Due regie d’occasione
Il nemico di se stesso (1965) e Fedra (1969) di Luca Ronconi
Marco Beltrame
English abstract
La scelta di ricostruire due messinscene quali Il nemico di se stesso (1965) e Fedra (1969) nasce dalla constatazione che dei due spettacoli – unici approcci in tutta la carriera del regista alla drammaturgia latina – non solo ancora poco si conosce, ma nulla risulta conservato tra i documenti del Fondo Luca Ronconi, ordinato e inventariato dalla Soprintendenza archivistica e bibliografica dell’Umbria e delle Marche alla scomparsa del regista, e oggi in comodato d'uso presso l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale di Venezia.
Dunque, che cosa sappiamo oggi di questi allestimenti? Le recensioni apparse su quotidiani e riviste dell'epoca ci raccontano solo in parte gli spettacoli. Dove sono quei materiali archivistici come copioni, bozzetti di scena e di costumi, note di regia, fotografie e registrazioni audiovisive?
Il nemico di se stesso è la seconda regia firmata da Ronconi nell’estate 1965. Lo spettacolo, da un adattamento di Heautontimorùmenos di Publio Terenzio Afro realizzato da Ghigo De Chiara, segna un momento importante nella vita del regista, reduce dall’insuccesso dello spettacolo di debutto La buona moglie, realizzato alla fine del 1963. Il nemico di se stesso è una vera e propria commissione che il regista accetta di seguire più per esigenze personali che per motivazioni artistiche.
Per ricostruire la messinscena ronconiana – finora mai oggetto di approfondimenti storico-critici – è risultato necessario procedere innanzitutto a una mappatura di quegli archivi che ne conservano le rare tracce. Una copia del programma di sala è stata rinvenuta nell’archivio personale di una delle interpreti dello spettacolo, Manuela Andrei, che ne ha concesso la consultazione: l’opuscolo fornisce notizie sul cast artistico e tecnico, e ospita uno scritto di De Chiara utile a comprendere gli intenti del lavoro di riscrittura della commedia terenziana; non solo, il documento ci permette di constatare il peso artistico che De Chiara ha sull’intera operazione teatrale: non è un caso che il nome del giovane Ronconi, di cui in quegli anni ancora non è riconosciuta una forte autorialità registica, scompare dietro quello più noto del traduttore.
Testimonianze fotografiche e bozzetti di scena sono stati reperiti in cataloghi di mostre e volumi dedicati all’opera dello scenografo e costumista Eugenio Guglielminetti, materiali disponibili presso l’Archivio-Biblioteca della Fondazione Museo a lui dedicata, che conserva anche un modellino ligneo della scenografia e una campionatura tessile dei costumi.
Realizzato per il Teatro di Roma, in quel momento diretto da Vito Pandolfi, Fedra è lo spettacolo che chiude il decennio dei Sessanta e immediatamente precede il celebre Orlando furioso (1969). Insieme al Riccardo III (1968) di William Shakespeare, allestito su richiesta di Vittorio Gassman in una produzione dello Stabile di Torino, Fedra attesta i primi contatti del regista con i teatri stabili italiani.
Se molto si è scritto sullo spettacolo nei giorni del debutto – brillanti rimangono le considerazioni di Franco Quadri, che tornerà a riflettere sulla regia ronconiana di Fedra nel saggio Il rito perduto, edito da Einaudi nel 1973 – si è scelto di verificare aspetti e dettagli della messinscena attraverso una ricognizione di materiali archivistici, che forniscono così un corrispettivo concreto alle parole dei critici teatrali. A questo proposito, significativi sono risultati alcuni fondi depositati presso il Civico Museo Biblioteca dell’Attore di Genova. In particolare, il Fondo Lilla Brignone custodisce un gruppo di fotografie di scena, di autore ignoto, fondamentali per un riscontro visivo di quanto letto, più due esemplari di copioni dattiloscritti con pochissime annotazioni a penna, appartenuti all’attrice, protagonista dello spettacolo nel ruolo di Fedra; nel Fondo Masolino D’Amico, invece, è conservata una copia del programma di sala: le informazioni sulla messinscena sono accompagnate da una lunga riflessione critica del latinista Ettore Paratore sulle tragedie di Lucio Anneo Seneca.
Altri documenti sono due registrazioni sonore dello spettacolo, entrambe conservate presso l’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi: la prima è una registrazione su due bobine realizzata dalla Discoteca di Stato nel corso della serata di debutto, il 10 gennaio 1969 al Teatro Valle di Roma; la seconda è un’edizione radiofonica, registrata in studio il 25 maggio 1969 con il medesimo cast di attori per una trasmissione radiofonica del Terzo Programma, poi andata in onda il 28 luglio dello stesso anno[1].
Di notevole interesse risulta soprattutto la prima, poiché fissa su nastro lo spettacolo dal vivo. Il documento permette di verificare non solo il lavoro del regista sul testo senecano ma restituisce una testimonianza viva dello stile di interpretazione richiesto agli attori, la resa in scena della traduzione di Edoardo Sanguineti, l’utilizzo degli effetti musicali ideati da Vinko Globokar, quindi la partecipazione del pubblico in sala.
Infine, è opportuno segnalare che, al fine di documentare tali allestimenti, si è voluto intrecciare l’analisi del materiale d’archivio con le testimonianze di alcuni degli interpreti, raccolte per questa occasione.
Il nemico di se stesso. Terenzio in forma di musical
1 | Publio Terenzio Afro, Il nemico di se stesso, traduzione e adattamento di Ghigo De Chiara, Quaderni del Centro Teatrale Italiano, 1965.
2 | Il nemico di se stesso, regia Luca Ronconi, 1965. Il programma di sala / Archivio privato Manuela Andrei. Si ringrazia Manuela Andrei per la gentile concessione.
3 | Il nemico di se stesso, regia Luca Ronconi, 1965. Il programma di sala / Archivio privato Manuela Andrei. Si ringrazia Manuela Andrei per la gentile concessione.
Alla fine di settembre 1963 l’impresario teatrale Leo Wätcher presenta a Milano la Compagnia Gravina-Occhini-Pani-Ronconi-Volonté. La neonata formazione prende il nome dai suoi membri, tutti giovani attori alle prime esperienze – Carla Gravina, Ilaria Occhini, Corrado Pani, Luca Ronconi e Gian Maria Volonté –, e si propone di portare sui palcoscenici della penisola un repertorio di testi classici ma anche di novità italiane (Anonimo 1963a, 13). Per la stagione 1963-1964 sono annunciati La buona moglie e La putta onorata di Carlo Goldoni, e Una storia di viti, testo originale di Rossana Fagiani (Al. Cer 1963, 11)[2]. La regia degli spettacoli è affidata a Ronconi, che a quell’altezza cronologica si è già fatto notare come brillante attore ma non si è ancora cimentato con la regia.
L’11 dicembre 1963 la compagnia debutta al Teatro Valle di Roma con La buona moglie – questo il titolo scelto per presentare il dittico goldoniano –, dopo un’anteprima il 7 dicembre al Teatro Verdi di Pisa. Ronconi colloca la vicenda in una “città viaggiante su carrelli” (Prosperi 1963, 12) progettata dallo scenografo Lorenzo Ghiglia, e lavora a una sintesi dei due testi goldoniani per uno spettacolo della durata di oltre tre ore.
Se parte della critica riconosce l’originalità di un approccio realistico alla drammaturgia di Goldoni, privata di quelle “solite inzuccherate fantasie settecentesche” (Anonimo 1963b, 13), e già individua l’attenzione tutta ronconiana “per le costruzioni complesse, per le grandi macchine teatrali” (Prosperi 1963, 12), la valutazione complessiva dello spettacolo è tiepida.
Il 3 gennaio 1964 la compagnia sospende le repliche al Valle, inizialmente previste fino al 12 dello stesso mese. Come si legge sulle pagine del “Corriere della Sera”, i motivi sono diversi: scarsa affluenza del pubblico; ritardi nella preparazione di un nuovo spettacolo; difficoltà nel trasferire l’imponente scenografia in altri teatri (Anonimo 1964, 11). Pochi giorni dopo Gravina e Volonté lasciano la compagnia, mentre gli altri membri si riuniscono per discutere sul futuro (Cambria 1964, 9). Wätcher valuta con il regista Luciano Salce la possibilità di mettere in scena Una domenica a New York di Norman Krasna, ma dopo pochi mesi l’esperienza dei cosiddetti ‘Nuovi giovani’ si conclude tra tensioni e debiti economici (R. S. 1964, 9). Così il regista ricorda quel periodo nella propria autobiografia (Ronconi 2019, 110-111):
Stavo senza una lira. Leggevo moltissimo – Nietzsche, linguistica, antropologia –: ho creduto di stare male e, su consiglio di un’amica, mi sono rivolto alla psicoanalisi. […] Due anni di parcheggio. Da lì, dalla mia nevrosi, mi riacciuffa Ghigo De Chiara. Tra i critici Ghigo era stato uno di quelli che non avevano trovato orripilante il mio Goldoni. C’era una certa stima tra noi. A quel tempo De Chiara aveva fatto una società (con Lucio Ardenzi, che tornava al teatro dopo tutta una serie di guai, e un suo amico di Prato) e aveva trovato dei quattrini per mettere in scena a Ostia Antica e a Sabratha in Libia, Il nemico di se stesso di Terenzio. […]. C’era bisogno di un regista di poche pretese, quale, allora potevo essere io.
È il 1965 quando Ronconi riceve la proposta di una nuova regia: il drammaturgo e critico dell’“Avanti!” Ghigo De Chiara offre al regista Il nemico di se stesso, commedia di Publio Terenzio Afro, per uno spettacolo prodotto dal Centro Teatrale Italiano diretto da Benny Lai e la S.O.S. – Società Organizzazione Spettacoli, quest’ultima fondata dall’impresario Lucio Ardenzi e De Chiara stesso e già contraddistintasi per la realizzazione di spettacoli musicali[3]. Con l’obiettivo di dimostrare quanto la commedia latina fosse stata ‘vitale’ per gli sviluppi del teatro moderno e contemporaneo, offrendo di fatto espedienti drammaturgici e personaggi dalle caratterizzazioni ancora attuali, De Chiara aveva avviato un percorso di personale riscoperta dei principali commediografi della tradizione romana, e si era provato in un lavoro per la scena, una libera traduzione della Mostellaria di Plauto[4]. Collocata allo scoppio della Prima guerra mondiale, la versione di De Chiara rifugge da ogni puntualità filologica e ripensa la commedia in una singolare chiave da musical, che trasforma – si legge su “Paese Sera” – “le cortigiane in soubrettes” e i versi plautini in “canzoncine televisive” (Vice 1964, 15). Nel luglio 1964 lo spettacolo aveva debuttato al Teatro Romano di Ostia Antica con la regia di Silverio Blasi e l’insolita coppia Umberto Orsini e Liana Orfei nei ruoli dei protagonisti[5].
Con Il nemico di se stesso De Chiara prosegue il proprio viaggio nel teatro classico e presenta un’operazione analoga alla Mostellaria, questa volta a partire dalla drammaturgia di Terenzio, da affidare a un nuovo regista. L’adattamento di De Chiara mantiene l’intreccio della commedia, fondata sullo scontro tra gli adolescenti innamorati e i genitori che li contrastano, ma è arricchito da nuove battute e situazioni improntate sull’equivoco assenti nel testo originale. Inoltre l’adattamento si fonda su una contaminazione de Il nemico di se stesso e dei suoi protagonisti con le altre cinque commedie terenziane (Hecyra, Eunuchus, Phormio, Andria e Adelphoe): una vera e propria “rielaborazione di motivi, aspetti e significati” (De Chiara 1965, 7), affermata da De Chiara anche nella premessa al testo che viene pubblicato dai “Quaderni del Centro Teatrale Italiano” contemporaneamente al debutto dello spettacolo. Il risultato è un vero e proprio ‘compendio’ del teatro di Terenzio. Così scrive De Chiara in un testo dal titolo Il ‘meglio’ di Terenzio, apparso nel programma di sala de Il nemico di se stesso:
Dopo Plauto, neanche a dirlo, Terenzio: il discorso sulla commedia latina è necessariamente breve, limitato ai due soli autori dei quali conserviamo opere intere. Ma ancora una volta (come tentammo la scorsa estate con la Mostellaria, La commedia degli spiriti) è un discorso che vogliamo proporre dall'interno del mestiere teatrale per cogliere, dello spettacolo antico, soprattutto i ‘moti’ superstiti ed ancora operanti nella drammaturgia contemporanea. E se di Plauto ci piacque verificare certo meccanismo comico divenuto poi convenzione e tradizione nel corso di duemila anni di pratica di palcoscenico, con Terenzio abbiamo voluto fissare una sorta di repertorio di caratteri, quali più o meno intatti ritroviamo nella commedia borghese: padri nobili, prostitute dal cuore tenero, figli scavezzacolli, fanciulle incredibilmente candide. E per dotare questi caratteri di una più complessa e solida psicologia ci siamo permessi di saccheggiare i personaggi dell'intera opera di Terenzio e di condensarne la più viva natura nei protagonisti di Heautontimorumenos. Sicché pur conservando l’impianto della commedia (che è una piacevole storia di intrighi d'amore) proponiamo allo spettatore una rassegna del meglio che Terenzio concepì come innovatore del realismo teatrale[6].
Quando Ronconi accetta l’allestimento de Il nemico di se stesso lavora, quindi, a un’operazione teatrale dalla formula collaudata. Il regista si trova a mettere in scena un testo sotto la direzione attenta del suo ingombrante autore-traduttore. Anche in questo caso il risultato è uno spettacolo che si avvicina al varietà, con inserti cantati e intermezzi di danza. Per l'occasione le musiche sono affidate a Domenico Modugno, che firma anche un brano eseguito in scena da Liana Orfei, confermata in questa nuova produzione. Volto popolare del cinema di genere e del varietà, Orfei aveva debuttato in teatro nell’ottobre 1963 proprio con Modugno, celebre Masaniello accanto a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia nel Tommaso d’Amalfi di Eduardo De Filippo[7], e nello stesso periodo in cui prova Il nemico di se stesso divide con il cantautore pugliese il set dello sceneggiato televisivo Scaramouche (Rai, 1965). Nome curioso per uno spettacolo di Ronconi, Orfei interpreta la parte della cortigiana Bacchide, che nella riscrittura di De Chiara acquisisce una maggiore centralità rispetto all’originale testo terenziano, divenendo a tutti gli effetti una protagonista della vicenda[8]. Così oggi racconta Liana Orfei:
Entrai a far parte della compagnia tramite Lucio Ardenzi, che in quel momento aveva fatto società con lo scrittore Ghigo De Chiara. Durante il periodo estivo la compagnia proponeva testi classici a Ostia Antica: il primo anno presentammo La commedia degli spiriti di Plauto, e nell'estate successiva Il nemico di se stesso di Terenzio, diretto da Ronconi. Entrambi sono stati dei successi, tanto che vennero aggiunte altre repliche per le numerose richieste.
Durante le prove Ronconi era molto riservato, anche con noi attori, ma quando si lasciava andare a dei piccoli complimenti era un tale onore, un momento di cui godere. Ancora oggi ho il sapore di quel miele, di quella meraviglia. Lavorare con lui è stato un regalo che la vita mi ha voluto concedere. Ronconi è stato per il teatro italiano quel che Fellini è stato per il cinema[9].
Oltre a Orfei, nel cast sono presenti nomi noti al grande pubblico come Ernesto Calindri (Cremete) e Giustino Durano (Menedemo), interpreti già coinvolti nelle precedenti produzioni della S.O.S. come Enzo Garinei (Clinia), Marisa Quattrini (Sostrata) e Aldo Capodaglio (Sirio)[10], quindi giovani attori da poco diplomati all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico quali Manuela Andrei (Antifila) e Antonio Venturi (Clitifone)[11]. Scene e costumi dello spettacolo sono di Eugenio Guglielminetti, che incontrerà di nuovo Ronconi nel 1982 per una regia televisiva di John Gabriel Borkman di Henrik Ibsen. Assistente alle scene, invece, è il trentenne Uberto Bertacca – in quegli anni collaboratore di Guglielminetti (Levi 2005, 54) –, che tornerà a lavorare per il regista alla fine degli anni Sessanta, prima vicino a Mario Ceroli come direttore all’allestimento del Riccardo III (1968), poi realizzando la memorabile “scenografia vivente” dell’Orlando furioso[12].
4 | Il nemico di se stesso, regia Luca Ronconi, 1965. La scenografia di Eugenio Guglielminetti. Fondazione Museo Eugenio Guglielminetti.
Per Il nemico di se stesso Guglielminetti immagina un paesaggio bucolico dai tratti surreali e fantastici: alla sinistra della scena è posta una pergola ottagonale con due sedute, realizzazione di quella “ricca fattoria” descritta da De Chiara nella didascalia d’apertura della propria traduzione; sulla sinistra, invece, è collocata un’eccentrica statua che ritrae Bacco, celebrato nei giorni in cui si svolge la commedia; la scena è cosparsa di anfore e balle di paglia di varie dimensioni; fanno da sfondo alberi dai cui rami germogliano fiori e foglie che, per intuizione dello scenografo, sono visivamente restituiti da numerosi battipanni di legno[13].
Dopo un’anteprima il 25 giugno 1965 al Teatro Romano di Sabratha in Libia, Il nemico di se stesso debutta il 2 luglio al Teatro Romano di Ostia Antica. Segue una tournée estiva che tocca, tra le altre, Fiesole, Urbino, Pompei, Capri, Minturno, Pisa e Sarsina[14]. L’esito è uno spettacolo di largo consumo, vivace, che oscilla “tra lo show televisivo e la rivista alla Wanda Osiris” (A. C. 1965, 4).
Sul settimanale “L’Espresso” Sandro De Feo sottolinea la responsabilità che De Chiara ha avuto nell’allestimento dello spettacolo, pur cogliendo “l’estro” del regista (De Feo 1965):
Naturalmente il regista Luca Ronconi non ha fatto che legare l'asino dove voleva il padrone, cioè il riduttore, e in tal senso si è sbizzarrito e divertito anche lui con abbastanza estro. E così hanno fatto gli attori, l'ameno Calindro, lo spiritato Durano, il melenso e assai lepido Garinei, la bella Orfei e tutti gli altri.
In modo più puntuale l’“Avanti!” si sofferma sulla regia di Ronconi e accenna a particolari indicazioni interpretative che sembrano venire più dal regista che dalla riscrittura di De Chiara (Vice 1965, 5):
Luca Ronconi, che ha curato l'ottima regia, non si è lasciato a sua volta sfuggire l'occasione di arricchire la materia di motivi finemente ironici e demistificatori. La vecchiaia mentale più che fisica dei ‘padri’ creati da De Chiara, la volubile immaturità dei figli, il conflitto delle generazioni anche sui banali fatti quotidiani, sono stati come era giusto, sottolineati; qualche volta si è fatto addirittura il verso a certi personaggi, come Cremete ad esempio (Ernesto Calindri), che è diventato un vecchio saggio da barzelletta o addirittura a certe situazioni teatrali come quella del riconoscimento della figlia che il Ronconi ha fatto giocare su toni grotteschi da operetta.
Il successo di pubblico de Il nemico di se stesso è tale che Ronconi ottiene l'occasione per allestire una terza regia, La commedia degli straccioni di Annibal Caro. È una nuova commissione, con debutto previsto a Civitanova Marche nell'estate 1966 per l’anniversario della morte di Caro, che però il regista sfrutta per presentare parallelamente un testo a lui caro, I lunatici di Thomas Middleton e William Rowley (Ronconi 2019, 111-112): si tratta del primo vero spettacolo di Ronconi accolto con entusiasmo dalla critica teatrale.
A distanza di anni, tra le pagine della propria autobiografia, così Ronconi ricorderà quella incidentale e fortunata esperienza de Il nemico di se stesso:
Si prova all’istituto del Dramma Antico e, quando si va in scena, il risultato è proprio carino, divertente. I critici sono un po' spiazzati: “Ma come, fa un Goldoni cupo dove non si ride e qui, invece, si sghignazza… questo ragazzo è troppo disinvolto…”. È stato con questo spettacolo, messo su con semplicità e in giro per tutte le piazze balneari d’Italia, che è iniziata la mia risalita, che la mia vita è cambiata. Una pietra in più alla mia teoria: tutto, ma proprio tutto, avviene per caso (Ronconi 2019, 111).
5-6 | Il nemico di se stesso, regia Luca Ronconi, 1965. Fondazione Museo Eugenio Guglielminetti.
Fedra. Uno “spettacolo-oratorio”
7 | Fedra, regia Luca Ronconi, 1969. Il programma di sala. Fondo Masolino d’Amico / Civico Museo Biblioteca dell’Attore.
8 | Fedra, regia Luca Ronconi, 1969. Fondo Lilla Brignone / Civico Museo Biblioteca dell’Attore.
È la fine degli anni Sessanta quando Luca Ronconi torna ad affrontare la drammaturgia latina e mette in scena Fedra di Lucio Anneo Seneca, nella traduzione realizzata ad hoc dal poeta Edoardo Sanguineti. La scelta del testo non sembra provenire da Ronconi. Infatti Fedra nasce dalle sollecitazioni di Vito Pandolfi, allora direttore del Teatro di Roma, che per la stagione 1968-1969 propone al regista di curare l’allestimento di un testo di Seneca, autore ancora poco rappresentato in Italia ma – secondo Pandolfi – “a fondamento del teatro moderno in Europa”[15].
Fedra debutta il 10 gennaio 1969 al Teatro Valle, con repliche fino al 3 febbraio. Per l’occasione sono scelti sia attori che già hanno lavorato con Ronconi che interpreti alla loro prima esperienza a fianco del regista: Lilla Brignone (Fedra), Gianni Santuccio (Teseo), Massimo Foschi (Ippolito), Anita Laurenzi (Nutrice), Marzio Margine (Messaggero) e Mariano Rigillo (Coro)[16].
La Fedra ronconiana sembra inserirsi in un più ampio fenomeno di rinato interesse per il corpus tragico senecano, interesse mediato dalla riscoperta negli stessi anni del ‘teatro della crudeltà’ di Antonin Artaud (De Marinis 2024, 123-124). Al debutto la stessa critica contestualizza l’operazione ricordando altri recenti adattamenti da Seneca: dall’Oedipus di Peter Brook, presentato pochi mesi prima all’Old Vic Theatre di Londra, alla Medea attualizzata da Jean Vauthier nel 1967 per la compagnia Odéon Théâtre de France, fino a un precedente italiano, seppur diverso, quale il Tieste diretto da Luigi Squarzina nel 1953 (Savioli 1969, 3). Sebbene in seguito nella propria autobiografia lo stesso Ronconi abbia definito Fedra una semplice “regia d’occasione” (Ronconi 2019, 220), in quel momento il regista è spesso associato al nome di Artaud, e non sembra un caso che molte delle drammaturgie proposte presentino personaggi profondamente spietati, folli o corrotti: si pensi allo spettacolo rivelatore I lunatici (1966), dal testo degli elisabettiani Middleton e Rowley, a Misura per misura (1967) e Riccardo III (1968) di Shakespeare, o alla messinscena di un’opera come Il candelaio di Giordano Bruno[17]. Allora, con Seneca – modello per molti autori tragici tra Cinquecento e Seicento – Ronconi sembra tornare alle “fonti dell’orrore” (Prosperi 1969, 6), in quello che su “Sipario” Corrado Augias definisce un “incontro d’obbligo” (Augias 1969, 25).
Per la propria opera tragica Seneca eredita dal modello greco l’invenzione drammatica ma ne accentua i risvolti più patetici e macabri. Nel mettere in scena lo scontro tra furor e ratio, il tragediografo latino presenta vicende mitiche costellate da episodi violenti, spesso restituiti con i dettagli più ripugnanti. L’aspetto linguistico, proprio di opere destinate non tanto alla messinscena quanto alle recitationes, si fonda su particolari scelte stilistiche come ripetizioni, allitterazioni e assonanze, che sostengono un tono declamatorio ed enfatico (Adriani 2019, 174).
Ma come restituire efficacemente sul palcoscenico quella passione, quell’orrore e quel manierismo stilistico che impregnano il teatro di Seneca? Secondo Ronconi non sarebbe necessario tradurre visivamente tutta la crudeltà del testo. Con la sua forza evocativa, il verso già esprimerebbe tutte le peculiarità dell’opera (Milanese 1973, 19-20). Infatti, come nota anche Achille Mango, una soluzione di tipo realistico avrebbe portato a un ‘eccesso’, un’abbondanza controproducente alla resa dell’opera sulla scena (Mango 1969, 22). Il regista, allora, ricorre alla nuda parola, sostiene l’efficacia più del suono che delle immagini, e lo fa attraverso particolari soluzioni di totale rinuncia alla spettacolarità. Il risultato è quello che ne Il rito perduto Franco Quadri qualifica come uno “spettacolo-oratorio” (Quadri 1973, 76).
Intervistato nel giorno del debutto da Bruno D’Alessandro per la Rai, così Ronconi riflette sull’allestimento di Fedra:
Se negli altri spettacoli mi sono molto preoccupato dell'apparato spettacolare, questa volta invece proprio per l’asciuttezza e per la concisione del testo abbiamo mutato tutto quanto sui valori della recitazione, quindi è uno spettacolo molto scarno dal punto di vista visivo. […] Tenuto conto di quali sono i caratteri di questa traduzione, mi è sembrato che più che insistere su una visualizzazione spettacolare dell’opera sarebbe stato interessante e coerente puntare proprio sui valori della parola[18].
Quando il sipario del Teatro Valle si apre, lo spettatore si trova di fronte a qualcosa di inaspettato: un’imponente piattaforma bianca inclinata riempie l’intero palcoscenico, dal boccascena al fondale. La struttura, progettata dallo stesso Ronconi con lo scenografo Enrico Job e il direttore tecnico Renato Morozzi (Ronconi 1969, 13), è praticabile esclusivamente per la presenza di cinque nicchie sfasate, che si aprono e si chiudono a botola a seconda delle necessità. All’inizio dello spettacolo gli attori sono già in scena, posizionati all’interno delle piattaforme scavate. Dal basso si collocano, in ordine, il Messaggero, Ippolito, la Nutrice e Fedra. Nel punto più alto, infine, si trova il Coro che, come nota Quadri, “per il suo pluralismo potrebbe interrompere e disordinare la prevista geometria” (Quadri 1973, 77) ma, per decisione del regista, è affidato a un solo interprete. Così ricorda Mariano Rigillo:
Per Fedra Ronconi avanzò una proposta davvero particolare: mi chiese di interpretare il Coro della tragedia. Non pensava a un coro tradizionale ma a un singolo attore che restituisse la voce di un gruppo. La sua idea mi lasciò davvero sorpreso, mi mise in una condizione assolutamente insolita. Durante le prove il regista ci teneva molto a ripetermi che in una tragedia il Coro non è mai assente: dovevo essere una città che ascolta e osserva tutto. Come attore è stata una prova difficile, improntata sulla chiarezza dell’esposizione, un grosso sforzo di amalgama con gli altri interpreti dello spettacolo. La scena era una grande piramide bianca a gradoni. Ognuno di noi era bloccato nel proprio luogo deputato. Nel ruolo del coro io ero isolato, immobile sul vertice della scenografia. Per non perdere l’equilibrio il direttore di scena Renato Morozzi realizzò per me un’asta, che rimaneva nascosta sotto il mio costume, e a cui potevo appoggiarmi anche nei momenti di stanchezza [19].
Con questa soluzione scenografica i movimenti degli attori sono ridotti al minimo, concessi solo per mezzo di alcuni gradini retrattili che attraversano il praticabile. L’unico personaggio libero di muoversi è Teseo, che però entra in scena solo nella seconda parte dello spettacolo. Gli altri interpreti si trovano distanti tra loro, fermi, impegnati a scandire “l’urto delle loro passioni” con lunghi soliloqui (G. Z. 1969, 11). La loro fissità è accentuata ulteriormente dai costumi di scena realizzati da Enrico Job: ampie e pesanti tonache che ne limitano i movimenti e li trasformano in algide statue classiche[20].
Le azioni della vicenda sono rese attraverso scelte registiche di estrema essenzialità: l’uscita di scena dei personaggi è suggerita dagli interpreti che si limitano a distendersi a terra; la morte di Ippolito è solamente accennata da un panno bianco che il Messaggero distende sul principe dopo aver narrato la sua terribile morte (Tian 1969, 13). Racconta Massimo Foschi:
Era la prima volta che recitavo per Ronconi. Già ci conoscevamo e qualche anno prima mi aveva proposto I lunatici, ma mi trovai coinvolto in Fedra perché in quel momento lavoravo come attore per il Teatro di Roma.
Sono passati molti anni ma ciò che ricordo benissimo dello spettacolo è la scenografia, che somigliava molto a un lavoro di Josef Svoboda. Si trattava di un piano inclinato con dei gradoni ad altezze diverse, accessibili dal sottopalco tramite delle scalette. Al loro interno gli attori erano immobili, in una forma di isolamento, come se tutto fosse stato lontano nel tempo. Ne ho memoria ancora oggi perché, nel momento in cui il mio personaggio, Ippolito, moriva in scena, io dovevo riuscire a rimanere steso su quella struttura obliqua e ripidissima senza potermi aggrappare da alcuna parte. Durante le prove mi era successo più volte di scivolare verso la platea, ma Ronconi pretendeva che io rimanessi fermo. Lui è sempre stato abituato a chiedere degli sforzi “impossibili” ai suoi attori, perché in realtà sapeva che, con l'immaginazione, a teatro tutto è possibile[21].
Accompagnati dagli stridenti effetti sonori del compositore Vinko Globokar che sostengono i passi più intensi della storia o producono una inquietante amplificazione di voci, gli attori ricorrono chi a una recitazione veemente, chi a una più tesa e sommessa, creando spesso momenti di dissonanza (Cavaglieri 2003, 45). Su richiesta del regista l’interpretazione è volutamente accademica, scarsamente realistica ma efficace nel rendere la tragicità dello stile senecano (Radice 1969, 13). Per di più la drammaturgia originale è restituita nella sua interezza, se non per qualche lievissimo taglio al copione, in una sfida che coinvolge tanto gli attori quanto il pubblico presente in sala. In tal senso la traduzione di Edoardo Sanguineti si sposa appieno con gli intenti registici. Il primo contatto tra Ronconi e Sanguineti risaliva all’inverno 1967-1968, mentre il regista lavorava a Riccardo III (Longhi 2006, 50). La traduzione di Fedra arriva successivamente, secondo il racconto del poeta, quando i due stanno già collaborando alla riduzione dell’Orlando furioso (Sanguineti 2006, 6-7). Il lavoro di Sanguineti, vista dal suo autore in dittico con la traduzione de Le Baccanti di Euripide, realizzata l’anno prima su commissione di Luigi Squarzina, si pone l’obiettivo di restituire nella lingua italiana la medesima potenza espressiva. Non a caso dichiara Sanguineti nella nota che introduce l’edizione del testo pubblicata nella “Collezione di teatro” di Einaudi nel 1970: “Compito del traduttore è dunque, ai miei occhi, essenzialmente procurare parole teatralmente dicibili” (Sanguineti 1970, 5). La versione sanguinetiana si configura così come “un calco dell’originale a ogni livello (fonico, lessicale soprattutto, drastico) del testo di partenza” (Bandiera 2014, 97-98). Il poeta rinuncia a un adattamento moderno che ne avrebbe affievolito l’effetto retorico dell’originale e ricorre a soluzioni quali allitterazioni, assonanze e cacofonie per restituire la ricchezza dello stile senecano. Tuttavia non manca “un impasto di elementi del parlato”, che mira a raggiungere un secondo fine, un originale effetto di oralità (Cadoni 1971, 284).
9 | Fedra, regia Luca Ronconi, 1969. Fondo Lilla Brignone / Civico Museo Biblioteca dell’Attore.
All’indomani del suo debutto al Teatro Valle, Fedra non sembra riscuotere un unanime consenso della critica. Se Mango afferma che la regia ha il merito di restituire “un'atmosfera alla quale si rischiava di perdere l'abitudine, quella della parola, della poesia costruita sul palcoscenico nella successione di situazioni intense drammaticamente ma prive di orpelli e frange del tutto esteriori” (Mango 1969, 22), la maggior parte dei recensori valuta lo spettacolo irrisolto, ‘noioso’ e difficile da seguire. “È strano, ho applaudito anch’io ad apertura di sipario di quell’abbagliante composizione su cui spiccavano le sagome dei corpi, nei severi costumi di Enrico Job, e poi mi sono distratto a guardare il giocattolo scenico, la magica apertura dei canali di comunicazione tra una buca e l’altra” (Prosperi 1969, 6), scrive Giorgio Prosperi su “Il Tempo”. “Perché Ronconi ha voluto precludersi qualsiasi altra via, più vicina alla duttilità che, come prova ‘Il candelaio’, costituisce una delle caratteristiche interessanti del suo modo di fare regia?”, si chiede sul settimanale “Sette giorni” Italo Moscati, che conclude: “Inutile cercare una risposta, si deve giudicare lo spettacolo. E il giudizio non può non essere negativo” (Moscati 1969, 34). La recensione più severa arriva da Elio Pagliarani, che il 13 gennaio firma su “Paese Sera” un articolo dal titolo perentorio “Fedra muore di noia”. Il critico, che innanzitutto contesta la programmazione del Teatro di Roma e non condivide la scelta del testo (“poteva continuare benissimo a dormire negli scaffali”), condanna la regia ronconiana, sottolineando con malevolenza l’evidente somiglianza dell’impianto scenico della Fedra a un lavoro del ceco Josef Svoboda, una ripidissima gradinata realizzata nel 1963 per un allestimento di Edipo re di Sofocle con la regia di Miroslav Macháĉek (Pagliarani 1969, 13):
Secondo spettacolo dello Stabile di Roma, gran prima l’altra sera al Valle e seconda ondata di noia in una serata penosa. Una noia fitta, invincibile e banale, malamente travestita da spettacolo culturale […]. Spettacolo, regia e attori; ecco, sembra proprio che finora io abbia sopravvalutato il regista Luca Ronconi: chiedo perdono e non se ne parli più, dico del mio errore. Qui la regia ha operato, su una bella biancastra scena inclinata (non firmata, magari forse anche perché Svoboda, per un Edipo re, ne fece anni fa una abbastanza simile portata anche a Venezia). Che cosa ha operato la regia? Ha detto state buoni che si devono sentire bene le parole, dato che ai tempi di Seneca si usava così. Però per il coro ha messo un altoparlante in qualche posto, solo che il coro ogni tanto lo perdeva, e invece ogni tanto ci cascava la nutrice, dentro quell’altoparlante. Gli attori. La regia deve averli più confusi perché non s’erano mai visti una Brignone e un Santuccio impelagati così.
Le parole al vetriolo di Pagliarani sembrano colpire profondamente Ronconi, che il 20 gennaio decide di rispondere al critico con una lettera a sua firma sulle pagine dello stesso quotidiano (Ronconi 1969, 13):
Gentile Signor Direttore,
nell’articolo firmato dallo scrittore Pagliarani e pubblicato giorni addietro dal suo giornale come recensione della Fedra di Seneca, rappresentata con la mia regia al Teatro Valle, sono contenute alcune gravi inesattezze:
1. La scena non è di Svoboda come stampato nel titolo.
2. A Venezia non è mai stato rappresentato un Edipo Re con scena di Svoboda, mentre, nel corso dell’articolo si afferma che ‘la scena’ non è firmata anche perché Svoboda anni addietro ne fece una abbastanza simile per un Edipo re presentata anche a Venezia.
3. Se si allude ad alcuni bozzetti di Svoboda esposti in una mostra di scenografia, essi non hanno alcuna analogia con la cornice figurativa nella quale è inquadrata la Fedra da me diretta.
4. Il motivo per cui sul programma non figura il nome dello scenografo, diversamente dalle supposizioni del signor Pagliarani, è che il praticabile su cui si svolge lo spettacolo è frutto di collaborazione tra me, Enrico Job e Renato Morozzi: e che non va considerato come una vera e propria scena, ma come un semplice elemento posto in mezzo al palcoscenico nudo del Teatro Valle.
La prego di voler pubblicare la mia lettera e la ringrazio per la sua cortesia. Cordialmente.
10 | Fedra, regia Luca Ronconi, 1969. Fondo Lilla Brignone / Civico Museo Biblioteca dell’Attore.
Dopo queste due regie d’occasione Ronconi non tornerà più a confrontarsi con il teatro latino. Se per quanto concerne Il nemico di se stesso, innanzitutto risulta complicato stabilire il suo reale apporto registico, in aggiunta va considerato che Ronconi esprimerà sempre il proprio disinteresse nei confronti della ‘commedia di carattere’, genere in cui spesso a sostenere gli sviluppi drammaturgici della storia è una configurazione eccessivamente stereotipata dei personaggi. Sull’argomento interverrà più volte: “Non ho mai creduto che la nostra civiltà teatrale appartenesse ad Arlecchini e Colombine. Non ho mai pensato che la nostra tradizione interpretativa discendesse dalla commedia dell’arte” (Ronconi 2019, 107). Allora, non è un caso che anche del repertorio goldoniano – è evidente già da quella prima prova registica de La buona moglie –, Ronconi abbia scelto quelle commedie che riteneva “narrativamente più complesse, più drammatiche, più nere” (Ronconi 2019, 107), ribadendo la sua opinione anche in occasione delle successive messinscene de La serva amorosa (1986) e I due gemelli veneziani (2001)[22].
Diverso è il caso di Fedra, che si rivela prodromo di intuizioni ricorrenti nell’intero percorso ronconiano: lo spettacolo è costruito interamente sull’esaltazione della parola in scena e il recupero della fruizione originaria del dramma in un contesto spettatoriale ormai mutato. Inoltre, come sottolinea Franco Quadri, per Ronconi Fedra è “il primo caso di annullamento del palcoscenico tradizionale” (Quadri 1973, 77). Da lì a pochi mesi, il 4 luglio 1969, Ronconi avrebbe debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto con Orlando furioso, di nuovo con la collaborazione di Edoardo Sanguineti, realizzando uno spettacolo fondato sulla simultaneità delle azioni e sul completo rifiuto dello spazio scenico più tradizionale, e ricorrendo a soluzioni ancora più estreme e innovative.
Note
[1] Le informazioni sulla registrazione dal vivo di Fedra sono state reperite presso l’ICBSA a Roma, (identificativo SBN: DDS0222620), dove risulta depositata anche una copia della versione radiofonica prodotta dalla Rai (Due nastri, identificativo SBN: DDS0222621). La Fedra ronconiana realizzata per la radio va in onda il 28 luglio 1969, alle 20.30, sul Terzo Programma (vedi Seneca e il mito di Fedra, “RadiocorriereTV” 30, 27 luglio-2 agosto 1969). È possibile ascoltare la registrazione radiofonica in due parti su raiplaysound.it: I parte e II parte.
[2] Ne Il rito perduto Franco Quadri scrive che il testo scelto sarebbe stato Un uomo precoce di Fabio Mauri (Quadri 1973, 23).
[3] La S.O.S. nasce su iniziativa di Ghigo De Chiara (1921-1995) e Lucio Ardenzi (1922-2002) nel 1964. In quel momento l’impresario è in una condizione lavorativa precaria a causa delle difficoltà economiche della sua O.T.A. (Organizzazione teatrale Ardenzi). Racconta Ardenzi: “Ghigo venne a trovarmi al Quirino e mi propose di fare una società di produzione nella quale il principale capitale sarebbe stato costituito dal lavoro: una specie di sociale nella quale Ghigo De Chiara avrebbe scritto i testi, Silverio Blasi avrebbe fatto le regie, io mi sarei occupato dell’organizzazione, ed infine un amico di Ghigo, non teatrante, Sergio Sborgi, commercialista, avrebbe provveduto tramite Banche alle necessarie coperture finanziare in attesa delle sovvenzioni ministeriali” (Ardenzi 1996, 77).
[4] Nel 1964 il testo è pubblicato dai “Quaderni del Centro Teatrale Italiano”, vedi De Chiara 1964.
[5] La commedia degli spiriti, di T. M. Plauto, traduzione e adattamento Ghigo De Chiara, regia Silverio Blasi, musiche Bruno Nicolai, scene e costumi Misha Scandella, produzione Centro Teatrale Italiano e S.O.S.; interpreti: Liana Orfei (Filemazia), Umberto Orsini (Filolachete), Umberto d’Orsi (Tranione, Servo), Michele Malaspina (Teopropide), Enzo Garinei (magistrato Callimadate), Maria Bartoli (segretaria del magistrato), Cristina Mascitelli (mezzana), Roberto Pescara (strozzino), Aldo Capodaglio (Bifolco), Anna Maria Surdo (Ancella), Marisa Traversi (ancella); prima rappresentazione: 7 luglio 1964, Teatro Romano di Ostia Antica (v. De Chiara 1964).
[6] Dal programma di sala (Archivio privato Manuela Andrei): G. De Chiara, Il “meglio” di Terenzio, programma di sala de Il nemico di se stesso, 1965.
[7] Lo spettacolo, regia di Eduardo De Filippo e musiche di Domenico Modugno, aveva debuttato l’8 ottobre 1963 al Teatro Sistina di Roma.
[8] La popolarità dell’attrice è ampiamente utilizzata per promuovere lo spettacolo su riviste e quotidiani nei giorni che precedono il debutto a Ostia Antica. Vedi Anonimo 1965a e Anonimo 1965b.
[9] Da una conversazione inedita con Liana Orfei realizzata il 19 marzo 2024. Si veda anche Orfei 2020, 155-156; 198-199.
[10] Tra l’adattamento plautino e Il nemico di se stesso si colloca la commedia musicale La manfrina, regia di Franco Enriquez e musiche di Ennio Morricone, su un testo di De Chiara e Sergio Sborgi, ispirato ai sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli. Lo spettacolo debutta il 18 novembre 1964 al Teatro Parioli di Roma. Tra gli interpreti, Gabriella Ferri, Leo De Berardinis, Alida Chelli, Fiorenzo Fiorentini, Enzo Garinei e Marisa Quattrini.
[11] Il nemico di se stesso, di Publio Terenzio Afro, traduzione e rielaborazione Ghigo De Chiara, regia Luca Ronconi, musiche Domenico Modugno, scene e costumi Eugenio Guglielminetti, assistente scene e costumi Uberto Bertacca, produzione Centro Teatrale Italiano e S.O.S.; interpreti: Enzo Garinei (Clinia), Ernesto Calindri (Cremete), Giustino Durano (Menedemo), Liana Orfei (Bacchide), Marisa Quattrini (Sostrata), Antonio Venturi (Clitifone), Manuela Andrei (Antifila), Aldo Capodaglio (Siro); prima rappresentazione: 2 luglio 1965, Teatro Romano di Ostia Antica.
[12] In un’intervista realizzata da Claudio Longhi, Uberto Bertacca (1936-2020) sembra non ricordare l’esperienza de Il nemico di se stesso. Lo scenografo colloca l’inizio della collaborazione con Ronconi nel 1968, in occasione dell’allestimento di Riccardo III per il Teatro Stabile di Torino. Vedi Conversazione con Uberto Bertacca, in Longhi 1996.
[13] Le fotografie e bozzetti di scena si rintracciano in Morteo 1966, 142-143; Guglielminetti 1997, 134-135; Levi 2005, 54-55.
[14] Nella sezione “Lo spot” del numero di agosto-settembre di “Sipario” si legge: “Lucio Ardenzi e Ghigo De Chiara preparano alle Arti una stagione off Rome. In programma ancora Cobelli e una rielaborazione alla De Chiara diretta da Luca Ronconi. Questi sarà anche regista del Turcaret di Lesage a Trieste”. Non è possibile comprendere se si parla di una ripresa romana de Il nemico di se stesso o di un nuovo spettacolo mai realizzato. Vedi Anonimo 1965c.
[15] L’intervista a Vito Pandolfi è una registrazione audio di un servizio radio dalle Teche Rai in Ronconi, Brignone, Pandolfi 1969.
[16] Fedra, di Lucio Anneo Seneca, traduzione Edoardo Sanguineti, regia Luca Ronconi, costumi Enrico Job, effetti musicali Vinko Globokar, tecnico del suono Gerhard Rautenbach, assistente costumista Oliva Di Collobiano, direttore tecnico Renato Morozzi; interpreti: Massimo Foschi (Ippolito), Fedra (Lilla Brignone), Nutrice (Anita Laurenzi), Teseo (Gianni Santuccio), Messaggero (Marzio Margine), Coro (Mariano Rigillo); prima rappresentazione: 10 gennaio 1969, Teatro Valle, Roma.
[17] Intervista a Luca Ronconi (Intervista a Luca Ronconi, Lilla Brignone e Vito Pandolfi su Fedra, Terzo Programma, Rai Teche, 10 gennaio 1969).
[18] Intervista a Luca Ronconi (Intervista a Luca Ronconi, Lilla Brignone e Vito Pandolfi su Fedra, Terzo Programma, Rai Teche, 10 gennaio 1969).
[19] Da una conversazione inedita con Mariano Rigillo realizzata il 15 maggio 2024.
[20] Nel 1998 così ricorda lo scenografo in un'intervista realizzata da Dante Cappelletti: “A me furono affidati solo i costumi e io, considerando che gli attori erano costretti all'immobilità quasi assoluta, ebbi l'idea di fare di ognuno un monumento che sorgesse da quel piano, un monumento solo un poco animato dall'attore che vi era contenuto”. Vedi Cappelletti, Quadri 1998, 46.
[21] Da una conversazione inedita con Massimo Foschi realizzata il 9 maggio 2024.
[22] Intervistato da Maria Grazia Gregori per “l’Unità” in occasione del debutto de La serva amorosa, Ronconi dichiara: “Un testo nel quale vi sono già tutti i grandi temi del teatro borghese. Per questo ho voluto vedere i personaggi nella loro quotidianità senza manierismi”, vedi Gregori 1986, 13. E ancora, sul “Corriere della Sera”: “La serva amorosa mi sembra abbia un segno più scuro di tante altre sue commedie”, vedi Luca Ronconi: “Così affronto Goldoni”, vedi Anonimo 1986, 23. In occasione della messinscena de I due gemelli veneziani, così Ronconi afferma nell’intervista realizzata da Claudio Longhi per il programma di sala: “Ritengo per altro che non si possano nemmeno ridurre i Gemelli ad un mero catalogo di situazioni topiche. Certo la commedia non può essere ascritta alla produzione del Goldoni maggiore, ma in essa per rifarsi ad una categoria storiografica forse un tantino grossolana, ma certo non priva di praticità - è già leggibile in nuce l'intero progetto della "riforma" goldoniana”.
Riferimenti bibliografici
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Nota bibliografica dell’autore
Per le dichiarazioni autobiografiche di Luca Ronconi: L. Ronconi, Prove di autobiografia (a cura di G. Agosti), Milano 2019. Si tratta di un progetto editoriale che risale ai primi anni Novanta, a cura di Maria Grazia Gregori per la Ubulibri di Franco Quadri. Rimasto incompiuto, il testo è stato ritrovato tra le carte dell’Archivio Ronconi ed è pubblicato da Feltrinelli nel 2019, con il titolo Prove di autobiografia e la cura di Giovanni Agosti.
Il nemico di se stesso (1965)
L’adattamento di Ghigo de Chiara de Il nemico di se stesso di Terenzio è pubblicato dai Quaderni del Centro Teatrale Italiano nel 1965: P. Terenzio Afro, Il nemico di se stesso, traduzione e adattamento di G. De Chiara, Roma 1965.
- Anonimo, “Il nemico di se stesso” con canzoni di Modugno, “Corriere della Sera” (23 aprile 1965).
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Fedra (1969)
La tragedia di Lucio Anneo Seneca, nella traduzione di Edoardo Sanguineti, è pubblicata da Einaudi nel 1970. L. Anneo Seneca, Fedra, traduzione di E. Sanguineti, Torino 1970.
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- A. Savioli, Fedra di Seneca come un oratorio, “l’Unità” (13 gennaio 1969).
- R. Tian, In un inferno gelido la tragedia di Fedra, “Il Messaggero” (13 gennaio 1969).
English abstract
Starting from a recognition of gaps in the Luca Ronconi Archive, now housed at the ASAC of La Biennale di Venezia, and through a survey of archival documents, the article aims to reconstruct two of Luca Ronconi's theatrical productions from the 1960s: Il nemico di se stesso, a comedy by Publio Terenzio Afro translated by Ghigo De Chiara and presented in an unusual musical interpretation at the Roman Theater of Ostia Antica in the summer 1965, and Fedra, a tragedy by Lucio Anneo Seneca, in the translation of the poet Edoardo Sanguineti, produced for the Teatro di Roma in early 1969. These productions, which are Ronconi's only forays into Latin dramaturgy, ìrepresent two fundamental yet unexplored moments of the decade of the Sixties that saw the young director gradually establish himself on the Italian theater scene, before achieving a definitive recognition with the celebrated Orlando furioso (July 1969).
keywords | Luca Ronconi; Fedra; Il nemico di se stesso; Terenzio; Seneca; Ghigo De Chiara.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: nome e cognome, Due regie d’occasione. Il nemico di se stesso (1965) e Fedra (1969), “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.