"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

224 | maggio 2025

97888948401

Luca Ronconi nel Patalogo

Renata M. Molinari

English abstract

1 | Patalogo 1 (1979).

Che cos’era il Patalogo? Il Patalogo era l’annuario dello spettacolo – ideato, diretto e ‘costruito’ da Franco Quadri e pubblicato dalla sua Ubulibri – che ha documentato per più di tre decenni quello che avveniva nel teatro italiano e non solo, a partire dalla stagione 1977-1978. Com’era costruito il Patalogo? C’era il resoconto della stagione teatrale, cioè l’elenco degli spettacoli prodotti e presentati in Italia nella stagione considerata, poi i Festival, le pubblicazioni, i ‘casi’, le polemiche, i premi, ovviamente i premi UBU, in testa. Poi c’erano delle sezioni che progressivamente sono andate definendosi come ‘speciali’: inizialmente erano gli spettacoli dell’anno, poi le tendenze del teatro (non solo in Italia) infine sono diventate lo Speciale. Ho coordinato il Patalogo per un certo numero di anni e poi quando sono venuta via sono stata gratificata col ruolo – tanto caro al mio cuore – di suggeritrice dello Speciale. Ed è proprio questa esperienza di suggeritrice, a volte “suggeritrice speciale”, che mi porta ogni tanto a tornare su quelle pagine: torno a interrogarle, a volte a stupirmi. Ho pensato di tornare lì, anche per questo ricordo di Luca Ronconi.

Oltre trent’anni di Patalogo: inizialmente pubblicati ogni dieci anni, poi con una cadenza sempre più ravvicinata, a suggello di particolare fase di lavoro o sotto la pressione del cambiamento (dei cambiamenti) avvertiti nel mondo dello spettacolo. Accadeva una sorta di chiamata, agli artisti, ai critici, agli amici, invitati dalla redazione a fare una sorta di bilancio: Cosa salveresti in questo decennio? Quali sono le nuove forme di regia, dove va la ricerca? Un bilancio fatto coinvolgendo i protagonisti e i fruitori o promotori del teatro. Il primo sostanziale cambiamento strutturale avviene nel Patalogo 20, per iniziativa di Oliviero Ponte di Pino che decide di creare un indice dei primi venti numeri dell’annuario, diviso per titoli, artisti, tendenze. Un indice che poteva essere soltanto, come lo definì Franco Quadri e in rispetto al suo metodo, “sragionato”.

Sfogliando l’indice (di cui fieramente conservo l’originale nella mia biblioteca-archivio, La Bottega dello Sguardo, a Bagnacavallo) è ben visibile la presenza, in ogni anno, di Luca Ronconi: c’è per lo spettacolo dell’anno, come regista pluripremiato, come ‘caso pubblico’; c’è perché interpellato o provocato da domande, c’è come fuoco o motore di una tendenza. Luca Ronconi c’è, ininterrottamente. Accanto a lui, a intervistarlo, raccontarlo, svelarlo, l’altro, fedele amico e attento spettatore: Franco Quadri. Un binomio quello tra Ronconi e Quadri che ci ha consentito (e ci consente oggi), di vivere e leggere tanto teatro del secondo Novecento, fino ai nostri ultimi decenni.

La ricerca alla base di questo contributo, un percorso nel Patalogo[*] sulle tracce di Ronconi, è stata una scoperta. Sfogliando le pagine, gli occhi mobili affollati di immagini, di parole, di volti, si andava fissando qualcosa di inedito, la visione di un regista monumentale (Ronconi) dentro un’opera monumentale (Patalogo), lungo un tempo lunghissimo.

Il Patalogo 22 (1999) era dedicato a “Un anno e quasi un secolo di teatro”. La consueta struttura dell’annuario – una pagina per ogni anno, dal 1900 al 1977 cui seguiva “l’indice sragionato dei fatti più rilevanti nel bene e nel male”, due al massimo tre eventi o figure di riferimento – era seguita, o raddoppiata, da una particolare sezione, intitolata “Quasi un secolo – Speciale dedicato al Novecento”, a cura di Ettore Capriolo, collaborazione di Fausto Malcovati, Renata Molinari, Olivero Ponte di Pino, Franco Quadri. In questo racconto di “quasi un secolo” di teatro, Franco Quadri sigla il racconto di due spettacoli di Luca Ronconi, l’Orlando furioso (1969) e l’Orestea (1972), con due motivazioni che hanno poi guidato la mia ricerca. La prima, dall’Orlando Furioso, è un invito “alla riscoperta del meraviglioso”, ma soprattutto all’“incontro fra i molti che guardano e i quaranta che recitano” (Quadri 1999a, 298). E il motivo del rapporto con il pubblico è uno dei temi costanti sollecitati nel Patalogo dai contributi che Ronconi destina all’annuario. La seconda, dall’Orestea, è la ricerca della “tradizione perduta” (Quadri 1999b, 302), quell’insistenza sulle origini, quel tempo in cui il teatro aveva una necessità, inscritta nello spazio di incontro tra attore e spettatore. E la necessità è un altro motivo che ritorna, insistentemente, nelle riflessioni di Luca Ronconi.

2 | Patalogo 22 (1999).
3 | Patalogo 10 (1987).

Dalla prospettiva suggeritami da Quadri, dal suo modo di leggere il teatro, ho proseguito dunque la ricerca di tutti quei frammenti, dichiarazioni, interventi di Luca Ronconi, presenti nei vari Pataloghi. Nel rileggerli tutti – e non nascondendo una certa fatica emotiva nel rivivere il dialogo di Luca e di Franco – ho scoperto perle che ogni amante del teatro o con l’ossessione degli archivi vorrebbe ammirare; domande e riflessioni tutte tese ad esplorare il rapporto attivo fra memoria e futuro.

Dopo che il Patalogo 1 (1979) aveva documentato in tutti i modi il Laboratorio di Prato, dopo che c’erano state Le Baccanti, Spettri, Fedra,Commedia della seduzione, Le due commedie in commedia, Ignorabimus, nel Patalogo 10 troviamo uno speciale: Cronaca di un decennio. Centosette frammenti di storia del teatro (Patalogo 1987, 229-276). Alla domanda: “Che cosa salveresti in un’ideale e ipotetica storia del teatro?”, Gae Aulenti – e qui trasgredisco riportando parole che non sono di Ronconi – risponde: “Salverei due monumenti e semplicemente sceglierei il Patalogo di Franco Quadri e Ignorabimus di Luca Ronconi” (Aulenti 1987, 231). Ultima trasgressione, per Claudio Meldolesi, che accanto agli artisti, promotori del rinnovamento del teatro, ‘salva’ “Luca Ronconi, per il vagabondaggio geniale della sua ricerca” (Meldolesi 1987, 262). Trovo piacevolmente opportuno che Claudio Meldolesi parli di “vagabondaggio geniale”, un riferimento ad un particolare status in cui è compresa (e torna) tutta l’esperienza – non negli stessi anni, ma comune – di allievo attore all’Accademia di Roma, esperienza dei maestri ed esperienza di mestiere. Ma nel Patalogo 10 c’è anche un intervento diretto di Luca Ronconi, che riguarda La memoria:

È difficile dire cosa salvare o cosa ricordare. In questi dieci anni, mi pare, si è data più attenzione alle persone che non alle cose che fanno, meno allo spettacolo che all’attore o all’artista. È dunque difficile pensare a cosa salvare: forse sono stati dieci anni abbastanza senza storia, e comunque si tratta di una storia teatrale talmente frammentata, talmente dispersa che è difficile pensare quali sono veramente gli spettacoli di questi anni. Possiamo forse descrivere e ricordare gli itinerari di alcune persone. In realtà la tendenza che porta a parlare delle opere sarebbe migliore. Ma forse è proprio questa una caratteristica dei dieci anni appena passati. Comunque avrei difficoltà a ricordare se lo spettacolo che ho visto è di sette anni fa, o di dieci o di due: quello che mi interessa è la persona che li ha fatti, molto più di quanto succedeva in altri momenti. Del resto sono pochissime le cose che sono state fatte e in cui mi identifico. E poi, le dobbiamo salvare perché rappresentano questi dieci anni oppure perché non li rappresentano? (Ronconi 1987, 271)

Sottolineo questo quesito metodologico: è un elemento che tornerà in altre sue dichiarazioni, e in molte polemiche che hanno riguardato i suoi spettacoli, soprattutto nel rapporto col pubblico e le istituzioni. Prosegue Ronconi:

Perché anticipano i prossimi o perché cercano di stabilire un legame con i precedenti? Non saprei dire. E poi, in cosa li salvi? Non sono film, non esiste una biblioteca degli spettacoli finiti o forse solo nella memoria di qualcuno…Allora forse, è meglio salvare la memoria degli spettacoli visto che gli spettacoli non si possono salvare. Si potrebbe forse dire quali sono gli attori da salvare: ma allora ti devi rassegnare a quelli che ancora vivono. Invece di dire quali sono le persone e gli eventi da ricordare, si dovrebbe dire a chi si permette di conservare la memoria [il corsivo è mio], chi può permettersi di ricordare. Allora prendiamo le dieci persone che più hanno collaborato per creare una memoria (Ronconi 1987, 271).

Queste tre domande che pone Ronconi oggi per me risuonano in maniera fortissima: parliamo di opere o di artisti? Scegliamo le opere o gli artisti perché rappresentano un periodo storico o perché non lo rappresentano? Per la loro attualità o inattualità? Poi l’ultima, fortissima. Chi può fare memoria del teatro, come? Parliamo di persone, opere, istituzioni?

4 | Patalogo 17 (1994).
5 | Patalogo 25 (2002).

Nel Patalogo 17, rispondendo a una delle questioni poste dalla redazione su Un’idea di teatro…, troviamo una articolata riflessione di Luca Ronconi, A proposito di Istituzioni, sul rapporto tra il teatro e le istituzioni e sul fatto che il dibattito sulle istituzioni prenda il sopravvento rispetto alla rilevanza culturale del teatro:

Oggi da noi si tende a riportare tutto alla querelle fra pubblico e privato, che a me non sembra fondamentale. […] La questione non è soltanto come un teatro sopravviva, quanto l’importanza che può o che dovrebbe avere. […] Secondo me, la situazione di inferiorità in cui vive il teatro italiano dipende dal fatto che nella diatriba politica e amministrativa si è persa l’attenzione alla rilevanza culturale. La rilevanza culturale del teatro ci riporta alla necessità di cui abbiamo detto prima, necessità e organicità, potremmo dire (Ronconi 1994, 123).

Ronconi riflette sul rapporto teatro-cultura nei decenni precedenti, torna agli anni Sessanta, a quel momento in cui in quegli anni il pubblico si riconosceva in una tendenza o in una possibilità e aggiunge:

Io continuo a non disperare sulla possibilità di un rapporto con il pubblico, purché non si tratti di un rapporto puramente numerico. È vero comunque che, altrove, esiste un pubblico Ma qui cosa si è fatto per costruirlo, per interessarlo? Da noi è sempre stata condotta una specie di campagna dissuasiva. Quante volte ci siamo sentiti dire che un certo spettacolo era ‘contro il pubblico’ soltanto perché magari cercava di rivolgersi a un pubblico migliore? (Ronconi 1994, 123-127).

Su questo concetto insiste molto in queste pagine – uno dei più lunghi interventi di Luca Ronconi nel Patalogo:

Chi fa teatro è sempre un po’ ‘contro il pubblico’, ma in una maniera fertile. Se c’è identità ovviamente non c’è comunicazione: quando il pubblico si riconosce troppo in quello che vede potrà porsi un’identificazione, sostitutiva della comunicazione, che invece è necessaria nei fenomeni autenticamente culturali, dove l’attrito è indispensabile. L’accezione in cui viene usato il termine ‘intrattenimento’ – quando si parla di un teatro in cui il fenomeno di attrito, di stimolo, anche di provocazione, piacevole, ma necessariamente graduale, venga completamente dimenticato – denota solamente una ricerca di accettazione, di consenso, più che di un fecondo e teatrale rapporto di conflitto. In questo contesto ciò che si deve fare dipende anche dal ‘dove si è’ (Ronconi 1994, 123-127).

E qui Ronconi apre una lunga riflessione sul suo rapporto con le istituzioni teatrali, e soprattutto insiste sulla funzione culturale del teatro.

La cosa peggiore che c’è in Italia non è il teatro e la migliore non è il pubblico. Non si può rivalutare il teatro se non si riqualifica il pubblico, e lo puoi rivalutare solamente selezionandolo; non dico selezionarlo nel senso di stabilire dei buoni e dei cattivi, ma col diversificarlo secondo i vari tipi di teatro. Secondo me quella che chiamerei una mancanza di fisionomia del pubblico inevitabilmente ha portato a una mancanza di identità degli artisti di teatro: non sto parlando dei grandi, perché la qualità di un teatro non è data dalle punte, dai personaggi più riconoscibili, ma da quelli medi. Ora, il disorientamento esistente nel nostro teatro è veramente considerevole. Attori e registi pronti a passare da un’esperienza all’altra, senza che queste arrivino quasi mai ad essere tali: e molto spesso non lo sono, ma consistono in puri passaggi professionali (Ronconi 1994, 123-127).

La questione istituzionale e la questione del pubblico si intrecciano col cammino di un artista, “dentro, fuori, contro”; l’artista “è in rapporto con l’istituzione, ma non si identifica con l’istituzione” (Ronconi 1994, 124). E ancora “Il teatro nella nostra vita culturale è considerato tuttora un evento, un’eccezione senza una sua necessaria continuità (Ronconi 1994, 126). In questa tradizione, o convenzione:

L’istituzione diventa indispensabile, non perché costituisca un’opposizione al potere, ma perché rappresenta una continuità, della quale il nostro teatro, da sempre, è stato solo l’intermittenza.
I nostri teatri stabili non sono istituzioni; non basta il fatto che siano sovvenzionati a farne un’istituzione; e al di fuori di questi non si può dire che esista un altro teatro, ma tanti altri. L’autonomia di cui godono, potrebbe solo essere un privilegio, ma diventa una costrizione. L’attività della maggior parte dei giovani teatranti italiani risulta infelice, perché sono obbligati a un’autonomia che nasconde una libertà solo apparente: la maggior parte delle scelte che fanno sono forzatamente convenzionali, e non lo dico in senso dispregiativo, sono delle scelte soggette per necessità a un supporto di mezzi. D’altra parte anche le istituzioni non sono sufficientemente solide e ‘stabili’ da saper proteggere le istanze o le autonomie dei giovani. Quindi non essere nelle istituzioni diventa emarginazione e non autonomia. Questi giovani non sanno (forse non possono) trovare un rapporto corretto con l’istituzione. A me personalmente piaceva lavorare in libertà come tante volte ho lavorato, e credo che ormai non sia più consentito perché è possibile farlo solo qualora esista qualcosa di solido da un’altra parte. In passato spettacoli come L’Orlando furioso e L’Orestea abbiamo potuto farli perché esisteva un teatro come il Piccolo di Milano, un modello di teatro, magari soggetto a crisi ricorrenti, ma in cui ci si riconosceva, e in qualche modo quel tipo di teatro ci permetteva di sentirci parenti pur ispirandoci a estetiche teatrali diverse. Quelle che noi continuiamo a chiamare istituzioni teatrali sono nella nostra pratica o organismi di produzione o organismi di distribuzione. Qual è il fine istituzionale di certi stabili nella cultura italiana? Il servizio? Ma il servizio non è un’istituzione. L’università è anche un servizio, ma non è solo quello, è anche ricerca. Le richieste che attualmente vengono fatte ai nostri teatri stabili sono più o meno queste: o produci, o distribuisci, oppure aiuti qualcun altro a produrre. Il rapporto con la cultura nazionale dov’è, il rapporto con la lingua italiana qual è? con la memoria culturale italiana qual è, il progetto nella cultura italiana, o romana o torinese dov’è? (Ronconi 1994, 123-127).

Sulla scia di queste ultime considerazioni sui giovani artisti e sul loro smarrimento artistico, sul loro personale “dove si è?”, facciamo un altro salto di quasi dieci anni. Nel Patalogo 25, la domanda dello Speciale è: “Quale teatro per il 2003?” La risposta di Luca Ronconi, in dialogo con Franco Quadri, è raccolta sotto il titolo: Una scuola per giovani registi. Ronconi risponde con una riflessione sulla formazione e col sogno di un luogo dove si possa creare e studiare assieme, dove si possano mischiare percorsi diversi: è il Centro Teatrale Santacristina – ed è emozionante vedere come Ronconi, un attore che poi si è messo a fare il regista, ora rifletta in azione sul possibile ruolo della didattica nel territorio del teatro.

Di fatto mi interessava la formazione, ma io non sono per niente un didatta, capace di pensare all’insegnamento staccato dall’esperienza. Forse ha agito un riferimento in forma un po’ diversa a quella che è stata l’esperienza di Prato, pensando a quanto sia necessario per gli attori e per la loro formazione tecnica, cercare di acquistare una maggiore autonomia e conoscere i procedimenti della drammaturgia… Ho pensato così anche alla possibilità di contribuire in qualche modo alla crescita di giovani registi, un’attività che si esaurisce nel progettare più che nel realizzare. Mi piacerebbe trovare il modo di fare qualcosa in cui l’attenzione venga posta sulla possibilità di realizzare (Ronconi 2002, 287-289).

E prosegue:

Io ho sempre lavorato con attori giovani, ma molto spesso i registi giovani hanno avuto una certa timidità, forse anche travestita da rifiuto ideologico, a confrontarsi con attori di maggiore esperienza della loro e questo ha rischiato o rischia di portare a un reciproco inaridimento. In realtà, le esperienze si devono trasmettere, è anche giusto, è naturale che quelli della generazione più avanzata vampirizzino un pochino quelli più giovani, così come è utile che i più giovani, in qualche modo, sfruttino le esperienze di quelli più affermati. Ecco, l’idea è mettere insieme colleghi, oppositori, eredi e compagni di strada per fare qualcosa che non si debba necessariamente definire una scuola: si può definire scuola perché lo studio sarà l’attività prevalente, ma senza escludere che poi ai risultati dello studio si possa dare pubblicità, ma sempre mantenendo questo carattere. […] È difficile insegnare la regia. Secondo me ci sono due fattori importanti in questo lavoro: sapere inventare e sapere realizzare. Un’invenzione mal realizzata generalmente è un aborto, una capacità di realizzare senza supporto dell’invenzione è generalmente un’invenzione cattiva, ma c’è chi ne ha anche di buone… (Ronconi 2002, 287-289).

Ronconi torna poi sul laboratorio di Prato – “importante, difficile e anche conflittuale”:

Però quell’incrocio fra l’attività artistica e lo studio è difficilmente ripetibile in un momento come questo in cui credo che la ricerca non sia più, non possa più essere, un fatto di stile, un fatto di struttura e di forma, di forme, anzi; la mia impressione, puramente soggettiva è che oramai troppo spesso si pensa al rinnovamento come a un fatto stilistico, mentre credo che proprio il concetto stesso di stile, di modi esteriori, di modo di scrivere il testo, di modo di scrivere uno spettacolo siano leggermente logorati. […] Ho l’impressione che la ricerca debba orientarsi verso la possibilità non dico di nuove codificazioni, ma deve trovare una sua destinazione, uscire un po’ dalla facilità, trovare un rigore anche nelle strutture, nelle forme, nei modi e non soltanto nei prodotti, nei risultati… (Ronconi 2002, 287-289).

La forza della trasmissione e della formazione in un artista che non vuole fare l’insegnante, “perché rit[iene] che la regia non si possa insegnare, si può in qualche modo pilotare”, lasciando che i “giovani si prendano le proprie responsabilità, magari anche rispetto a un progetto di altri” (Ronconi 2002, 287). Questo pilotare verso l’assunzione di responsabilità è in qualche modo il ponte fra la memoria del primo intervento e il futuro col quale andiamo a chiudere.Ancora due interventi: uno nel Patalogo 29 in cui si parla delle Olimpiadi della cultura e del “Progetto Domani” (Patalogo 2006, 167-170). Tornano in mente, leggendo le parole di Ronconi, quello che Franco Quadri scriveva a proposito dell’Orestea: il rapporto con le origini, il rapporto con la tragedia, il suo (inevitabile?) riproporsi quando si affronta (s’impone) il tema della violenza (Patalogo 2006, 167-170).

Ci troviamo in un oggi in cui è caduta la fiducia in certi valori. Lo sguardo che diamo ai possibili futuri oscilla tra catastrofismo e ottimismo, probabilmente sconsiderati entrambi. Questo doppio sguardo, l’essere sospesi fra timore e speranza, porta la necessità di fare delle scelte, che è il tema sotteso appunto a tutti e cinque gli spettacoli, diversissimi tra loro ma uniti attorno a questo nodo […]. Mi sono formato nel ventesimo secolo, che è stato quello delle avanguardie, quando la letteratura e le altre arti, dalla musica al teatro, hanno preso se stesse come argomento. Hanno riflettuto sui propri linguaggi più che sulle proprie funzioni. Ora, francamente, non so se un possibile domani ci consigli di continuare a riflettere sul possibile sviluppo delle forme. E se ce ne sia una reale necessità. […] Penso un teatro che non debba avere per forza caratteri di novità, ma si accontenti, se possibile, di quelli di necessità. Che non si limiti a riesaminare le forme in cui parliamo quanto, piuttosto le ragioni di parlare che abbiamo (Ronconi 2006, 168).

6 | Patalogo 29 (2006).
7 | Patalogo 30 (2007).

Questo indagare “le ragioni di parlare che abbiamo” è un aspetto che troppo spesso è stato messo da parte, nell’indagare il teatro di Ronconi; come anche la particolare forma di impegno che trova la sua massima espressione nella formazione, anche per chi ha sempre dichiarato di non volere lasciare traccia. Ma che cos’è la formazione se non creare le condizioni affinché la traccia, anche anonima, diventi fertile? E questo aspetto della necessità, del prendere la parola, dell’essere realisti nell’utopia, lucidi nel sogno, è il collante di questi interventi lontani nel tempo e nei temi affrontati.

L’ultimo intervento, è tratto dal Patalogo 30. Sono passati vent’anni anni dallo Speciale dedicato al Cosa salvare, cosa ricordare? E ora la domanda è sul futuro. Il futuro come memoria, è il titolo dell’intervento di Luca Ronconi:

Non è la prima volta che mi viene chiesto di rispondere a una domanda sul futuro. Cercherò di farmi tornare alla mente quante volte mi è stata posta: ho un passato alle spalle. Una me la ricordo, mi hanno chiesto cosa mi aspetto dal teatro del futuro e ricordo più o meno il senso di quello che dissi, non so quanto tempo fa: il modello che mi sembrò più proponibile allora fu il combattimento dei gladiatori, senza che per questo si dovesse riaprire il Colosseo, ma non so neanche se oggi darei la stessa risposta. Forse adesso una domanda di questo genere cercherei di aggirarla e non me la sentirei per niente di fare delle previsioni: il futuro ti deve cascare addosso, pensare di poterlo predeterminare mi pare un atto un tantino presuntuoso. Non sappiamo mai cosa vorremmo che il futuro ci portasse o se pensiamo al futuro come risarcimento di qualcosa che non abbiamo avuto in passato. Meglio aspettarselo come qualcosa che ci capita, ci casca addosso e si trasferisce immediatamente in un presente. Se poi penso al nostro presente teatrale come se fosse il futuro di dieci-vent’anni fa invece di quello che è stato per se stesso e a dieci-vent’anni fa come il futuro di trenta-quarant’anni fa e a trenta-quarant’anni fa come al futuro di cinquanta-sessant’anni fa e così via, sono tutte scansioni di cui posso avere memoria, ma è abbastanza curioso vedere che memoria si ha delle esperienze fatte, degli spettacoli presentati, dei giudizi espressi, il futuro relativo, memoria e giudizio di quelli che sapevano. Passato e futuro si alternano molto spesso, si è portati a pensare che ci sia uno sviluppo lineare, ma c’è sempre una serie di piccoli eventi catastrofici. Prevedere il futuro è capzioso, si può dire qual è il futuro che ci piace: dirò allora che qualunque futuro mi piace purché risponda alla mia voglia di conoscerlo e non al piacere di viverlo (Ronconi 2006, 168).

Nota sul Patalogo open access

* I 32 volumi illustrati del Patalogo della Ubulibri (1979-2010) sono stati digitalizzati e sono consultabili online sul sito dell’Associazione Ubu per Franco Quadri.

Riferimenti bibliografici
  • Aulenti 1987
    G. Aulenti, Due monumenti, in Cronaca di un decennio. Centosette frammenti di storia del teatro, “Il Patalogo” 10 (1987), 231.
  • Meldolesi 1987
    C. Meldolesi, Aldilà dei confini, in Cronaca di un decennio. Centosette frammenti di storia del teatro, “Il Patalogo” 10 (1987), 262.
  • Quadri 1999a
    F. Quadri, Con l’“Orlando furioso” di Ronconi alla riscoperta del meravigioso, “Il Patalogo” 22, (1999), 298-299.
  • Quadri 1999b
    F. Quadri, L’“Orestea” di Ronconi: un kolossal alla ricerca della tradizione perduta, “Il Patalogo” 22, (1999) 302-303.
  • Patalogo 1979
    Patalogo 1. Annuario dello spettacolo Cinema Teatro Musica Televisione, a cura di F. Quadri e G. Buttafava, Milano 1979.
  • Patalogo 1987
    Patalogo 10. Annuario 1987 dello spettacolo. Teatro, a cura di F. Quadri, Milano 1987.
  • Patalogo 1994
    Patalogo 17. Annuario 1994 dello spettacolo, a cura di R. Molinari, F. Paracchini, O. Ponte di Pino, Milano 1994.
  • Patalogo 1997
    Patalogo 20. Annuario 1997 dello spettacolo, a cura di S. Merlini, C. Ventrucci, M. Marino, O. Ponte di Pino, P. Bogo, L. Scarlini, Milano 1997.
  • Patalogo 1999
    Patalogo 22. Un anno e un secolo di teatro. Annuario 1999 dello spettacolo, a cura di C. Ventrucci, L. Mello, M. Sessa Vitali, R. Marasco, A. Nanni, L. Scarlini, E. Capriolo, R. Molinari, O. Ponte di Pino, Milano 1999.
  • Patalogo 2002
    Patalogo 25. Quale teatro per il 2003? Annuario del teatro 2002, a cura di D. Aluigi, C. Di Lorenzo, B. Panzeri, M. Roncarà, A. Nanni, L. Scarlini, M.G. Gregori, J.P. Jourdain, P. Sourd, S. Carp, S. Wetzel, O. Ponte di Pino, Milano 2002.
  • Patalogo 2006
    Patalogo 29. I nomi dell’anno. Annuario 2006 del teatro, a cura di B. Panzeri, D. Pignedoli, A. Cagali, C. Ventrucci, M. Dammacco, M. Marchetto, L. Mello, M. Marino, F. Quadri, R. Molinari, Milano 2006.
  • Patalogo 2007
    Patalogo 30, Quale futuro per il teatro? Annuario 2007 del teatro, a cura di B. Panzeri, D. Pignedoli, A. Cagali, G. Tota Ballardini, R. Agostini, G. Fittipaldi, L. Mello, M. Marino, F. Quadri, R. Molinari, O. Ponte di Pino, Milano 2007.
  • Ronconi 1987
    L. Ronconi, La Memoria, in Cronaca di un decennio. Centosette frammenti di storia del teatro, “Il Patalogo” 10 (1987), 271.
  • Ronconi 1994
    L. Ronconi, A proposito di Istituzioni, in Un’idea di teatro…, “Il Patalogo” 17 (1994), 123-128.
  • Ronconi 2002
    L. Ronconi, Luca Ronconi. Una scuola per giovani registi, intervista a cura di F. Quadri, “Il Patalogo” 25 (2002), 287-290.
  • Ronconi 2006
    L. Ronconi, Intervista di Gianfranco Capitta su “Flair” (31 marzo 2006), in La stagione 2005/2006/I Festival – Italy Art. Le Olimpiadi della Cultura, “Il Patalogo” 25, 167-170.
  • Ronconi 2007
    L. Ronconi, Il futuro come memoria, in Quale teatro per il futuro? Speciale 2007, a cura di F. Quadri, R.M. Molinari, O. Ponte di Pino, “Il Patalogo” 30 (2007), 304.
English abstract

This contribution intends to explore Luca Ronconi’s presence in the Patalogo, a yearbook of the performing arts published from 1979 to 2010. Ronconi appears in all 32 volumes of this publishing project conceived by Franco Quadri. A director who rarely accompanied his work with theoretical notes, Ronconi offers in the Patalogo a number of insightful reflections on the meaning and languages of directing, the relationship between theater and audience, the idea of theatrical institutions, and on the role of the director.

keywords | Patalogo; Luca Ronconi; Franco Quadri.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Renata M. Molinari, Luca Ronconi nel Patalogo, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.