Ronconi e il modello cooperativo
Scenari sulla produzione teatrale a Roma tra anni Sessanta e Settanta
Ilaria Lepore
English abstract
1 | Luca Ronconi e Paolo Radaelli, Prato all’epoca di “La Torre” – foto di Tommaso Le Pera che ringraziamo per la gentile concessione. Archivio Storico della Biennale di Venezia – ASAC, Archivio Ronconi – b. 9, f. 14, n.7.
La condanna dell’Orlando
Quando nel febbraio del 1973, impegnato a riordinare i frammenti della sua memoria ricostruendo l’esperienza del lavoro di Luca Ronconi, Franco Quadri dedica il capitolo XII del suo Rito Perduto alla “condanna dell’Orlando” (Quadri 1973, 161-173), quello spettacolo rivoluzionario sembra aver già assunto le fattezze di un animale morente. Della scenografia di Bertacca, i cavalli e tutto il resto delle scene, fatti scaricare su un piazzale all’aeroporto di Ciampino, e per un mese lasciati sotto la pioggia al ritorno dalla tournée newyorkese nell’autunno del 1970 (Tomassini 2018, 146), non è rimasto nulla. Quell’ossessione memoriale, che certo aveva originato lo sforzo di Quadri, sarebbe stata disattesa e Ronconi stesso si sarebbe mosso sulla strada di una dichiarata sfiducia nella monumentalizzazione-museificazione del ricordo.
L’Orlando aveva dimostrato non solo l’incapacità della “civiltà teatrale” italiana a fissare “in documenti non effimeri” (Quadri 1973, 161) i suoi spettacoli più importanti (con l’unica eccezione, forse, dell’Arlecchino di Giorgio Strehler), ma anche, più radicalmente, l’impossibilità – o riluttanza – all’archiviazione propria di quella eccedenza che il processo creativo genera rispetto all’opera (Scotini 2022). L’Orlando era uno spettacolo inafferrabile.
La “caleidoscopica e rutilante giostra” (Longhi 2016, 8) che Ronconi aveva realizzato dall’Ariosto (Longhi 2016, 8) non si era azionata solo per il tempo della sua realizzazione scenica. Si era invece prolungata, inesauribile, nello spazio concreto della sua complicatissima gestazione e, successivamente, della sua poco sostenibile gestione. Il naufragio dell’Orlando era certamente avvenuto nella completa indifferenza e disinteresse dei teatri pubblici ma, a ben vedere, fu anche l’esito del disordine ingenito a quel gruppo – il ‘gruppo’ dell’Orlando. Di quel disordine si intende restituire un racconto il più possibile composto, benché per certi aspetti ancora lacunoso; in particolare, questo contributo intende percorrere le vicende delle due realtà produttive, Teatro Libero e Cooperativa Tuscolano, le cui attività coincidono, in grossa parte, con le regie di Luca Ronconi e del suo gruppo, tra anni Sessanta e Settanta.
Ronconi e gli altri. Un’identità di gruppo?
Nei mesi tra la fine del ’68 e l’inizio del ’69, il nome di Ronconi circola insieme a quello della Comunità Teatrale dell’Emilia Romagna (CTEM), uno dei primi gruppi che nasce su nuove basi di cogestione e cooperatività mutualistica, in cui tra gli altri – Giancarlo Cobelli, Massimo Castri, Virgilio Gazzolo, Roberto Guicciardini – spiccano i nomi di Edmonda Aldini, Duilio Del Prete, Francesca Benedetti, Graziano Giusti, tutti attori e attrici con cui Ronconi aveva già sperimentato la collaborazione o che sarebbero stati, di lì a poco, reclutati per l’Orlando[1].
Si annunciava un progetto, ancora da determinarsi a conclusione della stagione, di una Santa Giovanna dei Macelli da realizzare nello spazio dei Mercati Generali di Bologna, sotto gli auspici dell’amministrazione comunista e senza richiedere i diritti, in segno di contestazione al monopolio che controllava le opere di Brecht (Anonimo 1969a, 1). La regia era stata affidata a Ronconi, ma l’autorizzazione non fu mai concessa. Nel periodo trascorso tra Ferrara e Bologna con la Comunità emiliana, Ronconi e Paolo Radaelli, insieme all’avvocato della SAI, Giovanni Arnone, che era stato testimone della nascita di quelle prime cooperative teatrali, in un albergo di Cesenatico nel settembre del ’68 (Arnone 2013, 77), pensano già a come avviare la macchina dell’Orlando, che inizialmente doveva essere destinato ad un evento celebrativo in onore di Ludovico Ariosto a Ferrara. In una conversazione privata (registrata il 25 aprile 2024), Armando Pugliese dichiarava che la Teatro Libero era stata messa in piedi “espressamente per l’Orlando” e che a quella data, agli inizi del 1969, era più un’attività “impresariale-cooperativistica” (Quadri 1973, 166) che una cooperativa in senso stretto.
Sui pochi documenti consultabili che recano una traccia delle attività di Paolo Antonio Radaelli (contratti, corrispondenza, promemoria), dispersi tra fondi privati e archivi pubblici, la “Teatro Libero. Organizzazione grandi eventi”, con sede a Roma, in Viale Mazzini 117, è a tutti gli effetti una impresa che, nella persona del suo rappresentante legale, gestisce le attività legate alla “compagnia indipendente”, come la definiva Radaelli stesso (Quadri, Martinez 1999, 39), formatasi intorno a Ronconi. La costituzione di quel “gruppo” che ammiccava, sulla scia utopistica del Sessantotto, al cooperativismo e all’autogestione, si fondava però più su un’operazione di reclutamento che su una spontanea adesione ad un progetto comune o su vagheggiate affinità elettive.
C’era, è vero, il nucleo emiliano capeggiato da Edmonda Aldini, ma Ronconi aveva riversato nella compagnia giovani esordienti, allievi e allieve delle sue classi in Accademia, la cui “attitudine a darsi” con quella “faccia nuova e genuina” che ben si adattava “alla naturalezza dell’ottava ariostesca” avrebbe costituito “l’elemento portante” dell’Orlando (Quadri 1973, 100)[2].
Già l’insuccesso del Candelaio nel ’68 aveva messo in luce l’incompatibilità tra la visione teatrale di Ronconi e le intenzioni della compagnia Fortunato-Fantoni-Scaccia, secondo Ronconi ancora troppo in continuità col tipo di gestione capocomicale (Ronconi 2019, 148). Fu l’abbandono di quella compagnia, dichiara ancora Ronconi, a portare come conseguenza la nascita di un “gruppo sociale” formato da attori che allora avevano circa trent’anni come Massimo Foschi, Mariangela Melato, Edmonda Aldini, che non si erano ancora “res[i] autonom[i] professionalmente”, ma che erano in “procinto di diventarlo” (Ronconi 2019, 148). Quest’assenza di una autonomia professionale aveva certamente favorito il cementarsi di una identità di gruppo e, contestualmente, il rimettersi alla visione del regista.
Anche la gestione delle attività della compagnia, a questa altezza cronologica, non sembra corrispondere ad una mutuale distribuzione di responsabilità. Dopo il successo dei Lunatici (1966), Radaelli e Ronconi cominciano “a differenziare le loro competenze per diventare sempre più complementari” (Quadri, Martinez 1999, 39), da un lato dunque la ricerca creativa di Ronconi, dall’altro il lavoro organizzativo e di progettazione affidato a Radaelli.
Sull’apporto di Radaelli, “il delizioso, intelligentissimo Paolo”, al lavoro di Ronconi e sul suo ruolo nella compagnia c’è ancora molto da colmare, un insidioso vuoto di memoria cui corrisponde un inverosimile silenzio di carte e di documenti[3] a dispetto di una fuorviante aneddotica.
I diffusi racconti sulle autorizzazioni dimenticate nel taschino, sul gioco dei borderò, sui beni di famiglia impegnati per pagare gli spettacoli degli amici, restituiscono il ritratto di un eccentrico, di un uomo senz’ordine né metodo, dalla spavalda e affettata negligenza, esperto nell’ingarbugliare, fantasioso risolutore, che mal si adatta alla pratica di quel lavoro direttivo, burocratico-esistenziale che Radaelli assunse durante i lunghi anni della sua collaborazione accanto a Ronconi e che voleva dire, al contrario, affrontare con pazienza difficili trattative, verificare con attenzione permessi e agibilità, cercare spazi per prove e spettacoli, imparare compromessi, attendere autorizzazioni, mettere insieme il “giro” (espressione in uso in quegli anni per indicare la programmazione delle recite in tournée richiesta dalle circolari ministeriali).
Di Radaelli è Enrico Job che ci restituisce un ritratto, il più sensibile e puntuale:
Durante Il Gioco dei potenti è nata l’amicizia con Paolo Radaelli, il delizioso, intelligentissimo Paolo. Giovane, bellissimo, elegante, spiritoso, sempre con interessantissime ipotesi sul futuro e quasi sempre giuste. Mi ha insegnato a riconoscere la grandezza anche nel presente. Ma lui era solo disponibile a questa umiltà, era capace di intuire e sostenere l’artista dove nessun altro era in grado di immaginarlo. Era un vero e proprio rabdomante del talento. Le sue curiosità e generosità gli innestavano intorno una corrente di simpatia irresistibile. Apparentemente cinico, solo quel tanto necessario però a un elegante distacco, sembrava vergognarsi delle proprie passioni. Il teatro italiano gli deve molto. Paolo ha spesso tenuto nell’ombra di essere stato lui a inventare e portare a temine grandi, inusitati e spesso riusciti progetti. Quasi mai fortunato, credo per colpa di un carattere non abbastanza tenace e perché sempre ingiustamente pessimista sul proprio conto (Cappelletti, Quadri 1998, 421).
Radaelli si era formato nella Milano degli anni Cinquanta, quella delle serate di musica jazz con Cathy Barberian, moglie di Luciano Berio; del “Verri” di Anceschi, di cui sarà redattore insieme all’amico fraterno, Nanni Balestrini[4]; degli informali, di Manzoni, di Baj[5]; di Grassi e della letteratura mitteleuropea della collezione Rosa & Ballo, di Strehler e di Brecht, della scuola del Piccolo[6]. Dal Giamaica di Milano al Rosati in Piazza del Popolo a Roma, Radaelli porta a compimento la sua formazione culturale, intensificando quella rete di relazioni con artisti, musicisti, intellettuali che introdurrà a Ronconi. Nel 1965, ancora assistente alla regia[7] per Strehler ne Il gioco dei potenti, Radaelli incontra Enrico Job, allora costumista allievo e collaboratore di Damiani (Cappelletti, Quadri 1998, 416) che dal 1967 lavorerà frequentemente accanto a Ronconi (Ronconi 2019, 121 n.15). Alla galleria La Tartaruga di Plinio de Martiis in Piazza del Popolo, Radaelli conosce Mario Ceroli che farà il suo esordio come scenografo teatrale nel già citato Riccardo III (Ronconi 2019, 132-135). E ancora sarà il tramite per “altri collaboratori preziosi”: Karl Lagerflied per i costumi di Al Pappagallo verde e dei Racconti di Hoffmann e Gae Aulenti, in occasione di un piccolo spettacolo musicale per la Rai di Napoli (Quadri, Martinez 1999, 41).
È tutta da indagare invece la presenza di Radaelli negli ambienti delle avanguardie musicali, cui sembra interessarsi fin dagli anni milanesi. Nel 1963, per il tramite di Visconti, Radaelli partecipa, insieme all’amico poeta Nanni Balestrini e al germanista e musicologo Franco Serpa, alla selezione dei testi di Giordano Bruno per la Cantata per quattro soli, coro misto e strumenti “Novae de infinito laudes” di Hans Werner Henze, presentata in prima mondiale alla Biennale di Venezia (24 aprile 1963). Insieme a Roberto Leydi[8], nel settembre del 1964, è organizzatore, per la compagnia del “Nuovo canzoniere italiano”, appena reduce dal successo di “Bella Ciao” per la regia di Pippo Crivelli (Teatro Caio Melisso, Spoleto, 21 giugno 1964), dello spettacolo L’altra Italia[9], una raccolta di canti di opposizione popolare, riproposto al Festival dell’Unità di Bologna, al Parco della Montagnola (Campisi 1964). Ancora, nel 1968, Radaelli è firmatario di un manifesto contro la RAI (insieme a Luca Ronconi, Giovanni Arnone e altri) per l’esclusione di Luigi Nono dal Prix Italia, festival musicale organizzato dalla Rai, per l’opera Contrappunto dialettico alla mente, su testi dell’amico Nanni Balestrini, ispirato al Festino nella sera del giovedì grasso avanti cena (1608) di Adriano Banchieri e che conteneva nel testo – come specifica un comunicato della RAI – “un brano tratto da un manifesto del Movimento negro-americano Harlem Progressive Labor Club, ritenuto offensivo nei confronti degli Stati Uniti partecipanti al Premio Italia” (Anonimo 1968, 9).
Sulle possibili connessioni tra arte e politica si sarebbe giocata la partita dell’adeguamento dei vecchi sistemi di produzione dello spettacolo sulla spinta delle nuove forze creative. Nella bufera sessantottina, la retorica della crisi del teatro, che quasi ciclicamente affiorava nel passaggio da una generazione teatrale all’altra, si era liberata delle ingerenze moralistiche e politicheggianti assieme, lasciando intravedere lo spazio di un inatteso rovesciamento.
La via della cooperazione autogestita prende forza, polemicamente e conflittualmente, dalle ceneri degli Stabili. Lo sciopero degli attori indetto dalla SAI (Società Attori Italiani) nel settembre del 1968, la nascita del Collettivo Nuova Scena di Dario Fo, della già citata CTEM, le rivendicazioni di Sbragia e dei suoi Associati, infine, le dimissioni di Strehler dal Piccolo, annunciate per dar vita a quel GTA (Gruppo Teatro e Azione) “prima Cooperativa ‘reale’ per storia nel nostro Paese” (Strehler 1991), avrebbero smentito le previsioni che Paolo Grassi aveva avanzato con tanta sicurezza sul futuro del teatro italiano:
Pensare teatri governati da collettivi in cui gli attori scelgano repertori assieme ai direttori è demagogia: io mi assumo l’impopolarità di questa affermazione. Il teatro è democrazia, finché si tratta di decidere chi o quale gruppo ha il dovere e l’onere e l’onore di condurre l’istituto teatrale; da quel momento però, con tutta la fraternità che l’artigianato comporta, il teatro diventa responsabilità di chi ha appunto il dovere e l’onere e l’onore di scegliere e di decidere. Non è possibile praticamente, in nessuna parte del mondo, pensare a un teatro nel quale si discuta un repertorio al di là di quelli che sono gli organismi delegati storicamente (Grassi 1966, 72).
Teatro Libero. Prove di cooperativa
“Non si può dire che [l’Orlando] sia nato casualmente, ma neanche che sia stato progettato in modo diverso dagli altri spettacoli. Come ho detto, in quegli anni Sessanta persone erano capaci di muoversi con uno spirito quasi di autogestione” (Quadri, Martinez 1999, 39). Così si esprime Paolo Radaelli a colloquio con Franco Quadri, ripensando agli sforzi, più o meno collettivi, per la realizzazione e la distribuzione dell’Orlando. Alla base, dunque, uno “spirito di autogestione”, o quasi.
Una lunga lettera dattiloscritta di Edmonda Aldini, conservata nel fondo Bufalini presso la fondazione Gramsci (Aldini 1972), indirizzata e spedita[10] al nucleo fondativo di Teatro Libero e datata al maggio-giugno 1972, all’epoca della formazione della Cooperativa Tuscolano, restituisce una preziosa testimonianza sulle vicende che seguirono il luglio del ’69.
Nel ‘promemoria’, l’attrice emiliana rivendica il suo ruolo attivo nella produzione e nel sostegno finanziario allo spettacolo della compagnia, sostegno che era stato espressamente richiesto da Ronconi, per affiancare Radaelli, e che si concretizzò in un considerevole contributo: dei 24 milioni investiti per l’Orlando – dichiara Aldini – una parte arrivarono dai comuni di Bologna e di Ferrara, in virtù del legame politico inaugurato all’epoca della Comunità emiliana; altri arrivarono direttamente dal PCI, “sempre stato dietro ogni pratico sostegno al gruppo dell’Orlando”; più altri 7 milioni da Paolo Grassi, allora Sovrintendente della Scala, cui si aggiungevano i 9 milioni delle sovvenzioni estive che Aldini fece “ridiscutere a livello politico” dopo che Radaelli per un “errore di forma” nella domanda presentata al Ministero aveva rischiato di far saltare. Anche per il giro dell’Orlando Aldini si attribuiva dei meriti: aveva sollecitato l’allora direttore di “Paese Sera”, Giorgio Cingoli, a fare pubblicità allo spettacolo per tutti e 27 i giorni della programmazione e aveva ottenuto, gratuitamente, dal sindaco di Roma, il Palazzo delle esposizioni per “tenere unito il gruppo per la stagione”. Nella sezione spot di “Sipario”, è annunciato tra gli spettacoli estivi bolognesi, un doppio appuntamento, l’Orlando e il Recital di canzoni di protesta di Edmonda Aldini e Duilio del Prete (Anonimo 1969b, 2).
Aldini aveva un progetto preciso: costituire, con la compagnia del Teatro Libero, una realtà stabile, con l’appoggio dell’allora sindaco di Bologna, Guido Fanti e col lasciapassare di Franz De Biase, Direttore Generale Spettacolo e capo gabinetto del Ministro. In una riunione avvenuta nella sede di Viale Mazzini, alla presenza di Aldini, Ronconi e Radaelli accettarono di spedire un progetto per tre spettacoli da montare nel circuito emiliano. Il documento non arrivò mai alla giunta bolognese, Radaelli dichiarò di aver dimenticato la lettera in tasca!
Alla fine dell’estate del ’69, i rapporti con Radaelli si complicano, difficoltà finanziare, scarse prospettive di lavoro e, sullo sfondo, un panorama teatrale romano altrettanto caotico, per non dire disastroso. Dopo il no di Strehler, che aveva pubblicamente manifestato il suo disagio nei confronti dell’amministrazione romana che non gli aveva assicurato quella rifondazione strutturale (soprattutto una modifica dello Statuto) che gli avrebbe garantito sufficiente autonomia, scaduta ormai la direzione quadriennale di Vito Pandolfi, l’ente teatrale romano si trovava sprovvisto di guida e di programmazione.
In questo vuoto istituzionale, Aldini intravide una opportunità di lavoro per la compagnia. Tentò un accordo con Gigliozzi, amministratore delegato, con l’obiettivo di far produrre uno degli spettacoli della compagnia (di certo non l’Orlando), utilizzando la sovvenzione ministeriale dello Stabile, nella prospettiva di una ripresa della stagione al Valle. L’iniziativa di Aldini era evidentemente circolata nell’ambiente teatrale e finì per essere strumentalizzata da buona parte di quella stampa che non aveva digerito il mancato appoggio alla candidatura strehleriana.
Nel mese di novembre del ’69, in attesa di una nuova riunione della Commissione consiliare sulla questione dell’ente romano, si avanzava l’ipotesi di una direzione a tre, che avrebbe coinvolto Sbragia, Ronconi e Maranzana, “i quali avrebbero comunque agito separatamente, allestendo spettacoli diversi” provocando una possibile frattura “sul fronte degli attori” (m. ac. 1969, 9). Ma l’idea del triumvirato era in realtà stata proposta pensando al “trust dei cervelli” Grassi-Chiesa-Fabiani, direttori degli Stabili di Milano, Genova, Aquila che avrebbero esercitato una tutela critica nei confronti di Gigliozzi, con il conseguente annullamento delle attività di produzione per l’ente romano che si sarebbe dovuto limitare a ospitare spettacoli d’altri.
Si aprì – come la stampa aveva previsto – una polemica assai aspra sul “fronte degli attori” proprio sul significato politico delle neonate forme di autogestione. Il 12 novembre del 1969, nella sezione dedicata alle “Lettere all’Unità”, Paolo Modugno, già all’epoca compagno di Marisa Fabbri e animatore del Gruppo di Lavoro Teatro, decentrato al quartiere Tuscolano, pubblicava una “Replica polemica a Edmonda Aldini” in cui accusava la “compagna Edmonda” di aver “abdicato ai valori politici dell’autogestione” e minato “la sua provata compattezza di attrice militante” nell’aver mostrato, con la richiesta di “ospitalità” indirizzata allo stabile romano, un cinico opportunismo. La “squallida corsa all’osso” da parte di quelle compagnie private che si facevano passare per attività autogestite avrebbe finito per turbare il senso politico strutturato alla loro genesi. Col pretesto di una risposta ad Aldini, i bersagli designati erano, in realtà, la compagnia del Teatro Libero e Ronconi:
Ronconi progettava già da due anni L’Orlando furioso in quella forma; se da una parte questo è segno di lungimiranza espressiva, dall’altra è dimostrabile che un gruppo di attori che si riunisca attorno ad una qualsiasi forma di leadership non si autogestisce, al massimo fa dei grossi sacrifici economici, senza però usufruire del maximum dei poteri: e qui si potrebbe discutere sui valori della lotta di classe contenuti nell’Orlando che spettacolo politico proprio non è. Ma quella è una valutazione soggettiva che suggerisce però l’idea di altri gruppi autogestiti che esprimono precisi valori politici, e che – guarda caso – nelle strutture stabili non sono certo “ospitati” (Modugno 1969, 6).
La risposta di Aldini, che non tarda ad arrivare, sorprende per scaltrezza. Rivendicando quella “patente popolare” (Quadri 1973, 108) che molta critica ancora negava all’Orlando, fa slittare il dibattito sulla questione politica[11], neutralizzando le accuse di “privatismo” al gruppo dell’Orlando, che dopotutto si rivelarono fondate.
Il 16 dicembre 1969, andava in scena ‘ospite’ al Valle, per la stagione dell’ente teatrale romano, La cucina di Arnold Wesker, con la regia (su suggerimento di Edmonda Aldini) di Lina Wertmuller, scene e costumi di Enrico Job e musiche di Duilio del Prete. Interpreti, gli attori della Compagnia del Teatro Libero, “quelli dell’Orlando” (ad eccezion fatta per Massimo Foschi). Di Radaelli e Ronconi alcuna traccia.
Lo spettacolo fu un insuccesso, di breve durata, girò qualche tempo a Palermo ma non si prolungò, con grave danno per la sopravvivenza del gruppo e franco beneficio per la vanità di Edmonda Aldini che aveva “aiutato a far uscire la sperimentazione dalle cantine, e mantenerla nelle posizioni conquistate” (Aldini 1972). Qualche mese più tardi, Radaelli prendeva impegni nella produzione di uno spettacolo di Marco Parodi, già aiuto regista nell’Orlando, Fuenteovejuna [Fig. 2]
2 | Contratti su casta intestata “Teatro Libero” a firma di Paolo Radaelli. Archivio Privato Marco Parodi, per gentile concessione del Centro di documentazione per lo spettacolo Marco Parodi, La Fabbrica Illuminata ETS, Cagliari.
Alla fine del 1970, dopo aver portato a compimento l’avventura dell’Orlando in Europa e poi a New York[13] il gruppo è irrimediabilmente scisso. Su “Il Dramma”, Mario Raimondo prende atto della singolarità di questo “gruppo di teatranti che continua a vivere nel magma curioso delle sue incertezze e delle sue contraddizioni”. E continua:
Questo gruppo agisce con una tecnica che – se mi si intende bene – vorrei chiamare “di guerriglia”: una serie di sortite imprevedibili, lunghi silenzi, riapparizioni improvvise. Un commando recita l’Orlando chissà dove, un altro propone una sua visione dell’Ifigenia goethiana in un teatrino romano, un terzo prepara chissà quali incursioni; qualche volta gli succede di dover battere in ritirata, qualche altra fa più rumore che danni, comunque esiste e agisce. Coscienza incomoda del teatro ufficiale (Raimondo 1971, 104)[14].
Mentre Ronconi è a Parigi con XX (14 aprile 1971), una cospicua parte del gruppo del Teatro Libero che era “rimasta fuori dagli spettacoli di Ronconi” (Boggio 1972, 47) si costituisce in “associata” (febbraio del 1971), e poi in Cooperativa Teatro Libero (settembre 1971). Armando Pugliese, già aiuto regista con Ronconi per l’Orlando, assume l’incarico di presidente mentre Radaelli continua ad occuparsi dell’organizzazione. La Cooperativa, composta da una quindicina di attori[15], mette in scena, due spettacoli, Iwona principessa di Borgogna di Gombrowich (11 marzo 1971) al Teatro Tordinona e Il barone rampante di Italo Calvino al Palazzetto dello Sport di Mestre, in occasione del Trentesimo Festival Internazionale del teatro di prosa La Biennale di Venezia (28 settembre 1971). Dopo lo spettacolo da Calvino, Radaelli viene sostituito da Mauro Carbonoli, che si occuperà dell’organizzazione delle due cooperative, Teatro Libero, che resterà legata al nome di Pugliese fino al 1980, e Teatro-Insieme, per le due stagioni successive (Carbonoli 2019, 290).
La Cooperativa Tuscolano
3 | Promemoria dattiloscritto, Archivio privato di Massimo Foschi.
Nell’archivio privato di Massimo Foschi (che ringrazio per la generosa disponibilità) esiste un documento dattiloscritto [Fig. 3]
Le caratteristiche del Teatro Libero nella stagione 1969/1970 sono state:
Luca Ronconi
il successo dell’Orlando Furioso
la casualità del gruppo (nel senso di essere stato composto da scelte registiche ed organizzative e non da affinità elettive)
l’assenza nell’attività della stagione di un indirizzo teatrale omogeneo o contraddittorio ma comunque nascente da scelte critiche
l’eccezionale numero dei componenti
la lunghezza considerevole dell’attività
l’aver vinto, senza appoggi politici o personali, importanti battaglie contro la burocrazia ministeriale
l’acquisizione della consapevolezza che il lavoro fatto è stato possibile solo a prezzo di sacrifici economici
lo sviluppo (dopo oltre un anno di lavoro comune) di una naturale tendenza verso la costituzione di una struttura organizzativa democratica con la conseguente assunzione di responsabilità.
Su tali presupposti sembra necessario, possibile fondare il tentativo dei componenti del gruppo di gestire il proprio lavoro nella stagione 1970/1971, tenendo presenti i seguenti punti fondamentali:
1) Completamento dello sfruttamento dell’Orlando Furioso all’estero e specialmente in Italia dove praticamente non ha ancora avuto una seria programmazione
2) produzione di spettacoli di carattere grosso modo popolare idonei a cercare la partecipazione di un pubblico numeroso e socialmente composito, che non si venga a trovare in uno stato di soggezione di fronte ad un linguaggio comprensibile solo per chi possiede gli strumenti della cultura borghese. Cercare perciò di eliminare il diaframma (ideale e materiale) tra palcoscenico e platea, anche ricercando luoghi che non siano solo quelli dei teatri tradizionali.
3) per realizzare quanto sopra non dovrà essere sottovalutata l’opportunità di mettere in scena testi con molti personaggi, concepiti come lavori d’insieme, dove un principio di comunicazione col pubblico avviene proprio nel momento in cui quest’ultimo si viene a trovare di fronte a un gruppo di attori che – magari – solo per un fatto numerico non assuma le caratteristiche di un ristretto clan di iniziati che fa un discorso misterioso.
4) in concomitanza di ciò sviluppare anche un lavoro di ricerca “sperimentale” per il quale – se necessario – il gruppo potrà temporaneamente scindersi in diversi gruppi
5) cercare di ottenere uno spazio teatrale stabile a Roma, possibilmente non in un luogo tradizionale, dove la gente si possa avvicinare senza la consueta soggezione “per i velluti e gli ori”. Comunque sarà indispensabile portare gli spettacoli in provincia o nei quartieri decentrati della grande città.
6) realizzazione di una politica di prezzi popolari.
7) costituzione di una struttura interna che concretizzi i seguenti obiettivi: a) le scelte dei testi dovranno essere realizzate dal gruppo con la collaborazione del regista che comunque – scelto il testo – avrà piena libertà di effettuare la distribuzione e di svolgere il lavoro di realizzazione senza imposizioni esterne. Analogamente si dovrà fare per le scelte di carattere organizzativo nei confronti dell’organizzatore
b) i livelli delle paghe dovranno essere stabiliti dal gruppo cercando di avvicinarsi al massimo alla parità delle retribuzioni. Nello stabilire le paghe si dovrà tenere conto delle esigenze amministrative da un lato e del rispetto delle regole sindacali dall’altro
c) in sede di scelta di testi e di programma il regista “fondamentale” del gruppo vaglierà con gli attori l’opportunità di utilizzare altri registi che facciano parte della struttura
d) tra coloro che desidereranno dare vita all’attività si formerà una sociale o cooperativa nella quale i componenti nomineranno un responsabile amministrativo e un responsabile artistico i quali agiranno nell’ambito delle decisioni collettive
e) gli eventuali utili, dedotte le spese e le paghe stabilite, saranno divise in parti uguali e non proporzionali tra i soci.
f) i rischi dovranno essere limitati a non ricevere regolarmente le paghe
g) la programmazione dovrà essere effettuata cercando di realizzare la piena occupazione nell’intero arco dell’anno
h) del gruppo potranno fare parte con pari diritti attori, tecnici, organizzatori, registi, scenografi, costumisti, o comunque lavoratori dello spettacolo. I soci decideranno di volta in volta, sulla base dell’organico e delle esigenze del singolo spettacolo, l’opportunità di chiedere l’ammissione quali soci oppure di scritturare altri attori
i) i soci saranno impegnati a prestare il proprio lavoro per l’attività del gruppo. Saranno naturalmente possibili altre scritture purché non danneggino il lavoro del gruppo stesso.
l) all’inizio dell’attività dovrà essere determinato il programma per l’intera stagione. Eventuali modifiche al programma dovranno essere decise dal collettivo sulla base delle circostanze di fatto.
L’impegno avrà la durata della stagione 1970/1971
Questo documento, mai formalizzato, ha tuttavia l’aspetto, i toni e le intenzioni di una dichiarazione o di uno Statuto, strumento di coesione di cui programmaticamente si dotano numerose altre cooperative teatrali nate nello stesso periodo. Ricerca di una nuova comunicazione teatrale e di un “altro” pubblico (Ferrone 1976), autonomia (organizzativa e creativa), sperimentazione (di linguaggi e di spazi), decentramento, realizzazione di un sano professionismo, erano obiettivi concretamente prefissi. Disperso il gruppo dell’Orlando, Radaelli consegna alla pagina il progetto di uno “spazio teatrale stabile a Roma” che si realizzerà nella costituzione della Cooperativa Tuscolano.
Sembra plausibile supporre, dunque, che già alla data di composizione di questo sintetico promemoria Radaelli avesse percepito la fine dell’esperienza del Teatro Libero, lavorando prospetticamente alla realizzazione di un nuovo ensemble, se è vero che – come ci riporta una testimonianza raccolta da Massimo Luconi, allievo e successivamente assistente di Ronconi durante il Laboratorio di Prato – già lo spettacolo parigino da Wilcock (1971), Radaelli lo annoverava tra le sfide produttive della Tuscolano (Luconi 2016, 54, n. 14).
Lapsus memoriae o traccia dissimulata della percezione di un tournant che Ronconi sembra condividere quando stabilisce un filo diretto tra il gruppo “nato da La tragedia del vendicatore – (e non, si badi, dall’Orlando!) – e la Tuscolano” (Ronconi 2019, 151).
È per il lavoro dall’Orestiade di Eschilo che il nuovo gruppo, dichiara Radaelli, si costituisce in Cooperativa (Quadri, Martinez 1999, 40), registrata giuridicamente il 4 marzo 1972
Ronconi saccheggia ancora una volta dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, coinvolgendo una nuova generazione di allievi e allieve (Piero Di Iorio, Mauro Avogadro, Massimo Barbone, Anna Bonaiuto, Gabriella Zamparini, Remo Girone), con cui aveva messo in scena, nell’aprile del ’72, una Centaura di Andreini, saggio di fine corso che si rivelò, nella confusione delle proposte teatrali romane “il miglior spettacolo della stagione” (Quadri 1972), accanto ai fedelissimi, Massimo Foschi, che ricopre l’incarico di vice-presidente, Mariangela Melato (la cui adesione è più ideale che sostanziale, per gli impegni che la occupano come attrice cinematografica) e Marisa Fabbri, che “nel pieno accesso del suo furor militante” (Longhi 2010, 235) proprio nel quartiere Tuscolano aveva agito, almeno fino al 1971, insieme alla Cooperativa Gruppo Lavoro di Teatro. A ridosso della prima riunione della nuova cooperativa nello spazio riorganizzato dell’ex Cinema Folgore, una sala da 300 posti, al Quadraro[17], borgata ribelle nella periferia sud-est di Roma, nata come estensione di Cinecittà, il gruppo è impegnato su più fronti: le prove per l’Orestea, le lentissime riprese televisive dell’Orlando e l’allestimento, che si rivelerà sfortunatissimo, della Kätchen a Zurigo.
La nascita della Cooperativa Tuscolano va inserita nel quadro più generale di un cambiamento nei rapporti tra Stato e teatro, risultato concreto del lavoro di intermediazione dell’AGIS e dell’UNAT-Cooperative, animata da Giorgio Guazzotti e Fulvio Fo, che fa seguito alle politiche di decentramento promosse a partire dagli anni Settanta. Il rodato meccanismo delle procedure di sovvenzione statale al settore teatrale integra, proprio a partire dal 1972-73, le cooperative tra le categorie produttive autonome e specifiche, favorendo da un lato quei processi di stabilizzazione attuati dai vari gruppi autogestiti o collettivi, dall’altro un aumento delle risorse che modifica sostanzialmente la formula produttiva cooperativa, anche in senso quantitativo (Cavaglieri 2021, 119).
Da questo quadro, tuttavia, la Cooperativa Tuscolano sembra porsi ad una critica distanza. In più di una occasione Radaelli parla espressamente di un “ostracismo da parte dell’Agis di Scarpellini e Franco Bruno” e, in generale, dello “scarso interesse da parte del Ministero dello Spettacolo” (Quadri, Martinez 1999, 39). Arnone ribadisce: “La cooperativa Tuscolano, pur aderendo alla Lega delle Cooperative è l’unica compagnia italiana che non aderisce invece all’AGIS, l’Associazione Generale dello spettacolo” (Porro 1975). La Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue, che aveva sede in Via Guattani 9, nel quartiere Nomentano a Roma, nata come organo del PCI con l’obiettivo di tutela e promozione delle cooperative italiane, prevedeva una settorializzazione della rappresentanza delle diverse forze produttive. Dal 1975, le cooperative teatrali, che rientravano in precedenza nella categoria delle cooperative di produzione e lavoro (insieme a quelle edilizie, ad esempio), sono inglobate nell’Associazione Nazionale della Cooperazione Culturale che, su iniziativa di Cesare Zavattini, nominato Presidente, intendeva estendere la tutela e la promozione dei principi della cooperazione al settore delle imprese culturali. Nell’ottobre del 1975, a conclusione del primo convegno, a Parma, su “La Cooperazione teatrale: teatro pubblico, territorio, qualificazione, drammaturgia”, la neonata Associazione si era proposta, esplicitamente, in qualità di mediatrice nel confronto con le forze politiche per la formulazione di una nuova legislazione teatrale, per la diffusione di una più unitaria visione culturale e per un rinnovamento delle politiche di sostegno economico alle compagnie autogestite. La linea espressa dalla nuova Associazione nata in seno alla Lega Nazionale si muoveva dunque in aperta opposizione, su un piano strategicamente concorrenziale, a quel sistema di “autogestione” dei contributi (Ferrari 2006, 23) elaborato in AGIS, più sensibile alle logiche di produzione che alle esigenze di sperimentazione[18]. L’adesione di Arnone, portavoce delle istanze rivendicative maturate dalla Cooperativa Tuscolano, alla linea della Lega scaturì certamente dal riconoscimento del valore politico e culturale di quelle proposte, benché non possa dirsi trascurabile concausa la reiterata indifferenza delle istituzioni nei confronti del lavoro di Ronconi e del suo gruppo.
Per la stagione 1972-73, la Cooperativa Tuscolano aveva ricevuto sovvenzioni per un solo spettacolo; troppo poco per una Orestea che, come ricorda Remo Girone, allora giovane allievo dell’Accademia reclutato come figurante nel Coro, era “composta da tre tragedie e durava nove, dieci ore. […] Avevano chiesto le sovvenzioni per tre spettacoli, e invece gliele avevano date solo per uno” (Onesti 2023, 123).
L’Orestea si era rivelata un’impresa titanica, sia dal punto di vista della produzione che della distribuzione e circolazione, quasi del tutto assente e sfortunatissima sul territorio nazionale. Il successo del debutto nel Filmskijgrad Atelier 3 (Bitef) di Belgrado, il 20 settembre 1972, si replicò solo a Parigi, dove l’Orestea fu rappresentata al Grand Amphithéâtre della Sorbonne, dal 16 al 28 ottobre, per il Théâtre des Nations di Barrault che, insieme al Bitef di Mira Trailović e Jovan Ćirilov, aveva coprodotto lo spettacolo. In Italia L’Orestea ebbe vita brevissima. La prima italiana era stata programmata dal 1 al 3 ottobre del 1972, al Casinò Municipale, Lido di Venezia per il Trentunesimo Festival Internazionale del teatro di prosa, all’interno di un progetto “Teatro di Roma a Venezia”, voluto dal neo direttore dello Stabile Romano, Franco Enriquez, con l’obiettivo di presentare la linea politico-culturale del teatro della capitale aperta all’incontro con le realtà sperimentali, sul doppio terreno di un “Teatro estensivo” e di un “Teatro intensivo” (Programma 1972)[19]. Il peso eccessivo – le 26 tonnellate della “macchina del tempo: carrucole, ascensori, scale, ponti, tubi innocenti, un parallelepipedo con sommari sedili a tre piani, in fondo l’alta porta di legno grezzo della reggia degli Atridi” (Siciliano s.d.) – convinse gli organizzatori a spostare lo spettacolo al Cinema Arsenale per non correre il rischio di far crollare il pavimento. Il 18 novembre 1972, l’Orestea arrivava a Roma, in un capannone scalcinato del Centro Sperimentale a Cinecittà, ma la sera stessa della prima lo spettacolo fu bloccato; la scena di Enrico Job che era servita per le rappresentazioni di Belgrado, di Venezia e di Parigi fu dichiarata inagibile, e in seguito all’intervento della commissione di vigilanza e dell’ENPI, l’Orestea fu sospesa. Dal 1 al 5 luglio 1973, per interesse del direttore, Romolo Valli, che lo richiese espressamente, lo spettacolo di Ronconi andò in scena durante il Sedicesimo Festival dei Due Mondi di Spoleto; l’anno dopo, nel 1974, l’Orestea venne messa in scena a Prato, nell’ex magazzino tessile del Fabbricone, utilizzato per la prima volta come spazio teatrale.
Alle difficoltà finanziarie Ronconi aveva dovuto provvedere con le sue risorse personali. Fu costretto a vendere la casa materna di Zagarolo per ripagare i debiti (Ronconi 2019, 50), mentre Radaelli proseguiva la via della co-produzione internazionale e della gestione delle quote di partecipazione, che si era già imposta con XX (1971) e che si ripeterà per Utopia (1975). Per quest’ultimo spettacolo, Radaelli che gestisce la fitta rete di relazioni insieme a Ninon Tallon Karlweiss e all’agenzia Office Artistique International (con sede a Parigi e New York) coinvolge, oltre alla Tuscolano, La Biennale di Venezia, il Teatro Stabile di Torino, il Metastasio di Prato, il Festival internazionale di Edimburgo di Peter Diamand, il Festival d’Automne e il PCI, attraverso il circuito dell’associazione “Amici dell’Unità” di Loris Barbieri (Bassignano 2019, 17) .
I primi anni della Tuscolano, vissuti ancora nel totale disinteresse delle istituzioni e degli Stabili, assorbiti dall’esito disgraziato dell’Orestea, dal fallimento di Zurigo, dal lentissimo cantiere dell’Orlando televisivo, dai disastri metereologici che avevano seppellito Utopia, dall’assillo della produzione a tutti i costi[20], coincisero con quello che Ronconi chiama, il suo “volontario esilio di Vienna” (Ronconi 2019, 153). Quando nel 1974 rientra in Italia chiamato alla direzione della Biennale, Ronconi è ancora a “metà strada tra la ribellione e gli allettamenti dell’establishment, flessibile e rigoroso, coerente e discontinuo” prima di diventare il “solitario confezionatore di avvenimenti irripetibili” (Quadri 1973, 252).
“Fail again. Fail better”
Nella cronaca delle vicende legate agli spettacoli non realizzati o disgraziati della Tuscolano – un “diario di catastrofi” la cui evoluzione è dettagliatamente ricostruita da Quadri (1973, 250-251) – c’è, in fondo, la consapevolezza dell’impossibilità ad assumere quell’impegno sperimentale dentro certe codificazioni o prototipi, estetici e produttivi, imposti al mezzo teatrale.
Ma i fallimenti si misurano su una scala temporale troppo esigua e dentro un sistema di segni cui corrispondono funzioni ben precise. Inversamente, è proprio in questa inclinazione alle sfide impossibili che si concretizza lo sguardo ‘inattuale’ che Ronconi estende sul teatro, uno sguardo capace di parlare di qualcosa che forse non c’è ancora o che necessita di un altro linguaggio per essere compreso. Considerati nella loro fattualità, come ebbe a scrivere Cesare Milanese, gli spettacoli di Ronconi “son bel lontani dall’essere perfetti; anzi, si deve constatare che sotto il profilo imprenditoriale sono raramente degli spettacoli riusciti. Ma questo risultato di apparenza negativo è l’effetto di una qualità meritoria, perché nasce come feconda conseguenza dello scontro di tensioni formali, tecniche, intellettuali e culturali” (Milanese 1973, 12).
In questi termini Ronconi pensa il modello cooperativo e il senso dell’autogestione, non dunque come un’alternativa ai meccanismi produttivi, e ancor meno in relazione ad un ‘teatro reale’, vale a dire presente, attuale; per Ronconi il modello cooperativo vuol dire tempi lunghi, libertà dall’esito, costruzione per approssimazioni, invenzione di spazi. Traslazione per ‘laboratorio’. Nella bozza dattiloscritta del programma per la fondazione del Laboratorio di Progettazione Teatrale di Prato si legge: “laboratorio, terminologia con cui non si vuole citare la segretezza iniziatica, l’intransigenza, la sacralità di famose esperienze internazionali che di questa formula si sono servite, quanto la continuità della fase formativa, la rilevanza di ogni suo passo intermedio, il controllo incessante e la messa in discussione critica dei risultati” (Ronconi 2019, 152). Ancora nella sua autobiografia, Ronconi ricorda:
Se penso agli spettacoli della Cooperativa Tuscolano mi sembra proprio il programma di uno Stabile Eravamo una cooperativa anomala e i nostri avversari erano, soprattutto, quelli delle altre cooperative. Figlie del ’68, in teatro le cooperative hanno significato una gran voglia di prendere il posto di qualcun altro, cambiando non quello che si faceva, ma come lo si faceva. Ovvio che non mi ci ritrovassi in tutto questo: perché il vero problema, per me, è sempre stato la modificazione del prodotto teatrale in qualcosa di culturalmente, provocatoriamente, qualitativamente diverso (Ronconi 2019, 152).
La ‘diversità’ del lavoro cooperativo sperimentato da Ronconi si misura dunque anche su un piano politico, nel senso di una dichiarata non-appartenenza ideologica o militante ad un modello produttivo che si pone come ‘alternativo’ e di cui Ronconi riconosce precocemente il latente e fazioso desiderio di istituzionalizzazione. La diffidenza e l’ostracismo di cui ripetutamente Ronconi dà testimonianza derivano probabilmente dall’ambiguità costitutiva di questo modello cooperativo, solo parzialmente interessato a fare “guerra agli Stabili”[21] e interamente concentrato a costruire un teatro alieno ma “non alienato” (Quadri 1973, 137). Per realizzare quella “cooperativa col programma di uno Stabile” Ronconi avrebbe dovuto lasciare Roma per Prato, dare forma più organica all’irregolarità, disciplinare le strutture organizzative, accogliere il peso di una più importante burocratizzazione del lavoro[22] e risolvere quella personale antipatia per le forme progettuali e la pianificazione.
Ma, come la Teatro Libero, come la Tuscolano, come la direzione della Biennale, anche il Laboratorio di Prato doveva essere, in fondo, un “banco di prova […] un tirocinio” (Ronconi 2019, 156) per qualcosa di là da venire.
Note
[1] Francesca Benedetti aveva recitato al fianco di Ronconi in Il costo di una vita per la regia di Paolo Giuranna, assistente alla regia Paolo Radaelli (Stabile di Bologna, 1963). Nel 1966, è nella compagnia con Sergio Fantoni e Valentina Fortunato, quando Ronconi e Radaelli strappano un accordo, nella programmazione della stagione estiva marchigiana, per un doppio spettacolo, il primo fungendo da pretesto al secondo, una Commedia degli straccioni di Annibal Caro che sarebbe servita a preparare, senza costi, il testo a cui Ronconi teneva tantissimo, I Lunatici di Middleton e Rowley. Edmonda Aldini, già Lady Anna nel colossale Riccardo III per il Teatro Stabile di Torino (1968), accanto a Vittorio Gassmann, è Bradamante nell’Orlando di Spoleto. Duilio Del Prete, compagno di vita della Aldini, interpreterà nel Riccardo III, il ruolo di primo assassino e sarà Astolfo nell’Orlando. Graziano Giusti già nel ruolo di Cencio nel Candelaio (1968) nel Complesso Associato Registi-Attori “Fortunato-Fantoni-Ronconi-Scaccia”, poi nel triplice ruolo di Mago Atlante, Carlo Magno e Anselmo giudice nell’Orlando, proseguendo il lavoro con Ronconi fino a XX del 1971.
[2] Più avanti Quadri scrive a proposito della predilezione di Ronconi a lavorare con vasti gruppi alla messinscena degli spettacoli, che con l’Orlando il regista “scopre una congenialità di interesse e di curiosità con i giovani, una diversa predisposizione al sacrificio, un altro grado di plasmabilità, e anche una disponibilità all’irregolare (dove irregolare sia per l’esiguità che per il rispetto delle scadenze è la stessa corresponsione settimanale). Senza i ragazzi dell’Accademia, senza l’entusiasmo delle molte ‘promesse’ in via di realizzazione, senza un inconsueto spirito di corpo assimilato dalla consapevolezza dell’impresa, l’Orlando non sarebbe mai arrivato in porto” (Quadri 1973, 141).
[3] Una prima, vera, ricognizione sulla figura di Paolo Radaelli è condotta da Giovanni Agosti in quel “libro nel libro” che è l’apparato di note a corredo dell’autobiografia ronconiana (Ronconi 2019).
[4] Il primo numero del “Verri”, bimestrale fino al 1959, sarebbe uscito nell’“autunno” del ’56 (redattori Lucio Giordano [alias Nanni Balestrini] e Paolo Radaelli). Proprio Sanguineti, nel fascicolo 58 della rivista, dedicato alla nuova generazione di poeti lombardi, esprime il suo interesse per alcuni “testi degni di nota”, tra cui (insieme a quelli più noti di Pagliarani e Balestrini) compare una poesia di Radaelli (Senza titolo) (Picconi, Risso 2017, 83). Il contatto di Radaelli con Sanguineti risale dunque già all’inverno del 58, come testimonia una lettera di Sanguineti indirizzata ad Anceschi, datata Torino 15 dicembre 1958 (Sanguineti 2009, 168). Ci si augura che nuove ricognizioni archivistiche, soprattutto nel Fondo "Eredi Sanguineti", che conserva altri documenti relativi al carteggio e che al momento è ancora in fase di riordino e inventariazione presso il Centro Studi Sanguineti (Torino), possa far emergere altri dettagli sugli anni di formazione di Radaelli.
[5] Ancora con Sanguineti, Balestrini e Baj, Radaelli risulta tra i firmatari del Manifeste de Naples, secondo manifesto del Gruppo 58, movimento di giovani pittori partenopei, costituitosi per iniziativa di Luca (Luigi Castellano) e Guido Biasi, intorno alla rivista “Documento Sud”, come prolungamento delle sperimentazioni di Enrico Baj e del suo Nuclearismo. Altri firmatari: Leo Paolazzo, Sandro Bajini, Bruno Di Bello, Lucio del Pezzo, Mario Persico, Giuseppe Alfano, Donato Grieco, Angelo Verga, Ettore Sordini, Recalcati, Sergio Fergola.
[6] Radaelli inizia la sua carriera nel teatro come attore (rimandiamo alle note di G. Agosti in Ronconi 2019). Dal 1961 al 1962, Radaelli è anche attore per alcuni spettacoli radiofonici della Rai: è il marito di Anna Nogara in Ritratto di donna di Clotilde Masci, scene di Mariano Mercuri (1961); un paggio in Romeo e Giulietta, della Compagnia dei Giovani per la regia di De Lullo (1962); Valentino in La notte dell'epifania ... o quel che volete da Shakespeare, regia De Lullo, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi (1962); Nembo, commedia in un atto, di Massimo Bontempelli, per la regia di Giacomo Colli (1962).
[7] La carriera di attore subisce dei rallentamenti e nel ’63 inizia a lavorare come assistente alla regia di Luchino Visconti (per i lavori con Visconti dal 1963 al 1967 si rimanda alle note di G. Agosti in Ronconi 2019). Nel ‘66 è a Roma, insieme allo scenografo e amico Enrico Job, come assistente alla regia di Fabio Mauri per L'isola, commedia in 2 tempi (Teatro di Roma, nel cast Marco Berneck che sarà nell'Orlando). Ancora con Fabio Mauri, in veste di collaboratore e assistente, organizza una ripresa di Che cosa è il fascismo, per la 32a Biennale di Venezia (1974), con gli Allievi del Teatro Universitario Ca’ Foscari.
[8] Già negli anni Cinquanta, Leydi frequentava lo Studio di Fonologia della Rai di Milano e aveva collaborato con Luciano Berio e Bruno Maderna per Ritratto di città (1954), prima opera italiana di musica concreta. Ancora, nel 1962 debutta Milanin Milanon, spettacolo di Leydi e Crivelli che ricostruisce, attraverso il recupero della letteratura milanese, la storia della città di Milano, dall’Unità fino al boom economico. Tra gli altri interpreti, Tino Carraro e Anna Nogara.
[9] L’altra Italia. Prima rassegna italiana della canzone popolare e di protesta vecchia e nuova, organizzato alla Casa della Cultura di Milano nel 1962, per la egia di Filippo Crivelli. Figurano alcune delle voci più rappresentative del folk revival: Caterina Bueno, Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, Luisa Ronchini, Gualtiero Bertelli, Ivan Della Mea, Enzo Jannacci, Milly, Palma Facchetti, Maria Monti, Fausto Amodei, il Gruppo Padano di Piadena, Nanni Svampa, Maria Vailati, Silvia Malagugini, accompagnati da musicisti come Fiorenzo Carpi, Luciano Berio, e da intellettuali come Giorgio Bocca, Umberto Eco, Franco Fortini, Mario De Micheli, Giacomo Manzoni, Giancarlo Majorino, Mario Soldati.
[10] In una conversazione privata, del 6 marzo 2025, Massimo Foschi ha confermato che la lettera fu ricevuta da tutti e cinque i destinatari (Luca Ronconi, Paolo Radaelli, Giovanni Arnone, Massimo Foschi, Mariangela Melato). Massimo Foschi non conserva un esemplare della stessa. Una trascrizione del promemoria si trova in Tovaglieri 2021, 273-290.
[11] Nella lettera si legge: “Noi crediamo che il teatro come fatto d’arte è il solo veramente rivoluzionario, indipendentemente dalle parole d’ordine ‘politiche’. Teatro d’arte, cioè di ricerca, che investa i linguaggi, i rapporti con il pubblico, e con quale pubblico, che è quanto, modestamente, abbiamo fatto anche con l’Orlando. Non è teatro politico? Si diletti Modugno a misurare con il regolo la lunghezza delle parole ‘politiche’ in scena, ma ricordi che Gramsci tali operazioni le definiva da mosca cocchiera” (Aldini 1969, 6).
[12] Rappresentazione delle tragiche gesta del tiranno Fernan Gomez e di Isabella di Castiglia interrotta dalla polizia, libero adattamento dal testo di Lope de Vega. Tra gli interpreti: Carlo Montagna, Cecilia Sacchi, Alessandra Dal Sasso, Luigi Diberti, Aldo Puglisi, Graziano Giusti, Antonio Fattorini, Gianfranco Barra. Costumi di Elena Mannini e scene di Luzzatti.
[13] Clamorosa l’assenza nella tournée di Aldini, che Ronconi sostituisce coinvolgendo Anna Nogara nel ruolo di Bradamante. La rottura definitiva era avvenuta proprio con La tragedia del vendicatore per cui l’attrice organizzò una campagna pubblicitaria che vagheggiava una sorta di nostalgico ritorno al divismo che mal si accordava ai principi del gruppo autogestito.
[14] Nella stagione 1969-1970 il Teatro Libero aveva un repertorio di cinque spettacoli, oltre l’Orlando, la Cucina, Fuenteovejuna, una Ballata del Gran Macabro da Michel de Ghelderode “montato per pochi giorni, quasi in incognito” (Quadri 1973, 143) da Armando Pugliese (lo spettacolo era stato il primo esperimento di regia del giovane Pugliese ancora studente e del suo Gruppo Teatro 66, messo in scena al Teatro Mediterraneo di Napoli il 19 ottobre 1968) e La tragedia del vendicatore.
[15] Lavora nel nuovo gruppo guidato da Pugliese anche la costumista dell’Orlando, Elena Mannini.
[16] La cooperativa mantiene la sua sede a Roma fino al 4 marzo 1977 quando verrà iscritta al registro ditte della Camera di commercio, industria artigianato e agricoltura di Firenze (documento conservato nella Serie Arnone Segnatura b. 12 1976-2000, da 5. a 10. in ALR, ASAC), e registrata presso la stessa città, in via Nazionale 4. Il 7 agosto 1976 in seguito alle dimissioni di Luca Ronconi, Radaelli viene nominato presidente della Cooperativa e vice presidente Romolo Vestri.
[17] Cinema di terza visione, in via dei Quintili 34, aperto negli anni ’20, fu in attività fino alla fine degli anni Sessanta. È attualmente un luogo di culto Evangelico sudcoreano. Nelle intenzioni di Ronconi, lo spazio del Folgore non doveva essere solo la sede della cooperativa, ma – pensando già a quella prima idea di “casa” – uno spazio teatrale stabile nella città. Lo dimostra il progetto iniziale dell’Orestea, la cui macchina costruita da Job era stata ideata sulla pianta e sulle caratteristiche spaziali del cinema: “La struttura di ferro e legno era nata per essere montata nel vecchio cinema […] Quell’ambiente aveva condizionato l’invenzione degli spazi: i tre piani di gallerie per il pubblico sui tre lati con il quarto chiuso a tutt’altezza da grandi porte di legno che si dovevano aprire su una sorta di palcoscenico. Ricordi il piano basculante sotto al quale c’era quella specie di sottopalco: in quel cinema, era una necessità; e i due piani ascensori che facevano scendere dall’alto gli Dei? Pensa: se si fosse montata la struttura lì, al cinema Tuscolano, gli attori avrebbero dovuto raggiungere le loro posizioni sui piani ascensori, camminando carponi sotto il soffitto (Cappelletti, Quadri 1998, 430).
[18] Per la ricostruzione delle vicende legate alla fondazione dell’ANdCC di Zavattini e alla relazione con AGIS ringrazio Bruno Borghi, che in un breve e intenso colloquio ha trasmesso i suoi ricordi e condiviso materiali utili a questa ricerca.
[19] Lo Stabile romano aveva portato a Venezia 5 spettacoli, oltre l’Orestea di Ronconi, Moby Dick di Mario Ricci (27 settembre, Teatro del Ridotto), Risveglio di primavera di Giancarlo Nanni (4,5 ottobre, Teatro del Ridotto), ‘O zappatore di Leo de Berardinis e Perla Peragallo (6,7 ottobre, Teatro La Perla-Casinò Municipale Venezia Lido); Gl’innamorati di Goldoni per la regia di Franco Enriquez (7,8,9 ottobre, Teatro La Fenice e 10 ottobre, Teatro Corso-Mestre).
[20] È in quest’ottica di ‘sopravvivenza’, e per restare nel circuito delle sovvenzioni, che vanno collocati i tre atti unici, La morte e il diavolo di Wedekind (regia non firmata ma di evidente “mano ronconiana” (Savioli 1974, 10), Paria di Strindberg, per la regia di Paolo Bonetti e Un concorso nel tempo delle guerre locali di Germano Lombardi, per la regia di Ida Bassignano, che Radaelli fece montare in fretta dalla compagnia della Tuscolano nel giugno del ’74 al Beat ’72.
[21] Nell’intervista che Maria Grazia Gregori inserisce nel suo Il signore della scena, Ronconi dichiara “Che alcuni gruppi si siano liberati dalle grinfie del regista per poi capitare nelle spire della burocrazia non ha proprio senso. A me sembra delirante non fare più la corte a Strehler per farla al programmatore regionale” (Gregori 1979, 173).
[22] Sarà ancora Radaelli ad assumere la piena realizzazione del laboratorio, ammettendo che all’epoca del Teatro Libero “non era tanto forte il senso di un lavoro quasi burocratico che sento oggi” (Quadri, Martinez 1999, 39) lavoro che la massa copiosa dei documenti relativi alla gestione del Laboratorio di Prato conservati in ASAC (ALR) testimonia e su cui c’è ancora da indagare.
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E. Siciliano, Orestea al Tuscolano, in G. Massari, Eschilo non protesta: per questo Luca Ronconi, il regista dell'"Orlando Furioso", lo spettacolo più rivoluzionario degli ultimi anni, ora preferisce mettere in scena testi classici anziché opere di autori contemporanei, Roma, s.d., senza numerazione di pagine, con fotografie di scena e rassegna stampa, opuscolo conservato presso ASAC-Archivio Luca Ronconi, 2.1 Teatro - b. 6/4. - Strehler 1991
G. Strehler, Considerazioni di Giorgio Strehler al documento del 1964, ds. di 15 ff. scritti sul solo recto e numerati progressivamente, s.l., luglio 1991, f. 3(r), cit. in Longhi 2010, 174. - Scotini 2022
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C. Tafuri, D. Beronio (a cura di), Ivrea Cinquanta. Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967-2017 (Cap. V – Dalle cooperative ai centri: vicissitudini di un’alternativa), Genova 2018. - Tomassini 2018
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English abstract
This article intends to reconstruct the activities of two Rome-based theatre groups – Teatro Libero and Cooperativa Tuscolano – formed on the cooperative model and directed by Luca Ronconi between the Sixties and Seventy. The cooperative model, conceived as an alternative to traditional systems, carries a strong programmatic significance, requiring new approaches to space, goals, forms, and languages that redefine the relationship between theater and its territory, and between theater and its audience. The principles of cooperation applied to theatrical production – such as managerial autonomy, creative freedom, professional hybridization, and a strong emphasis on political and civil engagement – serve as a catalyst for new perspectives and transformative practices. The histories Teatro Libero and Cooperativa Tuscolano also shed light on the broader theatrical culture of Rome – an Italian city where a vibrant alternative circuit of theatrical creation and research emerged with notable force. This was, in part, due to the absence of the monopolistic, organizational, and artistic identity traditionally associated with the Teatro Stabile, which in Rome had not yet fully taken root.
keywords | Luca Ronconi, Paolo Radaelli, Teatro Libero, Cooperativa Tuscolano, Roma.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Ilaria Lepore, Ronconi e il modello cooperativo. Scenari sulla produzione teatrale a Roma tra anni Sessanta e Settanta, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.