"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

224 | maggio 2025

97888948401

Mente romanzesca e mente teatrale

Voci del Pasticciaccio dalla pagina alla scena (1996)

Piermario Vescovo

English abstract

Scena da Quer pasticciaccio brutto di via Merulana di Luca Ronconi, Teatro Argentina, 1996, ©Marcello Norberth. Si ringrazia per questa immagine il Centro Teatrale Santacristina.

Con mente romanzesca si farà qui riferimento all’orizzonte che nel romanzo raccorda i piani diversi della storia e del racconto, nel senso che i narratologi danno a queste parole, in particolare in rapporto al cosiddetto narratore onnisciente o extradiegetico. Nel mio interesse, di vecchia data, per i rapporti tra teatro e romanzo, si inscrivono precedenti, brevi, considerazioni sul Pasticciaccio che Luca Ronconi realizzò nel 1996, dal romanzo di Carlo Emilio Gadda e, più in generale, sul rapporto, continuato nel tempo, del regista con opere narrative (a partire ovviamente dall’Orlando furioso del 1969). Una lunga esperienza che trovò in questa prova un esito per più motivi centrale, per valore, per posizione e per la rinuncia all’adattamento in forma drammatica. Lo spettacolo, anzi, si può considerare un punto d’arrivo anche rispetto ad altre messinscena successive, tra cui in particolare quella non condotta a termine, del 1998, dei Fratelli Karamazov, nella constatazione di una sostanziale ripetizione di esperienza, ma anche per il rilancio su altri fronti. Si vedano, in particolare, la complicazione rispetto al romanzo rappresentata dal suo riflesso o ‘trattamento’ cinematografico per Lolita (ispirata infatti alla sceneggiatura dello stesso Nabokov, non al romanzo ‘originale’) e di Infinities di Don J. Barrow, con una messa in scena fuori dalla ‘scatola’ del palcoscenico del teatro all’italiana, in uno spazio di stabilimento industriale dismesso, alla Bovisa di Milano. Esperienza, quest’ultima, che apriva al tema di un’utopia spettacolare – termine che peraltro dava il titolo a un precedente spettacolo ronconiano del 1975, su testi di Aristofane – come movimento di andata e ritorno negli anni tra le due dimensioni, del palcoscenico tradizionale e degli spazi altri. Ma su questo torneremo più avanti e basti per ora aver citato questi due altri esempi, che datano al 2001 e 2002, indicando uno sviluppo di piani o livelli rappresentativi che supera la stessa, già plurima, complessità di uno sguardo o di una ‘mente’ che si possono dire ‘romanzeschi’, aprendo al campo o alla questione che si proverà a comprendere con “mente teatrale”.

La nozione fu proposta da Ferdinando Taviani in un intervento di dimensioni inversamente proporzionali alla ricchezza dell’argomentazione (Taviani 1988). La riflessione del saggio, anzi delle tre brevi note che lo compongono, cominciava sul terreno storico, in riferimento a un sistema di composizione del testo drammatico, quindi e ovviamente dello spettacolo, a definire una forma ‘moderna’, che si lega, a partire dagli ultimi decenni del XVI secolo e nel corso del XVII, alla pratica delle compagnie professionali, riguardante in particolare la cultura teatrale degli italiani. Questa nozione si applica altresì all’esperienza, a noi più prossima, diversamente novecentesca e secondo-novecentesca, investendo, scriveva Taviani, quei processi teatrali “che non potremmo non chiamare mentali” (Taviani 1988, 3), in una prospettiva assai utile per impostare un discorso che tenti di superare la stessa categoria del ‘teatro di regia’, o che rapporti le prove più alte e significative di questa tradizione, fuori dai luoghi comuni, a un diverso e più ampio orizzonte.

I.

In un’intervista che data alla vigilia del debutto dello spettacolo, Ronconi riassume brevemente questa scelta, con una dichiarazione che mostra la conoscenza di questioni che potremmo, appunto, definire col ricorso a categorie narratologiche (ovvero attraverso la ‘prospettiva narrativa’ e in particolare la ‘figura’ della focalizzazione, per impiegare la terminologia di Gérard Genette), nell’attribuzione di porzioni del testo pronunciato sulla scena non solo a chi parla ma, appunto, a chi vede o sta vedendo (o che, addirittura, prefigura qualcosa che deve avvenire o accadere)[1].

Uso il testo così com’è, senza mediazioni drammaturgiche, lasciandogli la sua autonomia di romanzo. Per questioni di durata ho fatto molti tagli, ma non cambio una sillaba. Attribuisco le pagine ora a questo ora a quel personaggio: chi dialoga, chi racconta, chi testimonia quanto ha visto o sta vedendo, chi prefigura fatti a venire (Bentivoglio 1996).

La dichiarazione d’intenti prosegue con l’implicazione di quello che si suole definire il carattere ‘barocco’ dell’impasto linguistico del romanzo gaddiano, ricordando tuttavia il rifiuto di questo aggettivo da parte dell’autore, secondo cui non lui ma il mondo era ‘barocco’ (Ronconi dice “la vita”):

È la lingua di Gadda a rendere possibile questo trasferimento dalla pagina alla scena perché presuppone l’oralità. L’impasto linguistico gaddiano è vivo, passionale. Barocco, certo, ma senza artificio letterario. Dice Gadda: è la vita a essere barocca. Lui vi si adegua riflettendo con strumenti letterari quel garbuglio di cause che debilita la ragione del mondo (Ronconi in Bentivoglio 1996).

Per l’una e per l’altra questione, per la specie dell’impasto linguistico, tra chi parla e chi racconta vedendo, e per “il più insistito luogo comune” al riguardo, spunti notevoli sono offerti da un recente libro di Gabriele Frasca, a partire dalla domanda se la prosa del Pasticciaccio (il suo pastiche, appunto, per usare un termine di Gianfranco Contini riferito alla lingua delle precedenti prove narrative, termine pure respinto dal destinatario, ma che di fatto lo condusse in qualche modo a questo titolo) possa definirsi “una sontuosa orchestrazione barocca”:

Semplicemente no, perché alla cultura del Seicento, lo sappiamo bene, ripugna la mescidanza delle lingue e risulta odiosa come poche cose al mondo – perché è esattamente l’opposto di ciò che con tutte le forze la sua propaganda si prefigge – la plurivocità. Il Barocco predilige il polisemico, non il plurivoco, procede a volo di antitesi non con il dominio metonimico della grande sinfonia in prosa, fa effetti di luce, un’infinità rarefatta di trasparenze, non gradienti d’incandescenza, o carote geologiche. L’ingegnere faceva bene a protestare la sua estraneità, e la responsabilità invece del mondo, barocco di suo, e quindi per niente: sono i punti di osservazione a essere molteplici […] (Frasca 2023, 33-34).

Il procedimento del Pasticciaccio di Ronconi riguarda, in particolare, un’attuazione teatrale del cosiddetto ‘discorso indiretto libero’ (Vescovo 2011, 139-144; di grande rilievo per uno sviluppo analitico dedicato al discorso indiretto libero si veda Calaresu 2004) e, insieme, la sostanziale identificazione, in una realizzazione spettacolare complessa, dell’operazione di ‘messa in scena’ con la funzione affidata al narratore, a partire dalla rinuncia, come si è detto, della ‘riduzione’ o dell’‘adattamento’ in forma drammatica del testo di partenza. In particolare, ciò riguarda, come abbiamo già ricordato, l’opzione del narratore che si suole dire onnisciente, extradiegetico, ovvero quanto la prospettiva novecentesca – in questo caso quella ‘ingegneresca’ di Gadda – affida a una funzione, tanto più complessa, in quanto essa investe i limiti stessi della conoscibilità, moltiplicando le prospettive di indagine, da principio di accertamento della “verità” a elemento ulteriore di deformazione del sistema.

È quanto Ronconi descrive puntualmente affermando che Gadda riflette “con strumenti letterari quel garbuglio di cause che debilita la ragione del mondo”, dove “strumenti letterari” indica, in sostanza, una polarizzazione di ordine narrativo e non drammatico. Ci si può chiedere, conseguentemente, se non si tratti per caso della linea caratterizzante i risultati più alti ed evidenti del discorso di Ronconi e del suo porsi oltre uno statuto di quella pratica che comprendiamo, appunto, sotto il cartello di ‘regia’.

Verrebbe, a partire da queste riflessioni, da distinguere da questa specifica assunzione teatrale della plurivocità romanzesca, la frequentazione su un altro piano, ovvero quello della letteratura drammatica, la ‘lunga fedeltà’ di Ronconi alla drammaturgia barocca e alle sue vaste o immense dimensioni (in particolare a Giovan Battista Andreini). Ma torniamo alla precisa descrizione di Frasca, in particolare per come l’articolazione di un “discorso indiretto libero forte” (Frasca 2023, 32-33) in Gadda risulti contrapponibile alla forma caratterizzante una tipologia diffusa del romanzo novecentesco, ovvero al cosiddetto flusso di coscienza (senz’altro esemplificabile nel suo esito più famoso, e guardacaso più volte portato sulla scena, del capitolo finale dell’Ulysse di Joyce, ovvero dal ‘monologo fluttuante’ tra pensiero e parola di Molly Bloom). Una questione saliente per tale descrizione analitica riguarda una delle premesse, diciamo così, storiche (o meglio, contestuali) nella definizione di Frasca di “spettacolare prosa radiofonata” per il Pasticciaccio, che riguarda non tanto il genere del dramma radiofonico ma la pratica della registrazioni di voci, anzi di complessi di voci, dalla ‘realtà’, con microfoni nascosti tra “crocchi di parlanti occasionali” e la cattura “dell’affabulazione condominiale nei più polifonici quartieri delle nostre città” (Frasca 2023, 32-33) Ciò che implica anche il rapporto diretto di Gadda con la RAI, dal 1950, con la collaborazione ai programmi culturali del terzo canale radiofonico, proprio nel tempo in cui egli riprendeva la scrittura del Pasticciaccio (una funzione che appartiene, dunque, non al ‘tempo della storia’, ovvero al Ventennio fascista in cui il romanzo si ambienta, ma al tempo della sua scrittura, ovvero agli anni Cinquanta).

Riporto – con una citazione di minima ampiezza – il referto esattissimo offerto da Frasca relativamente alla mescidanza linguistica di questa “prosa radiofonata” (e si sottolinei per l’istanza analitica, di contro all’immediata percezione effettistica, la postilla: “a non lasciarsene incantare”):

La mescidazione linguistica, a non lasciarsene incantare, si denuncia da subito per quella che è: una forma d’indiretto libero forte, che volendo è la risposta dell’ingegnere, in chiave del tutto italica, e sul tessuto della superficie narrata piuttosto che nella trama dell’approfondimento percettivo di un personaggio, dello stream of consciousness joyciano. Si tratta insomma di un indiretto libero in cui però s’invertono le parti, se solitamente è chi scrive che gonfia il palloncino del personaggio fino ad arrivargli alla testa, per fargliela alfine perdere nei suoi pensieri, nell’indiretto del Pasticciaccio è invece l’autore stesso, proprio come nello stream of consciousness – ma restando autore, e dunque non onnipotente, semmai “onnimpotente” – a farsi bruttare non solo dai pensieri ma dalle abitudini linguistiche di luogotenenti che, prima ancora di essere punti di vista, sono punti di ascolto. Convocati difatti dall’indiretto libero forte, e proprio all’improvviso, come se quest’ultimo venisse assoggettato a una nuova e più radicale comprensione, che emergono i diretti, talvolta senza nemmeno il tradizionale a capo (Frasca 2023, 32-33)[2].

Il Pasticciaccio di Ronconi, visto che esso riguarda, come abbiamo ricordato, la scenificazione di un romanzo utilizzando la sua dimensione testuale originale, offre, a ripensarci, un’ulteriore connessione. Il testo, coi tempi al passato (il “preterito epico” della narrazione) e l’uso della terza persona, affidato agli attori che si nominano sulla scena, pone il ‘piano della realtà’ in condizioni diverse rispetto alle convenzioni teatrali comuni. Ovvero all’idea del teatro come rappresentazione oggettiva, mimetica nel senso piano del termine, che riproduce azioni che si svolgono al tempo presente (quand’anche inquadrate da un atto narrativo al passato: si pensi a narratori in scena, anche intradiegetici, per esempio del teatro americano del secondo dopoguerra, da Thornton Wilder a Tennesee Williams). Peraltro qui i procedimenti di rapporto ‘epico’, ovvero narrativo, raccomandati da Bertolt Brecht nel sistema dello straniamento – appunto, l’uso del tempo al passato, la sostituzione della prima con la terza persona – non risultano confinati alle prove, al solo fine di produrre una distanza degli interpreti dal loro ruolo o personaggio, ma direttamente investiti davanti al pubblico nella rappresentazione, dunque in una sorta di ‘straniamento’ operato dalla messinscena rispetto alla normale forma mimetica, attraverso una prospettiva essenzialmente diegetica[3]. Prospettiva che permette, per esempio, a Giuliano Valdarena (Massimo Popolizio) di essere insieme nel tempo in cui racconta e in cui, prima, rinviene il cadavere della cugina Liliana Balducci (Ilaria Occhini), e a questa di essere insieme morta, distesa sul pavimento, e di raccontarsi, collocata su una sedia nella posa del suo cadavere.

L’‘irrealtà’ del procedimento relativo ai personaggi permette – ecco il punto essenziale – la ‘messa in scena’ della stessa istanza di ‘regia’, se vogliamo definirla così, come sostanzialmente equivalente alla funzione del narratore onnisciente nel romanzo di partenza. Il regime oggettivo (o supposto tale) del testo drammatico – anche quando, e soprattutto, esso presenti un’enorme estensione e una varia complicazione – indica qui il suo limite, nel senso territoriale del termine. Rispetto a tutto ciò si pone una sorta di ‘io’ esterno, che però, più che la persona che ha costruito lo spettacolo (il regista, inteso come direttore o ‘demiurgo’), risulta, a partire dalla distribuzione corale della parola diretta e indiretta, un ‘punto di vista’ o un orizzonte mentale esterno, mutuato dalla ‘voce’ del narratore onnisciente (anzi qui, con Frasca, al contrario “onnimpotente”) a una folla di presenze e a una costruzione dello spettacolo. E siamo tornati – attraverso un percorso diverso, per una diversa pertinenza – alla nozione di “mente teatrale”.

Nella mia memoria di spettatore la caduta sul suolo del palcoscenico del Teatro Argentina di Roma della parete della Casa degli ori, senza schiacciamento degli attori, precisamente posizionati in rapporto ai vuoti delle finestre, si è certamente impressa tra gli ‘effetti’ o ‘colpi di teatro’ più coinvolgenti. Situazione che non trovava alcuna giustificazione referenziale sul piano degli accadimenti previsti, posto che nessuna parete frana nella storia vissuta dai personaggi, ovvero che non esiste un ‘dato referenziale’ pertinente all’azione. Tale caduta offriva con rara potenza scenica la concretizzazione del passaggio della visione dall’esterno all’interno della casa, nel senso del punto di vista di chi narra e ‘vede’: un’azione complessa, diciamo pure ‘cinematografica’, ma eseguita dal vivo[4]. Un esempio assoluto tra i principali che io direttamente ricordi o in generale conosca di apparizione spettacolare.

In questo e in altri esempi di ‘colpo di teatro’ si osserva qualcosa che lo spettatore vede come da un punto di vista ‘mentale’, ovvero come immaginazione che si concretizza in termini scenici nell’‘effetto’[5]. Il riferimento, insisto su questo punto, vuole qui riferirsi non alla ‘mente creatrice’ del grande regista, ma all’esatta concatenazione di un lavoro di maestranze ed esecutori, ovvero alla correlazione in una sorta di ‘organo’ teatrale di un sistema collettivo di relazioni.

II.

Nel capitolo dedicato a Ronconi di un libro scritto da un rappresentante, forse in assoluto il rappresentante, della tradizione della cosiddetta ‘regia critica’, si legge un riferimento di notevole rilievo relativo all’Orlando furioso del 1969, tanto più significativo rispetto alla distanza e alla collocazione culturale di chi lo ha pronunciato: “È il teatro-festa, che si aspettava, dormiente nel cuore delle avanguardie” (Squarzina 2002, 393). Le avanguardie qui evocate non potranno evidentemente intendersi come quelle coeve o immediatamente precedenti, degli anni Sessanta. Quanto alla definizione di “teatro-festa” essa si riferisce al fatto che questa creazione, ovvero il suo successo internazionale, prese corpo “in spazi liberi (una chiesa sconsacrata a Spoleto, il Palazzo delle Esposizioni a Roma, le Halles parigine, piazza Duomo a Milano)”, in uno spettacolo di grande complessità, di grandi masse e di grandi mezzi, realizzato appunto fuori dalla sala teatrale, ovvero fuori da quella dimensione in cui poi si svolgerà in massima parte l’esperienza successiva di Ronconi, peraltro nell’àmbito delle istituzioni teatrali e dei Teatri Stabili, a cui sarà ricondotto sostanzialmente il “grande spettacolo”[6].

L’Orlando furioso e il suo clamoroso successo staccano infatti la collocazione del lavoro fin là compiuto da Ronconi, dentro a compagnie ‘di prosa’ private e a istituzioni pubbliche, al quale, del resto, come abbiamo ora ricordato, esso ritornerà dopo questo exploit, anche per l’impossibilità di continuare l’esperienza, e una stessa ripresa dello spettacolo, per ragioni imprenditoriali e organizzative[7].

Di Ronconi, sul fronte di detta complessità di escogitazione e costruzione, un altro e diversamente singolare caso precede di pochi anni la messinscena, senza mediazione di rifacimento in forma drammaturgica, del Pasticciaccio. Si tratta non di un romanzo ma di un testo drammatico ritenuto ‘impossibile’ per dimensioni e numero di personaggi dal suo stesso autore, che lo dichiarava allestibile solo in un teatro del pianeta Marte. Sto alludendo, ovviamente, a Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus (1922), messo in scena nel 1990.

Identicamente ‘impossibili’ si potrebbero ritenere le scenificazioni di altre opere, per esempio, e in partenza da un punto preciso, quello storicamente rappresentato dal Faust di Goethe, e si potrebbero richiamare, in rapporto ad esso, diversi esempi di attuazione novecentesca: basti il riferimento, anche per prossimità cronologica, all’immenso allestimento di Peter Stein (per la durata di complessive 21 ore) che data all’anno 2000.

Ma nel caso di Ronconi ora richiamato la visione utopico-spettacolare si situa in un preciso àmbito cronologico, ovvero appare una sorta di compendio del panorama della cultura nello spazio dopo la Prima Guerra Mondiale. Il testo di Kraus fu però messo in scena settant’anni dopo la sua composizione non in un teatro – come, abbiamo già ricordato, avvenne per la massima parte delle regie ronconiane di dimensioni più ampie – e nemmeno in uno spazio ‘aperto’ come vent’anni prima l’Orlando furioso, ma in una fabbrica dismessa: nella sala presse, che aveva ospitato una catena di montaggio, del Lingotto di Torino, prima della sua riqualificazione e del suo diverso utilizzo, cessata la sua originaria funzione di ‘fabbrica’. Una scelta che possiede altre, evidenti, implicazioni simboliche, in relazione al testo, alla sua collocazione culturale e temporale.

Cosa giustifica, però, qui il collegamento dell’Orlando furioso del 1969, e di ciò che Squarzina osservava per esso, a Gli ultimi giorni dell’umanità del 1990? Sicuramente, oltre alle dimensioni in sé e all’ordine di complessità dei due spettacoli, nel senso della “mente teatrale”, non solo e non tanto dell’artefice-demiurgo o della regìa, ma della dimensione organica dell’allestimento, nella distanza cronologica tra il testo e la sua messinscena, tra il progetto utopico e una realizzazione concreta, dagli anni Venti e dagli anni Sessanta (con un’ambientazione però riferita al Ventennio) all’ultimo decennio del Novecento.

Citerò dunque, senza altri preamboli, per provare a rispondere alla domanda che ho posto, con un salto credo meno brusco di quanto non sembri, qualche riga da una ‘visione’ esattamente coeva al testo di Kraus, che appartiene alla penna dell’artista-costruttivista El Lissitzky [Lisickij], datata 1921, che permetterà senza premesse e andirivieni di offrire una sintesi esemplare, peraltro collocata in un luogo particolarmente significativo anche per le storie della ‘regia’ come la Russia sovietica:

I grandiosi scenari delle nostre città […] non vengono osservati da nessuno, perché qualsiasi “qualcuno” vi è egli stesso coinvolto […] Noi invece costruiamo un’impalcatura, in un luogo aperto e accessibile da tutti i lati, che è la macchina visiva. Questa impalcatura offre ai corpi in gioco tutte le possibilità di movimento […] I corpi stessi sono strutturati a seconda dei desideri e delle necessità. Essi scivolano, rotolano, fluttuano, sopra e dentro l’impalcatura. Tutte le sue parti e tutti i corpi vengono mossi mediante forze e dispositivi elettromeccanici, e questa centrale si trova nelle mani di un singolo. […] Egli dirige i movimenti, i suoni, la luce. Accende il radiomegafono e sulla piazza si diffonde il frastuono delle stazioni ferroviarie, lo scrosciare delle cascate del Niagara, il martellare di un laminatoio (El Lissitzky in Tafuri 1989, 124).

Si potrebbe commentare a lungo questo passo, ma mi limito a raccogliere da esso solo alcuni elementi: il rapporto tra città metropolitana e teatro, l’idea della “macchina visiva”, l’intensificazione elettromeccanica, il quadro architettonico nel senso del luogo di ambientazione, ma anche, e soprattutto, di referente di una progettualità utopica, tra catena di montaggio e creazione, tra lavoro e festa. Mi importa però – e sempre per il cammino dal plurimo all’individuale, dalla “rosa” di menti alla “mente” dell’artefice (Taviani 1988) – la definizione qui offerta nel riferimento a un ideale ‘manovratore unico’, figura assai diversa, ai limiti del depotenziamento o dell’investimento di una funzione ridotta all’aspetto meccanico, rispetto a quella che caratterizza il regista-demiurgo e, per quel che ci riguarda, la concentrazione degli studi sulla regia teatrale.

III.

Ho messo rapidamente (forse discutibilmente) in connessione la realizzazione di Ronconi al passo di El Lissitzky, nella distanza cronologica di un settantennio, proprio per il richiamo a una collettiva “arte delle feste” (Tafuri 1989, 121-122), tanto più forte in quanto collocata in un terreno di società industriale, capitalistica o dell’utopia dell’idea di avvenuta “liberazione rivoluzionaria dal dominio capitalistico”, a cui non sembrerebbe possibile ricondurre tale nozione. Con la dichiarazione iniziale per cui l’estensione di “mente teatrale”, festiva-spettacolare, richiama la necessità dell’osservazione da un giusto punto di distanza, “perché qualsiasi ‘qualcuno’ vi è egli stesso coinvolto”, nei “grandiosi scenari delle nostre città”. Qui, però, a partire dell’immenso testo di Kraus, a una distanza temporale che rende in un altro senso ‘storico’ il cammino delle avanguardie, materia essa stessa di ‘messinscena’.

Un’altra connessione e altri interrogativi di vasta portata si aprirebbero nel rapporto tra il massimo della sincronia prodotto dall’alienazione e la prospettiva dello ‘straniamento’ (più nel senso dello Charlot alla catena di montaggio in Tempi moderni che dell’istanza brechtiana cui abbiamo fatto allusione), nell’accostamento della correlazione meccanica della ‘fabbrica’, e specialmente del lavoro nella catena di montaggio, alla pianificazione della ‘festa’, intesa in questo senso, o dell’azione spettacolare complessa. Che il Lingotto dismesso dalla sua funzione di fabbrica – come abbiamo sottolineato – abbia offerto il luogo di attuazione per il testo di Kraus e per l’impresa di Ronconi, nella loro distanza storica dalla scrittura dello stesso, risulta dunque profondamente significativo e maggiormente rappresentativo, poniamo, rispetto ad altre grandi ‘impalcature’, costruite per altri immensi spettacoli in quei paraggi di fine-secolo o sulla soglia del nuovo e tenendo sempre presente il rapporto tra le realizzazioni in spazi altri e la riconduzione al palcoscenico del teatro ‘all’italiana’[8].

Ho recuperato la citazione di Lissitzky – per complicarmi ancora la vita – da un libro complesso, che data agli anni Ottanta dello scorso secolo, ovvero La sfera e il labirinto di Manfredo Tafuri: un saggio dedicato alla storia dell’architettura del Novecento, al senso del progetto architettonico (e specie del progetto non realizzato) e della disciplina ‘storia dell’architettura’. Un libro in cui però si parla anche, e non incidentalmente, di teatro, utile dunque, penso, anche per la disciplina detta ‘storia del teatro’. Il saggio contiene, infatti e anzitutto, un importante capitolo che riguarda le avanguardie teatrali d’inizio secolo (che ha avuto, mi sembra, per la divisione disciplinare del lavoro, o per la ripartizione accademica dei settori scientifico-disciplinari, pochissima o nulla fortuna nel campo degli studi teatrali e presso gli storici dello spettacolo) e un’ampia premessa metodologica, intitolata al ‘progetto’ storico (con la parola progetto messa tra virgolette). Di grande rilievo, tra l’altro, a indicare una diretta pertinenza al campo qui implicato, il fatto che una prima redazione del capitolo in causa de La sfera e il labirinto apparve nel 1977, nel numero 17 della rivista “Lotus International”, dedicato al teatro e a fianco proprio di un intervento firmato a quattro mani da Gae Aulenti e Luca Ronconi, intitolato Cinque utopie. Contenitore per uno spettacolo (dedicato a Utopia, da Aristofane).

Se i riferimenti teorici delle pagine introduttive, prevalentemente marxiani e della critica ‘di classe’ all’ideologia, appaiono nello spazio di quarant’anni divenuti in larga parte desueti e dismessi, il nesso inquadrato da Tafuri nei termini di dialettica tra ‘lavoro concreto’ e ‘lavoro astratto’ – come si diceva allora –, o tra progetto e utopia, mi sembra resti assolutamente centrale e induca a riflessioni, come quelle che stiamo qui proponendo, procedendo a un cammino inverso, dall’architettura al teatro[9].

Non ho tempo e modo di parlare di questo capitolo, dedicato al teatro delle avanguardie storiche del Novecento, collocato subito dopo un’introduzione su Piranesi riletto da Ėjzenštejn, con l’applicazione del principio del montaggio cinematografico a un disegno preparatorio della serie delle Carceri, ovvero con un metodo di lavoro che consiste in una sorta di esplosione degli equilibri del disegno provocata dalla loro ‘messa in movimento’ (e si pensi, dunque, in generale alla possibilità di intendere la “regia”, nelle sua applicazioni alte e fuori dalla routine, come ‘messa in movimento’ o ‘messa in azione’ di un ‘testo’, di parola o di altro tipo, romanzo ovviamente compreso). Mi limiterò a raccogliere solo alcuni nessi essenziali della relazione instaurata da Tafuri, e anzitutto, e più in generale, la mossa critica o esegetica che implica il teatro, anzi che parte dal teatro, per indagare il rapporto tra realizzazione e progetto, tra lavoro e utopia, e la tensione tra città metropolitana e sua rappresentazione storica.

Qui si incontrano i nomi di alcune tra le massime personalità con cui si suole compendiare storiograficamente il cosiddetto ‘rinnovamento del teatro d’inizio Novecento’, e bastino i nomi di Craig e Appia, più progettatori-utopisti che registi-realizzatori di spettacoli concreti, ovvero portatori di funzioni particolari che non crediamo possano identificarsi senza residuo con la pratica o il ‘mestiere’ che si usano definire con la parola ‘regia’ o che si ritiene prepararne il cammino e l’attuazione. D’altra parte si collocano qui i grandi esempi – le grandi apparizioni – di realizzazione concreta di spettacoli di grandi dimensioni che danno materializzazione passeggera a progetti ‘utopici’, affidati alla pagina, nel senso del progetto o della teoria. Nel capitolo in questione Tafuri usa dunque il teatro e le utopie teatrali delle avanguardie tra le due guerre nel senso che abbiamo indicato: parla insomma di Appia, recuperando le premesse di Fuchs, del Cabaret Voltaire, di Lissitzky, di Moholy-Nagy, di Schlemmer, di Gropius-Piscator, eccetera, e soprattutto del teatro totale inteso come organismo, nel senso del progetto: del progetto architettonico e del ‘progetto’ storico chiamato ad indagarlo. Dei progetti di spettacoli e della storia del teatro come eventuale ‘progetto storico’ non ho qui tempo di discorrere, ma vorrei almeno raccogliere ancora un passo da Tafuri, per terminare questo intervento. Esso riguarda Mejerchol’d, nel 1922, per un raggiungimento e insieme per l’indicazione dei limiti di questa esperienza, in una realizzazione comunque situabile sul piano concreto di uno spettacolo, anzi di una regia nel senso proprio o ristretto del termine, intesa come messinscena di un testo (Le Cocu magnifique di Fernand Crommelynck):

“L’arte delle feste” non è più solo distruzione di vecchie chiese. Essa ora deve rientrare all’interno dei processi produttivi, trasformarne le forme, riportare in essi una dionisiaca liberazione. […] Solo attraverso un massimo di pianificazione e meccanizzazione (quindi, solo attraverso un’alienazione totale), l’uomo-massa può essere trascinato in un lavoro-festa collettivo, liberato dai riti sacrificali del dadaismo. Ma tutto ciò è ancora e solo “teatro” (Tafuri 1989, 121-122).

La polarizzazione su un terreno o una categoria che si riassume nella nozione di “arte delle feste”, o di “lavoro-festa”, risulta dunque un nesso rilevante, secondo una categorizzazione che per vari motivi si può preferire – sempre naturalmente in un itinerario di estrema sintesi – ad altre richiamate da Tafuri nelle stesse pagine (per esempio: “montaggio delle attrazioni”, “riproduzione della vita della metropoli e della sua disordinata complessità sulla scena”, “superamento dei divertimenti o dei riti sacrificali”). Dunque “arte delle feste” o “lavoro-festa” mi sembrano preferibili a etichette correnti, spesso assunte genericamente, che inchiodano a movimenti e correnti primo-novecenteschi questioni che hanno ben altra estensione, nello spazio e nel tempo.

Si ampli, dunque, l’osservazione all’intero campo del teatro del Novecento; si raccolga la categoria dei “riti sacrificali”, e soprattutto quella di “arte delle feste”. Quanto poi il carattere dell’utopia primo-novecentesca, qui sintetizzato, riguardi altre storie e altre vicende nel corso del secolo è naturalmente questione da riprendere e meditare altrove, anche in rapporto al tempo intercorso tra noi e la data della stessa pagina di Tafuri da cui sto citando. Tenere conto di ciò che supera il teatro – giusta l’osservazione della riga finale –, ovvero di ciò che non è solo teatro, mi sembra possa servire per tornare a definire e a meglio comprendere ciò che chiamiamo il Teatro.

Note

[1] Sulla stessa testata, pochi giorni dopo, Franco Quadri, recensendo il Pasticciaccio, affermava, attenendosi invece al luogo comune, che del romanzo Ronconi ne “porta in scena così com’è il flusso poderoso del suo barocco che procede a furia di diversioni” (Quadri 1996). Per la prospettiva di focalizzazione, chi vede prima di chi parla, si consideri, in particolare, nel 2002, Quel che sapeva Maisie, da Henry James, inscenato dal punto di vista del personaggio (affidato a Mariangela Melato, con evidente spostamento anagrafico dal piano della ‘storia’, in cui Maisie è bambina, a quello del ‘racconto’, ovvero della focalizzazione teatrale).

[2] Referto da completare col paragone a Nabokov e ai romanzi di Beckett in altra parte dello stesso saggio, con la definizione, senz’altro da tenere a mente: “Una lingua che presuppone di già la sua esecuzione radiofonica”, anche in rapporto alla particolare condizione della scelta del romanesco, “linguaggio più aderente al vero”, asserzione da chiarire con parole dello stesso Gadda, del 1956: “In noi è, oggi, quest’ansia di svestire la falsità o pomposa o baggiana di un linguaggio narrativo o di un dialogato scenico i quali non hanno nulla in comune con la nostra verità” (Frasca 2023, 162-163). Si noti qui il riferimento – oltre che al “linguaggio narrativo” – al “dialogato scenico”. Ciò per le questioni toccate da Frasca relativamente all’ambientazione del Pasticciaccio nel Ventennio fascista e per il punto di osservazione che si situa dall’inizio della sua composizione, dagli anni Quaranta agli anni Cinquanta, dopo le “paventose macerie” e per il “problema del male”, ovvero, dal punto di vista linguistico, con il riconoscimento che se il romanzo in questione “per quante improvvise accensioni erospriapesche sfoggi” non presenta alcun personaggio che parli la “lingua filodrammatica del regime”. Da qui un ben più ampio orizzonte di riferimento: “Se di qualcosa allora si mette in cerca il Pasticciaccio […] è giusto quel fascismo permanente di cui quello che s’incarnò nel Ventennio fu solo carnevale” (Frasca 2023, 192-193).

[3] La ‘distribuzione’ del testo, comprensivo delle parti descrittive e commentative, agli interpreti-personaggi (e agli attori che incarnano la ‘folla’, con brevi attribuzioni) solleva una questione che si pone in generale a caratterizzare il metodo di lavoro e le prove a tavolino nel sistema di lavoro di Ronconi: non costruzione di quello che nel gergo attoriale e registico si usa definire come ‘sottotesto’ e che sarebbe utile indagare anche in rapporto con quella che abbiamo altrove inquadrato come competition of fiction, impiegando una definizione di George Bernard Shaw (Vescovo 2023) del sistema diegetico-didascalico nella sua crescita talora sproporzionata nella drammaturgia tra Ottocento e Novecento (comprensione dei personaggi e della loro psicologia, della storia e dell’ambiente, eccetera), ma, all’opposto, intonazione e articolazione della frase. Alle descrizioni e considerazioni già disponibili – per cui si veda un utile richiamo in Marchetti 2016, 11-39 – si aggiungono ora le preziose note offerte dallo stesso Ronconi sul suo sistema di lavoro (Ronconi 2019, 175-199 e 209-219).

[4] Un’immagine tra quelle in assoluto fissate nella mia memoria di spettatore, insieme, per esempio – andando indietro nel tempo – a quella dei teli manovrati da mimi nascosti, a simulare non naturalisticamente il movimento di un mare in burrasca nella Tempesta di Shakespeare di Giorgio Strehler (1977), tanto più memorabile al momento del dileguarsi di detti teli, con la loro riconduzione alla materialità dell’elemento usufruito per l’effetto, che non per la simulazione delle onde del mare in tempesta in sé. Il movimento dei teloni a simulare il mare è evocato e più volte replicato in quella vera e propria summa di memoria teatrale novecentesca – e ovviamente di memoria personale nel senso autobiografico del termine – rappresentato dall’ultimo lavoro di Ariane Mnouchkine, L’île d’or. Kanemu-Ima (2022). Gli estremi di evidenza avevano, del resto, trovato le realizzazioni, artisticamente più forti, in creazioni degli anni precedenti: penso soprattutto allo splendido Le naufragées du fol espoir (2010), sia per la connessione teatro-cinema (ovvero: del teatro ‘che parla’ in rapporto al cinema muto d’inizio secolo) che per l’esemplare, proprio nella sua parossistica e spettacolare conduzione, ‘effetto neve’, nella fittissima caduta, fino al seppellimento degli attori e all’annullamento dello stesso spazio scenico. L’esatto contrario – per contrapporre un esempio di un’altra celeberrima messinscena dello stesso testo, del 1990, e, ovviamente, un opposto procedimento o metodo di lavoro – della piccola nave fatta muovere a vista a un attore da Peter Brook.

[5] Per tornare ancora a una descrizione di Luigi Pirandello che ho altrove analizzato (Vescovo 2023). Si può fare al proposito riferimento, a marcare la soglia della questione o del problema, alla ripetizione del momento della caduta della parete nell’edizione televisiva del Pasticciaccio di Giuseppe Bertolucci, che ripropone in qualche modo attraverso la figura della frequenza, nel senso narratologico del termine, l’irripetibilità del ‘momento unico’ nell’esecuzione dal vivo, mostrando più volte, e al rallentatore, la caduta della parete.

[6] Esempi che si staccano da questa collocazione – e su cui sarebbe rilevante ragionare in rapporto alle sintetiche coordinate qui richiamate, dell’utopia teatrale e della festa – almeno: Utopia (da Aristofane), tra gli ex-Cantieri navali della Giudecca (Biennale 1975) e la Festa dell’Unità di Milano (spettacolo destinato “a girare rumorosamente le fiere e le piazze” ma di vita contrastata e infelice, come scrisse Cesare Garboli, a partire dalla sua complessità tecnica) e Infinities, “cinque scenari sui temi dell’infinito”, su testo commissionato a John D. Barrow, alla Bovisa di Milano, con un coordinamento addirittura “cosmologico” (2002).

[7] Utile il referto di Quadri, 1973, in particolare il capitolo La condanna dell’Orlando, 161-173, che osserva la vicenda in posizione cronologica prossima, e al di qua della storia futura di Ronconi.

[8] Il breve capitolo dedicato da Squarzina a Peter Stein riporta con giusto rilievo la notizia della vendita dei materiali del Faust nel 2002, ai musei teatrali di Austria e Germania, e quella della grande spirale al centro dello spettacolo (“celebrata anche sui manifesti e […] concepita come protoimmagine” (Squarzina 2002, 479) a un gruppo rock.

[9] Sulla pregnanza di tali riferimenti, in rapporto a un simile orizzonte di desuetudine, sarebbe il caso di interrogarsi, specie per la questione che si è appena toccata del lavoro alienato o, più in generale, della divisione del lavoro: argomenti però troppo complessi per tentare anche solo di avvicinarli in questo già sovraccarico brogliaccio. Peraltro il “progetto” storico, nell’evoluzione del discorso di Tafuri, si apriva in quegli anni a differenti prospettive, come nel “contropiano” teorico (impresso anche nel nome di una rivista, pubblicata tra il 1968 e il 1971, con pertinenza alle prospettive dell’“operaismo”, che aveva Tafuri tra i direttori, come si usava dire, “per una critica dell’ideologia architettonica”). Tra la non poca bibliografia su Tafuri e sul suo metodo si possono vedere: Carpenzano et al. 2019; Mometti 2012; Trentini 2022. Una parallela combinazione tra istanza storiografica e tecnica, o “progetto”, riguarda l’applicazione al campo rinascimentale di Tafuri, che troverà approdo in due grandi libri: Venezia e il Rinascimento (1985) e Ricerca del Rinascimento (1992).

Riferimenti bibliografici
  • Bentivoglio 1996
    L. Bentivoglio, Eterno “Pasticciaccio”. Ronconi: “Metto in scena l’attualità di Gadda”, “La Repubblica” (17 febbraio 1996).
  • Calaresu, 2004
    E. Calaresu, Testuali parole. La dimensione pragmatica e testuale del discorso riportato, Milano 2004.
  • Frasca, 2023
    G. Frasca, Gadda con Freud, Schrödinger e Joyce, Bologna 2023.
  • Carpenzano et al. 2019
    O. Carpenzano, M. Pietrosanto, D. Scatena (a cura di), Lo storico scellerato: Scritti su Manfredo Tafuri, Macerata 2019.
  • Marchetti, 2016
    M. Marchetti, Guardare il romanzo. Luca Ronconi e la parola in scena, Catanzaro 2016.
  • Mometti 2012
    F. Mometti, Ideologia come architettura. Manfredo Tafuri e la storia critica, “Scienza & Politica”, a. XXV n. 47 (2012), 107-133.
  • Quadri 1973
    F. Quadri, Il rito perduto. Saggio su Luca Ronconi, Torino 1973.
  • Quadri 1996
    F. Quadri, Ronconi con Gadda in via Merulana, “La Repubblica” (21 febbraio 1996).
  • Ronconi 2019
    L. Ronconi, Prove di autobiografia, a cura di G. Agosti, Milano 2019.
  • Squarzina 2002
    L. Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Pisa 2002.
  • Tafuri 1989
    M. Tafuri, La sfera e il labirinto. Avanguardie e architettura da Piranesi agli anni ’70, Torino 1989.
  • Taviani 1988
    F. Taviani, Tre note, “Teatro e Storia”, a. III, n. 1 (1988), 3-21.
  • Trentini 2022
    M. Trentini, Per una storia negativa: “Contropiano” e l’architettura, Macerata 2022. 
  • Vescovo 2011
    P. Vescovo, Il tempo a Napoli. Durata spettacolare e racconto, Venezia 2011.
  • Vescovo 2023
    P. Vescovo, Didascalie e apparizioni. Shaw, Pirandello, Mann, “La Rivista di Engramma”, n. 205 (settembre 2023), 11-41.
English abstract

The staging of “Pasticciaccio” by Carlo Emilio Gadda represents, in addition to one of Luca Ronconi’s most significant productions, in its direct scenic assumption of the text of the novel, not “reduced” or adapted, an example for the questioning of the relationship between dramatic instance and narrative instance, in their foundations and in their relationship, to grasp some lines characterizing the theatrical experience of the twentieth century.

keywords | Gadda; Pasticciaccio; novel; drama; Luca Ronconi.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Piermario Vescovo, Mente romanzesca e mente teatrale. Voci del Pasticciaccio dalla pagina alla scena (1996), “La Rivista di Engramma” n. 224,maggio 2025.