1-2 | @Luigi Ciminaghi, Lolita (sceneggiatura) di Valdimir Nabokov, regia di Luca Ronconi. Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Archivio Piccolo Teatro di Milano.
Una splendida pièce di teatro?
Nel 1955 Vladimir Nabokov pubblica a Parigi (ma in inglese) il romanzo Lolita, e lui stesso lo adatta per il cinema nel 1960 su commissione di Stanley Kubrick; ma il film che quest’ultimo realizza nel 1962 è molto diverso dal copione[1]. E non è forse casuale che dopo l’andirivieni fra i propri copioni e lo schermo, il romanzo successivo di Nabokov sarà un libro interamente metatestuale: Fuoco pallido, un libro-commento a un poema immaginario eppure reale, una “struttura che vuol farsi altra struttura”, per usare la definizione pasoliniana della sceneggiatura.
Quando nel 2002 Luca Ronconi trae uno spettacolo dalla sceneggiatura è inevitabile il cortocircuito tra quattro testi: il romanzo di partenza, la sceneggiatura (che taglia ovviamente molte scene, ne riscrive ma anche ne aggiunge altre), il film (diverso dal romanzo e anche dalla sceneggiatura) e lo spettacolo teatrale (Nabokov [1974] 2001, 16)[2]. Lolita (sceneggiatura), pubblicato in italiano nel 1997, viene messo in scena al Teatro Strehler il 22 gennaio del 2001, quando Ronconi ne era direttore. È l’unico spettacolo del regista ispirato a un film: ma poco prima un altro progetto era stato abortito. Si trattava, nel 1998, di un adattamento del Lola Montes di Max Ophüls[3], turbinosa rievocazione della vita della celebre ballerina della belle époque ispirata al romanzo di Cecil Saint-Laurent, alias Jacques Laurent. A parte il curioso passaggio onomastico da Lola a Lolita, sono da segnalare due curiosità. La prima è che Max Ophüls era il regista preferito di Kubrick (Ciment 1999, 34)[4]. La seconda è che Lola Montes è noto per essere stato rimontato dai produttori e circolante in versioni più o meno vicine alla versione originale, fino a una versione quasi filologica del 2008. Cosa avrebbe messo in scena Ronconi, dunque? La versione italiana di mezz’ora più corta e in ordine cronologico o una di quelle più ampie messe a punto successivamente? Anche in quel caso, dunque, si sarebbe trattato di un testo problematico, anzi di una serie di testi.
Nella prefazione all’edizione italiana di Lolita (sceneggiatura), il figlio di Nabokov afferma che “questo testo costituirebbe una splendida pièce di teatro” (Nabokov [1997] 2001, 16). In realtà non è così: si tratta di un copione che presenta una quantità di elementi specificamente cinematografici (indicazioni di tagli di montaggio, inserti onirici, visualizzazioni di metafore, montage) e il cui adattamento teatrale richiede un notevole lavoro[5]. Ma proprio questo, azzardiamo, deve aver interessato Ronconi, il quale in effetti, nelle note di regia (Longhi 2001, 19), fa riferimento soprattutto ai suoi lavori precedenti di adattamento da Dostoevskij (I fratelli Karamazov) e Gadda (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana): anche in questo caso, si tratta di adattare per il teatro un testo concepito per altri usi. Peraltro anche l’impianto scenico è piuttosto vicino a un’operazione come quella del Pasticciaccio. Scandite, accompagnate e contraddette da didascalie, tante voci si alternano e confliggono in scena, tanti narratori-registi si danno il cambio, mentre gli attori si agitano puntando verso il grottesco e addirittura la farsa: idea, quest’ultima, già presente nello script di Nabokov, recepita da Kubrick e anzi ampliata in alcune scene (i tentativi da slapstick di aprire la sdraio) e dal fatto di affidare la parte di Quilty a Peter Sellers. Più in generale, lo spettacolo si configura in scena come una serie di “narratori in campo” che frammentano la voce narrante di Nabokov, ma in fondo la replicano come tante maschere[6].
Non mi soffermo sul rapporto tra Ronconi e il cinema, sui suoi progetti abortiti e le regie televisive[7], se non per un elemento: il rapporto col montaggio e il piano-sequenza. Ronconi esprime a più riprese una propria personale idea di montaggio, inteso in senso ampio. Indicativo il ricordo dell’infelice incontro con Antonioni, per il quale aveva recitato insieme a Monica Vitti in Io sono una macchina fotografica di Christopher Isherwood, nel 1957: “La prima all’Eliseo a Roma fu catastrofica. La sera, a cena, Antonioni ebbe un’uscita che mi lasciò di stucco: ‘Questa sera ho capito la differenza che c’è fra cinema e teatro. In teatro si fa tutto durante le prove. In cinema se si prova molto si rischia la meccanicità. La vera regia, per un film, è il montaggio che in teatro non c’è’” (Ronconi 2019, 93). Ronconi invece afferma che il montaggio è “una delle più caratteristiche figure della sintassi drammaturgica del nostro secolo” (Ronconi 1999, 9-10). Il concetto di montaggio, in effetti, non si limita al cinema, ma innerva molta letteratura e molto teatro modernisti e molta arte d’avanguardia (e perfino il concetto ejzensteiniano di montaggio, peraltro, è un procedimento che nasce nelle sue regie teatrali) (Somaini 2011). Il montaggio non è decisivo perché sta prima e altrove, nel teatro stesso: questa scelta guida le regie televisive di Ronconi, a cominciare da quella dell’Orlando furioso, in cui la scelta dei piani-sequenza è motivata “dall’impossibilità di spezzare il ritmo generato dai versi ariosteschi”: “il montaggio cinematografico è incompatibile col ritmo di un’ottava” (Ronconi 2019, 302 e 309). L’unica eccezione sarà la versione televisiva degli Ultimi giorni dell’umanità, perché in quel caso il montaggio era presente non solo nello spettacolo, ma addirittura nel testo (Ronconi 2019, 310-311). E non stupisce allora che a quanto racconta Marisa Fabbri il regista Miklós Jancsó, dopo aver visto quindici volte Le Baccanti, abbia rinunciato a filmare lo spettacolo “dicendo che quello era già cinema, cinema vivente” (Balzola 1993, 186).
Piuttosto, quel che Ronconi sceglie di ignorare è un elemento insidioso, ossia il realismo fotografico e ontologico: l’enigma di quei fantasmi sullo schermo, della corrispondenza tra immagine e realtà. Si ha l’impressione che per Ronconi il cinema sia essenzialmente finzione, artificio[8], forse perfino più del teatro, perché il corpo reale vi è assente, presentato dopo essere stato sottoposto a una manipolazione, a una riscrittura. Sulla corrispondenza allucinata tra il cinema e il mondo una genia di teorici si era arrovellata lungo il secolo: dall’idea di ‘fotogenia’ di Louis Delluc alle esposizioni radicali di André Bazin (che pone in esergo della sua raccolta l’immagine della sindone) e Siegfried Kracauer (che parla di “redenzione della realtà fisica”) fino all’idea di cinema come “lingua scritta della realtà” di Pier Paolo Pasolini. Questa fascinazione inquieta, che già attraeva gli scrittori del primo Novecento, arriverà fino a Bioy Casares (L’invenzione di Morel, che Ronconi sognava di adattare al cinema), Delmore Schwartz (Nei sogni cominciano le responsabilità) e allo stesso Nabokov[9]. Prima ancora di essere una forma artistica, prima di essere una forma di racconto per immagini, il cinema è per gli scrittori una macchina che produce fantasmi, parente non della letteratura né del teatro ma della fotografia (o, al limite, della fantasmagoria di fine Settecento).
Stranamente capita che a essere infestati dai fantasmi del cinema siano proprio certi scrittori iper-letterari, giocolieri del linguaggio: da Joyce, nel cui Ulysses sono state da tempo identificate parentele con l’organizzazione narrativa del cinema delle origini (Ronconi 2019, 303), al vertiginoso Raymond Queneau di Loin de Rueil, fino a molti racconti e romanzi (Cinema, Non aprire quella porta, Tutto il ferro della torre Eiffel) di Michele Mari. Forse perché il cinema fa sporgere sui bordi del linguaggio, mette a confronto con la sfida di intrecciare parola e immagine, racconto e visione, linguaggio e realtà. Esattamente, vedremo subito, il tema di Lolita.
Avrei potuto filmarla
Lolita, considerato a ragione storia di un’ossessione erotica e del rapporto tra Europa e Stati Uniti, e tra scrittore europeo e lingua americana, è anche, più specificamente, il resoconto di un’ekphrasis impossibile. Fin dalle prime righe Humbert si danna (e poi è letteralmente dannato, condannato) perché non riesce, attraverso le parole e la scrittura, a rendere qualcosa che è al di fuori di essa. Ossia Lolita. La sua lingua va verso l’ecolalia, il calembour demenziale.
In fondo Lolita è anche la continua invocazione di una visualizzazione impossibile, di immagini e desideri che non riescono a farsi parola. E forse è bene che Lolita resti flatus vocis, suono di due palatali e una dentale (Nabokov [1955] 1993, 17), che non riesca a farsi immagine e resti il lucido deliquio di un narratore. Perché se queste parole afferrassero l’immagine, scatenerebbero la logica abissale e irrefrenabile del desiderio. (Come scriveva Luis Buñuel: “Se la palpebra bianca dello schermo potesse riflettere la luce che le è propria, farebbe saltare l’universo”. E, per viam negationis, tutti coloro che hanno sottolineato la sproporzione tra ciò che il cinema è veramente stato e le sue potenzialità, da Antonin Artaud a Carmelo Bene, non hanno detto qualcosa di molto diverso.)
Continuamente il narratore invoca le manchevolezze del racconto. Nel finto diario, una delle primissime apparizioni, ricopiata da un’agendina perduta: “Mai sperimentato un simile supplizio. Vorrei descrivere il suo viso, il suo modo di fare… e non posso, perché quando è vicina il desiderio mi acceca […]. Se chiudo gli occhi vedo di lei soltanto una frazione immobilizzata, l’inquadratura pubblicitaria di un film [a cinematographic still]” (Nabokov [1955] 1993, 60). La prima descrizione di Lolita che si siede sul divano accanto a Humbert è così commentata: “Peccato che nessuna pellicola abbia registrato il curioso arabesco, l’intreccio da monogramma delle nostre curiose mosse simultanee e sovrapposte” (Nabokov [1955] 1993, 77). E dopo aver avuto un orgasmo a seguito della situazione, ancor più esplicitamente: “Io non le avevo fatto nulla. E nulla mi impediva di ripetere una prestazione che la toccava pochissimo, come se lei fosse un’immagine fotografica che fluttua su uno schermo e io l’umile gobbo intento all’onanismo nell’ombra” (Nabokov [1955] 1993, 82).
Ma l’oggetto irraggiungibile-Lolita non è una realtà naturale, bensì un costrutto sociale incomprensibile. È un’immagine, fatta di cinema, fumetti, crooner, junk food. Humbert evoca, “per gentile concessione della memoria fotografica”, una ninfetta che è “avida lettrice di cinema, esperta di primi piani lenti come sogni” (Nabokov [1955] 1993, 66)[10], o anche, in versi, “La scura Dolores/ sdraiata sulle verdi rive/ con Sanchicha che legge storie/ di eroi dello schermo, di dive” (Nabokov [1955] 1993, 306). Sua madre, come viene ripetuto decine di volte, è una sosia degradata di Marlene Dietrich.
Le situazioni romanzesche mimano parodisticamente il cinema di genere, mélo o gangster, quando Humbert osserva su un muro le foto di alcuni criminali ricercati: “Se volete trarre un film da questo mio libro, fate in modo che, mentre guardo queste facce, una di esse si dissolva pian piano nella mia” (Nabokov [1955] 1993, 278). Nelle ultime pagine, l’omicidio di Quilty da parte di Humbert è descritto come un’azione da film noir sensazionalistico. Mentre Humbert si reca in auto a compiere il delitto finale, le immagini di un drive in anticipano e visualizzano il suo atto:
In un selenico bagliore, davvero mistico nel contrasto con la notte massiccia e senza luna, su uno schermo che si perdeva obliquo fra i campi oscuri e insonnoliti, un esile fantasma sollevò una pistola, lui e il suo braccio ridotti a tremula risciacquatura dall’angolazione obliqua di quel mondo che arretrava- e un attimo dopo un filare di alberi tagliò fuori il gesto (Nabokov [1955] 1993, 364).
L’angoscia delle immagini irraggiungibili attraversa tutto il libro. Le parole, fin dall’inizio, girano a vuoto (“Oh, mia Lolita, ormai il mio trastullo son solo le parole!”, Nabokov [1955] 1993, 459). Senza le immagini, la scrittura diventa puro segno grafico, ideogramma cieco, come l’elenco degli studenti o il diagramma del percorso in auto, e le parole scritte sono “gli abominevoli geroglifici della mia fatale lussuria” (Nabokov [1955] 1993, 65), per cui non resta che ripetere “Lolita. Lolita. Lolita. Lolita. Lolita. Lolita. Lolita. Lolita. Lolita. Ripeti finché la pagina è piena, tipografo” (Nabokov [1955] 1993, 140).
Culmine è l’esclamazione di Humbert davanti all’apparizione-clou di Lolita, in divisa da tennis durante il viaggio, in cui per un istante l’ekphrasis sembra riuscire, in pagine e pagine in cui la ragazzina è descritta e in cui quasi traluce il suo modo interiore. Ma subito: “Idiota! Triplo idiota! Avrei potuto filmarla! Adesso l’avrei qui con me, davanti agli occhi, nella sala di proiezione del mio disperato sconforto! […] Oggi il pensiero che avrei potuto immortalare in segmenti di celluloide tutti i suoi colpi, tutti i suoi incantesimi mi provoca dei gemiti di frustrazione. Quanto più preziosi mi sarebbero stati delle fotografie che ho bruciato!” (Nabokov [1955] 1993, 288-290).
Lolita è sogno
È stato probabilmente qualcosa di simile ad aver affascinato Ronconi, il cui spettacolo è anche, e forse soprattutto, una riflessione su parola e immagine, anzi la messa in scena di un cortocircuito tra parola, corpo e immagine. Ed è singolare che, nelle interviste, il regista sorvoli su un elemento macroscopico del proprio lavoro.
La cosa su cui si sofferma molto è infatti il tema linguistico, la scelta di utilizzare come testo anche le didascalie (effettivamente molto belle) dello script di Nabokov, e soprattutto di far parlare Lolita in inglese, per ribadire che il tema del racconto è proprio il confronto culturale, linguistico tra Nabokov e la sua lingua d’adozione. La presenza di questa non-attrice esordiente, che non capisce per sua stessa ammissione cosa dicono gli altri attori, è un corpo estraneo inglobato nella performance. C’è poi ancora una volta il montaggio: in questo caso quello che si chiama montaggio in macchina, ossia i movimenti della macchina da presa, i carrelli, che Ronconi sembra reinventare facendo muovere gli oggetti sulle rotaie come in una coreografia (come sul treno), col risultato, dice Franco Branciaroli che interpreta Humbert[11], che la recitazione degli attori è come quella cinematografica, tra macchina da presa, luci e segni per terra. Ma c’è dell’altro, più vistoso. Un elefante nella stanza, come si dice. Lo spettacolo ha degli schermi enormi su cui passano delle immagini, e una delle pochissime volte in cui Ronconi ricorre a questi procedimenti (ne ho notizia per Dialoghi delle carmelitane del 1988, Medea del 1996 e per la regia lirica Viaggio a Reims, nella cui ripresa televisiva, con sconcerto del regista, gli schermi in scena non vennero mai inquadrati) (Nabokov [1955] 1993, 272).
A volte le immagini sugli schermi integrano, a volte ribadiscono o svariano. Ci ricordano che quello che vediamo è un testo incompiuto, una “struttura che vuole essere un’altra struttura?” Non solo, non proprio. Le immagini sulle teste degli attori non mi sembrano tanto il film che il copione potrebbe diventare, ma proprio un luogo di visioni mentali che dichiarano i limiti della scrittura, e poi della parola e del linguaggio. Queste immagini insomma mi sembra nascano dal confronto non solo con la dinamica del testo-sceneggiatura, ma col tema profondo del libro. Mentre essere scorrono, in scena i personaggi monologano, si parlano addosso e si avvicinano al delirio. Non nascondendo, ma esibendo i meccanismi ibridi, Ronconi ottiene di mostrare la macchina e insieme una dialettica inconciliabile che sta al fondo dell’opera di Nabokov, e del confronto tra le arti.
A ripensarci, queste immagini ricordano la realtà parallela di un altro romanzo di Nabokov, Ada o ardore (che di lì a poco peraltro ispirerà un intero progetto di Fanny e Alexander in cui il video, in tutt’altra forma, ha un ruolo centrale). Anche perché c’è un altro elemento, decisivo. Quelle immagini non sono cinema. Non sono “la lingua scritta della realtà”, la fotogenia, e nemmeno quei fantasmi che apparvero agli spettatori tra Otto e Novecento e che dovevano la loro forza alla loro flagranza. Sono immagini computerizzate che esibiscono la loro falsità. Al di là del linguaggio non c’è il mondo, ma il sogno? In questo, allora, Lolita-sceneggiatura chiuderebbe un trittico coi due spettacoli precedenti al Piccolo, un trittico onirico con La vita è sogno di Calderon de la Barca e Il sogno di Strindberg, che dall’illusionismo barocco porta ai fantasmi dell’inconscio e infine esplode nel mondo, futuribile e oggi semplicemente presente, della realtà virtuale.
Note
[1] Come ricorda lo scrittore, vengono ad esempio reintrodotti un paio di episodi che erano stati eliminati nella stesura definitiva del romanzo: “La casa fantasma di McCoo, le tre ninfe sul bordo della piscina, o Diana Fowler quando rimette in moto il ciclo fatale che era già stato di Charlotte Haze” (Nabokov [1997] 2001, 23).
[2] Aggiungiamo che esiste anche un testo-fantasma, ossia una prima versione della sceneggiatura di Nabokov che, secondo il figlio, avrebbe dovuto esse pubblicata in Francia e in Germania.
[3] Il testo avrebbe dovuto essere scritto da Dacia Maraini a partire dalla sceneggiatura del film, per l’interpretazione di Mariangela Melato, proprio all’inizio del mandato di Ronconi al Piccolo, nel 1998 (Ronconi 2019, 169, 381).
[4] Ciment cita un’intervista ai “Cahiers du cinéma” del 1957.
[5] Divertenti le autoironiche osservazioni dello scrittore: “Se mi fossi dato al palcoscenico o allo schermo tanto quanto mi sono dato al genere di scrittura che sconta il suo trionfale ergastolo dentro la copertina di un libro, avrei propugnato e messo in opera un regime di totale tirannia, dirigendo io stesso il film o la commedia, scegliendo scenografia e costumi, terrorizzando gli attori, confondendomi tra loro in ruoli secondari di ospite e di spettro, suggerendo loro la parte: in una parola, permeando l’intero spettacolo del volere e dell’arte di un individuo unico” (Nabokov [1974] 2011).
[6] Vengono in mente le parole di Ronconi sul proprio rapporto coi personaggi, a partire da I giganti della montagna di Pirandello: “Non riesco ad avere un’idea di un personaggio teatrale a tutto tondo. Non riesco […] a dividere Cotrone da Spizzi o dal Conte” (Ronconi 2019, 183).
[7] Sui progetti cinematografici di Ronconi negli anni ’70 (un film da E. T. A. Hoffman, L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, l’Eliogabalo di Artaud, e un più tardo Annibale da Grabbe) e sulle regie televisive, oltre all’Orlando furioso, La Torre di Hofmannstahl e Gli ultimi giorni dell’umanità, Ronconi stesso ricorda i due testi espressamente messi in scena per la tv, la Bettina (1976) da Goldoni e John Gabriel Borkman (1979) di Ibsen, occasioni in cui il regista tratta " lo schermo come se fosse un libro" (Ronconi 2019, 303-304).
[8] Tornando al ricordo d’infanzia del cinema, con il leone della MGM che spalanca le fauci procurandogli una crisi di pianto, Ronconi osserva: “Forse è proprio per questa confusione, per questa mescolanza fra verità e sogno, che il cinema, da allora, è sempre rimasto per me legato a un’idea di doppia realtà, dove non si sa dove inizi la realtà vera e dove quella che ti sei inventato” (Ronconi 2019, 47). Il cinema, in osservazioni come questa, sembra essere piuttosto qualcosa che, a causa del proprio sovrappiù di realtà, mette in crisi la percezione quotidiana di ciò che è reale.
[9] Per i rapporti tra Nabokov e il cinema rimandiamo a Appel 1974, che ovviamente si occupa nel dettaglio anche di Lolita. Altri numerosi riferimenti al riguardo sono nelle note, dello stesso autore, in Nabokov 1991.
[10] Il romanzo presenta frequenti descrizioni di film visti, e Humbert che finge di girare un “film sull’esistenzialismo”. Ma più interessante il continuo rimando agli eventi come sequenze di immagini cinematografiche da inseguire con la scrittura, come la scena in cui Humbert preleva Lolia a scuola (Nabokov [1974] 2001, 142) o le visualizzazioni dei compagni di Lolita a partire dai nomi (ivi, 71). Questo ricorrere metaforico alle immagini in movimento è regolarmente accompagnato da un senso di scacco (“sono costretto a disporre l’impatto di una visione istantanea in una sequenza di parole”, scrive prima di descrivere la dinamica dell’incidente in cui muore miss Haze, ivi, 126) e ineluttabilmente il tentativo di “fissare il sortilegio delle infette” è condannato al fallimento, e le immagini reali diventano sogno e vaneggiamento (ivi, 317).
[11] Nello speciale televisivo Lolita- prove di un amore (2001) di Ariella Beddini.
Riferimenti bibliografici
- Appel 1974
A. Appel jr., Nabokov’ Dark Cinema, New York 1974. - Balzola 1993
A. Balzola, Conversazioni con Marisa Fabbri sulla sua esperienza di attrice ronconiana, “Il castello di Elsinore” 18 (1993), 181-187. - Ciment 1999
V.M. Ciment, Stanley Kubrick, Milano 1999. - Longhi 2001
C. Longhi, Intervista, Programma di sala dello spettacolo, Piccolo Teatro, Milano 2001. - Nabokov [1955] 1993
V.V. Nabokov, Lolita [Lolita, Paris 1955], traduzione a cura di G. Arborio Mella, Milano 1993. - Nabokov 1991
V.V. Nabokov, The Annotated Lolita, London 1991. - Nabokov [1974] 2001
V.V Nabokov, Lolita (sceneggiatura) [Lolita: A Screenplay, New York 1974], introduzione di E. Ghezzi, prefazione di D. e V. Nabokov, una nota di S. Kubrick, traduzione a cura di U. Tessitore, Milano 2001. - Ronconi 1999
L. Ronconi, Prefazione, in C. Longhi, La drammaturgia del Novecento tra romanzo e montaggio, Pisa 1999. - Ronconi 2019
L. Ronconi, Prove di autobiografia, a cura di G. Agosti, Milano 2019. - Somaini 2011
A. Somaini, Ejzenstejn. Il cinema, le arti, il montaggio, Torino 2011.
English abstract
Lolita, Ronconi’s only production based on a film, faces a layered text that is difficult to adapt to the stage. Nabokov’s novel is about not only a sick passion and the relationship between Europe and America, but also the impossible attempt to grasp images with words. Ronconi’s reading continues this reflection on images in its own way, however, inserting the element of digital images with big screens. Thus, the work connects to the two previous plays based on Calderon de la Barca and Strindberg.
keywords | Vladimir Nabokov; Luca Ronconi; adaptation; film; theatre.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Emiliano Morreale, “I could have filmed her!”. Nabokov/ Kubrick/ Ronconi (2001), “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.