime regie fecero letteralmente un botto nella pigra romanità sballottata tra cambiamento dei costumi e il sor Capanna di Checco Durante, il primo centro sinistra e gli sberleffi ingrati alla d’Origlia Palmi. Dopo un debutto assoluto con due Goldoni al titolo di uno e un cast che in futuro sarebbe risultato stellare (Giammaria Volonté, Corrado Pani, Ilaria Occhini, Carla Gravina), ci fu un classicissimo Terenzio estivo Heautontimorumenos a Ostia antica (seppur dopo un debutto in Libia), con protagonista femminile un’attrice forse inimmaginabile oggi, Liana Orfei. Si arriva così agli sconvolgenti Lunatici elisabettiani, che segnano la sua vera rivelazione: protagonisti Sergio Fantoni e Valentina Fortunato, ma c’è già Marisa Fabbri negli abiti maschili del crudele Vermandero. Ricordo bene al Quirino il turbamento del pubblico, seppure totalmente affascinato dal vedere praticata sulla scena la ‘crudeltà’, di cui in Europa molto si sentiva parlare e (soprattutto dalla Francia, con Artaud) prendere qui corpo e potenza. Crudeltà e potenza elisabettiani, fino ad allora davvero praticamente sconosciuti al nostro pubblico, improvvisamente emergono per mano sua, che di alcuni testi cura personalmente anche la traduzione.
Forse proprio per quell’apparire Ronconi ‘marziano’, lo chiama Gassman (che di Flaiano, a proposito del “marziano a Roma” scelto qui per titolo, era del resto amico e sodale) per la regia del suo Riccardo III, un trionfo nazionale tra sferragliare di corazze su cavalli di legno e acciaio e un beniamino del pubblico come Gassman, che sulla scena prima di morire fa fuori tutti gli altri.
Ma il ’68 del teatro esplode grazie a Ronconi poco dopo, con il Candelaio di Giordano Bruno. Testo classico quanto ‘maledetto’, eversivo quanto l’autore, che non per niente era andato al rogo in Campo dei Fiori, e che in mezzo alle scene (create per altro da Mario Ceroli), aveva in ditta grandi nomi come Sergio Fantoni, Valentina Fortunato e Mario Scaccia. Ma mostrava diverse presenze inquietanti e sconosciute per il momento, come Giancarlo Prati (che resterà fedele al regista fino alla propria fine, orrenda e inspiegata, in Sicilia), Daria Nicolodi, e perfino Ninetto Davoli. Ma soprattutto, troneggiante al centro della scena, una indimenticabile Laura Betti, inesauribile tessitrice di cattiverie e bugie da gran ruffiana. Indimenticabile! (Lei rimase poi per sempre amica di lui, andarono ad abitare nello stesso palazzo, ed entrambi hanno continuato a raccontare per anni, da prospettive ovviamente opposte, di quando lui fu poi costretto a cambiar casa perché lei pretese dal condominio, a buon diritto, l’installazione dell’ascensore per il quarto piano in cui abitava. Che disgraziatamente per lui, passava però per il sottostante bagno di casa Ronconi, che dovette rinunciare alla vasca, e presto traslocò).
Ma mentre si prepara al suo rivoluzionario Orlando furioso, Ronconi lancia un’altra provocazione alla classicità, che resta fondamento e insieme privilegiato bersaglio della sua poetica. Al teatro Valle, il cui intero arco scenico viene occupato e chiuso da una grata lignea enorme, alta fino al soffitto. Lì la Fedra di Seneca diventa una scacchiera, seppure verticale, di valori e sentimenti. Lilla Brignone è statuaria nel ruolo della temibile donna, autorevole, indiscutibile e sicura di sé. A fianco a lei, nel riquadro contiguo, Gianni Santuccio/Teseo non ha invece il coraggio di guardare avanti, né all’incesto né alla sala che lui sovrasta senza poter nascondere un senso di vertigine, le mani sempre strette all’impalcatura. Molto sicuro invece, nel ruolo di Ippolito, un giovanissimo Massimo Foschi, che di lì a poco sarà Orlando furioso, già pronto a cavalcare cavalli di legno e sentimenti sconfinati. Il pubblico subisce l’effetto della scena, che minaccia un crollo, non solo morale, sulla testa degli spettatori …
Ma, dopo gli esplosivi Lunatici elisabettiani, il vero colpo del maestro sta per arrivare. Orlando furioso cambia per sempre il teatro, e non solo italiano: nel linguaggio, la postura, la fisicità, il suono delle parole (che pure rimangono rigorosamente quelle di Ariosto). Una generazione di attori che diventerà poi protagonista indiscussa della scena e magari anche dello schermo, una visionarietà nuova proprio perché ottenuta con strumenti elementari e non costosi, la partecipazione obbligata di ogni spettatore che deve muoversi, scegliere cosa vedere e sentire, e stare in guardia per non essere investito dai carrelli in continuo movimento, la contemporanea mobilità di visioni, e di ascolto, guidato dall’unico filo conduttore: i versi di Ariosto. Elementare diremmo oggi, ma solo mezzo secolo fa era veramente una roba da marziani, che rispettava scrupolosamente il racconto e la scansione dei versi, ma nelle sue accelerazioni e nelle sue visioni, e spesso anche nella contemporaneità (con curiose sovrapposizioni, perfino spassose) costringeva lo spettatore a attenzioni assolutamente inusuali, sedotto dalla ‘storia’ ma sempre in guardia per non venirne fisicamente investito. Luca Ronconi aveva davvero reinventato il teatro, godibile ora come gioco, socialità, cultura, e fascinazione, di favole e di creature innamorate. L’Orlando segna la sua centralità nel teatro non solo italiano (presto richiesto e portato anche all’estero, dalle vecchie Halles parigine in via di trasformazione, fino a New York), da lì riesce a realizzare una serie di sogni, suoi e dello spettatore.
Di tutt’altro tono la superclassica Centaura, mitico testo di Giovan Battista Andreini (lo riprenderà trent’anni dopo con protagonista sempre Mariangela Melato, ‘premio fedeltà’: era la maga Olimpia nell’Orlando) che raccoglie quelli che poi saranno i suoi “ragazzi di Prato” (fra gli altri Mauro Avogadro, Gabriella Zamparini, Anna Bonaiuto, Piero Di Iorio, Remo Girone).
Di diverso segno il lavoro sperimentale che prepara per la sola Parigi, che glielo commissiona all’Odéon. Chiede a Rodolfo Wilcock, uno dei rappresentanti più radicali dell’avanguardia letteraria, un testo in 20 scene, da cui il titolo XX. Scene all’apparenza di banale quotidianità, dentro spazi piccolissimi ricavati da quel grande scatolone ligneo su due piani. Gli attori si divertono pazzamente, fin dalle prove che hanno luogo proprio al Teatro Ateneo della Sapienza, aperte agli studenti: una sarabanda di luoghi comuni che scoprono il volto dell’ossessione nella comunicazione quotidiana (col ricordo vivido, avendo assistito golosamente a quelle prove, del professor Marotti, cattedratico di storia del teatro, che in quanto spettatore viene indotto a ballare avvinghiato a una insaziabile Anna Nogara …).
Ma il ‘marziano’ che Ronconi appare, si spinge a imbarcarsi in progetti davvero, e ancor più, impossibili. In quello stesso anno 1972 la Caterinetta di Heilbronn creata da Kleist nasce, o almeno tenta di nascere, sul lago di Zurigo: pontili per il pubblico e pontili (sopra e sotto l’acqua) per gli attori, tutti messi a rischio lacustre. La pubblica sicurezza svizzera pone limiti all’arte, rimarrà l’incompiuta di una vita, una vera leggenda teatrale.
E anche lo spettacolo successivo, monumentale Orestea, trova inaccettabili rischi. Riesce a debuttare a Belgrado, ma a Roma, dentro gli studi di Cinecittà, saranno i nostrani pompieri a chiudere lo spettacolo la sera stessa della prima a causa della struttura – un gigantesco scatolone ligneo, su più piani ai quali gli attori accedevano con ascensori – secondo loro poco affidabile e insicura per il pubblico (col forte dispetto di chi, come il sottoscritto, aveva comprato il biglietto per la prima replica …). Anche se poco dopo in quello stabilimento in disuso che lui stesso avrebbe poi trasformato nel Fabbricone, l’Orestea fu replicata a Prato per un intero mese.
La fama di Ronconi in quei primi anni Settanta era presto diventata leggenda – un po’ sognatore di un teatro futuro, un po’ davvero marziano davanti all’umana ragnatela di regole e divieti. Poi il successo dell’edizione televisiva dell’Orlando (5 anni tra riprese tra la reggia Farnese di Caprarola e Cinecittà, e il complicato montaggio, con la collaborazione cinematografica però di un giovane Vittorio Storaro), e la scelta coraggiosa quanto giusta di Ripa di Meana di chiamarlo alla direzione della Biennale del teatro futuro, nel 1975 a Venezia. Una grande assise internazionale, tutti i nomi mondiali del ‘nuovo teatro’, che cominciavano appena ad essere studiati nelle università, per lo più ignoti al pubblico italiano se non per sentito dire, furono fatti convergere da Ronconi sulla Laguna. Invenzione del festival, massima capitale a quel punto di ogni invenzione del teatro nel mondo: Grotowski su un’isoletta disabitata, San Giacomo in Paludo (ultima visione possibile per lo spettatore, di cui restare grati a Ronconi, di Apocalipsis cum figuris, mai più replicata in futuro), Eugenio Barba, il Living stracciato e seminudo in piazza san Marco attorno ai turisti, Ariane Mnouchkine su un ponticello in mezzo ai canali di Campo San Trovaso con un Goldoni che sfoderava sotto la maschera un Arlecchino dalla pelle nera! Ma soprattutto la nuova regia di Ronconi, un testo dal titolo programmatico, Utopia! Quella del teatro e quella civile, ovvero il suo modo di lavorare, tra il classico e il marziano appunto, con la sua grandezza che aveva preso coraggio e corpo. Così alla Giudecca nei vecchi cantieri nautici (allora dismessi) gli venne in mente di adottare e sviluppare proprio quel modo di fare teatro. In cui a ‘parlare’, su una strada lunga 50 metri, oltre agli attori, molto numerosi, e ai testi di Aristofane, si muovevano un piccolo aeroplano incidentato, quattro automobili, un camion a motore, quattro salotti su rotelle, 25 lettini d’ospedale e una limousine presidenziale. Un kolossal, reso parlante da cinque diversi testi aristofanei. Alla produzione, oltre alla Biennale, contribuì persino il PCI, attraverso un Festival dell’Unità che avrebbe ospitato lo spettacolo. 25 milioni di lire!
Ronconi lasciò poi anzitempo la Biennale l’anno successivo, dopo avervi promosso per il settore musica un’altra opera storica (allora almeno apparentemente ‘marziana’) di cui sarebbe poi andato sempre molto fiero: Bob Wilson e Philip Glass autori di Einstein on the beach, fondamento di un nuovo linguaggio tra teatro e musica. Se ne andò assieme al presidente Ripa di Meana che l’aveva chiamato, e che era stato scomunicato da un PCI imbarazzato per la Biennale sul dissenso, dopo la crisi cecoslovacca.
Fu proprio dopo quella grande esperienza veneziana, di rappresentazioni, ricerca e incontri, che ad altri amministratori illuminati venne in mente di adottare e sviluppare quella peculiare teatralità. Grazie all’assessore Eliana Monarca e al direttore del Metastasio, Montalvo Casini (lo stesso del resto che quando Strehler nel ’68 aveva sbattuto la porta andandosene dal Piccolo, lo aveva accolto come cooperativa Teatro e Azione, per portare in scena Il fantoccio lusitano di Peter Weiss). Nacque così, a Prato, il teatro come laboratorio. Dove marziani erano anche i giovani attori messi a coltura nella città operosa.
“Laboratorio” si chiamò, chiamando come docenti intellettuali e artisti di prestigio (ma Umberto Eco pare si fosse limitato a indicare solo un titolo programmatico dell’iniziativa, Il segno della croce): oltre ai trainer e allenatori fisici, arrivò Gae Aulenti, architetto trasformato in scenografa, che iniziò così una proficua e duratura collaborazione con Luca, Dacia Maraini per la drammaturgia, altri intellettuali che poi si sono rarefatti, e soprattutto lo stesso Ronconi. In quella occasione nasce e si forma a Prato una nuova generazione di attori ‘ronconiani’, disposti ad affrontare insieme un livello ulteriore di ricerca.
Punto di partenza del lavoro laboratoriale è La vita è sogno di Calderon de la Barca (titolo che è già un manifesto di poetica e, se si vuole, di politica). Un Laboratorio condotto però, più che sul testo, cui quel titolo si ispirava, piuttosto lungo le sue ‘riscritture’ e affinità, innanzitutto sul Calderon di Pier Paolo Pasolini, rivisto, riletto e proposto nel rapporto poco scontato tra platea e palcoscenico: il pubblico sui palchetti, la grande platea del Metastasio usata come prolungamento della scena. E con tre diverse interpreti per la protagonista Rosaura lungo i tre atti: Gabriella Zamparini, Edmonda Aldini, Nicoletta Languasco.
Secondo momento del percorso del Laboratorio, Le Baccanti di Euripide: Marisa Fabbri da sola, monologante, inquieta e inquietante nel percorso buio attraverso l’antico orfanotrofio Magnolfi, fin nei suoi sotterranei. E infine La Torre di Hugo von Hoffmansthal. Prima immagine: una sorta di montagna coperta di teli bianchi, da guardare a testa in su, dentro il Fabbricone, su cui si issava e armeggiava protagonista Franco Branciaroli. Un’esperienza unica per lo spettatore, inquieta e inquietante, ma indimenticabile e formativa per tutti coloro che hanno avuto il privilegio di condividerla prendendovi parte.
Dopo Prato (proseguendo in una quantità enorme di titoli realizzati) il ‘marziano’ riconquista una sua professionale identità e potrà, senza più limiti e nell’ammirazione generale, costruire i suoi perfetti e inquietanti congegni narrativi, sempre oscillanti tra fantasia e condivisione (da parte di un pubblico universale), da esibire senza più esitazioni a generazioni di spettatori che da lui sono state educate al grande teatro, che è poi l’immagine, in diversa misura poetica e trasfigurata, della vita di ognuno.
Piccola appendice sulla cooperativa teatrale. Nei primi anni Ottanta, mentre preparava meraviglie teatrali come gli Spettri a Spoleto chiusi dentro una asfissiante conchiglia/serra, lavorò in un altro cinema del Tuscolano, forse il Trianon, con una nuova generazione di attori, a un lavoro di cui aveva sicuro il titolo, Latina, affidato per la scrittura a due suoi giovani allievi (Peter Exacoustos e Maria Carmela Cicinnati) e organizzato nuovamente con Arnone e Radaelli. Il progetto poi cadde, perché nuovi e più impegnativi compiti lo stavano chiamando.
Mentre realizzava altre perle del suo pianeta teatrale (viene l’imbarazzo a citarne uno piuttosto che un altro titolo della sua straordinaria produzione a cavallo dei secoli), Ronconi era destinato ad attraversare le direzioni dei tre più importanti e ‘ricchi’ teatri italiani, quelli rispettivamente di Torino, Roma e Milano. Dove la sua caratteristica ‘marziana’ poteva finalmente acquietarsi scatenandosi, e realizzare, disponendo di adeguati finanziamenti, compagnie di attori e libertà di scelte, praticamente senza limiti. Inutile ricordare qui titoli straordinari che hanno scandito lo sviluppo non solo del teatro ma di una parte significativa della cultura italiana.
Si può dire invece che chi ha avuto la fortuna di frequentarlo, fino alla fine, ha avuto il privilegio di conoscere e apprezzare il cambiamento di piano della sua vita, dei suoi gusti e delle sue emozioni. Scoprendo una sorprendente delicatezza di sentimenti nell’occasione triste di un lutto che lo colpì assai da vicino. Si ammalò e in pochi mesi morì la sua assistente, Maria Annunziata Gioseffi, la mitica Nunzi, spingendolo in un lasso di tempo istantaneo ad abbandonare lo stabile romano dove con lei a fianco aveva lavorato e realizzato una sfilza di nuovi capolavori, e accettare dall’oggi al domani la chiamata al Piccolo milanese.
Qui, mentre realizzava nuove e gigantesche meraviglie sceniche, indimenticate da chiunque vi abbia assistito, sembrò acquietarsi la sua carica ‘marziana’. Ma forse solo in apparenza, o come privatissimo ‘campo di gioco’. In realtà ora poteva applicarsi a mondi e piaceri da realizzare in palcoscenico, forse meno ‘marziani’ ma non meno intensi, e destinati anzi a rifondare la realtà del teatro non solo italiano. Così che la ricerca del piacere, e dello stupore, ad altri ambiti si applicava. E poteva infatti capitare, arrivando di buon mattino nel suo rifugio sulle montagne umbre, di trovarlo nella serra, col suo fido assistente Luigi, in stato di assoluta eccitazione. La causa? “Sai, finalmente oggi potrebbero fiorire le peonie”. Il marziano colpiva ancora. Chapeau!
English abstract
A portrait of a ‘Martian’ Ronconi set against the backdrop of a bold and bustling Rome. A long sequence shot capturing the unrepeatable career of the director of Orlando, restored through the layers of living memory of an engaged spectator. From his debut as an actor to his early experiments in directing, from the iconic productions of the 1960s and 1970s that rewrote the grammar of theater to his later institutional roles, Luca Ronconi delights in embracing his disorienting and deliberately sustained sense of otherness.
keywords | Luca Ronconi; Rome; direction.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Gianfranco Capitta, Luca Ronconi, un marziano a Roma, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.