"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

224 | maggio 2025

97888948401

I fratelli Karamazov. Il romanzo sulla scena (1998)

Francesco Di Cello

English abstract

Scena da I fratelli Karamazov (I lussuriosi) di Luca Ronconi,Teatro Argentina, 1997, ©Marcello Norberth. Si ringrazia per questa immagine il Centro Teatrale Santacristina.

Qualsiasi tipologia di trasposizione presuppone necessariamente un’opera da cui trae origine. Circoscrivendo al solo romanzo l’oggetto da trasporre e rimanendo nell’ambito dell’arte scenica, è possibile osservare come le opere di Dostoevskij siano certamente tra le più rappresentate nella storia spettacolare del Novecento. La grande fascinazione che lo scrittore russo ha esercitato su generazioni di registi e drammaturghi nel corso del tempo è testimoniata, infatti, da numerosi allestimenti distribuiti nel secolo scorso, che si estendono ben oltre i confini geografici delle singole tradizioni nazionali, tra i quali ricordiamo, giusto a titolo esemplificativo, I demoni di Peter Stein; Les frères Karamazov di Jacques Copeau e, naturalmente, l’edizione teatrale di Luca Ronconi.

I fratelli Karamazov è, di fatto, l’ultimo romanzo di Fëdor Dostoevskij, composto poco prima della sua morte, avvenuta nel 1881. Il racconto dello scrittore russo, “il più complesso nella narrativa dostoevskiana”, è dopotutto “uno straordinario viaggio iniziatico nei massimi problemi etici” (Malcovati 2021, 98). Un testo, dunque, capace di sollevare questioni universali e, allo stesso tempo, affrontare, con sguardo realistico, temi di particolare rilevanza sociale. Il nucleo intorno al quale Dostoevskij costruisce il racconto si sviluppa a partire dalla relazione che i fratelli intrattengono con il loro padre, Fëdor Pavlovič, un uomo dissoluto, la cui esistenza, “guidata dagli istinti più bassi” (Malcovati 2021, 99), si rivela orientata edonisticamente verso il soddisfacimento del piacere carnale, a discapito della felicità dei propri figli. A Dmitrij, vero agente del conflitto drammatico, è dedicata l’epigrafe introduttiva posta in apertura del romanzo: un versetto tratto dal Vangelo secondo Giovanni che ne prefigura il metaforico cammino di resurrezione nel corso della vicenda. Il maggiore dei Karamazov condivide con il fratello Ivan il disprezzo nei confronti del genitore ma, a differenza di quest’ultimo, esibisce apertamente la propria ostilità. Se al primo viene ingiustamente imputato l’omicidio di Fëdor Pavlovič, al secondo si attribuisce “la responsabilità ideologica del sangue versato” (Malcovati 2021, 105). Ed è infatti proprio Ivan che, animato da una lucida e “insinuante permissività”, instillerà nel cuore del servo Smerdjakov il proposito omicida che metterà fine alla squallida vita del padre. Il peso del disfacimento familiare viene sostenuto dal piccolo Alëša, il novizio dal carattere angelico e dalla “natura limpida, semplice, innocente” (Malcovati 2021, 108 e 99) contro cui rifrangono le voluttà e le angosce dei fratelli maggiori.

Sebbene il romanzo si presti a essere considerato come un’opera commovente “sulla ‘necessità’ della fede in un mondo che ha perduto finanche la possibilità della fede stessa” o come “un facile campo di applicazione per gli esercizi di critica psicanalitica”, ciò che cattura l’interesse del regista italiano non sono le motivazioni di natura tematica o le spiegazioni di stampo teologico, quanto piuttosto le “costellazioni semantiche e strutturali attorno alle quali Dostoevskij viene ordendo il proprio racconto” (Ronconi 1997-1998a, 193 e 189-190). Il complesso sistema di relazioni che si sviluppa tra i vari elementi dell’opera è una proprietà intrinseca dei Karamazov, nonché il criterio operativo intorno al quale lo scrittore edifica l’impalcatura romanzesca. Un esempio di questo sistema si osserva nella costruzione dei personaggi e nel rapporto che l’autore intrattiene con essi. Dostoevskij concepisce gli eroi dell’intreccio in qualità di vere e proprie coscienze interagenti, capaci di esprimere un irripetibile punto di vista sul mondo, impermeabili a qualsiasi caratterizzazione esterna e resistenti a tutto ciò che tenta di limitarne le individualità (Bachtin [1963] 2002, 72). La voce dell’autore, infatti, non risulta sovrapponibile a quella dell’eroe e la sua coscienza non coincide mai con quella del personaggio, ma stabilisce con essa una relazione dialogica che nega, di fatto, un indirizzo semantico che possa rimandare a una qualche compiutezza di senso. A questo proposito, risulta emblematica la reticenza di Dostoevskij, che preferisce non replicare direttamente al tormento di Ivan, incapace di spiegare razionalmente il problema della teodicea. Il carattere dialogico della scrittura dostoevskiana non esaurisce, dunque, il significato del racconto nello spazio ristretto del romanzo, ma lo espande necessariamente oltre i confini del testo. In questo senso, il dialogismo non può essere considerato esclusivamente come un semplice strumento compositivo attraverso cui disporre le voci del romanzo, ma anche una forma di coinvolgimento attivo, che si manifesta compiutamente nella relazione ipotetica che si instaura tra l’opera e i suoi possibili destinatari. Una relazione fertile che genera una comunità interpretativa e sollecita criticamente chiunque si accosti al racconto attraverso il dispositivo della lettura (Recalcati 2019, 61).

Ed è proprio la “pratica di un’attenta e ispirata lettura” a costituire “l’incipit di ogni lavoro di Ronconi” (Marchetti 2016, 17), dove essa rappresenta non solo un momento preliminare di approccio al testo da trasporre ma anche una parte insostituibile del processo creativo. La lettura non è solamente il presupposto dell’indagine teatrale, ma uno strumento che attraversa le varie fasi del discorso recitativo e, soprattutto, un effetto da riprodurre in scena, come vedremo più tardi. Infine, attraverso questo dispositivo, è possibile operare una scelta sui testi da mettere in scena, dove il criterio di selezione privilegia quelli non direttamente concepiti per il teatro. La predilezione di Ronconi per i testi non pensati direttamente per il teatro è testimoniata, dopo tutto, dalla sua stessa teatrografia, che spazia da sceneggiature, poemi epici, saggi e romanzi, tra i quali ricordiamo, appunto, I fratelli Karamazov.

La trasposizione dell’ultima opera di Dostoevskij, realizzata da Ronconi e andata in scena nel 1998, si presenta suddivisa in tre parti, distribuite in altrettante serate, delle quali solo due sono state effettivamente allestite. Ronconi recupera la struttura del feuilleton e seleziona dal romanzo alcuni dei suoi temi principali, che daranno poi il nome ai relativi spettacoli: I lussuriosi, Il grande Inquisitore, Un errore giudiziario. L’obiettivo di trasporre sulle tavole del Teatro Argentina l’ultima opera di Dostoevskij si inserisce nello stesso filone di ricerca avviato nel 1969 con la messinscena dell’Orlando furioso e riflette l’interesse del regista per alcune scritture che presentano configurazioni alternative al dramma, spesso ai limiti della rappresentabilità. Un interesse drammaturgico animato dall’insoddisfazione per le attuali forme di rappresentazione e finalizzato a esplorare, attraverso l’impiego di testi narrativi, “un nuovo modo di scrivere e di raccontare a teatro” (Longhi 2001, 189). La scelta di mettere in atto il romanzo di Dostoevskij, per lo più composto da ciò che Genette chiama scène (Genette [1972] 2006), sembra, in primo luogo, contraddire l’interesse del regista per le forme di comunicazione non dialogiche. In questo senso, è lo stesso Ronconi a chiarire la sua posizione a riguardo, riflettendo sulla natura del dialogo nei Karamazov:

Il dialogo dostoevskiano non ha andamento teatrale: se lo si giudica secondo i principi che informano il succedersi delle battute di un normale testo teatrale, le repliche dei Fratelli Karamazov risultano spesso prolisse; la verità è che esse obbediscono a una logica 'altra' di tipo squisitamente narrativo e letterario (Ronconi 1997-1998a, 187).

Nonostante il regista attribuisca alle scene un andamento non teatrale, la scansione prevalentemente drammatica del romanzo e la sua ampiezza testuale sollevano comunque la questione di una possibile trasposizione che si allontani effettivamente dalle convenzioni rappresentative dominanti. Prendendo in prestito le parole di Claudio Longhi, riferite nel contesto di un’ampia riflessione sul Pasticciaccio, le possibilità alla base della costruzione della messinscena sono di fatto due: “quella di interpretare i propri materiali drammaturgici, fornendo soggettive risposte ai quesiti che essi pongono, o quella di commentarli, aderendo al loro dettato” (Longhi 2001, 100). Ed è proprio l’attività di commento a guidare Ronconi nello sviluppo dell’edizione teatrale dei Karamazov, nella creazione di una prassi registica efficace e innovativa. Un’attività che si traduce nell’assunzione diretta del romanzo sulla scena, secondo un atteggiamento di completa adesione alla letterarietà del testo. Il principio di corrispondenza, seguito dal regista come criterio operativo, non si concretizza, però, nella piena fedeltà all’articolazione della fabula, quanto piuttosto al suo funzionamento narrativo.

Durante l’elaborazione della messinscena, Ronconi sceglie, infatti, di prelevare dal romanzo porzioni testuali secondo un approccio registico di montaggio, apportando alcune modifiche a livello macrostrutturale. Nella fattispecie, i principali cambiamenti, introdotti in fase di assemblaggio, oscillano tra l’omissione di alcuni passaggi ritenuti superflui e la variazione dell’ordine di posizionamento rispetto al testo ‘originale’. Un esempio pertinente, in questo senso, si trova nella lunga analessi completiva della quinta scena de I lussuriosi, dove Ronconi espunge i versi pronunciati da Dmitrij durante la confessione al fratello Alëša; nella soppressione dei capitoli biografici dedicati allo starec Zosima, anch’essi emendati nella redazione finale del copione, o nei quattro capitoli che compongono l’arringa finale dell’avvocato difensore che avrebbero dovuto trovare spazio nell’ultimo spettacolo. Un intervento certamente efficace nel preservare lo svolgimento della trama da digressioni ritenute marginali che, tuttavia, in questo specifico contesto, contribuiscono ad arricchire il nucleo plurilinguistico e stilistico del romanzo. Ronconi, a questo proposito, rimane scettico sull’effettiva varietà linguistica nei Karamazov, ritenendo la prosa dostoevskiana “scarsamente connotata” sul piano del linguaggio, il quale tende a “uniformarsi su di un unico registro espressivo” (Ronconi 1997-1998a, 187). Uno scetticismo che chiaramente facilita la rimozione dei brani in questione e che rappresenta un vero e proprio elemento differenziale rispetto al precedente lavoro sul Pasticciaccio, il cui impianto linguistico costituiva il nucleo centrale del testo gaddiano (Longhi 2001, 164).

Le cesure operate dal regista nella pratica di montaggio sono però limitate dalla struttura stessa del romanzo, che risulta essere composto “da una fitta trama di relazioni semantiche, emotive e immaginative”, che rende difficili “i tagli interni alle diverse sequenze” (Ronconi 1997-1998a, 187). Le variazioni endogene al testo narrativo rimangono comunque ammissibili, purché tuttavia si conservi inalterata la continuità semantica del racconto.

PADRE IOSIF | Nessuno supponeva che lo starec sarebbe morto quella stessa notte, tanto più che, in quest’ultima sera della sua vita, egli aveva come acquistato ad un tratto una nuova energia che lo veniva sorreggendo in quella lunga conversazione con gli amici. Fu come se una commozione estrema lo rianimasse in modo sorprendente, ma per un breve lasso di tempo: infatti la sua vita si interruppe di colpo.
PADRE PAISIJ | Il cadavere del defunto ieromonaco padre Zosima fu preparato per la sepoltura. Quando muoiono i monaci e gli eremiti non se ne lavano i corpi. (Dostoevskij, Ronconi 1997-1998b, 45)

Nonostante le parole dei due monaci, poste in apertura del sesto quadro de Il grande inquisitore, appartengano a capitoli differenti nel romanzo, il tema della morte funge da elemento unificante e garantisce una certa coerenza narrativa alla sequenza, permettendo così di accostare le battute all’interno della medesima scena. Sotto questo aspetto, il regista si mostra particolarmente attento a preservare il tessuto connettivo del romanzo e l’impianto dialogico di base. L’attività di selezione e riorganizzazione dei contenuti della fabula non prevede necessariamente una riduzione dei materiali testuali in una forma più elementare, la quale implicherebbe, secondo Genette, un cambiamento relativo alle modalità di esposizione dell’informazione narrativa:

Con transmodalizzazione intendo […] una trasformazione avente come oggetto quello che da Platone e Aristotele viene chiamato il modo di rappresentazione di un’opera di finzione: narrativo o drammatico. Le trasformazioni possono essere a priori di due tipi: intermodali (passaggio da un modo all’altro) o intramodali (cambiamento nel funzionamento interno del modo). Questa duplice distinzione ci fornisce naturalmente quattro varietà, di cui due intermodali - passaggio dal narrativo al drammatico o drammatizzazione, passaggio inverso dal drammatico al narrativo o narrativizzazione -, e due intramodali: le variazioni all’interno del modo narrativo e all’interno del modo drammatico (Genette [1982] 1997, 334).

Il critico francese, analizzando le variazioni interne al modo, individua nella categoria della vocalizzazione (Genette [1982] 1997, 348) ciò che caratterizza la pratica della riduzione teatrale, ovvero il passaggio dalla terza persona alla prima, l’utilizzo del discorso diretto al posto di quello narrativizzato. Benché Ronconi si muova alla ricerca di nuove forme di rappresentazione che non seguano una logica puramente riduzionista, è possibile ritrovare, all’interno dei Karamazov, alcune tracce di un processo di drammatizzazione in atto distribuite nei tre spettacoli, come si evince, per esempio, dalle affermazioni di Zosima nel copione de Il grande Inquisitore:

ZOSIMA | E ora è mio desiderio accomiatarmi da tutti, e di dare un bacio a ciascuno. (Dostoevskij, Ronconi 1997-1998c, 8)

che nel romanzo si presentano sotto tutt’altra forma:

Quando la cerimonia ebbe fine, lo starec manifestò il desiderio di accomiatarsi da tutti e di dare un bacio a ciascuno (Dostoevskij [1879-1880] 1981, 217)

Tuttavia, la natura episodica con cui queste tracce si manifestano impedisce di classificare i Karamazov come una semplice riduzione in forma drammatica, poiché privo di un’effettiva vocalizzazione che si mantiene costante per tutto lo sviluppo della trilogia. Il tentativo erratico di sostituire l’io con l’egli rappresenta, infatti, solo una delle possibili strategie vagliate dal regista nell’attività di trasposizione. Strategia che, infatti, rimane subordinata alla possibilità di assumere il testo direttamente sulla scena “nella sua definizione di partenza, mista di descrizione e dialogo” (Vescovo 2022, 42). Il regista, sulla base di questa possibilità, assegna le porzioni dialogiche e diegetiche ai vari personaggi “che stanno vedendo in quel momento la scena […] o i cui discorsi sono riportati dalla voce narrante” (Vescovo 2011, 142). In questa operazione distributiva, le figure che agiscono sulla scena acquisiscono la capacità di pronunciare indistintamente interventi in prima e terza persona, esplicitando una connessione, non sempre evidente nel testo, tra voce del narratore e sguardo del personaggio. Gli attori presenti sulla scena, a causa di questa attribuzione, mescolano il discorso indiretto a quello immediato, in un’esperienza forse meno radicale rispetto al Pasticciaccio, in cui Ronconi traspone anche l’indiretto libero del testo di Gadda, ma sufficiente a superare le convenzionalità del linguaggio teatrale fondato sulla forma dialogica pura, dimostrando una possibile coesistenza scenica tra piano narrativo e drammatico. Una coesistenza che si traduce nella possibilità di oggettivare i meccanismi di funzionamento del romanzo a teatro, mettendo in “discussione la differenza tra ciò che è ‘narrazione’ e ‘rappresentazione’” (Vescovo 2015, 284).

DMITRIJ | Ma confusa, estremamente confusa era l’anima di Mitja, e seppure tante cose lo torturavano in questo momento, nondimeno tutto l’essere suo si protendeva irresistibilmente verso lei sola, verso la sua regina Grušen’ka, a cui stava accorrendo, a cui avrebbe rivolto lo sguardo per l’ultima volta.
[…]
DMITRIJ | Signori, signori, io […] l’ultimo giorno e l’ultima ora della mia vita ho voluto passarla in questa camera…dove appunto potei adorare…la mia regina! (Dostoevskij, Ronconi 1997-1998d, 7).

La possibilità di introdurre a teatro elementi propri di un testo narrativo non può essere circoscritta alla sola scena ma deve interessare anche il piano della didascalia, con tutte le implicazioni modali del caso. Ronconi, a questo proposito, redige l’impianto didascalico selezionando alcuni sintagmi di natura illustrativa, attualizzandoli al presente dell’azione e collocandoli debitamente tra parentesi.

IVAN | […] La formula del “Tutto è permesso” io non la rifiuto, e perciò ecco che tu rifiuti me; non è vero, non è vero che è così? (Alëša s’alza, gli s’accosta, e senza dir nulla, lievemente lo bacia sulle labbra). Plagio letterario! È un furto, questo, che tu hai fatto al mio poema! (Dostoevskij, Ronconi 1997-1998c, 34)

Nonostante il frammento in questione si presenti a tutti gli effetti come un’istruzione per la scena, non tutte le didascalie nei Karamazov possono essere considerate funzionali in vista di una possibile esecuzione. La parola letteraria selezionata dal regista, migrando dal romanzo nella sua interezza, porta con sé necessariamente una componente diegetica che, se non adeguata alle esigenze della scena, confluisce nel testo ausiliario, aumentandone di conseguenza il tasso di narratività.

SMERDJAKOV | Perfettamente giusto, signore…(mormora, con voce spezzata, Smerdjakov, con un miserabile sorriso si prepara di nuovo, convulsamente, a balzar indietro a tempo. Ma di colpo Ivan Fedorovic con grande meraviglia di Smerdjakov, scoppia a ridere, e rapidamente prosegue per l’usciolo, continuando a ridere. Chi guardasse il viso di lui, certo concluderebbe che non ride davvero perché sia tanto allegro. E lui stesso non saprebbe in nessun modo spiegare che cosa gli stesse dentro in quel minuto) (Dostoevskij – Ronconi 1997-1998c, 41)

Nel segmento che accompagna l’affermazione di Smerdjakov, Ronconi decide di non compromettere la temporalità del romanzo e di preservare il punto di vista interno del narratore, il quale trasmette un’informazione non traducibile in scena. Il regista, rimanendo fedele alla logica del commento, trasferisce nel testo drammatico un grado di focalizzazione che priva la didascalia della sua classica funzione prescrittiva, trasformando il frammento in questione in un luogo di finzione letteraria, uno spazio d’intromissione diegetica, un “vero e proprio tratto d’unione tra testo teatrale e testo narrativo” (De Min 2013, 27), capace di nutrire le suggestioni degli attori attraverso il suo portato immaginativo.

Ed è proprio questa intersezione di natura modale che si realizza nella scrittura didascalica e, allo stesso tempo, nel territorio della mimesi, a scongiurare il pericolo di una “dispersione dei mezzi testuali” (Genette [1982] 1997, 337) durante il processo traspositivo, e a rovesciare quanto postulato da Genette in Palinsesti, secondo cui: “tutto ciò che può fare il teatro, lo può fare anche il racconto, e senza reciprocità” (Genette [1982] 1997, 337). Il critico francese, pur riconoscendo un’attrazione minima tra l’istanza diegetica e quella drammatica, attribuisce al racconto una duttilità temporale non replicabile in scena (Genette [1982] 1997, 336). La prospettiva di Genette, perfettamente sovrapponibile a quella di Segre, secondo il quale il tempo a teatro ha un carattere esclusivamente isocrono, “non reversibile, analogo a quello vissuto” (Segre 2005,13-14), appare però estremamente semplificatoria e riduttiva, se consideriamo quanto avviene nei Karamazov. La commistione tra le due modalità enunciative ha infatti delle conseguenze visibili sul piano temporale dello spettacolo, dove “l’uso del preterito epico permette la dislocazione – generalmente una bilocazione – del personaggio tra due o più tempi” (Vescovo 2015, 295). Un esempio pertinente di questo procedimento, in grado di compromettere lo sviluppo cronologico degli eventi, può essere individuato nella sesta scena de I lussuriosi, nella quale Smerdjakov, costretto a servire alla stessa tavola nella quale siedono i suoi fratelli, ripercorre attraverso un breve sommario il suo passato di violenza e abbandono.

SMERDJAKOV | M’accorgo ch’è impossibile esimersi dal dire su Smerdjakov almeno due parole. Allevato da Marfa Ignat’evna e da Grigorij Vasil’evic, era però cresciuto, il ragazzo, “senza un filo di gratitudine”, come Grigorij Vasil’evic si esprimeva a suo riguardo;
MARFA | un ragazzo selvatico, che guardava tutti dal suo cantuccio.
[…]
SMERDJAKOV: Il ragazzo incassò la schiaffeggiatura senza ribatter parola, ma si rimpiattò nel cantuccio per parecchie altre giornate. Fu allora che, a una settimana di distanza, gli si manifestò per la prima volta nella vita il mal caduco, che per tutta la vita non l’avrebbe lasciato più. Di media, gli attacchi sopraggiungevano una volta al mese, a scadenze varie. Pure varia era la forza degli attacchi stessi: a volte erano lievi, a volte veramente crudeli.
FËDOR PAVLOVIČ |  Da cosa dipende che questi attacchi ti prendono più spesso? Forse una moglie ti farebbe bene: vuoi che ti ammogli?
SMERDJAKOV | Ma Smerdjakov, a questi discorsi, non faceva che impallidire di disappunto, e non rispondeva verbo. (Dostoevski, Ronconi 1997-1998b, 57-58)

La sequenza riepilogativa si disloca su due diverse temporalità, unificate, tuttavia, da un elemento spaziale comune. Mentre Smerdjakov racconta al passato alcuni momenti della sua misera condizione, servendosi delle parole del narratore, emerge, in sottofondo, il commento del padre Fëdor, il quale si trova congiuntamente sulla scena insieme a lui, seduto al tavolo con i figli, nel presente della rappresentazione. Una coesistenza tra diversi piani cronologici, che trova la sua realizzazione in scena e che testimonia come il teatro riesca ad integrare nelle sue pratiche le possibilità offerte dalla diegesi, mettendo in discussione la duttilità temporale immaginata da Genette e da Segre come prerogativa del testo narrativo. L’assunzione integrale del romanzo e la conseguente distribuzione delle battute sulla base del principio di focalizzazione permettono di intrecciare sulla scena temporalità che appartengono a livelli diegetici nettamente distinti nel romanzo, consentendo al personaggio di pronunciare interventi ascrivibili a un piano narrativo superiore e di occupare, allo stesso tempo, una posizione immediatamente subordinata.

Oltre alle già discusse implicazioni sul piano temporale, l’intromissione dell’istanza diegetica “sollecita una riflessione sui processi stessi di definizione del personaggio” (Vianello 2015, 106). Nella fase di elaborazione del discorso recitativo, agli attori viene fornita l’indicazione di “mostrare la parola, di renderla concreta senza interpretarla, di staccarla dalla pagina per rinnovare ‘semplicemente’ la sua disponibilità a essere letta da chiunque altro” (Marchetti 2016, 25). Sul palcoscenico questa precisa istruzione si traduce con i personaggi che “continuano a parlare di sé in terza persona, si guardano per così dire dall’esterno, ma raccontano comunque una storia con la quale hanno un rapporto diretto” (Vianello 2015, 106). Queste figure si trovano così sospese tra “il teatro dell’immedesimazione e il teatro dell’estraniazione” (Vianello 2015, 106). Uno sdoppiamento che condividono anche con gli spettatori, disorientati da questa alternanza di tempi verbali e modalità enunciative. Un’operazione di questo tipo sbriciola, di fatto, l’unità del personaggio, preservando, però, quel carattere di incompiutezza e non-coincidenza individuato da Bachtin come pietra angolare della polifonia (Bachtin [1963] 2002, 72).

La capacità di Ronconi di aderire al dettato del testo, commentandolo, non è però l’unico principio perseguito dal regista. L’immissione del romanzo in scena comporta necessariamente delle variazioni, “persino in assenza di intenzionali modifiche del testo di partenza” (Fantappiè 2020, 138). Un’operazione ripetitiva, dunque, che esprime nello stesso tempo una singolarità e che si configura come una particolare forma di trasgressione (Fantappiè 2020, 147). La trasposizione, estranea a ogni replica, pur lasciando inalterata la forma romanzo, nel tentativo di riprodurne i meccanismi narrativi in scena, si discosta quanto più possibile da un’operazione di tipo illustrativo, come afferma Longhi a tal proposito:

Non si può dare interpretazione senza commento, non si può dare commento senza interpretazione. […] il principio […] può essere logicamente esteso anche alla prassi registica: ogni regista-interprete non può esimersi dal commentare i testi che dirige, ogni regista-commentatore spiega invece il testo portato in scena attraverso il filtro della sua soggettiva interpretazione. […] commentando i drammi che dirige, nell’atto stesso di annullarsi nella loro oggettiva attività drammaturgica, Ronconi li reinventa liberamente secondo la sua personale sensibilità (Longhi 2001, 171)

La procedura di commento implica, difatti, un processo complementare di interpretazione o libera reinvenzione. A questo riguardo, è possibile individuare un esempio pertinente nella teatralizzazione del Pasticciaccio: nell’apparente fedeltà al testo di partenza, Ronconi tradisce l’impostazione eterodiegetica scelta da Gadda, scomponendo la voce unitaria del narratore. Leggermente diverso, invece, il discorso per quanto concerne i Karamazov, posta l’analogia tra i due procedimenti e la somiglianza dei risultati. La frantumazione della voce narrante, che si traduce nel passaggio all’omodiegetico con focalizzazione multipla (Vescovo 2011, 142-143), viene in questo caso complicata da alcuni fattori destabilizzanti, tra i quali ricordiamo il già discusso processo di vocalizzazione, la natura stessa del narratore nel romanzo e, infine, la sua effettiva presenza sulla scena. Dostoevskij concepisce questa particolare figura ripensando in modo radicale il rapporto che essa intrattiene con i personaggi del racconto, rispetto ai canoni ottocenteschi (Mazzoni 2011, 310). Genette, nel tentativo di definire l’istanza produttrice di un racconto primo, afferma come il narratore debba necessariamente collocare il proprio atto enunciativo entro un livello diegetico, a una certa distanza dall’avvenimento raccontato (Genette [1972] 2006, 259-281). Una volta stabilita la sua posizione, occorre definire successivamente l’atteggiamento narrativo adeguato, che può oscillare tra due orientamenti possibili: raccontare la storia da una posizione interna alla vicenda esposta oppure esterna alla storia stessa (Genette [1972] 2006, 292). Ed è proprio questa presunta condizione di “esteriorità” a non essere dopo tutto così ermetica nei Karamazov: il confine tra omodiegesi ed eterodiegesi, infatti, è una frontiera labile, non sempre chiara e definita e può implicare una certa gradualità.

Dobbiamo pur ammettere la possibilità, e osservare l'esistenza, di situazioni liminari, miste o ambigue: quelle del cronista contemporaneo, di cui ho appena evocato alcuni esempi, sempre sulla soglia di una partecipazione, o almeno di una presenza nell'azione, che è esattamente quella del testimone; oppure, fatto più raro e più sottile, quella dello storico ulteriore, che racconta, come il narratore di Karamazoff, fatti avvenuti “nel suo distretto” (prossimità geografica), ma molto tempo prima della sua nascita (distanza temporale), fatti a lui noti solo per testimonianze indirette (Genette [1983] 1987, 89).

Il narratore anonimo dei Karamazov è un testimone indiretto della vicenda, senza una vera e propria parte nell’azione. Tutto il materiale narrativo elaborato è il frutto di una ricostruzione a posteriori. Il narratore, pur condividendo una prossimità geografica con la vicenda raccontata, è venuto a conoscenza dei fatti tramite una serie di testimonianze riflesse: le parole degli altri concittadini o la lettura di fonti prodotte dagli stessi personaggi, pensiamo ad esempio all’agiografia dello starec Zosima o al poema de Il grande inquisitore, composto da Ivan. Se lo storico ulteriore esercita la sua funzione cronachista pur non partecipando direttamente all’azione, in alcuni casi ne riduce la distanza, assistendo, per esempio, in prima persona allo sviluppo del processo, riportando i dialoghi ascoltati nell’aula del tribunale. Nonostante questa condizione di semi-presenzialità, il narratore non descrive in senso ultimativo e assoluto i personaggi, ma lascia loro la libertà di autodefinirsi, concedendo ampi spazi di parola (Bachtin [1963] 2002, 72). A causa, dunque, della singolare posizione assunta dal narratore nel romanzo, il passaggio all’omodiegetico è percepito con minore intensità rispetto alla precedente edizione teatrale del Pasticciaccio. Accanto a tutto questo, bisogna ricordare, infine, che il regista, nella frantumazione della voce narrante, pur dissolvendone la posizione da storico ulteriore, mantiene, tuttavia, una piccola traccia della sua presenza in scena. Questa figura debole, circoscritta al primo spettacolo non ha, però, uno statuto diverso rispetto agli altri personaggi, è semplicemente una comparsa tra le tante, che “non ha la funzione di rendere unitaria l’azione drammatica, ma al contrario, di accentuarne la discontinuità: egli diventa la personificazione della mancanza di una voce narrante al di sopra delle parti” (Marchetti 2016, 61). Una mancanza ribadita con forza proprio nell’ultimo spettacolo della trilogia: l’occasione del processo contro Mitja rappresenta il punto di estrema vicinanza del narratore ai fatti raccontati, al quale corrisponde, però, la sua più totale assenza sulla scena.

Una volta dissolta la figura del narratore, lo spettatore ha bisogno di riordinare il materiale scomposto attraverso un delicato processo di figurazione, nel tentativo di ricostruirne l’integrità perduta.

Cosa resta del “narratore onnisciente” del romanzo che guarda la storia dall’esterno? Se da un lato potremmo ricondurre quell’unità alla visione creativa del regista, dall’altro sembra possibile ritrovarla “nell’occhio e nella mente dello spettatore”. Lo spostamento dal narratore esterno alla storia che racconta, alla parola detta dal punto di vista dei personaggi, dentro la storia, vanifica quella che comunemente viene definita “l’onniscienza del narratore”. Essa si ritrova, in termini generali, nella drammaturgia dello spettatore, nell’occhio e nella mente di chi guarda (Vianello 2015, 107).

Tra messinscena e spettatore si viene a creare, a partire da questa dinamica ricettiva, una relazione paragonabile a quella che il lettore sviluppa con il libro. L’esperienza di lettura a teatro può essere intesa sia come un’attività ricostruttiva sia come un processo di oggettivazione, come dimostra la scena di apertura de Il grande inquisitore, dove viene annunciata la morte di Fëdor Pávlovič e dello starec Zosima.

SMERDJAKOV | Stroncato dalla crisi epilettica, Smerdjakov nel padiglione della servitù. Nel silenzio della notte si udiva soltanto il suo terribile rantolo.
MICHAIL MAKAROVIČ | Fëdor Pávlovič fu ritrovato morto sul panciato della sua camera, con la testa fracassata giaceva supino, la candela dal tavolo illuminava vivamente il suo cadaverico viso, la vestaglia fiammante e la candida camicia, sul petto, intrisa di sangue.
UN AGENTE | Il capo della polizia, Michail Makarovič Makarov, aveva radunato quattro agenti, e secondo tutte le regole aveva effettuato il sopralluogo.
MICHAIL MAKAROVIČ | Nella stanza non ebbero a notare alcun particolare disordine: presso il letto, sollevarono da terra un grosso plico, di carta robusta, di formato da ufficio, che portava la soprascritta: “piccolo dono di mila tremila rubli per Grusen’Ka, per l’angiola mia, se avrà la bontà di venire”. Sul plico erano apposti tre grandi sigilli di ceralacca rossa, ma la busta era ormai lacerata e vuota: il denaro era stato trafugato.
UN AGENTE | Ho trovato anche lì in terra il sottile nastrino rosa, ch’era stato legato intorno al plico.
RAKITIN | ma così si percorrono gli eventi: tutto questo verrà infatti a chiarirsi in seguito in modo perfettamente documentato. Quanto alla fine dello starec, era avvenuto in modo del tutto in attesa. Infatti, sebbene tutti comprendessero che la sua morte era prossima, quando la mattina si era svegliato era di una lucidità perfetta: il suo viso, pur estenuato, era chiaro e lo sguardo era lieto. (Dostoevskij, Ronconi 1997-1998c, 7-8)

La sequenza presa in esame, totalmente assente nel romanzo, aderisce perfettamente al dettato del testo e conserva la tensione prolettica della scrittura, riproducendo sulla scena il legame simbolico tra le due figure paterne, colmando, attraverso la rappresentazione visiva, “la funzione normalmente esercitata dalla lettura” (Marchetti 2016, 67). La frammentazione della voce narrante, la conseguente emergenza di prospettive multiple, la presenza di elementi narrativi in scena e la simultaneità spazio-temporali stimolano l’attività mentale del pubblico in uno spettacolo che interroga continuamente la soggettività dello spettatore, intenso nella doppia accezione di centro ricettivo e agente interpretante.

Come suggerisce Longhi a questo proposito: “Ronconi monta un magistrale spettacolo-esercitazione nel quale la ‘continuità’ della rappresentazione negata dalla ‘frammentarietà’ della messa in scena, è soprattutto restituita dalla percezione dello spettatore” (Longhi 1999, 260). Uno spettacolo infinito che richiede una partecipazione attiva e che, per sua natura, sfugge alla completa attenzione del pubblico. Uno spettacolo declinato nella forma della “lettura agita” (Vescovo 2015, 285), che si sottrae alla logica puramente visiva della performance per riscoprire, di contro, l’aspetto puramente relazionale. Ed è questo il punto di arrivo di un allestimento rimasto in sospeso ma che, necessariamente, ci spinge a ripensare le categorie drammaturgiche e la scena contemporanea come terreno non più esclusivo della mimesi, ma come spazio di convivenza e integrazione tra il dramma e le sue presunte forme alternative.

Una prassi registica, quella di Ronconi, che continua a mostrarsi come un antidoto alla stagnazione creativa e a quelle teorie che vorrebbero ridurre il teatro a una semplice forma perfezionata dalla diegesi (Vescovo 2015, 93), che esclude qualsiasi implicazione narrativa. Un modo nuovo di raccontare che si oppone alle facili schematizzazioni, che confinano la forma drammatica entro i limiti di una stabile tradizione scenica.

Riferimenti bibliografici
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    M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica [Problemy poetiki Dostoevskogo, Movska 1963], traduzione di G. Garritano, Torino 2002.
  • De Min 2013
    S. De Min, Leggere le didascalie. Narrazione, commento, immaginazione nella drammaturgia moderna, Bologna 2013.
  • Dostoevskij [1879-1880] 1981
    F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov [Brat’ja Karamazovy, Movska 1879-1880] traduzione di A. Villa, Torino 1981.
  • Dostoevskij, Ronconi 1997-1998b
    F. Dostoevskij, L. Ronconi, I fratelli Karamazov: I lussuriosi, Programma di sala, a cura di C. Longhi, Vol. II, Roma 1997-1998.
  • Dostoevskij, Ronconi 1997-1998c
    F. Dostoevskij, L. Ronconi, I fratelli Karamazov: Il grande Inquisitore, Programma di sala, a cura di C. Longhi, Vol. III, Roma 1997-1998.
  • Dostoevskij, Ronconi 1997-1998d
    F. Dostoevskij, L. Ronconi, I fratelli Karamazov: Un errore giudiziario, Programma di sala, a cura di C. Longhi, Vol. IV, Roma 1997-1998.
  • Fantappiè 2020
    I. Fantappiè, Riscritture, in F. de Cristofaro (a cura di), Letterature comparate, Roma 2020, 135-162.
  • Genette [1972] 2006
    G. Genette, Figure III. Discorso del racconto [Figure III. Discours du récit, Paris 1972], traduzione di L. Zecchi, Torino 2006.
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    G. Genette, Nuovo discorso del racconto [Nouveau discours du récit, Paris 1983] traduzione di L. Zecchi, Torino 1987.
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    G. Genette, Palinsesti. La letteratura di secondo grado [Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris 1982], traduzione di R. Novità, Torino 1997.
  • Longhi 1999
    C. Longhi, La drammaturgia del Novecento tra romanzo e montaggio, Pisa 1999
  • Longhi 2001
    C. Longhi, La regia tra commento e interpretazione, in A. Andreini, R. Tessari (a cura di), La letteratura in scena. Gadda e il teatro, Roma 2001, 99-190.
  • Malcovati 2021
    F. Malcovati, Un’idea di Dostoevskij, Imola 2021.
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    M. Marchetti, Guardare il romanzo. Luca Ronconi e la parola in scena, Catanzaro 2016.
  • Mazzoni 2011
    G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna 2011
  • Recalcati 2019
    E. Recalcati, Dostoevskij sullo schermo. La polifonia dei Fratelli Karamazov tra cinema e TV, Milano 2019.
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    L. Ronconi, Conversazione con Luca Ronconi, in C. Longhi (a cura di), I fratelli Karamazov, Programma di sala, Vol. I, Roma 1997-1998.
  • Segre 1984
    C. Segre, Teatro e romanzo, due tipi di comunicazione letteraria, Torino 1984.
  • Vescovo 2015
    P. Vescovo, A viva voce. Percorsi del genere drammatico, Venezia 2015.
  • Vescovo 2011
    P. Vescovo, Il tempo a Napoli, Durata spettacolare e racconto, Venezia 2011.
  • Vescovo 2022
    P. Vescovo, Persone drammatiche e istanza narrativa, “Status Quaestionis” Vol. 22, (2022), 35-51.
  • Vianello 2015
    D. Vianello, Teatro e romanzo: Pornografia di Gombrowicz – Ronconi, “Biblioteca teatrale” 113-114 (gennaio – giugno 2015), 93-108.
English abstract

Luca Ronconi's work is marked by a profound interest in narrative language. This paper sets out to explore in depth the question of the theatrical use of the novel, focusing on I fratelli Karamazov, a renowned production that was left unfinished on the stage of the Teatro Argentina. This article presents, from a semantic perspective, the structural analysis of the play, by using the formal categories drawn from Genette’s narratology, while also paying attention to the connection with Dostoevsky’s novel. The use of narratological categories, which are not typically applied to the theatrical context, opens up new research possibilities, helping to clarify how the director contributed to renewing the ability to tell on stage.

keywordsI fratelli Karamazov; transposition; Luca Ronconi; narratology

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Francesco Di Cello, I fratelli Karamazov. Il romanzo sulla scena (1998), “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.