"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

224 | maggio 2025

97888948401

”I grandi temi dell’esistenza”

Dialoghi delle carmelitane nella regia di Luca Ronconi (1988)

Chiara Pasanisi

English abstract

La storia teatrale di Luca Ronconi, come quella di molti attori e registi italiani formatisi nel secondo dopoguerra, ha inizio nelle aule dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, “la scuola togata, cattolicamente impostata da Silvio d’Amico, il fondatore, e Orazio Costa, regista-guida e ideologo” (Quadri 1973, 16), in cui tradizione e rinnovamento coesistevano determinando sia la trasmissione di sistemi e pratiche di recitazione di matrice capocomicale sia l’ideazione di nuovi metodi pedagogici (Angelini 1988, 155-156; Giammusso 1990; Oteri 2008, 139-161; Pasanisi 2021; Sica 2013; Viziano 2005).

Quando, il 24 settembre 1951, Ronconi presenta la domanda di ammissione in Accademia, in qualità di aspirante allievo-attore, ha da poco conseguito il diploma al liceo classico e non ha ancora maturato alcuna esperienza in campo teatrale, fatta eccezione per delle brevi incursioni in ambito scenografico[1]. Successivamente, è ammesso a frequentare il primo anno di corso, insieme a colleghi quali Warner Bentivegna, Elena Cotta e Quinto Parmeggiani, che negli anni a venire si distingueranno, sulle scene e sul grande schermo, dando vita ad alcune memorabili interpretazioni del teatro e del cinema italiano. La formazione di Ronconi, secondo una possibilità prevista dallo statuto dell’Accademia e riservata agli allievi particolarmente meritevoli, viene condensata in soli due anni anziché in tre, tanto che il conseguimento del diploma risale all’anno scolastico 1952-53[2]. Tra i suoi maestri di recitazione si annoverano Wanda Capodaglio, Sergio Tofano e Albamaria Setaccioli, esponenti della tradizione italiana di derivazione capocomicale e mattatoriale che, tuttavia, agiscono in un contesto riformatore. Nel comparto degli insegnanti figurano altresì Isabella De Grandis Mannucci, maestra di educazione della voce subentrata a Mario Pelosini dopo la sua scomparsa avvenuta nel 1950, e Orazio Costa, che in quel periodo aveva già iniziato a elaborare il metodo mimico (Camilleri 1957, 9-11).

1 | Classi di recitazione, anno accademico 1952-53 (Luca Ronconi in basso a destra). Fotografia in cartella Albamaria Setaccioli, Archivio Storico dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (Centro Studi Casa Macchia, Roma).

Durante il biennio di formazione accademica, Ronconi partecipa in qualità di allievo-attore a svariati saggi di regia e recitazione, – strumento pedagogico promosso da Silvio d’Amico nonché tratto distintivo della Scuola – fra cui Felice viaggio di Thornton Wilder e Santa Giovanna di George Bernard Shaw, inscenati nell’aprile del 1952 e curati rispettivamente da Albamaria Setaccioli e Wanda Capodaglio. I due saggi riscuotono un successo notevole e Silvio d’Amico si congratula con Albamaria Setaccioli, scrivendole una breve lettera in cui esprime la sua contentezza:

Mia cara Signorina, desidero inviarLe una parola cordiale, dopo avere assistito all’esito dei due saggi di Recitazione. Anzitutto, sento il dovere di ringraziarLa per l’opera intelligente e assidua con cui Ella ha collaborato alla riuscita dei saggi. Ma a questi ringraziamenti voglio aggiungere l’espressione del compiacimento, non soltanto mio ma di quanti spettatori mi hanno parlato in proposito, per i risultati conseguiti dal suo insegnamento agli allievi del primo anno, quale è apparso nelle due commedie così graziosamente scelte ed eseguite[3].

L’anno successivo, a maggio, vengono inscenati quattro saggi di recitazione curati da Setaccioli (La paura di prenderle di Georges Courteline, Così ce ne andremo di Vittorio Calvino) e da Wanda Capodaglio (Sulla via maestra di Anton Čechov, Come lui mentì al marito di lei di George Bernard Shaw), che ottengono di nuovo un buon riscontro da parte del pubblico e della critica (Giammusso 1990, 332-333). Pur lavorando in maniera assidua con le sue insegnanti di recitazione, Ronconi instaura con Orazio Costa un legame particolarmente significativo, le cui tracce permangono nel tempo, manifestandosi in alcune dinamiche di assimilazione e di opposizione e in un sentimento di “riconoscenza” che rimarrà sempre immutato. Qualche mese dopo la morte di Costa, avvenuta il 14 novembre 1999, Ronconi scrive:

Nel biennio 1951-52/1952-53 ebbi Costa come insegnante di recitazione in Accademia e in quegli anni mi trovai pure a seguire le sue lezioni di regia; subito dopo il mio debutto come attore sotto la guida di Squarzina in Tre quarti di luna nel 1953, proprio diretto da Orazio Costa mi trovai poi a cimentarmi nella mia seconda prova d’attore in una messa in scena di Candida di George Bernard Shaw prodotta dal Teatro Stabile di Roma (Compagnia del Piccolo Teatro di Roma) nel 1954. Il successivo appuntamento professionale – ma questa volta a ruoli invertiti – col mio ex insegnante risale a una ventina d’anni dopo la messa in scena shawiana appena ricordata, quando volli cioè Orazio come attore nella versione televisiva di Orlando furioso (Ronconi 2000, 19).

Nel racconto sono tralasciate le collaborazioni con Costa risalenti al 1952, quando, ancora allievo dell’Accademia, Ronconi recita nei saggi Aminta (Palazzo Ducale di Urbino, 2-3 agosto) e Donna del paradiso (Palazzo Ducale di Urbino, 9-10 agosto). Il mese successivo partecipa altresì alla produzione della Compagnia del Piccolo Teatro di Roma, L’ultima al patibolo, rappresentata dal 17 al 21 settembre alla Festa del Teatro di San Miniato, promossa dall’Istituto del Dramma Popolare. L’opera è la traduzione di Giuliano Attilio Piovano dei Dialoghi delle Carmelitane (1947-48) di Georges Bernanos, che Costa inscenò optando per il titolo originale del racconto di Gertrud von Le Fort da cui l’autore francese aveva tratto ispirazione per la stesura del dramma, inizialmente ideato come una sceneggiatura cinematografica. Ronconi interpreta il ruolo minore di un popolano, in un ensemble dove spiccava come solista Glauco Mauri[4].

2 | Manifesto dello spettacolo L’Ultima al patibolo (1952), prima rappresentazione in Italia dei Dialoghi delle Carmelitane, in Archivio Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato (San Miniato, Pisa), B.III.2 (1952).

Le cronache ovviamente riservarono uno spazio maggiore alle celebri attrici protagoniste dello spettacolo: Evi Maltagliati, Ave Ninchi, Anna Miserocchi (D’Amico 1952; Cajoli 1952; Fiocco 1952), seppure talora menzionarono, “la schiera di giovani allievi” dell’Accademia che “servì splendidamente” il regista (Fiocco 1952, 14-15). La partecipazione allo spettacolo costiano L’ultima al patibolo, tuttavia, non può essere pienamente considerata un debutto sulle scene – Ronconi a quel tempo non era ancora un attore professionista e la critica è concorde nell’indicare Tre quarti di luna di Luigi Squarzina come lo spettacolo che ne segna l’esordio ufficiale, il 3 marzo 1953 al Teatro Valle di Roma. A tal proposito Franco Quadri scrive: “Luca Ronconi aveva debuttato come attore a vent’anni, nel 1953; un attore di presenza gradevole, di dizione corretta, di educazione borghese e con i suoi interessi culturali, il tipo che la critica ama definire ‘sensibile e dotato’. Fu subito protagonista: un giovane seminarista in Tre quarti di Luna, novità di Luigi Squarzina sulla riforma scolastica e l’affossamento della libertà attraverso il controllo dell’insegnamento nell’Italia del ’22, primo avvento del fascismo” (Quadri 1973, 15).

L’Ultima al patibolo si configura per Ronconi come un’ulteriore occasione per conoscere a fondo e da vicino la prassi registica costiana, che in quegli anni costituiva una delle correnti stilistiche di matrice accademica che maggiormente caratterizzavano la fase aurorale dell’affermazione della regia in Italia (Prosperi 1947, 215-220). In particolare, Giulio Cesare Castello indugiò sulla poetica teatrale di Costa, in un articolo apparso su “Sipario”, evidenziandone il “temperamento severo e alieno dalle più scoperte ricerche spettacolari” e la “concezione rigorosa e rituale dello spettacolo, in omaggio anche all’insegnamento di Jacques Copeau” (Castello 1949, 28). A distanza di oltre trent’anni, Luca Ronconi sceglierà di rappresentare i Dialoghi delle carmelitane di Bernanos, distanziandosi in parte dalla visione e dallo stile del suo maestro, innanzitutto per quanto concerne l’approccio laico al testo drammaturgico che egli considera una riflessione sui “rapporti umani”:

Io, paradossalmente, non avverto nei Dialoghi tutta questa religione: lo vedo piuttosto come un dramma del linguaggio, una storia di rapporti umani, più che religiosi. Che poi si svolga in un convento tra suore è altro discorso. D’altronde non capisco perché la religione non debba interessare chi non la pratica. In quest’opera di Bernanos c’è uno schema ben preciso, fatto di tematiche diverse: la passione di Cristo, il sacrificio, l’accettazione del martirio. Il che può essere religioso, ma anche non esserlo: fa parte, infatti, di uno dei tanti condizionamenti di una passata cultura cattolica che sopravvive anche in una cultura non cattolica. […] Magari la pièce mi è tornata in mente e ho deciso di farla. Vede, io ho un ricordo ancora molto preciso di quando vi debuttai diciassettenne come comparsa: la regia era di Orazio Costa e si trattava di una versione assolutamente religiosa, con odore d’incenso e voci salmodianti. Mancava invece del tutto quell’asprezza che secondo me, trasuda dal testo (Gianeri, Ronconi 1988, corsivo mio).

Seppure rammentata, la partecipazione a L’Ultima al patibolo, per ammissione dello stesso regista, non può certo essere considerata la ragione preminente che lo spinge a inscenare i Dialoghi (Ater, Ronconi 1988). Non si tratta nemmeno di una trascurabile coincidenza: quella esperienza giovanile influenzerà la produzione del 1988, che si configura come un caso di studio di particolare interesse laddove consente di comprendere, da un lato in che misura la prassi scenica di matrice accademica e il magistero di Costa abbiano influito, in quel frangente, sull’operato di Ronconi dall’altro in che modo il regista abbia inscenato un’opera a carattere sacro, a partire da una riflessione laica di carattere esistenziale.

La recitazione e la regia

I Dialoghi delle carmelitane debuttano il 19 marzo 1988 al Teatro Storchi di Modena con la traduzione di Giuliano Attilio Piovano – la stessa della versione di Costa –, le scene di Margherita Palli e un complesso di celebri attrici, quali Franca Nuti, Paola Mannoni e Marisa Fabbri, che in passato avevano già lavorato con Ronconi[5].

La storia, ambientata nella Francia postrivoluzionaria del 1794, è incentrata sulla triste vicenda delle Carmelitane di Compiègne, un gruppo di suore condannate alla ghigliottina per la mancata rinuncia ai voti monastici, aboliti durante il periodo del Terrore. La protagonista Blanche de La Force, personaggio dal nome antifrastico e raffigurazione icastica della paura, è una giovane ragazza di nobili origini dal temperamento timoroso che aveva deciso di abbracciare la vita religiosa a causa di un malessere psicologico e che, suo malgrado, andrà incontro al martirio. L’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi di Roma conserva una copia del documento audiovisivo dello spettacolo, che consiste in una videoregistrazione teatrale, ossia una “ricostruzione audiovisiva di un evento teatrale eseguita in modo completo”, utile ai fini di un’analisi, laddove “la finalità di ogni audiovisivo teatrale è legata alla natura stessa della disciplina teatrale che ha come oggetto di studio elementi dinamici ed eterogenei” (Sabatini 2010, 29-30)[6].

Un elemento senz’altro riscontrabile da una prima analisi del documento riguarda il Leitmotiv della partitura registica ronconiana: l’asprezza intrinseca al testo diviene una caratteristica dominante del temperamento dei personaggi e di conseguenza della recitazione delle attrici, che pur esprimendo talora irrefrenabile paura talaltra ostentato coraggio, mantengono sempre un tratto di asperità sia per quanto concerne l’espressività mimico-gestuale che quella vocale. L’asprezza di toni è resa mediante l’impeccabile padronanza delle tecniche di recitazione e un lavoro di “immedesimazione critica”: Ronconi, per stessa ammissione di Franca Nuti (Priora de Croissy), pretese un “impegno terribile” da parte delle sue attrici, soprattutto per quanto riguarda l’esternazione della paura. La Priora de Croissy, ad esempio, sul punto di morire “ha paura e non teme di affermarlo e di perdersi nella stima degli altri, assumendosi tutte le responsabilità della propria paura e di una morte degradante” (Gianeri, Nuti, 1988). Inoltre, evidenzia Nuti,

“sulle suore incombono mille paure, oltre a quella della morte, quella del mondo esterno, quella del martirio, della violenza. La rivoluzione non è fuori dalle mura del Carmelo ma anche all’interno […]. È un discorso sull’impossibilità delle convivenze” (Gianeri, Nuti 1988).

Il regista si avvalse di un gruppo di attrici a lui familiari, che lavoravano insieme in piena armonia e che, in quel periodo, erano altresì protagoniste di un recital a tema sacro, di cui Nuti raccontò in un’intervista apparsa sul quotidiano “Stampa sera”:

“la Fabbri, la Mannoni e io teniamo spesso una sorta di lettura drammatica di brani scritti da Santa Teresa d’Avila, cui certamente s’ispirò Bernanos. La quale, fra l’altro, produsse moltissimo, volumi e volumi sull’amicizia, la regola […] e sono momenti di un modernismo straordinario: per esempio quando incita le donne a evadere dalla femminilità stereotipata della perfetta madre di famiglia per diventare forti come uomini” (Gianeri, Nuti 1988).

Nel processo di lavoro con le attrici un elemento cardine riguardava la ricerca delle “ragioni profonde” che muovono emotivamente e fisicamente i personaggi, soprattutto in un periodo storico in cui Ronconi lamentava alcune carenze lampanti negli interpreti che agivano sulle scene italiane: “credo che siano pochi gli attori che, interrotti mentre stanno recitando, saprebbero spiegare perché fanno così, perché si muovono in questo modo, se non dicendo che alla gente piace così o che a lui piace così, difficilmente trovano una ragione più profonda”, dichiarò a tal proposito (Corrias, Ronconi 1988). Per sopperire a queste inadeguatezze sarebbe stato necessario un approfondito studio del testo drammaturgico, così come evidenziato da Marisa Fabbri, che recitò nei Dialoghi con il ruolo di Madre Maria, al secolo Madame Lidoine. Fabbri considerava “straordinaria” la capacità del regista di “usare il testo come una partitura musicale, trasformare gli attori in co-autori o scrittura vivente”. “Normalmente agli attori si chiede di interpretare un testo. Ronconi ti chiede di diventare il testo. Il suo lavoro è simile a quello di un musicista”, osserva, inoltre, Fabbri (Corrias, Fabbri 1988). La testimonianza conferma che Ronconi, durante la preparazione dei Dialoghi, consentì alle attrici di assumere un ruolo attivo all’interno del processo di inveramento scenico, ponendo al centro la loro capacità di co-creazione – l’espressione “co-creatore” è stata talora utilizzata dal regista in riferimento al suo lavoro con gli attori, ad esempio in alcune riflessioni, esternate durante un dialogo con Gianfranco Capitta:

Credo, e tuttora continuo a pensare, all’attore come a un elemento fondamentale di drammaturgia. Un attore deve saper leggere non solo il suo personaggio, la sua ‘parte’, ma la struttura, il senso, il significato, le possibilità di tutta un’opera, per riuscire poi a ritagliarsi all’interno di quell’opera qualcosa di suo. In questo senso è un co-creatore. Naturalmente, questa possibilità di essere inventore non può compiersi se non c’è una capacità di conoscenza totale; anche di errore, ma comunque di conoscenza (Ronconi, Capitta 2012, 34).

Ronconi considerava Marisa Fabbri l’attrice-emblema di tale processo di co-creazione consapevole, intimamente legato alla concezione che il teatro fosse innanzitutto una “forma di conoscenza” (Ronconi, Capitta 2012, 34-35). La restituzione del testo drammaturgico e la messa in forma dei personaggi non si configuravano come una mera interpretazione di carattere esecutivo o come un’acritica adesione psicologica ma scaturivano dalla capacità di impiegare quella che Renzo Tian, nell’elaborazione della sua concezione di “recitazione critica” aveva definito l’“esperienza intellettuale” (Tian 1965, 3). L’attore critico, infatti, avrebbe dovuto prediligere gli aspetti analitici e razionali all’aderenza psicologica al personaggio, determinando un’“immedesimazione critica” (Tian 1965, 3).

In Italia, l’espressione “recitazione critica” era stata impiegata già negli anni Venti da Pietro Gobetti, in riferimento a Eleonora Duse, e poi ripresa successivamente dall’attrice-regista e autrice Elsa De Giorgi in suo studio dusiano, nel 1960 (Gobetti 1923; De Giorgi 1960). Negli anni Sessanta, Tian, a partire da una proposta di Luigi Squarzina, considera la “recitazione critica” il principio-base regolatore dell’“attore moderno” e del suo rapporto di mutua “collaborazione” con il regista. Nel secondo Novecento, tale prassi scenica era sovente legata al fenomeno della regia critica a cui fungeva da completamento. Ronconi, tuttavia, non si configurava come un regista critico, innanzitutto per una questione generazionale: agli albori degli anni Settanta, era già considerato uno dei massimi esponenti di una nuova leva registica che avrebbe potuto sostituirsi alla precedente. Claudio Meldolesi, quindi, lo descrive come “il più innovatore dei registi”, sottolineando tuttavia il suo debito nei confronti della “cultura critico-registica”, tanto da considerarlo un regista “neo-critico”, oltre che “un regista a sé, a sé più di ogni altro, progredito al di là delle scuole esistenti” (Meldolesi [1984] 2008, 545-547)[7].

Gastone Geron, dieci anni dopo le considerazioni di Tian, nel suo volume Dove va il teatro italiano stilerà un elenco degli attori e delle attrici contraddistinti da un’evidente attitudine critica – fra cui annovera a pieno titolo Franca Nuti – ribadendo che essi “nella loro attività di palcoscenico tendono non tanto ad un’adesione psicologica nei confronti dei personaggi di volta in volta interpretati, quanto ad una loro proiezione scenica basata su un’approfondita esperienza intellettuale” (Geron 1975, 205). La centralità dell’attore, insieme alla pedagogia, è un elemento cardine del lavoro di Luca Ronconi: egli stesso lo ribadì in diverse sedi, enucleando alcuni temi che caratterizzavano la sua poetica teatrale. Uno di questi riguarda il processo di “messa in scena” che “non è mai stato disgiunto dall’impegno didattico, essenzialmente concentrato sulla figura dell’attore. In totale dissenso con la moda dello spontaneismo e con il mito della incondizionata libertà espressivo-creativa riconosciuta all’artista” (Ronconi [1999] 2016, 42). Nella parabola artistica del regista che, come è noto, è costituita anche da numerose esperienze d’insegnamento, fra cui quelle all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, alla Scuola del Teatro Stabile di Torino e al Centro Teatrale Santacristina di Gubbio (Pg), il magistero di Orazio Costa svolge un ruolo significativo, sia per quel che riguarda l’approccio al testo drammaturgico, sia per quanto concerne la centralità conferita alla ricerca di senso (e di conoscenza) a cui è possibile rispondere soltanto attraverso percorsi intellettuali anziché istintuali:

Al di là delle profonde differenze di gusto e di orientamento culturale che ci hanno separati, non posso e non voglio nascondere che Costa ha ricoperto un ruolo determinante nella mia formazione teatrale. Certo non mi sono mai riconosciuto nel metodo Costa, ma da Costa ho imparato la necessità di fondare su basi etiche (più ancora che mistiche) il rapporto con la scena, il piacere di analizzare le questioni interpretative risolvendole di volta in volta secondo le loro irriducibili specificità nell’ambito di una robusta “quadratura” intellettuale e, pur se forse sulla base di diversi presupposti estetici, con Costa ho condiviso la passione per la parola-in-scena. In fondo alle origini della mia visione del teatro come momento di conoscenza c’è anche l’idea costiana del teatro come “misura dello spirito”, alle radici del mio approccio empirico all’esperienza registica ci sono i ricordi di certe lezioni di Costa e di certi suoi suggerimenti su come “scartocciare” – mi si passi il termine – logicamente i problemi di senso; forse il mio rispetto quasi maniacale del testo non poggia sulla fede nel logos, ma sicuramente la cura attenta che cerco di dedicare alla restituzione teatrale della parola non è troppo lontana dal rigore con cui Costa “leggeva in scena” Ibsen o Molière, Goldoni o Alfieri o i classici del teatro religioso medioevale (Ronconi 2000, 19).

Il processo di creazione scenica dei Dialoghi comportò, quindi, un cesellamento del testo drammaturgico e un diretto coinvolgimento delle attrici e della loro co-creatività. Per quanto riguarda, invece, le scene di massa, Ronconi impiegò delle videoproiezioni, in particolare nelle due scene-chiave corali che, da un’analisi del testo drammaturgico, risultano le più significative rispetto all’esternazione dell’emozione della paura da parte dei personaggi (Pasanisi, 2018): l’incidente pirotecnico narrato nel prologo e l’irruzione dei commissari nel convento delle carmelitane nel secondo quadro.

Il prologo del dramma di Bernanos, così come il racconto di Gertrud von Le Fort da cui è tratto, è incentrato su un incidente pirotecnico che ebbe luogo nel 1774 a Parigi “[…] la sera delle feste per il matrimonio del Delfino, il futuro re Luigi XVI, con l’arciduchessa Maria Antionietta”. Si legge in Bernanos:

Le carrozze dei nobili passano in mezzo alla folla festante contenuta dal servizio d’ordine. In una carrozza, una giovane coppia, il marchese De La Force e sua moglie che è incinta […]. Cominciano i fuochi d’artificio, ma ad un tratto alcune casse di razzi s’incendiano e gli scoppi si susseguono. Sebbene non ci sia alcun pericolo grave, il panico s’impadronisce della folla. Scompiglio, grida di paura, qualcuno cade in terra ed è calpestato. La giovane Marchesa è spaventata. Il cocchiere frusta i cavalli, che si imbizzarriscono e si lanciano in una corsa sfrenata. […]. Una voce d’uomo grida: ‘Cambierà tutto presto, voi sarete massacrati, e noi andremo a spasso nelle vostre carrozze!’. E la Marchesa vede la faccia del mostro orrendo e spirante orrore: ma arrivano in tempo i soldati a liberarla. Poche ore dopo dalla camera della Marchesa, a palazzo De La Force, esce un medico, il quale annuncia al Marchese che gli è nata una bimba, Bianca, ma che la giovane madre è morta. Bianca, spinta, per così dire, dallo spavento di sua madre anzitempo alla luce del giorno, sembra non aver ricevuto altra qualità naturale che, per l’appunto, quello stesso spavento (Bernanos 1949).

Dall’analisi del documento audiovisivo dello spettacolo emerge che Ronconi sceglie di porre al centro del palcoscenico l’imponente carrozza della Marchesa de La Force, simbolo di un’aristocrazia ormai in declino. Il rumore di un’esplosione improvvisa squarcia il silenzio. La recitazione del prologo è quindi affidata a una voice over. Contemporaneamente, sullo sfondo del palcoscenico, la videoproiezione immerge gli spettatori nelle scene di panico collettivo e nei tumulti scaturiti dall’incidente pirotecnico, resi attraverso alcune sequenze afferenti al cinema francese anni Venti, fra cui risulta immediatamente riconoscibile Napoléon di Albel Gance (1927) e a cui seguono alcuni filmati di repertorio della Prima guerra mondiale.

Nel secondo quadro, quando i commissari invadono il convento, Ronconi ricorre, di nuovo, a una videoproiezione per amplificare il senso di terrore che attraversa la scena. La proiezione non si limita a supportare la narrazione, bensì la intensifica, generando una simultaneità visiva e narrativa, volta a creare un parallelismo tra l’azione scenica e l’esplosione di violenza in atto nelle strade della città. Lo spazio scenico è diviso orizzontalmente in due parti: nella porzione inferiore recitano gli attori, mentre nella parte superiore si alternano immagini di disordini e sopraffazione, sempre tratte da scene mutuate dal cinema francese. A tal proposito Ronconi dichiarò:

C’è un ricorso abbastanza forte a materiali cinematografici; laddove la rivoluzione (assalto al convento ecc.) fa il suo ingresso in scena, lo fa attraverso immagini di repertorio e non attraverso i personaggi in carne ed ossa. Infatti, non ci sono comparse né stereotipi teatrali. Si ricorre invece al vecchio cinema francese e vengono proiettate scene di assedio ecc. che sono, allo stesso tempo, di tipo storico e tecnologico (Ater, Ronconi 1988).

L’influenza del cinema sul teatro, intesa come una “rieducazione dello sguardo” capace di ripercuotersi sull’ “esperienza teatrale”, è un tema caro al regista, che non esitava ad affermare come la “percezione ottica contemporanea” si fosse strutturata sul “paradigma filmico” (Ronconi [1999] 2016, 49). Ronconi ricorse spesso all’impiego di alcuni elementi afferenti a tale paradigma, talora impiegando “strutture spaziali mobili”, talaltra, come nel caso dei Dialoghi, avvalendosi di videoproiezioni, dell’uso di pannelli e di una suddivisione dello spazio scenico che rimandava alla tecnica di montaggio split screen. Simili scelte estetiche e stilistiche non determinano uno snaturamento della scena teatrale, bensì un rinnovamento, attuabile a partire dalla consapevolezza che: “ogni nuovo tentativo di svecchiare la comunicazione scenica tramite il confronto con forme comunicative o conoscitive extrateatrali deve passare attraverso un’attenta meditazione di quelle che sono le irriducibili specificità del teatro” (Ronconi [1999] 2016, 50).

Un finale evocativo

La recitazione d’insieme aveva contraddistinto lo stile registico di Orazio Costa sin dal suo esordio, negli anni Cinquanta la scelta di “testi corali” si era ulteriormente accentuata in relazione alla ricerca e all’attività in ambito pedagogico (Saturno 2001, 214). Nella cronaca dello spettacolo L’ultima al patibolo Achille Fiocco aveva evidenziato l’eccessivo impiego di musiche e cori, che, a suo dire, risultavano sovrabbondanti. Tuttavia, questa scelta registica era stata dettata dalla necessità di adattarsi alla grandiosità dello spazio scenico: la chiesa di San Francesco, a San Miniato, che richiedeva un supporto sonoro adeguato a mantenere l’armonia dello spettacolo. Fiocco, inoltre, rileva che Costa era riuscito indubbiamente a lasciare un segno positivo, delineando i tratti distintivi dei personaggi e gestendo i cori in modo impeccabile, nonostante la loro eccedenza (Fiocco 1952, 14-15).

La recitazione corale, invece, è assente dalla regia di Ronconi, che, come si è visto, sceglie di affidare le scene di massa alle videoproiezioni. Similmente, l’interpretazione del testo e dei motivi-chiave da cui è caratterizzato il dramma di Bernanos determina uno iato con la regia di Costa. Ronconi considera i Dialoghi un dramma incentrato sui “grandi temi dell’esistenza” e nell’affrontarlo è spinto, innanzitutto, da un interesse “letterario” (Ater, Ronconi 1988). L’Ater (Associazione Teatri Emilia-Romagna), infatti, gli aveva suggerito di inscenare un testo inerente alla Rivoluzione Francese, in occasione del suo bicentenario. Il regista decise di optare per l’opera di Bernanos, eludendo qualsiasi prospettiva storicistica, la sua attenzione era semmai rivolta alla comunità femminile di suore carmelitane protagonista dell’opera, intesa come un microcosmo regolato da precise regole intrinseche che rifletteva in una dimensione microstorica la macrostoria del mondo. Una similarità con lo spettacolo costiano del 1952 è tuttavia ravvisabile nella scena finale, ossia l’eccidio delle suore. Ronconi inserisce un canto corale, il Salve regina, intonato dalle religiose mentre si avviano verso la ghigliottina, che segnerà indelebilmente il loro destino. Il patibolo, tuttavia, non è presente sulla scena: le suore entrano in un angusto uscio, ricavato da una parete mobile che, in seguito, si alzerà mostrandole svestite e senza vita. Franco Quadri ravvisa nella scena un possibile riferimento ai campi di sterminio:

Le monache si avviano al patibolo, al canto del Salve Regina, ed entrano a una a una in una piccola porta che sembra designare una camera a gas. Subito dopo, l’alzarsi della parete ce le mostra nude su un tumulo, una catasta di carni come in certe fotografie dei campi di sterminio. Ma se rappresentassero invece l’immagine di una pace raggiunta, come in una scena alla fine di una notte di festa? (Quadri 1988).

Lo stesso parallelismo è evidenziato da Gastone Geron nel programma di sala dei Dialoghi, in riferimento alla messinscena costiana del 1952: “L’olocausto delle carmelitane di Compiègne evocava, in anni immediatamente postbellici, quell’altro Olocausto per antonomasia consumato nelle camere a gas e nei forni crematori dei lager nazisti, aggiungendo ulteriore pathos” (Geron 1988, 37). Ronconi aveva menzionato l’importanza storica che il dramma di Bernanos aveva acquisito nell’immediato secondo dopoguerra, osservando che agli albori degli anni Cinquanta “si era più portati a leggere un testo secondo la storia recente e non il contrario” (Ater, Ronconi 1988). Sebbene il regista intendesse oltrepassare il perimetro del contrasto tra religione e politica e tra religione e ragion di Stato (Ater, Ronconi 1988), nella scena finale, come rileva Quadri, può essere ravvisabile un chiaro riferimento alla storia del Novecento.

L’accoglienza della critica fu estremamente positiva (Fasi 1988; Manin 1988a, b, c), Gianluca Favetto considerò i Dialoghi lo spettacolo “più intenso e interessante” della stagione teatrale e Ronconi venne definito “un insuperabile direttore di attrici” (Favetto 1988). Similmente, Osvaldo Guerrieri mise in evidenza la “sensibilità laica” del regista e la capacità di inscenare i Dialoghi interpretandoli come “una grande opera sulla paura e sul coraggio”, resa scenicamente in modo efficace grazie alle creazioni di Margherita Palli, consueta scenografa delle messinscene ronconiane. Scrive Guerrieri:

Ronconi esplora ogni possibile faccia della paura e ce la descrive con un uso stupefacente dell’inquadratura, dei piani sequenza, dei primi piani, delle dissolvenze. […] Quinte e fondali scorrono paralleli o ortogonali, in modo da disegnare ambienti in continuo cambiamento, da allontanare e avvicinare, ‘stringere’ e ‘allargare’, fino all’invenzione di quel pannello nero che, scivolando sul boccascena, ha la straordinaria proprietà di cancellare e ridisegnare ambienti in un rapido volgere di secondi (Guerrieri 1988).

Di recente, Margherita Palli, in un dialogo con Oliviero Ponte di Pino, si è soffermata retrospettivamente sul suo lavoro scenografico e sull’ideazione dei pannelli nei Dialoghi, raccontando che:

[Ronconi] per prima cosa mi disse che dovevamo stare in un cinema parrocchiale degli anni Cinquanta, in un posto brutto sull’autostrada, in una chiesetta di periferia senza qualità. Voleva uno spazio capace di trasformarsi con pareti che si spostavano. Abbiamo cominciato a lavorare sulle pareti e sui filmati da proiettare alle pareti (Ponte Di Pino, Palli 2021, 56).

Questa estetica dello spazio, oltre a ricollegarsi all’elemento filmico e alla relazione tra teatro e cinema, connota fortemente la poetica teatrale di Ronconi. Il rapporto con Orazio Costa si delinea, dunque, come un rapporto dialettico e alcuni degli insegnamenti cardine, ricevuti durante le lezioni in Accademia, scorrono sottotraccia nella regia ronconiana del dramma di Bernanos: soprattutto il rispetto del testo drammaturgico, la vocazione razionale, l’attitudine a creare delle messinscene impegnative per quanto concerne gli aspetti legati alla loro realizzazione e alla conseguente possibilità di affrontare lunghe tournée (Ater, Ronconi 1988). Le regie di Ronconi sono state talvolta descritte come dei “kolossal”, soprattutto in riferimento agli effetti spettacolari e grandiosi (Geron 1975, 183) e all’utilizzo dello spazio – Lorenzo Mango, nei suoi studi sul Novecento teatrale, ha sottolineato come “lo spazio scenico” nelle regie ronconiane acquisisce sempre un “valore drammaturgico che sia il corrispettivo visivo del testo”, a cui fanno da completamento “il montaggio drammaturgico (che può rispettare o modificare l’andamento narrativo) e una recitazione altamente formalizzata che rifiuta lo psicologismo” (Mango 2019, 261). Dialoghi delle carmelitane venne definito dalla critica una messinscena “kolossal”, visti la sua durata di cinque ore, i cinquanta cambi di scena e lo “schermo gigante” impiegato per le videoproiezioni (Anonimo 1988). Questi aspetti denotano alcuni ulteriori punti di contatto con L’ultima al patibolo, che, similmente ai Dialoghi, riscosse un ottimo successo seppure comportò dei costi eccessivi (Saturno 2001, 214), causati dal complesso delle attrici, dalle articolate scenografie e dalla durata particolarmente estesa. Ronconi non nutriva alcun dubbio sulla necessità di rispettare la lunghezza notevole determinata dalla struttura del testo drammaturgico, malgrado questo aspetto venne talora contestato dalla critica, egli ribadì che il regista non avrebbe dovuto manomettere un testo, piuttosto fornirne la corretta interpretazione nel rispetto della scrittura dell’autore: “è uno spettacolo lungo, certo, dura cinque ore: ma le lungaggini dovrebbero contestarle all’autore, non a me. Io non ritengo che tagliare un testo, per renderlo più accettabile e veloce, faccia parte delle funzioni del regista. A me, di solito, piace rappresentare i testi integri, come sono: se poi sembrano noiosi, pazienza” (Gianeri, Ronconi 1988). Questa asserzione conferma che il magistero di Costa aveva lasciato un segno.

Dialoghi delle carmelitane si situa coerentemente nella parabola artistica di Ronconi, rappresentando un segmento significativo che si lega sia agli anni giovanili, alla sua formazione, al confronto con il suo maestro, sia alle costanti che ne caratterizzano la poetica teatrale: il linguaggio espressivo del cinema posto in connessione con il teatro, il lavoro meticoloso con gli attori, la scena intesa come il luogo in cui la quête esistenziale e intellettuale può trovare delle risposte.

Note

[1] Domanda di ammissione di Luca Ronconi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, manoscritto, 24 settembre 1951, in fascicolo n. 52, Archivio Storico dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, Centro Studi Casa Macchia, Roma; Quadri 1973, 16; Ronconi, Capitta 2012, 5.

[2] Lo statuto dell’Accademia d’Arte Drammatica, ideato da Silvio d’Amico, fu varato il 25 aprile 1938 per mezzo del decreto-legge n. 742 ed è ora leggibile in “Quaderni di teatro: rivista trimestrale del Teatro regionale toscano”, 32 (1985-86), 50-55.

[3] Lettera di Silvio d’Amico ad Albamaria Setaccioli, 22 aprile 1952, dattiloscritto con firma autografa su carta intestata dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, in Fondo Setaccioli, Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, busta 1 (vedi Accademia Nazionale d’Arte Drammatica: saggi di recitazione 1951-1952, programma di sala, in Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, DAM PRS. 00647).

[4] ) In locandina il ruolo di Glauco Mauri è indicato con la dicitura: “un popolano”, il ruolo di Ronconi, invece, insieme a quelli di Vittorio Di Giuro e Renato Minardi, è descritto mediante la dicitura: “altri popolani” (vedi Locandina dello spettacolo L’ultima al patibolo, 1952, Archivio Storico dell’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, Pisa).

[5]Dialoghi delle Carmelitane di Georges Bernanos, traduzione di Giuliano Attilio Piovano, Scene di Margherita Palli, Costumi: Carlo Diappi, Luci: Sergio Rossi, Musiche: Paolo Terni, Produzione: Ater – Emilia-Romagna Teatro. Interpreti: Angela Baviera (Suor Alice), Pietro Bontempo (Un servitore, il medico, il secondo commissario, il notaio), Sabrina Cappucci (Blanche De La Force), Pino Colizzi (primo commissario), Laura De Angelis (Suor Valentina della Croce), Maurizio Donadoni (Il cappellano del Carmelo), Marisa Fabbri (Madre Maria), Rita Falcone (Suor Marta), Alessandro Gassman (Il cavaliere, fratello di Blanche), Raffaella Lebbroni (Suor Matilde), Anna Lelio (Madre Giovanna di Gesù Bambino), Biancamaria Lelli (Suor Anna), Paola Mannoni (Madre Maria dell’Incarnazione), Franca Nuti (Mme De Croissy), Anna Recchimuzzi (Suor Antonia), Anna Maria Torniai (Suor Gertrude), Gabriella Zamparini (Suor Gertrude), Maria Zanchi (Suor Chiara). Vedi Dialoghi delle Carmelitane di Georges Bernanos, regia di Luca Ronconi, programma di sala, Bologna 1988.

[6] Per un approfondimento sulle possibilità e le metodologie di analisi degli audiovisivi teatrali cfr. almeno Cascetta 1991; Compatangelo 1999; Grasso 2000; Monteverdi 2005; Ottai 1994, 2000; Quarenghi 1995; Sabatini 2010; 2023; Tabanelli 2004.

[7] Per un’analisi complessiva dell’attività teatrale di Luca Ronconi cfr. almeno: Cavaglieri 2003; Grieco 1989; Innamorati 1991; Longhi 2006; 2012; 2016; Marchetti 2016; Milanese 1973; Ponte Di Pino 1988; 2021; Quadri 1973; Vitaliano 2021.

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English abstract

Luca Ronconi’s theatre is influenced by his youthful years, spent at the National Academy of Dramatic Art in Rome. Ronconi, indeed, attended the Academy from 1951 to 1953 as a student actor. Orazio Costa’s theatrical elements – although Ronconi never obeyed to his master’s method (Ronconi 2000) – emerged in 1988, when Ronconi staged a play on sacred themes: the Dialogues des Carmélites by Georges Bernanos, written between 1947 and 1948 as a spiritual testament of the author (Béguin 1954). Evaluating the case study of the stage direction of the Dialogues, this essay aims at depicting on one hand the coherence and differences with academic scenic practices, and, on the other hand, to highlighting the value of the Dialogues, and their staging, acquire along the directorial way of Luca Ronconi. Why does Ronconi choose Bernanos ’drama? What stylistic and aesthetic devices does Ronconi take to feature “the great issues of existence” on stage? What is Ronconi’s attitude towards the actresses involved in the Dialogues? The above-mentioned questions will be answered through an historical and critical prospective by analyzing the key-moments of the stage direction of the Dialogues and by tracing, at the meantime, the authorial features that characterized them.

keywords | Luca Ronconi; Orazio Costa; Stage direction; Acting; Dramaturgy.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Chiara Pasinasi, “I grandi temi dell’esistenza”. Dialoghi delle carmelitane nella regia di Luca Ronconi (1988), “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.