Hubert Westkemper e il suono degli spettacoli teatrali di Luca Ronconi
Simone Caputo
English abstract
1 | La scena di Margherita Palli per Ignorabimus in due ricostruzioni fotografiche grandangolari.
Nel 2021, in un saggio breve comparso nella rivista di critica e cultura teatrale “La Falena” (Westkemper 2001, 108-109), Hubert Westkemper offriva ai lettori una preziosa riflessione sullo statuto dell’arte del sound design, intrecciando considerazioni teoriche di carattere generale con accenni a personali esperienze lavorative e, in particolare, alla collaborazione con Luca Ronconi, cominciata nel 1986 con lo spettacolo Ignorabimus e durata circa trent’anni[1]. Le pagine che seguono si propongono di ripercorrere quel testo, dal titolo Il suono degli spettacoli teatrali, per esaminare alcuni specifici contributi che attraverso la progettazione del suono Westkemper ha dato al percorso drammaturgico di Ronconi, con particolare riferimento agli spettacoli in spazi non teatrali, en plain air o realizzati con l’ausilio della Wave Field Synthesis:
Il suono è sicuramente l’aspetto meno conosciuto e forse anche più trascurato degli spettacoli teatrali e spesso, in caso di difficoltà economiche, ci si arrangia “alla meglio”. Quando parlo di spettacolo teatrale, sia chiaro, intendo “di prosa”. Escludo volutamente l’opera lirica, che ha da secoli il suo equilibrio consolidato, a partire dalla composizione e dall’acustica dei teatri lirici: lì tutto viene eseguito seguendo la partitura. Anche il musical è in una categoria a parte, poiché ha bisogno di un impianto di amplificazione adeguato e tendenzialmente di radiomicrofoni per tutti. Dal punto di vista sonoro si tratta dunque di uno spettacolo elettroacustico. Gli altri spettacoli teatrali invece comprendono una varietà notevolissima di generi e alcuni necessitano di un lavoro molto articolato sul suono (Westkemper 2021, 108).
In queste poche righe, che aprono il contributo, il sound designer tedesco sottolinea un difetto che più d’altri ha caratterizzato gli scritti critici e teorici sul teatro di prosa: la scarsa attenzione per la componente sonora, determinante nella costruzione drammaturgica della scena. La ragione è da ricercare nella natura non primariamente musicale di questa forma d’arte e nella storia stessa del teatro di prosa, che solo nella seconda metà del Novecento, con le stagioni sperimentali degli anni Sessanta e Settanta, vide gli elementi sonori divenire via via parte integrante o fondante di costruzioni drammaturgiche spesso scomponibili, prive di direzionalità narrativa e in cui era finanche possibile ricorrere all’intervento del pubblico. Quel teatro ‘nuovo’ legittimò anche la dislocazione spaziale della parola e della musica, nonché lo scivolamento dell’una nell’altra. Da ciò scaturì inoltre l’idea di contrappunto successivo o simultaneo delle arti che concorrevano alla realizzazione dell’opera: come la parola, la mimica, l’elemento visivo e l’azione, così il timbro, l’intensità, l’altezza e la disposizione nel tempo di suoni e musiche sono diventate tutte dimensioni d’insieme dell’opera teatrale.
La mutazione ha imposto il ruolo creativo del sound designer nella fase di preparazione di molti spettacoli, in stretta collaborazione col regista, “per dare un’impronta sonora alla messa in scena” (Westkemper 2021, 108). Significativi per questa affermazione sono stati due ulteriori fattori: la crescente ricerca di spazi non teatrali (compresi quelli en plein air), riutilizzati nella loro nuda realtà o attraverso trasformazioni più o meno radicali (spesso provvisorie), e lo sviluppo di complesse tecnologie per la diffusione e la trasformazione di voci e suoni. Una parte non secondaria delle esperienze più originali del teatro contemporaneo si è svolta infatti, per necessità o per scelta, fuori dai teatri (architettonicamente progettati anche per esaltarne le qualità risonanti), in capannoni industriali, magazzini, scantinati, chiese sconsacrate, abitazioni private, oltre che in spazi all’aperto. La rifondazione contemporanea dello spazio teatrale (che si manifestò non solo nell’individuazione di nuovi luoghi per la scena, ma anche nella ‘ristrutturazione’ più o meno radicale di edifici tradizionali) finì col valorizzarlo come spazio di relazione ed esperienza (dello spettatore oltre che dell’attore), e col renderlo elemento fondante della costruzione drammaturgia. Secondo questa prospettiva, la dimensione spaziale, scenico architettonica e, di conseguenza, sonora di un dato spettacolo è un qualcosa “che fa parte costitutivamente del processo creativo di quello spettacolo”, e che quindi va “progettata/reinventata/organizzata ogni volta, riducendo al minimo, e se possibile eliminando del tutto, le costrizioni preventive” (Westkemper 2021, 108).
Nella prima parte del saggio Il suono degli spettacoli teatrali, Westkemper introduce un importante parallelo tra cinema e teatro, quando ricorda che il termine sound designer si affermò nel corso degli anni Settanta, utilizzato dall’industria cinematografica hollywoodiana nei titoli di coda di film come Star Wars di George Lucas (1977) e Apocalypse Now di Francis Ford Coppola (1979), per indicare l’atto di creazione e organizzazione di suoni mai esistiti prima. L’evoluzione tecnologica – furono quelli gli anni dell’affermazione del dolby surround, sistema audio sterofonico, facilmente riproducibile e dalle prestazioni qualitativamente alte – diede un notevole contributo all’affermazione del sound design, segnando il passaggio dalla figura del tecnico professionale, in grado di manipolare effetti sonori e ambientali, a quella del creatore di suoni originali. Mentre la ‘colonna musica’ del cinema passa da un impianto audio – “ovvero non esiste niente di sonoro che non venga emesso attraverso un altoparlante” (Westkemper 2021, 108) – in teatro la maggior parte di ciò che si sente (in un’esperienza live) arriva alle orecchie acusticamente, in un flusso che non è ininterrotto dall’inizio alla fine (anche qualora presenti suoni, voci e musiche registrate, diffuse tramite altoparlanti). In teatro – sottolinea Westkemper – “la continuità sonora è data dalle voci degli attori e dai rumori di scena associati alle loro azioni” (Westkemper 2021, 108): è in questa continuità live che si inseriscono i suoni pre-registrati, mandati al momento giusto (come fossero parte di una precisa partitura) dal fonico dello spettacolo. Ed è proprio al delicato equilibrio tra suono acustico ed elettroacustico che Westkemper ha dedicato gran parte del suo percorso di sound designer, cominciato agli inizi degli anni Ottanta del Novecento, con gli spettacoli Sogno di una notte d’estate (1982) e Hellzapoppin (1983), entrambi per il Teatro dell’Elfo, con la regia di Gabriele Salvatores[2], e proseguito poi con produzioni italiane e, a partire dagli anni Novanta, prestigiose collaborazioni internazionali con registi quali Robert Wilson e Peter Stein[3].
Ri-costruire paesaggi sonori: Ignorabimus e Gli ultimi giorni dell’umanità
Al 1986 risale l’incontro tra Westkemper e Ronconi, al tempo impegnato nel tentativo di andare oltre le coordinate spazio-temporali del canone teatrale, riflettendo sulla possibilità di mettere in scena eventi assoluti, in grado di rappresentare e restituire “la totalità della vita, la molteplicità dei suoi possibili, così come la sua natura frammentaria e simultanea” (Filacanapa 2021, 211). Il 18 maggio 1986 andò in scena Ignorabimus[4], nello spazio del Fabbricone di Prato[5]: uno spettacolo “gigantesco, estenuante, fluviale” – lo definì Roberto De Monticelli, sulle pagine del “Corriere della Sera” (De Monticelli 1986) – della durata di quasi dodici ore (per replicare la lunghezza reale della giornata del 13 maggio 1912 descritta dall’autore Arno Holz), tanto per le cinque interpreti, sottoposte a una prova sovrumana di resistenza, quanto per gli spettatori, come prigionieri di un esperimento.
Ignorabimus, ultima opera di Holz, è un dramma “sconfinato” – scrisse Elisa Biscotto nelle pagine di presentazione dello spettacolo (Biscotto 2018, 1) – non solo per le sue dimensioni, ma anche per l’obiettivo di immortalare sulla pagina ogni singolo aspetto della realtà, ricreandola in tutta la sua immediatezza: il rumore industriale di Berlino nel 1912, città che cresce a dismisura divorando gli spazi, coprendo d’asfalto il verde e penetrando le mura della villa settecentesca in cui è ambientata l’opera. Il suono non ha una funzione semplicemente decorativa; come precisa lo stesso Ronconi, agisce “come se fosse un altro interlocutore” (Masini 1986, 30), manipolando le risposte emotive dei personaggi e costruendo un contrappunto costante coi loro stati d’animo.
In questo contesto ebbe inizio la collaborazione tra Ronconi e Westkemper: le potenzialità del Fabbricone, la cui struttura sfugge alle leggi del luogo-teatro (un ex-laboratorio di tessuti che sorge nella periferia di Prato, tra ciminiere, capannoni e padiglioni industriali), diedero modo al regista di cimentarsi con una forte scrittura scenica, a partire dalla composizione architettonica per cui Margherita Palli edificò una struttura in asfalto, marmo, muratura e vetri importati dalla Germania. La scelta seguita fu quella della “sontuosità cantieristica” – ebbe a scrivere Pier Vittorio Tondelli –, per cui lo spazio teatrale si riveste di tutta “quella manualità, quella concretezza, quella estrema fisicità del lavoro materiale che, camminando all’esterno salta subito all’occhio: cumuli di sabbia, container di ghiaia, macchinari industriali, sacchi di cemento…” (Tondelli 2001, 287). L’architettura sonora di Westkemper dovette ovviamente misurarsi con tale struttura scenica abnorme [Fig. 1], con una trama assai complessa, che ruotava intorno a una seduta spiritica[6], e con le numerose prescrizioni presenti nel testo di Holz. Lo stesso Ronconi, parlando dello spettacolo, illustrò le sue peculiarità sonore:
Io non ho mai usato musiche o supporti musicali di scena, ma qui è tutto prescritto, e io lo faccio. E non sono suoni, ma una specie di contrappunto fonico piuttosto importante e impegnativo. Ho già detto che questa casa è stata pian piano assediata da Berlino, dalla metropoli. E questo avvicinarsi della città è continuamente presente. Un contrappunto sonoro di automobili, di biciclette, di omnibus, di carrozze circonda questa casa, abitata da pensatori, una specie di “pensatoio”. Spesso sono proprio le energie e i furori dei personaggi che attirano le automobili quasi a spiaccicarsi contro i muri della casa. Altre volte il traffico intorno è condizione per inserire i personaggi. Quindi è continua l’integrazione fra i due suoni, quello umano e quello tecnico (Capitta, Ronconi 1986).
Si legge, ad esempio, nelle didascalie “automobile lontana, quasi un lamento”, “stridente allarme di un merlo spaventato”, “pettirosso malinconico”, “il rumore degli uccelli da qui in poi aumenta di nuovo e diventa a volte quasi sgradevolmente stridente”, “automobile come un cinghiale arrabbiato”, “un cane sicuramente nero abbaia in qualche luogo”, “lo squillo stridente del telefono proviene di nuovo dal piano di sotto a sinistra”; la parola ‘suono’ compare in circa quaranta occorrenze; la musica è presente anche nella forma di una partitura per organo riportata nel testo e integrata all’azione. I rumori d’ambiente, le note musicali e le voci delle attrici costituirono, dunque, una partitura musicale, poiché nulla aveva valore di semplice ornamento: i suoni agivano come fossero degli interlocutori, interrompendo i dialoghi e generando reazioni emotive nei personaggi.
Di fronte a un soundscape così variegato, il primo compito a cui Westkemper dovette rispondere fu quello di creare una sorta di banca-dati sonora rispondente alle molteplici necessità poste dal testo di Holz, in un’epoca in cui non vi erano le ampie libreries, accessibili a tutti, che oggi il web mette a disposizione. Per il reperimento di alcuni suoni, Westkemper ricorda di esserti rivolto a Gunter Kortwich, fonico di presa diretta di molti film di Reiner Werner Fassbinder, e proprietario di un archivio sonoro di macchine berlinesi d’epoca; per altri si improvvisò rumorista, inventandoli: è il caso, ad esempio, della citata seduta spiritica, durante la quale, per simulare la grandine su un lucernaio posizionato sulle teste degli spettatori, ricorse alla registrazione del rumore dei ceci che cadono su di un vetro. Altra questione affrontata dal sound designer fu quella della corretta riproduzione in scena di suoni e rumori, attraverso una spazializzazione in grado di fornire agli spettatori un’abilità di ascolto con caratteristiche elaborate, assimilabili quanto più possibile all’ascolto nella vita reale. A complicare il lavoro di Westkemper vi fu l’intenzione del regista di infondere negli spettatori una sensazione di rumoroso fastidio, simile a quella provata dagli abitanti di una grande città industriale come la Berlino di inizio Novecento. Per far ciò, il rumore prodotto dalle macchine fu oltremodo amplificato, anche per rispondere all’odierna assuefazione da paesaggio sonoro urbano; la recitazione venne inoltre spesso sospesa, per dare spazio ai clangori industriali, a cui Westkemper aggiunse una sorta di bordone di fondo, ottenuto replicando un sentore di traffico di automobili[7]. Le parole di Westkemper restituiscono meglio di ogni descrizione la complessità delle soluzioni elaborate per rispondere alle sfide poste dal testo e dalle scelte di regia:
Il lavoro sulla spazializzazione del suono, vale a dire la distribuzione di quest’ultimo sulle ventinove casse acustiche che avevo a disposizione, era tutto da inventare. Con le tecnologie di oggi sarebbe stato molto più facile, perché con l’ausilio di un mixer audio digitale avrei potuto registrare e programmare tutti gli interventi sonori (Caputo, Westkemper 2024).
Con la tecnologia analogica di allora, durante lo spettacolo dovevo fare a mano molti movimenti. Mi sentivo già fortunato di avere un mixer con sedici uscite che, allora, in Italia non aveva varcato la soglia di nessun teatro di prosa. Disponevo di due Revox a due tracce e di un registratore Teac a quattro tracce. Tra pre-spazializzazione registrata su quattro tracce e il panpot (una specie di funzione-balance presente anche sugli amplificatori Hi-Fi), ce la siamo cavata solamente in due al mixer. C’era inoltre un fonico sistemato con i magnetofoni in un ex-guardaroba perché quelle macchine facevano “clack” ogni volta che andavano in play o stop. Noi le azionavamo con dei telecomandi via cavo. Una suggeritrice ci dava gli attacchi, perché erano molto ravvicinati e noi troppo impegnati sul mixer per leggere anche il copione (Westkemper, Petruzziello 2015, 52).
Di solito, in teatro l’inquadratura è fissa – scrive Westkemper sulle pagine della “Falena” – e varia talvolta con un cambio di scena: “…Chi è più vicino al palcoscenico ovviamente può osservare con maggiore nitidezza, e questo vale anche per la percezione sonora” (Westkemper 2021, 109). Queste considerazioni valgono però per gli spettacoli che si svolgono in un teatro tradizionale, che presenta perciò diffusori acustici alla sinistra e alla destra del palco o a ridosso del proscenio. Tutto cambia – è il caso di Ignorabimus – se l’azione avviene in uno spazio concreto reale e profondo, fatto di pavimenti, muri e vetrate, e in cui, dunque, un impianto stereo frontale non è ammissibile; lo stesso – con ulteriori complicazioni – accade quando il pubblico è circondato da azioni sceniche, come in occasione degli Ultimi giorni dell’umanità, altro lavoro di Ronconi, realizzato in uno spazio che sfugge alle leggi del luogo-teatro, per il quale Westkemper elaborò il disegno sonoro.
L’esperienza di Ronconi fuori dalle consuete sale teatrali era cominciata nel 1966, agli inizi della sua carriera da regista, nel cortile del Palazzo Ducale di Urbino con I lunatici di Thomas Middleton e William Rowley; anche la messinscena che lo rivelò al pubblico internazionale, l’Orlando furioso del 1969, per la XII edizione del Festival dei Due Mondi di Spoleto, fu pensata per un luogo ‘altro’, la chiesa gotica di San Nicolò. La ricerca instancabile di un teatro ideale, spinse in quegli anni regista, attrici e attori, maestranze artistiche e tecnici a compiere vere e proprie imprese culturali. In questo percorso, la realizzazione di Ignorabimus introdusse inoltre nel panorama del teatro italiano l’argomento della riqualificazione di spazi industriali e della nuova funzione urbana e di connessione sociale col territorio che queste architetture potevano rivestire nel tessuto cittadino[8]. Punto d’arrivo fu per certi versi lo spettacolo Gli ultimi giorni dell’umanità del 1990[9], dall’omonima tragedia di Karl Kraus: chiamato alla direzione artistica del Teatro Stabile di Torino dal 1989 al 1994, Ronconi si presentò alla città facendo di un simbolo dell’archeologia industriale italiana un santuario della scena.
Collocato nella zona sud di Torino ed esteso su di un’area di oltre 370.000 metri quadri, lo stabilimento FIAT Lingotto, monumento dell’Italia dedita al lavoro, città nella città, negli anni Ottanta fu tra i primi esemplari di riqualificazione urbanistica e culturale di una fabbrica divenuta patrimonio nazionale. La scelta del Lingotto fu in parte suggerita dalle parole dello stesso Kraus, per il quale la sua tragedia dedicata alla Prima guerra mondiale, con difficoltà avrebbe potuto essere contenuta tra le quinte di un palcoscenico tradizionale:
La messa in scena di questo dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate, è concepita per un teatro di Marte. I frequentatori dei teatri di questo mondo non saprebbero reggervi. Perché è sangue del loro sangue e sostanza della sostanza di quegli anni irreali, inconcepibili, irraggiungibili da qualsiasi vigile intelletto, inaccessibili a qualsiasi ricordo e conservati soltanto in un sogno cruento, di quegli anni in cui personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità (Kraus [1919] 1980, 9).
L’età del massacro e della stupidità – intreccio allucinatorio di voci, dal “quotidiano, ineludibile, orrendo grido: Edizione straordinaria!” alle chiacchiere dei capannelli, dalle dichiarazioni tronfie dei Potenti ai ‘pezzi di colore’ della stampa, sino all’inarticolato lamento delle vittime – si prestava a essere rappresentata e vissuta in un non-luogo come i capannoni del Lingotto. Lì si sarebbe potuta metter in atto la perenne peregrinazione sciamanica, immaginata da Kraus, tra i mille teatri della guerra: dalle trincee ai quartier generali, dai luoghi di villeggiatura ai palazzi imperiali, dalle case ai caffè, tra centinaia di personaggi (i due imperatori, Francesco Giuseppe e Guglielmo II, vari potenti, loquaci giornalisti, lettori di giornali, funzionari, soldati al fronte, borghesi in vacanza, macchinisti al lavoro).
Il dramma, composto nella versione di Kraus da cinque atti con prologo ed epilogo, presentava duecentoventi scene; individuate le particolarità del testo (che fu di conseguenza ridotto) e la conformazione dello spazio di allestimento, Ronconi elaborò delle indicazioni, definibili come una prima lettura sceno-drammaturgica, riportate dallo scenografo Daniele Spisa nel diario di lavoro dei tecnici:
• la molteplicità degli spazi scenici e l’uso sincronico di questi nel corso dello spettacolo, secondo un taglio visivo in qualche modo di tipo cinematografico;
• un ambiente generale privo di connotati identificativi precisi, ma segnato in modo unificante dalle macchine tipografiche, dai treni e dalla serialità ripetitiva della tipologia architettonica;
• la sistemazione del pubblico che deve consentire molteplici punti di vista in contemporanea;
• ottenere per il finale una sistemazione più tradizionale del pubblico, seduto su tribune, da accompagnarsi all’allontanamento di tutte le barriere visive prima utilizzate (vagoni, locomotive, vetrate, etc.) per un’apertura ad un “totale” dell’“infinita” serie prospettica di pilastri della sala presse;
• rifuggire per quanto possibile dalle “piante” sceniche di tipo tradizionale (centrale, frontale, a luoghi deputati) per puntare invece su processi dinamici di frantumazioni e ricomposizioni continue di elementi scenici e oggetti che trovano di volta in volta la loro identità definendo anche il luogo richiesto;
• quindi nessun uso di teatrini con boccascena identificabili, nessun uso della logica da set cinematografico, ma piuttosto un tutt’uno in continua mutazione che porti lo spettatore a modificare in continuo il punto di vista e l’asse visivo (estratto dal diario di lavoro dei tecnici conservato nell’archivio personale di Daniele Spisa qui ripreso in Adalberti 2022, 27, cui si rimanda per una più ampia disamina dell’architettura scenografica della messinscena).
Le indicazioni ci ricordano che Ronconi optò non per una semplice riduzione del dramma di Kraus, me per una sua trasformazione nella forma del collage, in grado di meglio restituire, attraverso il missaggio delle scene, l’essenza del testo (per un’analisi dell’allestimento, si veda Longhi 2015, 91-102). Oltre sessanta attori recitarono nella ex Sala presse del Lingotto di Torino, dove non sussisteva una tradizionale suddivisione tra pubblico e spettatori: lo spettacolo scorreva, nel vero senso della parola, davanti agli occhi e alle orecchie del pubblico, svolgendosi a tratti in differenti zone del capannone con una recitazione asincrona. La sala è infatti composta da una selva di pilastri che divide lo spazio in navate (della lunghezza di circa 70 metri), e da grandi finestroni che durante le rappresentazioni vennero oscurati per motivi illuminotecnici. Simultaneità e sovrapposizioni delle azioni drammatiche furono i tratti distintivi della scena ronconiana, cui si giunse dopo un lungo processo di studio tecnico e prove su piccola scala attraverso il ricorso a modellini, utili per ricavare informazioni sul rapporto tra lo spazio immenso del Lingotto, i carrelli che avrebbero consentito lo spostamente delle scene in zone diverse della sala e il movimento degli attori, e il pubblico, che avrebbe assistito alla rappresentazione in compresenza alle azioni drammatiche [Fig. 2].
La pianta dell’allestimento consente di osservare dall’alto la grandiosità dello spazio scenico, che occupò sette navate (destinate anche allo sbarco di macchine e attrezzature): quella centrale fu lasciata prevalentemente libera per ospitare gli spettatori, che in piedi erano liberi di seguire le scene che si succedevano lungo le navate laterali. Da qui si sviluppava l’impianto scenico, simmetricamente a destra e a sinistra: otto binari (quattro per lato), correvano in parallelo nelle navate adiacenti, ospitando vagoni ferroviari e palcoscenici mobili su rotaia, mentre altri quattro li intersecavano trasversalmente [Fig. 3]. Le scene in movimento lungo i binari furono alternate da scene corali, concentrate nella navata centrale; dall’analisi del “Copione con indicazione dei movimenti” del direttore di scena Giordano Mancioppi (quarantasei pagine ricche di annotazioni e indicazioni) emerge che furono impiegati oltre venti tecnici per la gestione dei carrelli e una decina per la preparazione degli stessi[10]. Con l’ausilio dei carrelli, gli attori (insieme a un numero elevatissimo di oggetti, tra cui un cannone, un mortaio, fucili e maschere antigas, un’ambulanza, un’automobile, un autocarro e una locomotiva) percorrevano le navate, in mezzo al pubblico, come in una sorta di sfilata di carri allegorici. Tra i più caratteristici oggetti di scena – rilevanti dal punto di vista rumoristico – vi erano due tipi di macchine da stampa: le prime erano delle rotative realizzate per lo spettacolo dalla Scenotek; le seconde, una coppia di imponenti lynotipe, con caldaia e sistema di fusione a piombo, recuperate e rimesse in funzione per l’occasione; queste ultime stavano accanto al pubblico e si affacciavano sulla navata centrale.
3 | Sviluppo planimetrico dell’impianto scenico per Gli ultimi giorni dell’umanità. Dal copione del direttore di scena Cosimo Moliterno; © Archivio digitale Centro Studi del Teatro Stabile di Torino.
La molteplicità delle direzioni spaziali pensate da Ronconi (avanti e indietro, a destra e a sinistra, sui lati e sul fondo), la continua distribuzione e riunione delle scene, il fastidioso insinuarsi dei carrelli, l’incedere solenne di alcuni gruppi di attori, l’incombere acustico delle macchine e la presenza di binari ferroviari avevano l’obiettivo di generare una brutale sensazione di veridicità (in relazione ai temi trattati da Kraus) nello spettatore, letteralmente al centro di un enorme spazio dall’affordance non lontana da quella di un paesaggio sonoro bellico.
La versione televisiva dello spettacolo[11], anche questa per la regia di Ronconi, consente di individuare fin dal prologo (della durata di circa otto minuti) le difficoltà che la drammaturgia pose a Westkemper: un fragore di voci, che giungono dalle diverse postazioni in cui si trovano le macchine per la stampa, irrompe nello spazio scenico, annunciando l’assassinio del prìncipe ereditario e della consorte; l’inquadratura si sposta poi su una delle navate laterali, dove scorrono palcoscenici mobili su cui si trovano borghesi intenti a leggere i giornali e a commentare la notizia; gli occhi vanno quindi verso l’alto, dove Luca Zingaretti, nelle vesti di un reporter, percorre la navata seduto alla macchina da scrivere su di un carrellino sopraelevato. Il giornalista, con frasi tonanti, richiama l’attenzione del pubblico, quasi fosse una voce fuori campo, descrivendo lo stato d’animo della città e l’atmosfera respirata nel Ring, punto di ritrovo della borghesia viennese (di cui poco dopo si ascoltano le esclamazioni di stupore, prima che il coro degli strilloni riempia nuovamente lo spazio al grido “Assassinio di stato!”). L’azione si sposta ancora una volta in alto, dove Massimo Popolizio, nei panni del Maestro di cerimonia Wilhelm von Nepalleck, imbragato in una sedia sospesa in aria, sta organizzando al telefono le esequie del princìpe, riprodotte di lì a poco attraverso un’imponente processione che sulle note del Requiem di Mozart accompagna le bare dei defunti lungo la navata centrale.
Dal breve prologo risulta evidente che Westkemper dovette confrontarsi con un elevato numero di complicazioni che resero assai difficile la corretta costruzione del sound design dello spettacolo:
• fonti sonore diverse (voci umane, rumori ambientali di macchine e carrelli, musica extradiegetica), dislocate in luoghi e su piani diversi della sala, e in movimento lungo direttrici differenti;
• settori in cui si svolgevano azioni in contrappunto, spesso collegate tra loro da rumori e suoni che ne certificavano la compresenza o la conseguenzialità;
• pubblico in movimento (non orientato, dunque, verso una unica fonte sonora frontale), lasciato libero di spostarsi da una cellula all’altra dello spettacolo al richiamo di un’azione, di un rumore, di una luce o di un oggetto;
• la conformazione della ex Sala Presse del Lingotto, con le sue particolari caratteristiche acustiche (l’effetto di riverbero dovuto alla presenza di imponenti pareti rigide e il fastidioso rumore di fondo generato dall’impianto di aerazione).
L’edizione televisiva, frutto di precise scelte di montaggio legate al medium di riferimento, non rende però l’idea della ‘Babele di voci’ che fu lo spettacolo teatrale; la definizione è presa in prestito da una testimonianza dell’attore Massimo De Francovich, che partecipò all’allestimento nel ruolo del Criticone:
Gli ultimi giorni dell’umanità è stato uno spettacolo-evento. L’edizione televisiva è molto diversa dallo spettacolo teatrale, che era un lavoro corale recitato tutto insieme, a parte alcune scene del Criticone e dell’Ottimista e poche altre. Le azioni si svolgevano in contemporanea: il pubblico sceglieva un luogo e sentiva tutto quello che si diceva lì, poi cambiava e andava in un altro luogo. Era una specie di enorme Babele. Per l’edizione televisiva, Luca aveva posizionato tredici telecamere che tutte le sere registravano lo spettacolo. Poi ha lavorato per tre mesi al montaggio, ma nell’edizione televisiva sono riusciti tecnicamente a realizzare solo una scena: le altre, dal punto di vista dell’audio, venivano azzerate. Quindi il video è bello e interessante, ma diversissimo dallo spettacolo (De Francovich, Ponte di Pino 2021, 247).
Oltre a elaborare un complicato sistema di speakers audio, che meglio poterono assecondare la natura mobile delle piattaforme sceniche e mitigare o accentuare i riverberi, Westkemper fece ricorso a un ampio numero di radiomicrofoni per consentire la chiara fruizione delle voci (quasi sempre in un registro dinamico tra il forte e il fortissimo), far fronte all’ampiezza della sala, sovrastare il rumore delle macchine e sopperire all’effetto di abbassamento di volume dovuto all’allontanamento di fonti sonore in movimento. La compresenza in scena di numerosi attori e attrici (oltre sessanta in totale) pose però il problema – dati gli elevati costi che queste attezzature avevano al tempo – dell’insufficiente numero di radiomicrofoni a disposizione: per sopperire alla mancanza, Westkemper ideò delle ‘stazioni di passaggio’ in cui un attore sostava al termine di una cellula drammatica lasciando il radiomicrofono utilizzato, così da metterlo a disposizione di chi sarebbe entrato in azione subito dopo. Ciò comportò un’attenta sincronizzazione di questi ‘passaggi di testimone’, garantita anche dalla presenza di numerosi tecnici di palco dediti alla sola componente audio dello spettacolo[12]. La moltiplicazione del punto di vista, auspicata da Ronconi, venne così prodotta non solo dal movimento continuo, ma anche dalla pluralità del paesaggio sonoro, caratterizzato da segnali che indirizzarono la volontà degli spettatori, chiamati a spostare vista e udito di pochi gradi per trovarsi di fronte a un’altra scena, in una sorta di quella che Claudio Longhi definì libera “ricezione creativa di montaggio” (Longhi 1999, 259-260).
Il disegno del suono en plein air
Nel maggio 2002 andò in scena al Teatro Greco di Siracusa la trilogia Prometeo incatenato di Eschilo[13], Baccanti di Euripide e Le Rane di Aristofane, per la regia di Ronconi. I drammi costituivano, nelle intenzioni del regista (per la prima volta all’Istituto Nazionale del Dramma Antico), un percorso unitario volto a indagare il rapporto tra l’umano e il divino, a conclusione di un più lungo cammino d’attraversamento dei classici greci cominciato nel 1972 con Orestea. In particolare, dal punto di vista della messinscena, delle dinamiche legate allo spazio e della relazione tra la scenografia e l’esposizione del protagonista, Prometeo incatenato costituì una sfida rilevante per la regia – con implicazioni non secondarie sul disegno sonoro –, data la maniera con cui il titano entra in scena nella tragedia di Eschilo, forzatamente issato e legato a una rupe, e il modo in cui vi resta, immobile, recitando ampie porzioni del dramma.
Ronconi rispose alle sfide poste dal testo da un lato restandovi fedele, dall’altro amplificando la distanza storica che lo separava dal classico di Eschilo. Scelse perciò di valorizzare la natura dello spazio archeologico a cui le rappresentazioni erano destinate, lasciando le rovine a vista; al contempo, alterando la qualità fisica originaria del luogo, fece emergere alte gru gialle tra i reperti antichi, “una trasposizione contemporanea dell’antica mechané” che conferì allo spazio “una dimensione quasi da archeologia industriale” (Giovannelli 2024, per un’ampia panoramica su Prometeo incatenato e alcune soluzioni adottate tra il 1954 e il 2023 nell’ambito delle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa). In questo ambiente, progettato da Margherita Palli, trovò posto un’enorme statua di un uomo accasciato (alta quattordici metri e attraversabile all’interno), che sembrava richiamare l’immagine mitologica del vecchio Crono morente, piegato sui ginocchi: sulla sua sommità, come fosse una rupe, Prometeo venne incatenato. Qui si svolse la prima parte dello spettacolo: Kratos ed Efesto furono issati sul capo reclinato della statua, mentre Prometeo (interpretato da Franco Branciaroli) comparve da una botola aperta nel cranio. Lunghe catene, serrate da macchinisti (posizionati all’interno della grande struttura), cingevano il corpo del protagonista, che dal quel momento e per tutta la durata della rappresentazione restò immobile, inginocchiato, lontano dagli altri personaggi. L’azione si svolse perciò su due livelli, quello alto, il capo della statua, dove stavano Prometeo e le gru che trasportano le divinità (Oceano e Hermes), e quello basso, il palco, dove si muovevano figure vicine al titano (come Io e il Coro) e le Oceanine, con le vesti zuppe, dopo aver attraversato vasche d’acqua. A questi livelli Ronconi ne aggiunse un terzo, le gradinate, dove posizionò la corifea (Galatea Ranzi), quasi a sottolineare la valenza del coro, prima cerchia di persone che – come gli spettatori – ascoltano, guardano, commentano.
Westkemper ha più volte sottolineato la “precarietà acustica” (Caputo, Westkemper 2024) del Teatro Greco di Siracusa, affascinante, ma caratterizzato da mezzi fonici limitati: considerato a torto un luogo dall’acustica perfetta, il teatro soffre in realtà di problemi strutturali (una pendenza insufficiente, dovuta al fatto che fu scavato nella roccia) che ne compromettono la qualità in occasione di azioni complesse, in movimento e accompagnate da musiche extradiegetiche pre-registrate come il Prometeo incatenato di Ronconi. Questi problemi, uniti alla vastità dello spazio scenico, costrinsero Westkemper ad adottare un complesso sistema di amplificazione e spazializzazione del suono che contrastasse la poca localizzabilità delle fonti sonore, generata dai diversi livelli su cui le azioni si svolgevano e dalla grande distanza (verticale e orizzontale) tra gli attori in scena e tra questi e il pubblico. L’intervallo che separava la postazione di Prometeo dalla platea era tale da rendere la figura quasi invisibile [Fig. 4].
4 | Prometeo incatenato, © Archivio Marcello Norberth.
Il sistema era messo a dura prova da alcune necessità ed elementi di disturbo: il bisogno di allocare in scena monitor audio che consentissero agli attori, posizionati lontani gli uni dagli altri, di seguire l’azione che si stava svolgendo a distanza; la difficoltà nel controllare i radiomicrofoni di chi veniva movimentato attraverso le gru; il forte inquinamento acustico che colpiva il sito teatrale (distante 650 metri dal nucleo urbano più vicino); il rumore ambientale che in generale caratterizza uno spazio en plein air. Per lavorare alla spazializzazione dei suoni in tempo reale e affrontare seduta stante eventuali inconvenienti o inaspettate interferenze rumoristiche, Westkemper scelse di moltiplicare le postazioni di regia audio, disponendole in prossimità dei livelli coinvolti da Ronconi nella messinscena: la testa della statua (qui il banco della regia fu sistemato all’interno della scultura), il palco e la platea. Strumento protagonista del Prometeo incatenato ronconiano fu, dunque, il microfono, “contraltare ai rumori del traffico che inquinano lo spazio monumentale” (Quadri 2002), sapientemente controllato nelle sue possibilità volumetriche e di effetti da Westkemper, capace di restituire il modulare dal sussurro al baccano della voce, a tratti dolorosa, a tratti implacabile, di Prometeo-Branciaroli.
Il sound design e l’evoluzione tecnologica: la Wave Field Synthesis
Altra collaborazione tra Westkemper e Ronconi fu Il Panico, del drammaturgo argentino Rafael Spregelburd, che debuttò il 13 gennaio 2013 al Piccolo Teatro Strehler di Milano[14]. Ronconi, con l’ausilio di Marco Rossi, progettò uno spazio ristretto di venti metri per venti (cromaticamente votato al bianco, al nero e al giallo, costruito con grandi teli bianchi di carta), in cui agivano sedici attori amplificati con radiomicrofoni. La complessa trama intrecciava tre storie, una cassetta di sicurezza di cui si è persa la chiave, una casa infestata da spiriti e un gruppo di danzatrici alle prese con un nuovo spettacolo: personaggi morti che non sanno di esserlo e vivi che si avvicinano pericolosamente alla morte, tutti caratterizzati da una sensazione di ‘panico’ che Ronconi cercò di tradurre in senso d’attesa, ma anche di angoscia che quest’attesa comporta. Le parole del regista sulle trappole del testo, la natura della parola scenica e il ruolo dei personaggi, aiutano a inquadrare le questione acustica che Westkemper dovette affrontare in quella occasione. In un’intervista a Oliviero Ponte di Pino, Ronconi affermò che:
Gli attori tendono per loro natura ad affezionarsi al personaggio, e pensano che sia il personaggio a determinare le situazioni. Invece nel Panico l’autore si diverte a mettere i personaggi in determinate situazioni per vedere come reagiscono. E capita spesso che un personaggio venga spossessato delle proprie battute, che vengono dette anche da qualcun altro. È una commedia piena di trabocchetti…
Se allestisci Il Panico come una commedia futile e frivola, il testo si vendica. Già la durata – tre ore – non regge i ritmi della commedia d’intrattenimento, ci sarebbe almeno un’ora e mezza di troppo. Il testo regge quella durata solo se percepisci che è un puzzle e che i pezzi si devono incastrare man mano tra loro. Non è nemmeno una commedia di conversazione: la comunicazione è diretta allo spettatore, il vero interlocutore è il pubblico: c’è un gioco tra questi attori che giocano, ma non giocano tra di loro, ognuno di loro gioca con se stesso, con la situazione che gli propone l’autore, e insieme al pubblico.
Conosciamo i problemi di acustica di questo teatro: se fai un classico che tutti conoscono, questo aspetto non è così cruciale. Con un testo del genere invece l’attenzione dello spettatore deve andare alla connessione da battuta a battuta, e spesso anche alle connessioni tra un termine e un altro all’interno della stessa battuta: in effetti, i personaggi non pensano molto a quello che dicono, è come se le loro parole venissero suggerite da una specie di mente universale, da un suggeritore unico per tutti. Per questo le connessioni tra i termini e le scelte sintattiche sono molto importanti (Ronconi, Ponte di Pino 2013).
Dalle parole di Ronconi emerge con chiarezza la preoccupazione per la compresenza di tanti attori sulla scena; il principale timore del regista era che ciò non rendesse facilmente individuabile la persona parlante da parte del pubblico. Compito di Westkemper fu quello di costruire con gli attori, nonostante la presenza dell’amplificazione, uno spazio sonoro coerente, in cui le voci elettroacustiche corrispondessero alla loro posizione in scena[15]. Come ricorda Westkemper nel saggio Il suono degli spettacoli teatrali, molto spesso si dimentica che la questione dell’amplificazione in teatro di voci dal vivo e suoni prodotti in scena è più complessa di quanto si creda. Ritornando al confronto tra cinema e teatro, il suono associato alle immagini sullo schermo viene diffuso da altoparlanti, che di solito sono ben nascosti dietro lo schermo: nessuno li vede ma garantiscono che il suono venga associato al film, con un effetto di totale credibilità acustica. In uno spazio teatrale tradizionale invece “la visuale dev’essere libera e finisce che siamo costretti a ‘piazzare’ una cassa a sinistra e una a destra in proscenio”. E continua:
Problemi tecnici (effetto Larsen) impongono di posizionare gli altoparlanti sempre più in avanti dei microfoni che riprendono il suono. Ecco perché gli altoparlanti usati per l’amplificazione stanno necessariamente in proscenio. Purtroppo per questo motivo spesso sentiamo provenire le voci degli attori non dal punto in cui parlano ma da dove stanno invece gli altoparlanti (Westkemper 2021, 109).
Per ottenere un effetto di realismo, difficilmente restituibile attraverso un’amplificazione sterofonica, Westkemper fece ricorso a uno strumento d’alta tecnologia[16]: la Wave Field Synthesis (letteralmente “sintesi di campo sonoro”). Questa tecnica di diffusione del suono in 3D nacque negli anni Novanta, da ricerche condotte nell’università di Delft, poi proseguite in centri di studio come l’Ircam di Parigi; utilizzando contemporaneamente molti diffusori audio, la WFS genera fisicamente per ogni sorgente virtuale (nel caso del teatro, un attore da amplificare) un fronte sonoro curvato, che si propaga verso il pubblico come se fosse generato da una sorgente acustica vera. Di conseguenza tutti gli spettatori immersi nel campo sonoro generato dalla WFS (nel quale possono anche muoversi), localizzano le voci o gli strumenti nella giusta posizione e non come provenienti dalla cassa acustica più vicina (che è invece il caso di un impianto sterofonico).
Per lo spettacolo di Ronconi, Westkemper ideò un sistema di Sound Reinforcement che combinava la Wave Field Synthesis con l’acustica virtuale generata dal software SPAT (sviluppato all’Ircam) e un sistema di tracking o RTLS (Real Time Location System)[17]. Ventiquattro casse acustiche di piccole dimensioni erano distribuite su una linea orizzontale sotto la pedana inclinata della scena, per consentire l’ascolto alla prima metà della platea; otto coppie di diffusori acustici più grandi erano appese sopra il boccascena, orientate verso la seconda metà della platea e la galleria. Quando un attore parlava la sua voce si propagava in tutte le direzioni attraverso cerchi concentrici (il fronte sonoro); quando il semicerchio che si propagava verso il pubblico raggiungeva la linea degli altoparlanti in proscenio, Westkemper agiva (con l’ausilio di un processore) sulle ventiquattro casse distribuite orizzontalmente sotto la pedana inclinata della scena, affinchè emettessero il suono amplificato della voce con la stessa curvatura che ha il fronte sonoro della voce acustica.
Trattandosi di una curvatura virtuale, il sound designer poteva generare in simultanea fino a ventiquattro diverse posizioni sonore, attribuibili ad altrettanti attori; al contempo, un sistema di tracking, una specie di GPS locale, forniva a Westkemper le posizioni degli attori in tempo reale: ciò consentiva alle orecchie di tutti gli spettatori di localizzare il suono delle voci amplificate nelle corrette direttrici di provenienza e non come derivanti dalla cassa acustica più vicina. Infine, l’utilizzo del software SPAT permise a Westkemper di creare profondità di campo per simulare la distanza dal proscenio: “allontanandosi, le voci catturate con i radiomicrofoni dovevano essere ritardate, emulando il ritardo causato dalla distanza; le alte frequenze si dovevano attenuare e doveva aumentare l’incidenza delle prime riflessioni e del riverbero, come avviene nella realtà” (Westkemper, Petruzziello 2015, 53). Il sound design creato da Westkemper per Il Panico fu così elogiato da Massimo Marino sulle pagine di “Doppiozero”: “Hubert Westkemper rende il suono magia, indirizzando con un gps le voci verso l’altoparlante che si trova nella zona dove agisce il personaggio, rendendo il gioco degli schermi, delle maschere, delle finte pareti, fragili e abbaglianti, ancora più incisivo” (Marino 2013).
Conclusioni
L’esame della collaborazione tra Luca Ronconi e Hubert Westkemper invita a mettere in discussione, sulla scia dell’acoustic turn (suggerito e definito in anni recenti dalle scienze sociali e dagli studi culturali[18], la schiacciante prevalenza del paradigma visivo nella percezione del teatro, a favore della riconsiderazione dei processi di costruzione e percezione della sonorità, pur in un caso come quello dei lavori di Ronconi al cui centro non sta l’auralità (intendendo con questo termine le pratiche che esplorano il suono, la sua percezione, gli ambienti acustici come esperienza vissuta) ma il legame tra regia, parola e testo. Il disegno del suono che Westkemper ha elaborato di volta in volta per gli spettacoli di Ronconi è infatti sempre stato teso a favorire l’ascolto della voce dell’attore – che interferisce con la costruzione dell’identità e mette in gioco il tema della presenza e dell’assenza del personaggio/individuo – e a restituire possibilità di ascolto acusmatico dei paesaggi sonori che emergevano dai testi portati in scena. Il diffuso e sistematico oblio di questa componente tutt’altro che secondaria, tanto della produzione quanto della fruizione dell’evento teatrale (il teatro è un luogo d’ascolto, oltre che della visione), rende sospetta l’architettura su cui spesso poggia la scienza del teatro e suggerisce alcune considerazioni sul suo statuto[19].
Due le ragioni dell’oblio che meritano di essere isolate tra le molte concorrenti: la prima può essere individuata nell’antitesi tra live e mediato, che ha contribuito a tenere lontani gli studi sul teatro (arte ‘altra’ rispetto all’industria dello spettacolo riprodotto, che necessita della compresenza di attore e spettatore) dal pieno riconoscimento dell’importanza del sonoro. Al contempo, è un dato di fatto che negli ultimi decenni del Novecento il progesso tecnologico abbia portato allo sviluppo di metodi di sonorizzazione elettroacustica (e di conseguenti studi) che hanno reso l’audio dello spettacolo sempre più indipendente dalle condizioni complessive dell’acustica della sala o del luogo di messinscena. Da ciò deriva la seconda ragione: il sound design è per natura un progetto creativo effimero rispetto alla lunga durata dell’edificio o del luogo in cui si attua e ha perciò indotto una sorta di disinteresse verso le condizioni strutturali di ascolto del contenitore; ciononostante, lo studio dei contenitori acustici e degli spazi urbani prestati al teatro è necessario per una corretta comprensione della sonorizzazione di uno spettacolo e per l’elaborazione di un pensiero spaziale coerente.
L’attenzione specifica alla dimensione sonora genera inoltre altri problemi di metodo, come ci suggerisce il caso Gli ultimi giorni dell’umanità (qui esaminato grazie all’ausilio della versione televisiva, di cui resta la registrazione): l’impossibilità di un ascolto in senso storico e la domanda relativa a quale passato sia per noi udibile. Il nostro ascolto non può che essere compromesso, perché diverse sono le condizioni di ascolto e altro è l’universo sonoro cui il nostro ascoltare si situa; l’immaginazione sonica del ricercatore è perciò un’abilità che va costruita, ricorrendo alle fonti originali dei suoni qundo disponibili, a elementi utili per riprodurli quando assenti, alle parole di artisti, maestranze e spettatori, all’attraversamento degli spazi di messinscena.
La collaborazione Ronconi-Westkemper ci ricorda inoltre l’importanza di continuare a indagare, nella prospettiva dei sound studies, le origini epistemologiche dell’odierno sound design, che nello specifico caso di studio preso in esame sembrano risalire alla drammaturgia del mélodrame ottocentesco, le cui partiture sonore, minuziosamente progettate (e basate sui princìpi della discontinuità dinamica e della distinzione tra suono diegetico ed extradiegetico), non miravano banalmente alla ricostruzione ma a un utilizzo ‘scenografico’ dei suoni, volto a contribuire alla creazione di un paesaggio multisensoriale e a suscitare nello spettatore l’impressione di essere parte di un’altro spazio-tempo. L’esame di Ignorabimus, Gli ultimi giorni dell’umanità, Prometeo incatenato e Il Panico suggerisce infine di stemperare nell’analisi del disegno di suoni e rumori a teatro la dicotomia tra sound design (sapere teorico) e gestione fonica (sapere pratico), che nella prassi non sono facilmente distinguibili e subiscono spesso processi di rimescolamento; quelle elaborate da Westkemper per Ronconi possono infatti essere considerate performance sonore[20], in cui sapere tecnico, evoluzione tecnologica, percezione dello spazio acustico, conoscenza del paesaggio sonoro di riferimento e scelte estetiche concorsero al servizio o in dialogo con la drammatugia, i corpi degli attori e degli spettatori alla definizione del disegno del suono degli spettacoli.
Ringrazio Hubert Westkemper per aver condiviso, con attenzione, cura e disponibilità, ricordi, riflessioni e delucidazioni tecniche sulla collaborazione con Luca Ronconi, in conversazioni private e nell’incontro pubblico Il suono della scena, tra parole e musica, nell’ambito del Convegno di studi “Ho sempre preferito non lasciare traccia. Luca Ronconi tra scena, vita e archivio”, Sapienza Università di Roma, 21-23 maggio 2024.
Note
[1] Elenco degli spettacoli teatrali di Ronconi per cui Westkemper ha curato il suono: Ignorabimus, 1986; Dialoghi delle Carmelitane, 1988; Le tre sorelle, 1989; Gli ultimi giorni dell’umanità, 1990; Venezia Salva, 1994; I giganti della montagna, 1994; Re Lear, 1995; Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1996; Davila Roa, 1997; La vita è sogno, 2000; Le Baccanti, 2002; Le Rane, 2002; Prometeo incatenato, 2002; Troilo e Cressida, 2006; Lo specchio del diavolo, 2006; Atti di guerra: una trilogia, 2006; Il Ventaglio, 2007; Il Panico, 2013; Celestina, 2014; Danza macabra, 2014; Lehman Trilogy, 2015.
[2] Nato a Francoforte, Hubert Westkemper si è laureato nel 1981 in ingegneria del suono presso l’Università delle Arti di Berlino; trasferitosi in Italia, ha condotto sperimentazioni nel campo del suono applicato soprattutto al teatro. Per uno sguardo sulla carriera dell’artista tedesco (che comprende anche il lavoro per l’associazione Agon e l’attività pedagogica presso l’Accademia di Brera di Milano) si veda il sito web https://www.hubertwestkemper.com/ (da qui in avanti, tutti gli hyperlinks riportati si intendono consultati in ultima data il 6 marzo 2025).
[3] Tra le collaborazioni più importanti, oltre quelle coi citati Wilson (Come In Under The Shadow Of This Red Rock, 1994; Persephone, 1995) e Stein (Tat’jana, 2000), si possono ricordare quelle con Elio De Capitani (Visi noti, sentimenti confusi, 1984; I Turcs Tal Friul, 1995), Irene Papas (Antigone, 2005), Valerio Binasco (E la notte canta, 2008) e Mario Martone (Operette morali, 2011; La serata a Colono, 2013); nel campo del teatro in musica, si segnala la partecipazione alle opere Blimunda (1990) e Divaria (1993), entrambi a partire da testi di José Saramago e su musiche di Azio Corghi, all’azione musicale Cronaca del luogo (1999) di Luciano Berio, e ai lavori Il letto della storia (Fabio Vacchi, 2003) e Gesualdo (Luca Francesconi, 2004) con la regia di Giorgio Barberio Corsetti.
[4] Ignorabimus, Fabbricone di Prato, 1986; regia di Luca Ronconi, scene di Margherita Palli, costumi di Vera Marzot, luci di Sergio Rossi, suono di Hubert Westkemper. Con Edmonda Aldini, Delia Boccardo, Marisa Fabbri, Annamaria Gherardi e Franca Nuti. Produzione Teatro Regionale Toscano, Teatro Comunale Metastasio di Prato.
[5] Qui Ronconi, fra 1976 e il 1978, aveva vissuto la feconda, ma al contempo contraddittoria esperienza del Laboratorio di Progettazione Teatrale, insieme, fra gli altri, a Gae Aulenti, Ettore Capriolo, Umberto Eco, Dacia Maraini e Franco Quadri.
[6] Lo spettro evocato è portatore di un’oscura verità: il tradimento perpetrato da una moglie ai danni del marito morente, da cui derivano una serie di conseguenze tragiche che segnano il destino della stirpe che dalla donna discende. La verità sembra adombrare la fine nella fiducia nelle possibilità della conoscenza umana e la fine di un mondo incontaminato, fagocitato dall’incombenza della città. Al naturalismo temporale (le dodici ore di spettacolo) fa da contraltare la sua sovversione sul piano scenico, dal momento che i personaggi maschili sono interpretati da attrici-donne.
[7] Alcuni esempi sonori da Ignorabimus sono ascoltabili all’indirizzo web gruppoacusma.sciami.com/audio-suono-vocalita/.
[8] Sul rapporto tra teatro, riqualificazione di spazi urbani e tessuto cittadino, si veda Aulenti 1977, 4-22. In un passaggio del testo, Aulenti scrive: “Essi sono luoghi autonomi che si propongono come momenti particolari di quell’insieme di attività che è la comunicazione teatrale, luoghi dove si attesta il primo rapporto Teatro-Territorio. Questa attività è critica: si prende gioco delle gerarchie e delle divisioni che il territorio impone cosicché Teatro, Banca, Capannone industriale, Orfanotrofio, Cementificio diventano tutti luoghi di comunicazione, e all’interno di queste tipologie, il teatro esercita la sua attività indifferente alle convenienze dei generi, dei soggetti, dei fini di questi edifici” (Aulenti 1977, 8).
[9] Gli ultimi giorni dell’umanità, di Karl Kraus (Die letzten Tage der Menschheit), traduzione di Ernesto Braun e Mario Carpitella. Regia di Luca Ronconi, regista collaboratore Angelo Corti; scene di Daniele Spisa, costumi di Gabriella Pescucci, suono di Hubert Westkemper, luci di Sergio Rossi. Gli attori coinvolti furono oltre sessanta; lo spettacolo fu prodotto in collaborazione con Lingotto srl. Dello spettacolo venne realizzata una versione radiofonica, trasmessa da RadioTre il 10 marzo 1991, e una versione televisiva, con la regia dello stesso Ronconi, trasmessa da RaiDue il 23 settembre 1991 per il ciclo “Palcoscenico ’91”.
[10] Le informazioni sono tratte dal “Copione con indicazione dei movimenti” del direttore di scena Giordano Mancioppi, conservato presso l’Archivio del Centro Studi del Teatro Stabile di Torino (consultabile all’indirizzo web archivio.teatrostabiletorino.it/occorrenze/411-gli-ultimi-giorni-dellumanita-1990-91; tra i materiali a disposizione, oltre i copioni annotati, le piante della ex Sala Presse, la rassegna stampa e le foto di scena, si segnalano i documenti del coordinamento tecnico: pianta dei binari, pianta praticabile generale, disposizione carri e macchine stampa, locomotive e carri - movimentazione, macchine stampa, richiesta attrezzeria militare, elenco attrezzeria e attrezzeria minuta, diario priorità direttore di scena, ipotesi movimentazione, posizione attori, richieste attrezzeria, elenco attrezzeria, movimenti carri con attori, sequenze scene e tecnici, movimenti spettacolo B-N, movimenti spettacolo – colori, attrezzeria da preparare, attrezzeria da preparare bis, carrellini in sequenza, disegni attrezzeria, movimenti ad personam, movimenti carrellini e gabbie, movimenti carrellini, distribuzione personale per scene, elenco maestranze per lettera, elenco maestranze per ruoli, movimenti di tutto spettacolo, movimenti di tutto spettacolo – scritto a mano).
[11] La versione televisiva del dramma è visibile all’indirizzo web youtube.com/watch?v=L110ibOsg3s.
[12] L’informazione è desunta dall’elenco delle maestranze impegnate nello spettacolo, conservato presso l’Archivio del Centro Studi del Teatro Stabile di Torino archivio.teatrostabiletorino.it/occorrenze/411-gli-ultimi-giorni-dellumanita-1990-91.
[13] Prometeo incatenato, Teatro Greco Siracusa, 2002; regia di Luca Ronconi, scene di Margherita Palli, costumi di Gianluca Sbicca e Simone Valsecchi, luci di Gerardo Modica, suono di Hubert Westkemper, musiche a cura di Paolo Terni. Con Riccardo Bini, Franco Branciaroli, Giovanni Crippa, Laura Marinoni, Galatea Ranzi, Luciano Roman e Lele Vezzoli. Produzione INDA (Istituto nazionale del dramma antico) e Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. Lo spettacolo fu ripreso al Piccolo Teatro nella stagione 2002/2002, con inevitabili e significative modifiche alla scenografia dovute allo spazio chiuso.
[14] Il Panico, Piccolo Teatro Strehler di Milano, 2013; di Rafael Spregelburd, traduzione di Manuela Cherubini; regia di Luca Ronconi, scene di Marco Rossi, costumi di Gianluca Sbicca, luci di A.J. Weissbard, suono di Hubert Westkemper, trucco e acconciature di Aldo Signoretti. Interpreti: Maria Paiato, Francesca Ciocchetti, Fabrizio Falco, Paolo Pierobon, Valentina Picello, Valeria Milillo, Riccardo Bini, Iaia Forte, Sandra Toffolatti, María Pilar Peréz Aspa, Alvia Reale, Clio Cipolletta, Elena Ghiaurov, Manuela Mandracchia, Bruna Rossi e Lucrezia Guidone. Produzione: Piccolo Teatro di Milano / Teatro d’Europa.
[15] Westkemper sottolinea infatti che scostando lo spettatore dalla posizione centrale – in cui dovrebbe essere posizionato in teatro per ascoltare correttamente ciò che proviene dell’impianto stereo “si compromettono facilmente le delicate differenze temporali dei due segnali audio, dando all’ascoltatore la sensazione di sentire unicamente la cassa più vicina a lui (o quella di sinistra o quella di destra). Questo fenomeno è ben noto come ‘Effetto Haas’. Considerando la larghezza della platea del Teatro Strehler, in cui andava in scena Il Panico, e quindi la notevole distanza di buona parte del pubblico dal centro sala, si può comprendere quanto la stereofonia sia una tecnica poco adatta a grandi platee, soprattutto per segnali monofonici, come quelli dei radiomicrofoni” (Westkemper, Petruzziello 2015, 53).
[16] La WFS arrivò in Italia dopo tre anni di sperimentazione condotta dallo stesso Westkemper e grazie al supporto dell’azienda napoletana 3D Sound Image, che importò la tecnologia prodotta dalla Sonic Emotion di Zurigo. La WFS fu usata da Ronconi e Westkemper anche nello spettacolo Celestina (2014).
[17] Per un’ampia disamina del funzionamento della Wave Field Synthesis, e degli altri software di spazializzazione a essa connessi, si veda il contributo di Hubert Westkemper in: hubertwestkemper.com/wavefield-synthesis/. Per una disamina sulla WFS in relazione alla creazione sonora si veda Corteel, Caulkins 2004.
[18] Vedi Sterne 2003 e Sterne 2012; per una disamina degli sviluppi dell’acoustic turn si veda Braun 2017.
[19] Il campo di ricerca che nasce dall’incontro tra studi teatrali e sound studies è un territorio in fermento per quanto ancora frammentato e ancora lontano dal riconoscimento accademico allargato; oggetto di studio privilegiato è la dimensione sonora del teatro di parola, ossia tutto quanto concerne voce, musica, rumore, silenzio nel teatro di prosa e che va dall’acustica dei luoghi di spettacolo, alla produzione, riproduzione, diffusione e amplificazione del suono, fino alle pratiche di ascolto. Esemplificativi dei suoi recenti sviluppi sono Kendrick, Roesner 2011, Larrue, Mervant-Roux 2016, Curtin, Roesner 2016, Bennett 2019.
[20] La definizione è ripresa in Rost 2016, in cui si mette in discussione l’assunto secondo il quale le recenti pratiche del sound design e della gestione fonica degli effetti sonori siano non solo antitetiche, ma anche gerarchizzabili.
Riferimenti bibliografici
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English abstract
This article investigates the distinctive contributions of Hubert Westkemper to Luca Ronconi’s dramaturgical trajectory through the medium of sound design, with particular reference to productions realised in non-traditional spaces (Ignorabimus, 1986; Gli ultimi giorni dell’umanità, 1990), in open-air settings (Prometeo incatenato, 2002), and through the use of Wave Field Synthesis technology (Il Panico, 2013). An analysis of these works suggests the need to move beyond the conventional dichotomy between sound design as a theoretical discipline and sound engineering as a practical craft, acknowledging the extent to which these domains are frequently entangled and mutually constitutive in practice. Westkemper’s sound designs for Ronconi can thus be regarded as sonic performances, in which technical expertise, technological advancement, spatial acoustic sensitivity, an informed engagement with the surrounding soundscape, and aesthetic intentionality all collaborated together to support – or enter into a dynamic dialogue with – the dramaturgy, the physical presence of the actors, and the perceptual experience of the audience, ultimately contributing to the sonic architecture of each performance.
keywords | Ronconi; Sound Design; Spatialization; Audio Technology.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Simone Caputo, Hubert Westkemper e il suono degli spettacoli teatrali di Luca Ronconi, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.