Luca Ronconi, eredità e memorie
La storia orale come metodo di ricerca e di didattica
Arianna Morganti, Donatella Orecchia*
English abstract
1 | La schermata principale del sito web “Patrimonio orale”.
I. Premessa
Nel quadro del dibattito intorno alla documentazione del teatro e della performance, da anni ormai l’attenzione di molti studi si concentra, piuttosto che sulla ricostruzione dell’opera (evento effimero), sui processi, i contesti, le dinamiche sociali, politiche, economiche e produttive, i saperi e le loro tradizioni. Accanto a questi campi, sta assumendo via via sempre maggiore importanza lo studio della memoria e delle memorie, interne ed esterne al teatro (Meldolesi 1989): come si racconta e come si ricorda la vita teatrale, il mestiere, le relazioni, le pratiche? E quali sono le fonti utili per interrogarsi su questi aspetti? Quali racconti ha lasciato chi c’era attraverso le cronache e le autobiografie, le lettere e le interviste, quei documenti che, tesi fra il passato di cui narrano e il presente in cui narrano, si proiettano verso il futuro (Orecchia 2013)? Talvolta sono documenti che si tingono di un’utopia di durata, che forse tende a contrastare la percezione di labilità che questi linguaggi portano con sé.
Molti studi, inoltre, si sono concentrati sulla permanenza della memoria nei corpi. Meldolesi ci ha insegnato la centralità della memoria del corpo come memoria delle memorie, capace di rilevare mentalità diffuse, oltre che attiva nei processi di trasmissione e di creazione del sapere e del fare teatrale (Meldolesi 1984). Raimondo Guarino ci ricorda che è proprio nei teatri asiatici che risulta evidente ciò che nella cultura europea è nascosto fra l’altro “dall’artefatta presunzione della naturalezza dell’espressione attorica”: la memoria fisica, la memoria incorporata (Guarino 2008, 94). Diana Taylor ha proposto di guardare al repertorio come alla permanenza, nelle riscritture dei corpi, delle culture performative (Taylor 2003); Rebecca Schneider ci invita a ragionare su ciò che resta diversamente e sulle pratiche del re-enactment (Schneider 2011); Lepecki richiama l’attenzione su ciò che “persists through memory, through corporeality, through remembering” (Lepecki 2010); Heike Roms suggerisce di studiare gli archivi degli artisti come luogo di eredità condivisa e affettiva del “body of work”(Roms 2013) e altrove di attingere alle memorie orali degli artisti e degli spettatori (Roms, Edwards 2011); Jonah Westerman propone di spostare l’enfasi da ciò che la performance è (la sua ontologia) a come appare e si muove attraverso spazi fisici e digitali, o strutture burocratiche e schemi concettuali (Giannachi, Westerman 2018).
Fra le molte tipologie di fonti di memoria, in questo contributo faremo riferimento alle fonti orali, fonti che hanno caratteristiche peculiari: sono orali, appunto, e sono costruite in modo relazionale, frutto dell’incontro in presenza fra chi fa la ricerca e il o la testimone. Nello scambio di sguardi (inter\vista), di domande e di risposte, di parole e corpi, si costruisce insieme il documento. Sono quindi fonti di una memoria narrativa e incorporata contemporaneamente e, insieme, di una memoria che si riattiva nello scambio relazionale.
Trasmettere alle generazioni di studenti e studentesse di oggi il valore e il senso di una ricerca che deve fare i conti con la peculiarità delle fonti orali sul teatro e con la responsabilità che ciascuno di noi ha nei processi di memoria è uno degli obiettivi di molti dei progetti didattici avviati negli ultimi dieci anni sui metodi della storia orale. Da una di queste esperienze ha origine il nostro contributo dedicato alla memoria di Luca Ronconi.
Le pagine che seguono hanno dunque un duplice obiettivo: chiarire dapprima l’impostazione teorico metodologica e affrontare alcune questioni chiave, in una prospettiva attenta a intrecciare il piano della ricerca a quello della didattica; raccontare, poi, un’esperienza di storia orale sull’eredità culturale e artistica di Luca Ronconi, realizzata nel 2021 a Roma con un gruppo di studentesse e di studenti universitari in collaborazione con Ormete, l’Università di Roma Tor Vergata, il Teatro di Roma e Dominio pubblico. La prima parte sarà a cura di Donatella Orecchia, la seconda di Arianna Morganti, che allora fece parte del gruppo di studentesse e di studenti coinvolti nel laboratorio.
II. La storia orale come metodo di ricerca e di didattica
Mettere al centro di una relazione didattica esperienze di storia orale sollecita studenti e studentesse, da un lato, a sviluppare un’attenzione particolare verso la critica delle fonti documentali, dall’altro, ad assumersi la responsabilità del proprio punto di vista coinvolto nei processi di studio e di apprendimento. Innanzitutto, nella pratica della storia orale si fa esperienza di un aspetto: le fonti che si raccolgono sono sempre il risultato di un processo nel quale chi fa ricerca ha ruolo autoriale (rinvio per questi temi a Portelli 1999, Perks, Thomson 2016). La fonte non si trova in archivio, ma si crea nella relazione fra chi intervista e chi narra: entrambe le soggettività sono chiamate in causa (i gusti, i linguaggi, i corpi, le credenze, le emozioni…). L’esperienza (soggettiva) della costruzione di fonti orali dischiude così a un’altra conoscenza; rende evidente ciò che ogni fonte storica è, il frutto di un processo fatto di scelte, selezioni, parzialità, e non un documento di oggettiva verità (anche Guarino 2008, 153-154). La soggettività si rivela dunque una possibilità e non un limite.
La pratica della storia orale permette poi di prendere consapevolezza di un altro aspetto fondamentale dei processi storici (e storico-artistici): che la storia è fatta da uomini e da donne simili a noi, ai nostri studenti e alle nostre studentesse, da molti e molte che spesso non hanno voce nelle grandi narrazioni. Raccogliere i loro racconti permette di moltiplicare i punti di vista rispetto al passato, di illuminare aspetti non conosciuti (e riconosciuti). Nelle ricerche sul teatro contemporaneo, questo può significare dare rilievo a figure spesso considerate marginali nelle ricostruzioni storiche e, tuttavia, di fondamentale importanza nella vita teatrale e artistica: dalle varie maestranze tecniche, agli organizzatori, agli spettatori comuni, agli attori comprimari… Moltiplicare i punti di vista ha come obiettivo riconoscere la complessità del fatto teatrale, anche quando si tratta, come nel progetto che illustreremo in queste pagine, dell’indagine su un grande protagonista della scena. Educa, e ci educa, a ricordarci che la vita teatrale non è solo quella di pochi artisti protagonisti (autori, registi, attori o performer), ma è una realtà complessa, che vede la partecipazione di molte diverse figure. In che misura la ricerca storica può rendere conto della polifonia di punti di vista tipica delle dinamiche collettive? Cosa succede quando le voci non protagoniste, solitamente ignorate dai resoconti storici, vengono invece incluse? In che modo questo influisce sulla nostra lettura critica del passato?
Un altro insegnamento che possiamo trarre è certamente lo spostamento del focus dell’interesse dall’oggetto (lo spettacolo, la performance) ai processi storici che lo definiscono e ridefiniscono nei vari contesti e, soprattutto, ai processi di sedimentazione del ricordo. Da questo punto di vista, risulta poco rilevante sottolineare l’effimero dell’evento teatrale o performativo e l’assenza dell’opera, di qualcosa di solido, cioè, di cui occuparsi (Schino 2018). Ecco, dunque, che sgombrerei il campo da un primo possibile malinteso. Il lavoro sul campo di storia orale non ha tanto l’obiettivo di rintracciare, attraverso i racconti dei testimoni, dettagli utili a ‘ricostruire’ l’opera in modo da avvicinarsi a una supposta verità originaria. L’interessante non è tanto raggiungere quell’evento passato per come fu realmente, ma il suo perdurare in altro modo nella mente, nel corpo, nei sogni, nel linguaggio di chi l’ha vissuto e poi di coloro che ne hanno ereditato la memoria.
La pratica della storia orale è inoltre una grande palestra di ascolto. Si ricorda per qualcuno, insieme a qualcuno. Ascoltare in modo attivo permette la condivisione di esperienze. Significa non solo accogliere, ma anche essere accolti, essere riconosciuti dall’altro (il testimone/narratore) come un soggetto, interlocutore degno di ereditare, quando sia possibile, un sapere. Suggerisce inoltre l’idea che il teatro sia qualcosa che ci riguarda; che ereditare comporti un atteggiamento attivo, di presa in carico e di cura.
D’altra parte, nel processo dialettico del ricordare, si apprende anche un metodo, si allena la capacità di fare memoria e si matura poco alla volta l’idea che si è responsabili anche del modo in cui il nostro presente sarà ricordato in futuro.
In particolare, ripensare alla storia del teatro come a una storia che viene riscritta sotto la pressione delle urgenze della contemporaneità, obbliga a chiedersi quali siano tali urgenze (cognitive, politiche, culturali, artistiche), come possano interagire e informare gli incontri con i/le testimoni in tutto il processo costruttivo delle fonti: dalla scelta dei narratori, a quella del luogo in cui realizzare l’intervista, dai temi che si intendono affrontare, alla postura del proprio corpo durante l’incontro, fino alla cura della fonte e alle modalità della sua conservazione. Educa, cioè, gli studiosi e le studiose di oggi e di domani ad essere protagonisti del proprio presente e delle sue urgenze (culturali, politiche, artistiche) per affrontare in modo attivo la lettura del passato e quella del futuro.
III. Lo spettacolo infinito. Luca Ronconi
Il lavoro sull’eredità culturale di Luca Ronconi è certo un campo particolarmente stimolante. Per la rilevanza della sua personalità nel teatro del secondo Novecento, per l’ampio numero di figure da lui incrociate nel corso della sua carriera, per i ruoli di direzione rivestiti, per l’impatto di alcuni spettacoli sull’immaginario collettivo italiano, per l’influenza su un’intera generazione di teatranti. A ciò si aggiunga poi per la rilevanza del lavoro compiuto sul suo archivio che ne rafforza e ne rilancia la centralità culturale. Le fonti orali in questo caso specifico possono intrecciarsi agli altri materiali di archivio, moltiplicare i punti di vista sul suo percorso artistico e, soprattutto, illuminare le relazioni, i processi creativi, gli aspetti meno conosciuti del mestiere. Dal punto di vista didattico questo progetto, costruito con la stretta collaborazione fra Ormete, il Dipartimento di Storia, Patrimonio culturale, Formazione e Società dell’Università di Roma Tor Vergata, il Teatro di Roma e la partecipazione di Dominio pubblico, è stata l’occasione per fare incontrare una generazione di studenti e di studentesse, che non ha conosciuto direttamente i lavori di Luca Ronconi perché troppo giovane, con chi ha avuto un’esperienza artistica accanto a lui. In particolare, l’obiettivo è stato anche quello di lavorare sul contesto romano: sulla città in cui gli studenti e le studentesse coinvolti vivono oggi, sul teatro che sono soliti frequentare, ma di cui non conoscono la storia.
C’è tuttavia ancora un altro aspetto che ha reso questo progetto così particolare. L’idea di Luca Ronconi di uno spettacolo infinito, capace di proseguire nell’esperienza del singolo spettatore oltre la fine dell’evento, erodendo i confini spazio-temporali, è stato un punto di partenza condiviso da tutti i partecipanti. L’esperienza che ciascuno avrebbe vissuto negli incontri sarebbe stata così la presa in carico di quell’idea e la sua espansione, anche oltre quanto immaginato da Luca Ronconi. Un modo per rielaborare la memoria di un’esperienza ben oltre i limiti temporali della stessa e così espandere il teatro oltre il palcoscenico e oltre la serata. Lascio dunque la parola ad Arianna Morganti che è stata protagonista dell’esperienza laboratoriale da me condotta e che ora, a distanza di anni, vi ha fatto ritorno con un altro sguardo e altra consapevolezza.
IV. Tracce preliminari del progetto
Il progetto “La memoria del teatro – Luca Ronconi e Roma” ha visto protagonisti otto studenti e studentesse universitari/e di Roma Tor Vergata e di Roma La Sapienza e si è realizzato fra aprile e giugno 2021. Una prima fase degli incontri è stata dedicata alla formazione propedeutica alla storia orale di noi studenti; una seconda alla preparazione e quindi alla raccolta delle interviste ai testimoni; infine, è stato effettuato un lavoro di curatela delle fonti attraverso la loro metadatazione, utile per l’archiviazione e la consultazione attraverso il portale Patrimonio Orale (www.patrimoniorale.ormete.net) [Fig. 1]. Alcuni frammenti delle testimonianze hanno poi nutrito e ampliato la mostra “Ronconi e Roma”, realizzata dal Teatro di Roma in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina e allestita negli spazi del Teatro Valle, dal 6 maggio al 20 giugno 2021.
L’obiettivo del progetto era quello di avviare una prima riflessione sull’eredità di Luca Ronconi, a partire dal fertile rapporto con Roma e lo stabile capitolino, attraverso un lavoro sul campo di storia orale compiuto da noi giovani. Nella prima fase, l’individuazione dei venti testimoni è avvenuta con il supporto degli uffici del Teatro di Roma e non ci ha visti direttamente coinvolti se non nella definizione dei criteri di scelta. Per garantire il più possibile la molteplicità dei punti di vista, abbiamo seguito il principio della varietà (di genere, di professione, di ruolo): maestranze, tecnici, collaboratori, attori e attrici, spettatori e spettatrici, tutti ugualmente ‘protagonisti’ della storia sono diventati i nostri interlocutori. Li ricordo qui di seguito: Milo Adami, Claudio Beccaria, Emiliano Bronzino, Alessandra Faitelli, Angelo Ferro, Antonio Gonsalez, Manuela Mandracchia, Clara Margani, Giorgio Maulucci, Chiara Piola Caselli, Ottaviano Pompozzi, Galatea Ranzi, Alvia Reale, Franco Ripa di Meana, Daniele Salvo, Gianluca Sbicca, Luca Scivoletto, Sandra Toffolatti, Valentino Villa, Hubert Westkemper (per una disamina dettagliata dei profili biografici di ciascun testimone, rimando alla pagina Patrimonio Orale – Luca Ronconi). Divisi in coppie, abbiamo quindi realizzato le interviste, spesso negli spazi messi a disposizione dal Teatro di Roma, seguendo i protocolli che nella fase propedeutica ci erano stati illustrati e che rispettano le buone pratiche condivise dall’associazione internazionale dell’Oral History e da quella italiana dell’AISO [Fig. 2].
2 | Interfaccia del progetto di storia orale "La memoria del teatro. Luca Ronconi e Roma". Nella parte inferiore dell’immagine, sono visibili le sezioni descrittive utilizzate per l’upload online delle interviste.
A queste fasi collettive, si aggiunge ora, a distanza di quattro anni, un altro tempo: di ri-ascolto, ri-costruzione e ri-attivazione delle interviste realizzate. Una fase solitaria, di riflessione sullo scambio avvenuto allora, di ripensamento del mio ruolo. Cosa ho appreso? Cosa mi ha suggerito l’incontro con i testimoni? Che significato possono assumere quelle fonti orali, se ora cambia il contesto in cui vengono interrogate? Quali urgenze noi ventenni abbiamo portato dentro il progetto? D’altra parte, ritornare su quelle venti interviste mi ha costretta a spostare il punto di vista, a guardare attraverso la soggettività dell’altro qualcosa che avevo letto nei libri. Tempi non finiti, memoria in movimento e in fuga: le fonti orali vivono in questo campo d’attrazione, con la tensione ad attraversare e ricostruire momenti che non per forza coincidono con la storia del teatro scritta e depositata, ma che hanno avuto un impatto sul vissuto personale del testimone.
V. Primo. Il teatro è cosa materiale
Cosa succede se la voce narrante non è quella del protagonista, ma appartiene a chi normalmente è fuori scena? Ricordo un primo esempio. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana ha debuttato al Teatro Argentina il 20 febbraio 1996 con la regia di Luca Ronconi. La messinscena ha evidenziato una duplice dimensione operativa. Sul piano della regia, si è concretizzata nella gestione di un elevato numero di attori e figuranti, nell’indagine storica del contesto degli anni Trenta, del regime fascista e della città di Roma, e nella stimolazione di una comunicazione dinamica tra palcoscenico e platea. Sul piano dell’analisi testuale, la regia ha comportato un’espansione dei confini drammaturgici, integrando materiali narrativi e letterari (per un’analisi approfondita di tali aspetti, rimando a Marchetti 2016, 41-56). Buona parte degli studi su questo, come su altri spettacoli, si è concentrata principalmente sulle fonti documentali, scritte e fotografiche (interviste a Ronconi, suoi appunti di regia, recensioni, fotografie di scena…) che mettono in luce il punto di vista autoriale del regista, quello della critica del tempo, quello dei fotografi ufficiali.
Se però spostiamo il punto di vista e interroghiamo un capo macchinista, cosa muta? La testimonianza orale di Claudio Beccaria, capo macchinista, tecnico e costruttore di molti impianti scenografici nelle regie di Luca Ronconi, dallo Stabile di Torino al Teatro di Roma, ci dice quanto il teatro sia il frutto di uno sforzo collettivo e di un lavoro tecnico meticoloso. Dopo venticinque anni, i suoi ricordi, che si soffermano per lo più sulla fase di preparazione degli spettacoli, si rapprendono in immagini nitide, ci restituiscono i dettagli di un lavoro pratico e materiale, fatto di misure precise, di calcoli, di oggetti e movimenti di scena definiti nel dettaglio. Nessuna interpretazione rispetto al significato. Una descrizione aderente alla materialità delle cose e dei gesti: come sono e come si muovono. L’oggetto ha delle misure (“[riferendosi a I fratelli Karamazov] Anche lì ce stavano ‘ste dodici casette carrellate, erano 4mx4m, alte 5 metri”); i movimenti sono precisamente definiti (“tutta una pedana con le guide, perché lì sopra ci stavano delle panche e dei tavolini, che venivano avanti, si giravano, facevano un sacco di movimenti”) [Fig. 3][2].
3 | Esempio di visualizzazione di un’intervista metadatata.
E poi c’è l’orgoglio di essere protagonista di quella parte della creazione, con la propria presenza in primo piano, sottolineata più volte. Riascoltandolo, a poco a poco comprendo meglio cosa significhi un sapere legato alle pratiche, un teatro come arte collettiva, un’autorialità che forse non è mai isolata dal resto. D’altra parte, Luca Ronconi in un’intervista con Gianfranco Capitta affermò: “ho sempre rifiutato, facendo marcia indietro, il concetto di autore […]. Il teatro è soprattutto un lavoro di collaborazione, molto meno di ‘autorialità’” (Ronconi, Capitta 2012, 7). Sembravano parole. Ora riesco a dare loro un contenuto.
VI. Secondo. Il non-metodo
Non sempre sarà possibile circoscrivere in maniera definita i temi affrontati nelle interviste. L’incontinenza della memoria è intrinseca alla metodologia della storia orale, gli argini posti dalle domande vengono spesso travalicati. Nel momento in cui viene stabilita con l’intervistatore una relazione di fiducia e di ascolto reciproco, i testimoni, un po’ per partecipare soggettivamente al dialogo, un po’ per sollecitare un gioco di riconoscimenti e di reminiscenze, si spingono oltre il richiesto, “sviluppando una propria pista ermeneutica” (Cavaglieri 2003, 131). Anche questa è stata per noi un’esperienza: realizzare in prima persona quanto la ricerca storica sia poco prevedibile, quanto l’ascolto, anche di ciò che non avevamo preventivato, permetta la scoperta.
Un primo elemento che, ad un ascolto complessivo delle testimonianze raccolte, spicca è certamente questo: nonostante il lavoro di Luca Ronconi non nasca “dall’applicazione di una teoria” (Ronconi [1999] 2016, 41), i testimoni ricostruiscono i propri ricordi consegnandoci una visione omogenea del suo teatro. Fra un’intervista e l’altra si tendono dei fili, i temi si richiamano, mentre esperienza personale e memoria della scena si intrecciano indissolubilmente (Bortoletti, Sacchi 2018). Anche al di là delle nostre domande, alcune tematiche ritornano con insistenza. Per esempio, la questione del metodo/non-metodo, un tema d’altra parte caro anche a Ronconi (per un’indagine analitica rimando a Longhi 2021, 25-32) e più volte ricordato nel suo Prove di autobiografia (Ronconi 2019).
Per questo ho qualche fastidio a parlare di metodo […]. Non esiste un metodo da applicare a una drammaturgia perché la drammaturgia per me non è solo l’opera scritta, ma il complesso di relazioni che legano l’autore, l’organizzatore, l’impresario, il pubblico, la committenza eccetera (Ronconi 2019, 215).
Proprio nel tentativo di spiegare il suo non-metodo, Luca Ronconi ci racconta qui del suo modo di lavorare e si sofferma su due questioni: la sua idea espansa di drammaturgia, da un lato; il suo modo di intendere il teatro come processo collettivo, dall’altro. Il metodo non c’è, pare dire Ronconi, nella misura in cui lo si intenda come qualcosa di autonomo dalla prassi. D’altra parte, la prassi in teatro è un processo collettivo che investe le relazioni. La drammaturgia stessa non è solo il testo, ma si espande fino ad abbracciare tutte le componenti del teatro. Molte interviste riprendono questi temi. Ne ricordo due: la prima a Manuela Mandracchia, attrice storica di Luca Ronconi, e la seconda a Daniele Salvo, attore e assistente alla regia in molti spettacoli firmati dal regista, da Aminta di Torquato Tasso (1994) a Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare (2008).
Non si può parlare di un vero e proprio metodo. Non aveva un metodo che gli permettesse di portare gli attori a interpretare i personaggi e i testi in un certo modo. Non si può parlare di un metodo. Certo di una tipicità, sì, cioè di un caratteristico modo di affrontare il testo, di leggere i testi. Questa era la cosa più potente e straordinaria di lui come regista. Irriproducibile d’altra parte. La mancanza di un metodo non ti permette di prenderlo autonomamente, utilizzarlo e riutilizzarlo. Quella che puoi riutilizzare è l’esperienza di una grande esplorazione testuale[3] .
È qualcosa di irripetibile, faceva parte della sua sensibilità […]. Luca aveva un approccio che… sì, era ripetibile tecnicamente, cioè nell’analisi del testo, nella sensibilità, nel lavoro sull’accentazione, sul ritmo, però di per sé la sensibilità che aveva Luca era sua, non era trasferibile in qualche modo. Anche se c’erano… come dire, delle chiavi, che lui in qualche modo ha consegnato ad alcuni suoi collaboratori, di lettura dei testi[4].
Manuela Mandracchia e Daniele Salvo ci dicono che il metodo-Ronconi in qualche misura esiste, ma solo nella prassi. È irriproducibile, ma l’esperienza che se ne fa può essere poi riutilizzata. Emiliano Bronzino, a lungo assistente alla regia di Luca Ronconi, completa il quadro e per altre vie ci riporta alla dichiarazione da cui son partita.
La sua analisi e la sua scomposizione della forma sonora-ritmica della frase per trasmettere il pensiero attraverso la gestione del suono e del ritmo della frase era una dimostrazione totalmente analitica e scientifica, tra virgolette, in qualche maniera precisissima di come si dovesse rappresentare sulla scena il pensiero. […]. Questa componente qua più razionale di Ronconi, nella mia esperienza, stando di fianco a lui, si mischiava anche con grandissimo artigianato della messinscena. Per artigianato della messinscena dico proprio una prassi [...]. C’è una cosa che non funziona, per quanto abbia un pensiero precisissimo, un pensiero analitico dietro, se non funziona, non si utilizza, perché vince sempre, comunque, il palcoscenico su qualsiasi pensiero pregresso, uno. Due: i metodi per arrivare a ottenere quel risultato a volte non erano diretti, per cui mi è capitato più volte che lui mi dicesse cose che poi non diceva agli attori e mi dicesse anche che quelle cose non dovevano essere dette agli attori, perché gli attori ci dovevano arrivare per altre vie[5].
Bronzino mette in relazione la lettura del testo con le necessità della scena, la componente intellettuale e razionale con la prassi, le esigenze interpretative con la concretezza artigianale. L’idea del metodo allora si sdoppia: non uno, ma due metodi, sempre in relazione. E poi Bronzino ricorda anche la strategia messa in atto da Ronconi per realizzare i suoi obiettivi, che contemplava il metodo indiretto. Forse la dialettica metodo/non-metodo potrebbe essere tradotta in modo diverso: un modo di operare che, essendo relazionale e strettamente legato alla prassi, non poteva che essere flessibile, capace di coniugare razionalità e intuito e di investire non solo “l’opera scritta, ma il complesso di relazioni che legano l’autore, l’organizzatore, l’impresario, il pubblico, la committenza eccetera”. A distanza di anni, è come se quel modello, niente affatto ideale e tutto reale, lievitasse e segnasse i contorni netti di una artigianalità del teatro, fatta di esperienze e di relazioni, che sotterraneamente trasmettono dei modi di operare. “Ciò che importa è che il viaggio si compia: cioè, che l’opera si compia. E mentre vediamo che si compie, scorgiamo la struttura del suo modello reale” (Milanese 1973, 12).
VII. Terzo: lo spazio e il montaggio scenico
Il mio discorso d’ora in avanti si concentrerà solo su due tematiche che attraversano molte delle interviste raccolte: lo spazio e lo spettacolo infinito. Nel primo caso, sarà soprattutto lo sguardo interno dei teatranti a guidarci; nel secondo, interrogheremo in particolare lo sguardo esterno, quello degli spettatori e delle spettatrici.
Lui mi ha insegnato proprio l’artigianato di come si gestisce lo spazio scenico, della prossemica, del significato, della gestione dei piani di azione all’interno del palcoscenico e la gestione temporale di ciò che è lo spazio scenico. Queste sono le due grandi lezioni che mi ha dato anche perché sono forse le sue più grandi lezioni di teatro[6].
Sono ancora parole di Emiliano Bronzino che individuano ora il centro del magistero di Luca Ronconi nel suo modo di gestire lo spazio scenico, inteso sia come spazio dell’azione e sia come spazio nella sua relazione con il tempo. E, ancora una volta, l’artigianato torna a segnare un elemento costante, che qui si incontra con un altro aspetto, la relazione necessaria fra palco e platea. Quale che sia il luogo del palcoscenico (il tradizionale palcoscenico all’italiana del Teatro Valle oppure i capannoni di Infinities), gli spazi sono l’occasione per sperimentare sempre nuovi rapporti comunicativi fra palcoscenico e platea.
Sullo spazio, lui rivoluziona, diciamo, elimina qualsiasi preconcetto si abbia sulla gestione dello spazio, fino, appunto, a ritornare a una gestione dello spazio semplicissimo, con quarta parete e un solo palcoscenico. Utilizza qualsiasi luogo per fare teatro, con una grandissima consapevolezza di che cosa si instauri dentro l’attenzione dello spettatore, grazie alla relazione che c’è tra palcoscenico e platea, qualsiasi sia il palcoscenico, qualsiasi sia la platea. Quindi, si passa dal Teatro Argentina, utilizzato come un classico teatro all’italiana, a ex capannoni con cinque sale, utilizzati per Infinities[7].
E se il palcoscenico “è la porzione di un qualcosa […] uno spiraglio e non un punto d’osservazione totale. Non è un mondo, ma – ripeto – uno spiraglio” (Ronconi 2019, 249), allora lo spazio include la platea e altro ancora, oltre il palco e oltre il tempo chiuso dello spettacolo. Bronzino non parla mai di opera aperta, ma io inizio a dare concretezza a quell’idea.
Con Claudio Beccaria, capo macchinista, il punto di vista si sposta, si fa più concreto e preciso, come ho scritto in precedenza: non solo i materiali, le misure, gli oggetti, ma anche gli eventi sono esperienze di qualcuno. In relazione alla prima di Quer pasticciaccio a Roma, Beccaria ricorda con precisione la parete che cade all’improvviso e le strategie adottate per permettere agli attori di non farsi male.
Quando abbiamo fatto er fattaccio de Via Merulana [Quer pasticciaccio brutto de via Merulana], che facevo cadere questa parete da 10mx6m, dove sotto ce stavano, se me ricordo, se non me sbaglio, 28 persone, dove io avevo fatto i segni delle scarpe dove ognuno doveva arrivare e si doveva fermare. […] Quando veniva giù ‘sta parete, era una cosa impressionante, il pubblico rimaneva a bocca aperta. A parte il vento che veniva giù […]. Ricordo questo, che alla prova generale, siccome il datore luce aveva aggiunto dei porta gelatina, delle bandiere, a un proiettore, quando ho mandato giù la parete, si è fatto un po’ di rumore, perché ha toccato una bandiera e uno delle comparse scappò dal palcoscenico[8].
Colpisce soprattutto un dettaglio: il “vento che veniva giù”. Quella parete che cade non è una strana immagine astratta, sterilizzata: è calata dentro un contesto in cui uomini e donne, attori attrici spettatori spettatrici tecnici sono presenti, con i loro corpi. C’è la paura e c’è anche il vento che veniva giù.
Una testimonianza decisamente interessante per la forza con cui apre la riflessione sulla relazione fra spazio e suono è quella di Hubert Westkemper. Sound designer che, a partire dal 1986 con lo spettacolo Ignorabimus, avvia il sodalizio con Luca Ronconi. Durante il lungo percorso con il regista, Westkemper ha curato l’ambientazione sonora di molte produzioni nei più disparati spazi scenici, dalla conversione in senso teatrale di strutture non teatrali (Manzella 1987), come il Fabbricone di Prato e l’Ex Sala Presse del Lingotto di Torino, alla gestione pratica di palcoscenici tradizionali come, il Teatro Argentina di Roma e il Piccolo Teatro Strehler di Milano. Westkemper affronta la questione dello spazio da una prospettiva pratica e materiale, legata alla profondità acustica e alla localizzazione corretta del suono e della voce microfonata in teatro. Da quest’angolatura, il suono amplificato non è un arredo estetico, ma ha una sua valenza espressiva, diventa strumento indispensabile nella costruzione dello spazio scenico in cui agisce il corpo dell’attore e dello spazio visivo e percettivo del pubblico.
Il periodo romano tutto sommato è stato un periodo molto tranquillo, perché, come diceva anche Ronconi, il palcoscenico, la graticcia, sono una bella invenzione. Lui, a parte che era ironico, autoironico, sapeva apprezzare la comodità. Qui stavi seduto, in platea, in delle poltroncine comode e le cose si svolgevano sul palcoscenico. […] Non sono mai stati spettacoli facili […] Il lavoro grosso che è stato fatto sia nel Re Lear, nel Pasticciaccio e in Alcesti di Samuele. Lui usava sempre tutto il palcoscenico fino in fondo, in fondo, in fondo. Quindi c’era una profondità che acusticamente non era gestibile. Uno dei lavori grossi era quello di amplificare le voci per portarle verso il pubblico, che stava a 30/40 metri di distanza. Oltre al fatto che non c’erano ancora i microfoni di grande qualità, l’amplificazione ha una pecca enorme: appiattisce quello che senti. […] Il problema vero è dove amplifico la voce […] Se si fa un’amplificazione che si fa abitualmente di mettere una cassa a sinistra e una a destra e da lì esce il suono, se un attore sta a 30 metri di profondità e io sento la voce, mi manca completamente il nesso, non identifico neanche da dove arriva la voce. Quindi il lavoro che ho fatto in quel periodo… ero diciamo fissato sulla localizzazione corretta della provenienza del suono, perché più coincide quello che vedi con quello che senti acusticamente e quello che senti attraverso un impianto, meglio è, perché non facciamo conferenze, ma facciamo appunto teatro, dove la bella profondità visiva deve corrispondere a qualcosa di simile anche dal punto di vista elettro-acustico[9].
Questa volta il rapporto palco-platea è indagato attraverso il paesaggio sonoro e la sua definizione. La chiarezza della costruzione scenica passa attraverso la giusta localizzazione del suono e di come questo viene percepito dall’esterno.
VIII. Quarto: un teatro a memoria futura: lo spettacolo infinito
Il palcoscenico come luogo attraversato dall’opera, se lo si intende come spazio, consiste nei dodici metri del boccascena, come tempo, nelle due ore, due ore e mezzo concesse dagli orari dei mezzi di trasporto. […] Solo così, pare, può avere luogo quell’amplesso con la platea, quell’identificazione totale in cui, per molti, consiste il vero senso del teatro. Più volte accusato di essere uno sprezzatore del pubblico – ma non è vero, semmai sono un sostenitore della sua libertà –, continuo a pensare che quell’amplesso non esista e che la ricchezza della comunicazione teatrale sia ancora viva proprio perché è impossibile un simile abbraccio completo e appagante (Ronconi 2019, 22).
Un tratto peculiare del teatro di Luca Ronconi è lo spettacolo infinito, capace di estendersi e dilatarsi oltre lo spazio e il tempo dell’evento. Anche per questo motivo, il palcoscenico è per il regista un luogo di passaggio “per lo spettacolo e per il tragitto emotivo e intellettuale” (Ronconi 2019, 21) che compie mettendolo in scena. Lo spettatore, immerso in questo universo scenico in continua espansione, diventa un attivo costruttore di significato, scegliendo il proprio percorso associativo e soffermandosi sugli elementi che più lo colpiscono. L’esperienza visiva e mentale che ne deriva non si esaurisce nel tempo scenico dell’evento, né richiede una comprensione immediata e globale della rappresentazione. Piuttosto, in un tempo extra-scenico, lo spettatore sviluppa una riflessione personale a partire dai concetti e dai personaggi dell’opera, ricostruendone il significato complessivo. Nel 1996, in piena direzione dello stabile capitolino, Luca Ronconi in un’intervista con Stefania Chinzari rilasciata per “l’Unità”, dichiara: “Sono contrarissimo all’idea che uno spettacolo debba impadronirsi totalmente dell’attenzione dello spettatore. Rivendico un diritto alla distrazione, all’alzarsi in piedi, uscire, tornare […]. Personalmente, ho cercato di dare una struttura alla licenza di distrazione dello spettatore seguendo un mio ideale di allestimento che è quello che permette la fuga” (Ronconi, Chinzari 1996, 31). Di volta in volta, Ronconi crea itinerari spettacolari e percettivi: accanto alla relazione dentro/fuori scena, spazio della finzione/spazio della realtà, importante per lui è instaurare un rapporto provocatorio e diretto con lo spettatore, affinché compia il suo viaggio.
Era un’esperienza potente, perché ne sentivi la stratificazione, anche dentro di te. Era anche il tuo spettacolo […]. Mi ricordo la sensazione di uscire fuori dal teatro, I sei personaggi in cerca d’autore mi aveva dato questa sensazione, in silenzio, cioè non avere niente da dire, essere un po’ frastornati, positivamente frastornati da quello che avevi visto. Ecco del teatro, questa esperienza un po’, diciamo, primitiva, primigenia nel senso essere di fronte improvvisamente… si apre un qualcosa che non avevi mai visto e che ti sovverte un po’ le budella. Quell’esperienza teatrale che è un po’ di pancia, un po’ meno di testa, sicuramente con gli spettacoli di Ronconi ho imparato a conoscerla e sono molto geloso di quel silenzio[10].
I ricordi sono di Milo Adami, ora documentarista e ricercatore, al tempo studente di liceo e attivo partecipante dei laboratori promossi da Sandro Piccioni durante la direzione ronconiana del Teatro di Roma. La testimonianza di Adami supera il “problema Ronconi” (Monaco 1974, 7), quindi il gigantismo macchinistico, le operazioni teoriche, il neobarocchismo, per privilegiare un’esperienza teatrale vissuta a livello emotivo, piuttosto che intellettuale. Durante l’intervista, Milo Adami accosta il silenzio post-spettacolo al mutismo dei reduci di trincea, rievocando le riflessioni di Walter Benjamin in Esperienza e povertà: un silenzio che incarna l’inesprimibile e l’intensità dell’esperienza vissuta. Più avanti, confessa di non ricordare alcun dettaglio scenografico degli spettacoli visti, fatta eccezione per l’allestimento di Lolita sceneggiatura al Piccolo Teatro di Milano (2001). Vivida in lui è l’esperienza vissuta come spettatore, “curioso, con i sensi aperti”[11], interpretando attivamente la forma teatrale ricercata da Luca Ronconi: “il mio spettacolo ideale, è un obiettivo perennemente in fuga, non necessariamente quello che si coglie per intero in quel determinato spazio e in quel determinato tempo” (Ronconi 2019, 21).
Da un lato in continuità con questa testimonianza, anche Clara Margani, docente in pensione, si autodefinisce “spettatrice attiva”[12], per indicare sia il coinvolgimento durante la fruizione dello spettacolo, inclusi i momenti di tensione accumulata, sia il tempo dedicato alla ri-elaborazione successiva. E poi sottolinea un’esperienza molto particolare da spettatrice: l’insicurezza. Come Brecht che invitava allo stupore, così Clara Margani ci ricorda che l’insicurezza ci muove al di là del previsto, ci sposta altrove, apre la possibilità della conoscenza. Per questo “gli spettacoli di Ronconi hanno lasciato un segno”: di lì “si è aperto un mondo, un’altra situazione”[13], la scoperta di una lettura testuale inedita, lo spiazzamento come esperienza spettatoriale. L’insicurezza, la paura, l’emotività, l’incertezza sono tutti elementi attivi di lettura di uno spettacolo. L’esperienza di Clara Margani si configura come un percorso di coinvolgimento totale, dove la sfera emotiva e la dimensione intellettuale si intrecciano indissolubilmente.
IX. Un progetto che prosegue
Dopo alcuni anni dalla fine del laboratorio romano, su proposta di Marta Marchetti, dell’Università di Roma La Sapienza, Ormete, il Teatro Stabile di Torino e il Piccolo Teatro di Milano hanno accolto l’idea di proseguire la ricerca sul campo. Hanno preso l’avvio così altri due progetti su Luca Ronconi a Torino e a Milano che proseguiranno l’indagine, ciascuno con un proprio orientamento, tutti attraverso i metodi della storia orale. Ciò che certamente ha caratterizzato il primo passo di questo percorso è stato il suo orientamento prevalentemente didattico. In un tempo in cui il teatro tende a diventare nella società contemporanea sempre più marginale, chiedere alle giovani generazioni la responsabilità di ereditare e di confrontarsi da protagonisti con la storia e con chi ne è stato attore, è forse una delle possibilità per non perdere completamente il senso del nostro fare di studiosi e studiose e dei tanti uomini e donne di teatro che ancora agiscono e creano.
Note
[*] I paragrafi I, II, III e IX sono di Donatella Orecchia; i paragrafi IV, V, VI, VII e VIII sono di Arianna Morganti.
[2] 00:17:58 – 00:18:40. Intervista a Claudio Beccaria di Barbara Berardi e Federica Ferraro, 31 maggio 2021, Teatro India, Roma, in La memoria del teatro. Luca Ronconi e Roma – Patrimonio orale.
[3] 00:02:40 – 00:03:37. Intervista a Manuela Mandracchia di Barbara Berardi e Federica Ferraro, 20 maggio 2021, Teatro Argentina, Roma, in La memoria del teatro. Luca Ronconi e Roma – Patrimonio orale.
[4] 00:22:23 – 00:23:09. Intervista a Daniele Salvo di Massimiliano Davies e Arianna Morganti, 13 maggio 2021, Sala Enriquez, Teatro Argentina, Roma, in La memoria del teatro. Luca Ronconi e Roma – Patrimonio orale.
[5] 0:12:37 - 00:16:10. Intervista a Emiliano Bronzino di Barbara Berardi e Federica Ferraro, 13 maggio 2021, Piattaforma Zoom, in La memoria del teatro. Luca Ronconi e Roma – Patrimonio orale.
[6] 01:14:05 – 01:14:28. Intervista a Emiliano Bronzino, cit.
[7] 01:15:12 – 01:16:17. Intervista a Emiliano Bronzino, cit.
[8] 00:10:14 – 00:11:22. Intervista a Claudio Beccaria, cit.
[9] 00:20:25 – 00:24:12. Intervista a Hubert Westkemper di Claudia Raboni e Francesca Zetto, 18 maggio 2021, Teatro Argentina, Roma, in La memoria del teatro. Luca Ronconi e Roma – Patrimonio orale.
[10] 00:14:09 – 00:15:32. Intervista a Milo Adami di Massimiliano Davies e Arianna Morganti, 1° giugno 2021, Piattaforma Zoom, in La memoria del teatro. Luca Ronconi e Roma – Patrimonio orale.
[11] 00:30:24. Intervista a Milo Adami, cit.
[12] 00:12:22. Intervista a Clara Margani di Massimiliano Davies e Arianna Morganti, 20 maggio 2021, Sala Enriquez, Teatro Argentina, Roma, in La memoria del teatro. Luca Ronconi e Roma – Patrimonio orale.
[13] 00:51:07 – 00:51:22. Intervista a Clara Margani, cit.
Riferimenti bibliografici
- Bortoletti, Sacchi 2018
F. Bortoletti, A. Sacchi, La performance della memoria. La scena del teatro come luogo di sopravvivenze, ritorni, tracce e fantasmi, Bologna 2018. - Bronzino 2015
E. Bronzino, Il mio maestro: ricordo di Luca Ronconi, “Mimesis Journal” 4 (2015), 17-26. - Carlotto, Ponte di Pino 2021
R. Carlotto, O. Ponte di Pino (a cura di), Regìa Parola Utopia. Il teatro infinito di Luca Ronconi, Macerata 2021. - Cavaglieri 2003
L. Cavaglieri, Invito al teatro di Luca Ronconi, Milano 2003. - Giannachi, Westerman 2018
G. Giannachi, J. Westerman (eds), Histories of Performance Documentation: Museum, Artistic, and Scholarly Practices, London-New York 2018. - Guarino 2008
R. Guarino, Il teatro nella storia: gli spazi, le culture, la memoria, Roma-Bari 2008. - Lepecki, 2010
A. Lepecki, The Body as Archive: Will to Re-Enact and the Afterlives of Dances, “Dance Research Journal” 42 (2010), 28-48. - Longhi 2016
C. Longhi (a cura di), La regia in Italia, oggi: per Luca Ronconi, “Culture teatrali: studi, interventi e scritture” 25 (2016). - Longhi 2021
C. Longhi, Cours de mise en scène générale. Piccolo breviario del (non-)metodo Ronconi, in R. Carlotto, O. Ponte di Pino (a cura di), Regìa Parola Utopia. Il teatro infinito di Luca Ronconi, Macerata 2021, 25-32. - Manzella 1987
G. Manzella, Il teatro di Penelope. Architetture Teatrali Due, “Patalogo” 10 (1987), 149-151. - Marchetti 2016
M. Marchetti, Guardare il romanzo: Luca Ronconi e la parola in scena, Catanzaro 2016. - Milanese 1973
C. Milanese, Luca Ronconi e la realtà del teatro, Milano 1973. - Meldolesi 1984
C. Meldolesi, La microsocietà degli attori. Una storia di tre secoli e più, “Inchiesta” 67 (1984), 102-111. - Meldolesi 1989
C. Meldolesi, L’attore, le sue fonti, i suoi orizzonti, “Teatro e Storia” 7 (ottobre 1989), 199-214. - Monaco 1974
V. Monaco, Interrogativi su Luca Ronconi, “l’Unità” (27 aprile 1974), 7. - Orecchia 2013
D. Orecchia, “Evento vissuto” ed “evento ricordato”: la memoria e il teatro. Linguaggi e strategie della narrazione tra fine Ottocento e inizio Novecento, “Biblioteca teatrale” 105-106 (2013), 73-90. - Orecchia, Cavaglieri 2018
D. Orecchia, L. Cavaglieri, Fonti orali e performance, Bologna 2018. - Orecchia, Cavaglieri 2018
D. Orecchia, L. Cavaglieri, Memorie sotterranee. Storia e racconti della Borsa di Arlecchino e del Beat 72, Torino 2018. - Portelli 1999
A. Portelli, L'ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma 1999. - Passerini 1985
L. Passerini, Storia e soggettività: Le fonti orali, la memoria, Firenze 1985. - Perks, Thomson 2016
R. Perks, A. Thomson. The Oral History Reader 3rd ed., London 2016. - Ricœur 2003
P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano 2003. - Ricœur 2012
P. Ricœur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L'enigma del passato, Bologna 2012. - Roms 2008
H. Roms, What's Welsh for Performance? Beth yw 'performance' yn Gymraeg? An Oral History of Performance Art in Wales 1968-2008, Cardiff 2008. - Roms, Edwards 2011
H. Roms, R. Edwards, La storia orale come pratica site-specific: localizzare la storia dell’arte performativa in Galles, in S. Trower (a cura di), Luogo, scrittura e voce nella storia orale, New York 2011, 171-191. - Roms 2013
H. Roms, Archiving Legacies: Who Cares for Performance remains?, in G. Borggreen, R. Gade (eds), Performing Archives / Archives of Performance, Copenhagen 2013, 35-52. - Ronconi 1994
L. Ronconi, A proposito di istituzioni, “Patalogo” 17 (1994), 123-127. - Ronconi [1999] 2016
L. Ronconi, Il mio teatro [1999], ora in C. Longhi (a cura di), La regia in Italia, oggi: per Luca Ronconi, “Culture teatrali: studi, interventi e scritture” 25 (2016), 41-51. - Ronconi 2005
L. Ronconi, Ero un attore, che poi si è messo a fare il regista, “Patalogo” 28 (2005), 246-247. - Ronconi 2019
L. Ronconi, Prove di autobiografia, a cura di G. Agosti, Milano 2019. - Ronconi, Capitta 2012
L. Ronconi, G. Capitta, Teatro della conoscenza, Roma 2012. - Ronconi, Chinzari 1996
L. Ronconi, S. Chinzari, Ronconi e la tivù “Gli spettatori? Uno e centomila”, “l’Unità” (3 gennaio 1996), 31. - Schino 2018
M. Schino, Un luogo incerto. Riflessioni a partire da un progetto di fonti orali sul training all’Odin Teatret, in L. Cavaglieri, D. Orecchia (a cura di), Fonti orali e teatro. Memoria, storia, performance, Bologna 2018, 77-112. - Schneider 2011
R. Schneider, Performing remains: art and war in times of theatrical reenactment, Londra-New York 2011. - Taylor 2003
D. Taylor, The Archive and the Repertoire. Performing Cultural Memory in the Americas, Durham 2003.
English abstract
This article aims to explore the relationship between oral history methodologies applied to live performance and the transmission of theatrical knowledge to new generations. The first part of the paper, authored by Donatella Orecchia, will intertwine research and teaching practices, clarifying the theoretical and methodological framework and identifying key issues, such as the importance of oral memory, to illuminate the complexities of ephemeral theatre, and oral sources, considered here as repositories of theatrical knowledge, to explore the centrality of experiential narratives, and the multiplicity of perspectives in constructing the memory of live performance. In this context, the experience of 12 young university students engaging with the cultural and artistic legacy of Luca Ronconi can serve as a particularly interesting example of a project able to intertwine research and teaching, in which memory is constructed and inherited. In line with this, the second part of the paper, authored by Arianna Morganti, will explore specific aspects of that experience and will include a partial analysis of the audio documents uploaded to the “Patrimonio Orale” platform. Therefore, this paper will illustrate how practices of oral memory and the use of oral sources can be used to explore the lasting memory of a master like Luca Ronconi, addressing the issue of knowledge transmission.
keywords | Oral History; Luca Ronconi; Oral Heritage.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Arianna Morganti, Donatella Orecchia, Luca Ronconi, eredità e memorie. La storia orale come metodo di ricerca e di didattica, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.