(Auto)censura
Ronconi nel riflesso della politica berlusconiana (2002)
Rita Agatina Di Leo
English abstract
Questioni di scena, nodi politici
1 | Allestimento con la presenza dei pannelli, tratta da A. La Mattina, Berlusconi: il governo non censura nessuno, “La Stampa” (21 maggio 2002), 11 / Rassegna stampa INDA 2002. AFI/SR.
La censura non è solo un concetto presente nel discorso storico del teatro e delle arti performative ma un suo “presupposto segreto”, per usare un’espressione cara a Foucault (Foucault [1969] 2021, 13). L’indagine intorno al fenomeno censorio, proposta in questo contributo, rivela che esso non solo è un concetto presente (anche se abolito dalla legge) nel discorso artistico, ma si insinua come elemento centrale (e invisibile) che spesso ha determinato le soggettività e le opere. Tentare di dire cosa sia oggi la censura, come questa si sia evoluta negli ultimi tempi, a chi ‘spetti’ decidere e tutelare la libertà d’espressione sono solo alcuni dei tentativi di definire lo spazio bianco da cui ogni artista, studioso, spettatrice, operatore, direttrice, critico parla o osserva. Un discorso che lentamente prende forma in qualcosa di precario, incerto, labile, discontinuo, praticamente indivisibile dalla storia del teatro e delle arti performative.
L’(auto)censura può essere definita come una soglia, un sottilissimo limine, che separa invisibilmente (e inconsciamente) ciò che può essere detto da ciò che resta indicibile. Uno slittamento che da sempre intreccia dinamiche politiche con pratiche artistiche e processi culturali. Ma, come ogni dispositivo di potere anche la censura cambia forma: dopo l’abrogazione nel 1962 dell’Ufficio di revisione teatrale, eredità del regime fascista che ne regolamentava le modalità preventive, essa ha progressivamente trasformato il proprio assetto, assumendo configurazioni più sottili, diffuse e quasi intangibili. Tanto che oggi l’agire censorio può manifestarsi insinuandosi anche dove meno lo si riconosce: sotto forma di consigli amichevoli, di inviti alla prudenza, di chiacchiere durante cene di rappresentanza e, soprattutto, nella gestione dei finanziamenti pubblici.
E, proprio a partire da simili circostanze, prende corpo una vicenda che ancora oggi interroga il teatro italiano. Pochi eventi nella storia del teatro italiano contemporaneo hanno avuto l’impatto mediatico e politico della messa in scena ronconiana di Rane all’interno del ciclo annuale di rappresentazioni classiche dell’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) di Siracusa nel maggio 2002. In quella occasione, alcuni pseudo-manifesti elettorali presenti nella scenografia [Fig. 1], raffiguranti il premier Silvio Berlusconi, il vicepresidente del consiglio Gianfranco Fini, il fondatore e segretario federale della Lega Nord Umberto Bossi e il parlamentare Ignazio La Russa, furono percepiti diffamatori da parte del governo, provocando una reazione ‘censoria’ da parte dei suoi rappresentanti. Un casus belli che solleva ancora oggi interrogativi centrali su cosa sia la censura e come essa si evolva e sull’interferenza politica nelle produzioni artistiche.
“Che garanzia di libertà esiste oggi per Luca Ronconi […] se un qualsiasi servo zelante può invitarlo a lasciare l’Italia?” (Nicolini 2002, 30-31) – si chiedeva Renato Nicolini all’indomani del debutto di Rane. Oggi, a distanza di più di vent’anni, ci si può chiedere: quale rapporto è esistito tra le scelte artistiche e organizzative del regista e il contesto politico-istituzionale in cui ha operato? In che modo le politiche culturali e le dinamiche di potere dell’epoca hanno influenzato la sua attività, specialmente il suo ruolo di regista o di direttore artistico di istituzioni teatrali pubbliche?
Rovesciare le definizioni, riscrivere i fatti
Per rispondere a questi quesiti, occorre interrogarsi sulla natura ontologica della censura che, storicamente, è stata il mezzo di controllo statale del sistema di circolazione dei contenuti culturali su tutto il territorio nazionale almeno fino al 1962, quando la censura smette di essere un dispositivo esplicito e normato. Ma, rileggendo Althusser, la censura, come l’ideologia, non si impone solo con la forza o la repressione, ma soprattutto attraverso la libera adesione a certi valori, ruoli, modelli culturali che ci sembrano naturali (Althusser 1971). In questa prospettiva, potremmo considerare l’agire censorio e l’ideologia come elementi strutturali indelebili che investono ogni forma di comunicazione umana. Come scrivono Carlo Martinez e Annalisa Goldoni:
Non esiste un fenomeno storico che possa dirsene esente. Multiforme, brutalmente esplicita, oppure insidiosamente silente, imposta da apparati ideologici o filtrata attraverso l’interiorità soggettiva, la censura agisce costantemente e continuamente e anzi, proprio come l’ideologia, costituisce un elemento strutturale ineliminabile che investe la comunicazione umana in generale e le forme dell’espressione artistica in particolare (Goldoni, Martinez 2004, 1).
In una recente classificazione, nel teatro contemporaneo si possono distinguere quattro modalità di censura (Dragićević Šešić, Jovićević 2024, 37): diretta, imposta esplicitamente dallo Stato o dalle autorità locali; indiretta, esercitata attraverso ‘ricatti’/pressioni economiche, come la revoca di finanziamenti pubblici e/o privati; sociale, pressioni imposte per mano di gruppi all’interno di un clima culturale/religioso/di genere dominante; autocensura, motivata dall’interiorizzazione conscia o inconscia di norme predeterminate.
Dove possiamo collocare, allora, il caso di Rane di Ronconi del 2002? L’evento censorio si manifestò attraverso pressioni istituzionali e politiche, che portarono il regista a rimuovere alcuni elementi scenografici il giorno prima del debutto. Ma si è trattato di una censura diretta, indiretta, sociale o addirittura un caso di autocensura? Le difficoltà di categorizzare quanto accaduto risiedono nel fatto che i parametri di definizione sembrano mutare a seconda della prospettiva da cui si analizza l’evento, soprattutto se lo si guarda dal punto di vista dell’artista che si autocensura. Un paradosso: “È finita con Berlusconi che fa il Ronconi e difende la satira, e con Ronconi che fa il Berlusconi e censura la satira” (Merlo 2002, 4).
L’ambiguità e la mutabilità della censura e del suo esercizio si legano strettamente alla questione del potere: in senso foucaultiano, il potere produce identità, comportamenti, modi di vivere e persino corporeità. Non emerge unicamente come forza produttiva, ma è un principio empirico che genera conoscenza (Foucault [1975] 1993, 212).
Le istituzioni teatrali, in questo caso l’INDA in collaborazione con Il Piccolo Teatro di Milano (entrambi enti che storicamente e culturalmente erogano un ‘servizio pubblico’) possono diventare spazi in cui il potere può essere esercitato in maniera evidente (data l’influenza diretta della matrice politica). Non si tratta (e non si è trattato) solo di divieti espliciti e repressivi, ma di forme di ‘normatizzazioni’ invisibili, di pressioni economiche, di omologazioni culturali che possono potenzialmente plasmare l’atto creativo. È il concetto di “onnipresenza dello Stato” (Locatelli 2011, 367) a farsi qui centrale: l’influenza pervasiva delle istituzioni può essere capace di condizionare le operazioni artistiche teatrali non solo attraverso interventi diretti, ma anche tramite i ricatti economici e le imposizioni di un conformismo implicito. Per comprendere tale fenomeno, è fondamentale discernere i criteri e le modalità di controllo, attraverso cui lo Stato influenza la produzione del sapere teatrale. Da una parte, è possibile leggere il comportamento autoritario dei rappresentanti politici berlusconiani come una pressione che svalorizza il lavoro degli artisti e del personale tecnico coinvolto nella produzione; dall’altra, mi chiedo se il compromesso accettato da Ronconi non suggerisca parallelamente un cedimento alle logiche dell’autocensura. Questa potrebbe essere definita una forma di censura implicita, o anche un’autocensura indotta, frutto di un velato ricatto politico e di una pressione invisibile del governo verso il conformismo sociale e la precarietà/instabilità dello spettacolo dal vivo.
Nel caso di Rane di Ronconi le conseguenze dell’agire censorio hanno riguardato direttamente anche la scelta dell’opera aristofanea. La studiosa Martina Treu utilizza l’espressione inglese water down, che in italiano potremmo tradurre con ‘annacquare’ o ‘allungare’ – per rendere qualcosa più debole o meno efficiente, di solito in modo che altri accettino qualcosa di proposto – per descrivere come il potenziale comico delle opere di Aristofane venga “disturbed by religious interference and political censorship” [alterato da ingerenze religiose e atti di censura politica] (Treu 2014, 946).
L’aggettivo ‘annacquato’ viene utilizzato per suggerire la perdita di purezza. L’immagine dell’’annacquare’ traduce il senso di modifica o di edulcorazione dei contenuti: un processo volto a conformare l’elaborazione artistica a un ideale predeterminato, imposto, normato, che ne altera l’aura originaria. Sebbene l’agire censorio nell’epoca contemporanea non tagli e cancelli in modo repressivo, aggressivo e preventivo le opere (come accadeva durante il totalitarismo fascista), queste vengono trasformate, ridefinite, private della loro radicalità. Questo incide sulla temporalità dell’opera, da un passato liberale (durante il suo concepimento) a un presente corrotto (in conseguenza dell’intervento censorio). L’opera diventa altro da ciò che era inizialmente, così come chi l’ha generata: ciò che vediamo perde la sua natura ontologica di ‘originale’ e si annacqua, diventa ‘copia’ di ciò che avrebbe potuto o dovuto essere.
Una trilogia anomala
2 | Copertina del Programma di sala della trilogia Prometeo incatenato/Le baccanti/Le rane, regia di Luca Ronconi, Archivio Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.
Nel 2002, la stagione del ciclo di rappresentazioni classiche dell’INDA fu eccezionalmente affiancata dal Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, con l’allestimento dell’intera trilogia (due tragedie e una commedia) diretta da Luca Ronconi. Il regista scelse Prometeo Incatenato di Eschilo, Baccanti di Euripide e Rane di Aristofane, articolando un percorso tematico e formale che ha tentato di esplorare le tensioni tra il sacro, il potere e la crisi della polis. La stessa trilogia verrà riproposta l’anno successivo al Teatro Strehler di Milano.
L’elemento unificante delle tre opere può essere ricondotto al rapporto con il sacro: in Prometeo Incatenato (460 a.C. circa) il fuoco, dono divino per gli uomini, segna la caduta di Zeus e la civilizzazione della Terra; in Baccanti (406-407 a.C.) “si mettono in scena – dichiara Ronconi – i pericoli dell’incontro tra l’umano e il divino e la distruttività che l’incontro col sacro può avere sugli uomini se non mediato dal rito e qui il sacro, il dionisiaco appunto, ha una matrice ultima che è profondamente interna all’uomo” (Fontana 2002, 44). Sino a giungere alla desacralizzazione in Rane (405 a.C.), in cui invece, Aristofane, per mezzo di un linguaggio licenzioso, declassa il dio del teatro, mettendo al centro della vicenda la crisi politica e sociale della polis.
L’itinerario scenico ideato dal regista segue il percorso simbolico di Dioniso, attraverso una graduale profanazione della realtà: “una progressiva svalutazione del divino nella società, sulla progressiva perdita di un valore come quello rappresentato dal teatro” (Gregori 2002, 12). Ma questa non è una trilogia unitaria in senso tradizionale: per Ronconi essa “è costruita su di un’idea e non sull’unicità del punto di vista poetico, storico di un unico autore” (Gregori 2003, 13).
Il punto di partenza di questo vero e proprio viaggio all’indietro che è questa trilogia anomala non è il Prometeo, ma l’ultimo testo, Rane. […] Il viaggio inizia partendo in una specie di cammino a ritroso, da una società ultradegradata culturalmente […] per arrivare fino all’origine del dono agli uomini del fuoco e dunque della tecnica. […] Anche se, al pubblico, questi testi saranno rappresentati nell’ordine storico, dunque, in realtà il viaggio che vi si percorre è un itinerario della memoria all’indietro (Gregori 2003, 13).
Se da un lato Ronconi costruì un continuum stilistico per l’intera trilogia avvalendosi di maestranze fidate (come Margherita Palli per la costruzione scenografica, Gianluca Sbicca per i costumi, Marise Flach ai movimenti coreografici e Paolo Terni per la costruzione musicale e sonora), dall’altro non impose un criterio unico di traduzione. Prometeo Incatenato fu tradotto da Dario Del Corno e Baccanti da Maria Grazia Cini, entrambe su proposta del Comitato Scientifico dell’INDA. Invece, Rane fu tradotto da Raffaele Cantarella su scelta diretta del regista, già conosciuto per la traduzione dei frammenti aristofaneschi che composero lo spettacolo Utopia (1975).
Prime immagini. Un corpo incatenato, un colosso morente, un’umanità assente
Il Prometeo Incatenato (prima rappresentazione il 17 maggio 2002) è il primo frammento di questa trilogia. Uso il termine frammento non casualmente, perché è anche l’unico arrivato a noi dell’intera trilogia eschilea sulla figura del titano Prometeo che portò il fuoco all’umanità.
Prometeo, interpretato da Franco Branciaroli, appare incatenato sulla testa di un’enorme statua in rovina di un eroe morente, costretto a un’innaturale immobilità fisica, mentre la sua voce risuona nel vuoto. Ai piedi del colosso morente, si muove tra la pietra tumefacea e lo sgorgare dell’acqua, il coro delle Oceanine, guidato da Galatea Ranzi come Corifea. Un coro composto da sole figure femminili, antiche, austere, che richiamano per le loro vesti bianche quello che sarà il Coro degli iniziati delle Rane. Le divinità – Efesto (Luciano Virgilio), Oceano (Walter Bentivegna) ed Ermes (Stefano Santospago) – sono strumenti del volere di Zeus, onnipresente ma invisibile, che si manifesta solo in una lingua di fuoco che si accende nella mano del gigante e nel fragore di un tuono finale. L’unica figura umana è Io, interpretata da Laura Marinoni: una ragazza tramutata in giovenca e costretta a vagare senza pace. Il personaggio della Marinoni fu costruito, per volere di Ronconi, partendo da un’immagine di una giovane "malata terminale devastata […] una figura che va letta in filigrana, vittima totalmente innocente che spera soltanto nella profezia che le assegna un figlio giustificatore” (Trovato 2002, 45). E, col presagio di un declino, il sole-sipario tramonta su Siracusa. La folgore del dio vendicativo “si abbatte per preannunciare altri tormenti, ma non a spegnere la voce del titano ribelle” (Manzella 2002, 2).
Seconda immagine. La città nel caos
Ed è proprio dal fuoco di Zeus con cui si è concluso Prometeo Incatenato che prende vita la seconda tragedia: Baccanti di Euripide (prima rappresentazione il 18 maggio 2002). Qui, la città di Tebe è un cumulo di ruderi, preludio del degrado successivo di Rane, spogliata della statua morente del giorno precedente e pronta a trasformarsi nell’Ade aristofaneo. E in questo vuoto scenico, dominato dallo sfondo naturale e da due gru gialle ai lati dell’orchestra, “bisogna cercare la ragione e l’umanità” (Manzella 2002, 2).
Il dio del teatro Dioniso, interpretato da Massimo Popolizio, scende sulla terra, mescolandosi tra gli uomini. In questo allestimento è un dio crudele e la sua violenza prelude al mondo sotterraneo di Rane, dove lo stesso Popolizio tornerà a vestire i panni di Dioniso, ma spogliato della sua valenza divina e presentandosi come il restauratore culturale di una civiltà ormai senza riferimenti. Se nella tragedia, dunque, appare spietato e austero, nella commedia assume invece tratti rozzi e sbruffoni. In Baccanti, la costruzione interpretativa di Dioniso si fonda sulla volontà ronconiana di evidenziarne il dualismo tra sfera umana e divina, ma soprattutto una dicotomia irrisolta, che lascia il pubblico nell’incertezza sulla vera natura del personaggio: positivo o negativo, crudele o liberatore?
La drammaturgia sonora, curata da Terni, conferisce alla messa in scena un ritmo incalzante, quasi nevrotico. L’impianto registico cerca di sintetizzare l’eredità culturale greca e la contemporaneità urbanistica della città di Siracusa. Durante la prima di Baccanti, però, è proprio la forza vitale della città contemporanea ad avere un ruolo minaccioso per lo spazio greco: il regista fu costretto a interrompere lo spettacolo a causa della musica assordante proveniente da una discoteca vicina.
Terza immagine. Nel respiro dell’Ade
Ultimo atto della trilogia (debutto 19 maggio 2002) è la commedia di Aristofane: Rane, la cui messa in scena può essere letta come volontà del regista di discutere, approfondire o indagare il collasso della polis ateniese e del valore culturale del teatro stesso.
L’orchestra, trasformata in un ‘cimitero di automobili’ anticipa il viaggio che di lì a poco Dioniso compirà verso gli inferi: “C’era ovunque un senso di morte e squallore in questo Aldilà. […] Questo è l’Ade di Ronconi: un cimitero di automobili” (Schironi 2007, 269).
Personaggi abbigliati con abiti eccentrici, attraverso un incedere vacillante e rarefatto, avanzano in una lenta e quasi liturgica processione dando corpo alle anime dei dannati. Alcune sono donne seducenti in lingerie, con autoreggenti o calze a rete nere che espongono i loro seni; altri sono uomini con imbottiture applicate sui costumi per amplificarne i ventri: figure grottesche, quasi fantocci, che avanzano lentamente fino a crollare a terra, accompagnate da un sottofondo inquieto di strumenti ad arco. La scenografia decadente e il movimento dei corpi inglobano lo spettatore: “in una città che respira, che vive, che si muove […] che va verso qualcosa che non si sa che cosa sia…” (Gregori 2002, 14). È un non-luogo che fonde passato e presente, degrado e splendore, reale e simbolico. Una città ambigua, sospesa in un tempo altro, che diventa esperienza sensoriale totalizzante in linea con la costruzione interpretativa del Dioniso di Popolizio e con l’intera idea registica: “Questo scenario decadente e postmoderno era, per certi versi, l’ambientazione ideale per il Dioniso di Ronconi” (Schironi 2007, 269). In un clima drammatico e quasi apocalittico, che tramite un linguaggio forzatamente comico si farà beffa della situazione politica ateniese e anche del genere tragico, fanno ingresso un Dioniso pancione (Massimo Popolizio) accompagnato dal suo servo Xantia (Antonello Fassari) che trascina su un triciclo un’enorme maschera tragicomica a mo’ di ‘bagaglio’.
3 | Antonello Fassari in Xantia e Massimo Popolizio in Dioniso - Rane, 2002 Teatro Greco di Siracusa / Fotografia di Daniele Aliffi in Fondo Archivio Fotografico INDA. AFI/SR.
In questo paesaggio degradato prende avvio il viaggio verso l’Ade di Dioniso. Eracle (Stefano Santospago) consiglia ai due la strada migliore per recarsi negli inferi; Caronte (Maurizio Gueli) scorta il dio del teatro su una barca-macchina, introducendo le Rane – il primo coro della commedia: “una volta preso il remo, sentirai canti bellissimi. […] Di rane-cigni: una cosa magnifica!” (Cantarella 2002, 21-22)*. A dare corpo e voce alle parole del coretto iniziale è la sola Anna Maria Guarnieri, posta al centro della scena nel luogo dedicato all’altare di Dioniso (thymèle), con il corpo parzialmente nascosto in una botola. L’attrice recita con il solo busto visibile, valorizzando il tono acuto della sua voce che onomatopeicamente è associabile al gracidio delle rane (richiamato anche visivamente dal costume verde).
Di lì a poco fa il suo ingresso anche il coro principale della commedia, anticipato poco prima da Eracle: “Gli iniziati […] di là ti avvolgerà come uno spirar di flauti, e vedrai una luce bellissima come mirteti e tiasi beati, di uomini e donne, e un gran battere di mani” (Cantarella 2002, 17). Il coro degli iniziati è composto da donne, uomini e bambini: un corteo di anime candide, con vesti bianche anni ’30 e con una candela in mano. La loro declamazione alterna versi recitati all’unisono, battute singole o frammenti affidati alla voce singola, calda e pacata, del corifeo Luciano Roman, la cui compostezza e il cui equilibrio spiccano in questo insieme.
4 | Giovanni Crippa in Eschilo, Rane 2002 - Teatro Greco di Siracusa / Fotografia di Daniele Aliffi in Fondo Archivio Fotografico INDA. AFI/SR.
Proprio durante i momenti dedicati al coro quali la parodo (canto d’ingresso), la parabasi (momento in cui il poeta greco interrompe l’azione ed esprime il suo pensiero e le sue considerazioni politiche rivolgendosi direttamente al pubblico) e l’esodo (canto d’uscita del coro) lo sguardo attento del pubblico avrebbe potuto trovare una corrispondenza, secondo Ronconi, tra le salvifiche parole del coro degli iniziati e gli elementi scenografici tanto discussi.
Bisogna che taccia e lasci luogo al nostro coro chiunque è inesperto di questo linguaggio e non è puro di spirito, o non vide né danzò i riti delle nobili Muse, né fu iniziato ai misteri bacchici della lingua di Cratino il Taurofago, o si compiace di versi buffoneschi che muovono il riso a sproposito. E chi non compone fazioni avverse per il bene dei cittadini, ma le attizza e le fomenta per brama di proprio guadagno; e chi, al governo della nostra patria sconvolta dalla tempesta, si lascia corrompere con doni; […] e chi, da uomo politico, rosicchia la mercede ai poeti perché l’hanno messo in ridicolo nelle feste nazionali di Dioniso (Cantarella 2002, 32-33).
È giusto che il sacro coro dia utili consigli e ammaestramenti alla nostra città. […] E se qualcuno, ingannato, dai maneggi di Frinico, ha sbagliato, io affermo che a quelli che allora scivolarono deve essere permesso, una volta assolti, di cancellare le colpe passate. […] E fra i cittadini, quelli che noi conosciamo come bennati e saggi, galantuomini valorosi e giusti, allevati nelle palestre e nei cori e nella buona educazione, noi li oltraggiamo: e invece questi di rame, stranieri e rossi di pelo, spregevoli e discendenti da gente spregevole, ultimi arrivati che prima d’ora la città non avrebbe facilmente preso alla cieca nemmeno come vittime espiatorie, di questi ci serviamo per ogni uso. Ma almeno ora, o stolti, cambiate abitudini e tornate a servirvi delle persone per bene (Cantarella 2002, 52-55).
Proprio in corrispondenza di tali passaggi avrebbe dovuto compiersi una corrispondenza tra il piano visivo dei pannelli scenografici e il piano di ascolto delle parole del coro, offrendo una chiave di lettura contemporanea alla commedia. Quattro grandi cornici contenevano pseudo-manifesti elettorali raffiguranti le caricature di altrettanti rappresentanti politici dell’allora formazione di maggioranza. Il pubblico, come sappiamo, non vide mai quei pannelli che Ronconi scelse di rimuovere anche nelle successive repliche milanesi. Quei pannelli, nell’idea di Ronconi, dovevano costituire “un filo da Aristofane a oggi, perché il teatro è vivo”. E aggiunge: “avevo trovato la coincidenza tra un passo delle Rane e la figura del Cavaliere. Passato e presente” (Postiglione 2002, 6).
Ovviamente l’intervento del coro non si limita unicamente alle sezioni di ‘commento’ sul tempo presente, ma è anche il personaggio che orchestra il ritmo della rappresentazione e che rende visibili gli scontri ideologici tra i protagonisti. Questa funzione emerge specificatamente in una sezione della commedia subito successiva alla parabasi (l’agone epirrematico) in cui l’autore mette in scena una gara, abbandonandosi a opinioni astute. La contesa, in questo caso, si agita fra i morti: “Quaggiù c’è una regola, riguardo a tutte le arti nobili e belle: il migliore fra i propri compagni d’arte, riceve il vitto nel Pritaneo e un seggio accanto a Plutone… […] finché arrivi un altro più bravo di lui nell’arte: allora deve cedergli il posto” (Cantarella 2002, 57) – dice il servo di Ade. Prima dell’arrivo di Euripide (Riccardo Bini), il migliore nell’arte tragica era Eschilo (Giovanni Crippa): ecco il cuore della disputa.
L’orchestra si trasforma in ‘un’aula di tribunale’, e toccherà a Dioniso, “visto che è pratico dell’arte” (Cantarella 2002, 60), giudicare e pesare la validità dei due poeti. La scena si trasforma: due carcasse di automobili diventano i troni dei tragediografi, mentre un lungo tavolo, completato da sedili automobilistici usati come sedie, si estende orizzontalmente sulla scena. È attorno a quel tavolo che avrà luogo la sfida poetica.
Il regista prende alla lettera la proposta testuale aristofanesca di far ‘pesare’ i versi dei due tragediografi con l’utilizzo di due gru gialle che diventano la bilancia attraverso cui vengono ‘pesati’ i due poeti e le loro composizioni. Ronconi spiega che, data la necessità di utilizzare le gru per spostare le scenografie tra una rappresentazione e l'altra, ha deciso di sfruttarle nella messinscena (Ciccarelli 2002, 6): così se per Baccanti sono state usate come supporto tecnico per le casse di amplificazione, invece per Prometeo Incatenato e Rane il regista scelse di includerle come parte attiva dell’allestimento scenografico.
Dioniso, inizialmente mosso dal desiderio di riportare in vita Euripide per il quale ha compiuto questo viaggio, compie alla fine la scelta opposta: ridarà alla città di Atene Eschilo, sostenuto dal coro degli iniziati consapevoli della sua superiore validità come poeta. Con un richiamo al bene comune, nelle battute finali del coro (“E voi, divinità infere, concedete anzitutto felice viaggio al poeta che se ne va e risale alla luce: e alla città buoni pensieri per grandi fortune”, Cantarella 2002, 104) si chiude l’allestimento ronconiano: un dono culturale per la città con il quale si tenta “di recuperare ciò che è stato perduto” (Gregori 2002, 15).
Immagine extrascenica. Silenzio imposto?
La sera antecedente al debutto di Rane (che è stata la sera del debutto di Baccanti) il 18 maggio 2002, durante una cena di rappresentanza a casa del prefetto di Siracusa Francesco Alecci, si incontrarono Luca Ronconi (allora consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano), Sergio Escobar (direttore del Piccolo), Gianfranco Miccichè (rappresentante del partito Forza Italia in Sicilia) e Stefania Prestigiacomo (Ministro delle Pari Opportunità). In quell’occasione, il regista venne richiamato dalle autorità per i riferimenti troppo espliciti all’attualità politica presenti nell’allestimento scenografico curato da Margherita Palli. A gettar benzina sul fuoco contribuì sicuramente il fatto che, di lì a poco, i cittadini italiani sarebbero stati chiamati alle urne. Ronconi avrebbe dunque ‘usato’ la commedia “per orientare le scelte elettorali del pubblico. Lo costrinsero a rimuovere i ritratti, ma le cornici vuote rimasero sul palcoscenico, come un avvertimento” (Treu 2024, 294).
L’onorevole Miccichè fu il primo a intervenire contro le scelte scenografiche, giudicate moralmente non allineate al volere governativo e dichiara: “Io mi sono preso il diritto di criticare un lavoro che non mi piace e che anzi definisco povero. […] Perché non potrei criticare Ronconi?” (Mineo 2002, 6). A fargli eco il Ministro Prestigiacomo:
È vergognoso che si voglia contrabbandare per censura il dissenso apertamente espresso su una scelta artistica. […] Gridare alla censura e alla libertà violata è fin troppo apertamente strumentale. Nei regimi democratici come noi li intendiamo, libera è l’arte e libero è il dissenso, e ciascuno si assume la responsabilità delle proprie scelte se ha il coraggio di farlo. Se queste caricature sono essenziali alla messinscena, Ronconi le mantenga; se la sua cattiva coscienza lo induce a eliminarle, le elimini. Ma lasci perdere la censura e la democrazia. Aristofane oggi riderebbe di lui (L.S. 2002, 3).
Sebbene Miccichè stesso abbia successivamente dichiarato di non aver richiesto esplicitamente al regista la rimozione dei pannelli, il giorno seguente, il 19 maggio 2002, la prima di Rane andò in scena senza di essi. Fu il vuoto delle cornici a occupare la scena.
Due giorni dopo, il 20 maggio, Ronconi dichiarò che, durante la cena, Miccichè gli lasciò intendere che il teatro pubblico, poiché sovvenzionato dallo Stato, non dovrebbe permettersi di criticare chi lo finanzia. Il regista sostenne invece di essere stato censurato dal governo Berlusconi e ventilò l’idea di lasciare l’Italia:
Ho tollerato questa situazione per mandare in scena lo spettacolo, me ne andrò da questo teatro e da questo Paese. Questo è un vero e proprio caso di censura, e democrazia e censura non possono convivere. Io non ho avversari politici, vorrei averne di artistici (Di Parenti 2002, 23).
Le dichiarazioni di Ronconi e la rimozione degli elementi scenografici scatenarono un vortice mediatico. Intervennero intellettuali, giornalisti e politici, incluso lo stesso premier Berlusconi che dichiarò:
Ho letto con rincrescimento che a Siracusa il dramma antico si è trasformato in una commedia degli equivoci. Posso assicurare che tutto il governo non sa neanche cosa sia la censura. Personalmente mi preoccupa anche l’autocensura a dispetto. Ronconi rimetta a posto quel ritratto di tiranno in salsa aristofanea (Galluzzo 2002, 5).
Il gesto del presidente del consiglio Berlusconi venne apprezzato da Ronconi, che lo definì “esempio di civiltà” (Zermo 2002). Tuttavia, il regista rispose che non avrebbe rimesso i pannelli in scena per non creare l’impressione che ci fosse stata prima “una censura e poi un gesto magnanimo di liberalità” (Maresca 2002, 4). Le reazioni furono molteplici: c’è chi ringraziò Miccichè per aver sollevato la questione (Postiglione 2002, 6); chi denunciò l’arroganza e l’ignoranza del potere politico (Redda 2002, 29); chi, come Dario Fo, dichiarò che Ronconi si era trovato costretto ad accettare la situazione (Fantozzi 2002, 4); chi definì i pannelli una “forzatura gratuita ed evidente, tanto quanto la sua autocensura” (Pillitteri 2002, 3-4).
La controversia attirò un’enorme attenzione mediatica, a livello sia nazionale che internazionale. Ma se da un lato il dibattito portò alla luce il problema della censura nel teatro pubblico, dall’altro il clamore suscitato rischiò di ridurre la regia a un’occasione di mercificazione, svuotandola del suo significato culturale. Il Teatro Greco di Siracusa si trasformò in un salotto pubblico, più interessato a mettere in mostra celebrità accorse per assistere alla rappresentazione che a cogliere la portata artistica e politica dell’opera.
Voci dalla scena
Rane di Ronconi si muove in bilico tra fedeltà testuale, recupero del senso originario e la necessità di restituire forza espressiva per un pubblico contemporaneo. La relazione tra la traduzione di Cantarella e l’originale testo classico è cruciale e trova sintesi nelle scelte registiche di Ronconi. Particolare valore acquisisce la dimensione ‘metateatrale’ della commedia, portando in scena il dio del teatro e i protagonisti della tragedia del V secolo a.C., come anche il suo essere “uno dei primi esempi di critica e teoria letteraria” (Jovićević 2019, 31). Il lavoro sulla declamazione chiara, limpida e austera del coro degli iniziati, in particolare, assume un ruolo chiave nel definire questa tensione in opposizione alla scelta di costruire un Dioniso ‘borgataro’, degradato e triviale. L’opposizione linguistica tra la dizione pulita del corifeo Roman e la cadenza marcatamente romanesca di Dioniso (come anche di Eracle e di Xantia), in linea con i valori aristofaneschi, non mira a svilire la potenza evocativa ed educativa della commedia, bensì ad esaltarne il suo carattere perturbante. Il romanesco, in antitesi con la sacralità teatrale, sporca il testo originale per restituire la volgarità della commedia, “non per fare il dialettale, ma per accedere a quel linguaggio basso, triviale” (Gregori 2002, 13-14).
Un’interpretazione che, senza caratteri macchiettistici, accede a un registro basso e immorale, trovando la sua organicità nella potenza linguistica della riflessione politica pronunciata dagli iniziati. Se la commedia greca era spazio e luogo di dibattito pubblico e culturale, la regia ronconiana pare restituire egregiamente questa funzione in una visione scenica in cui la parola, il corpo attoriale e lo spazio teatrale stesso si pongono come strumenti di un discorso che interroga non solo la classicità, ma anche il nostro presente.
Adottando lenti epistemologiche che tentano di indagare il carattere politico dell’evento, senza soffermarsi esclusivamente sulle scelte registiche, il lavoro di Ronconi sembra sottolineare l’“aspetto più rivoluzionario e paradossale delle Rane”: “il fatto che i valori dell'ideologia dominante, da cui si originano gli interrogativi tragici (grecità, ateniesità, democrazia), sono sottoposti a un’indagine critica da parte di Aristofane” (Jovićević 2019, 36).
L’adattamento ronconiano è fedele all’originale aristofanesco, che non è piegato a un’eccessiva attualizzazione, ma si confronta dialetticamente con la distanza storica che separa la messa in scena di Siracusa da quella ateniese. Ma è proprio in questa scelta che per Treu si manifesta “la censura più insidiosa”: “quella che si nasconde dietro l’apparente fedeltà ai classici”, e che teme proprio di liberare quel “potere destabilizzante della derisione e dell’oscenità che sono parte integrante della commedia” (Treu 2002, 91-92).
Dove sta, dunque, la censura di Rane? Stando alle dichiarazioni di Ronconi, sembra che qui, a Siracusa, si sia trovato di fronte alla censura per la prima volta. Eppure, in anni di forti tensioni e conflitti, egli stesso si era fatto portavoce di profondi ideali antifascisti e anti-censori (come durante la direzione del Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia dal ’74 al ’76). Non gli bastarono nemmeno la potenza artistica e culturale del suo operato precedente, né la sua intensa attività pedagogica e registica; cadde comunque preda della morsa (auto?)censoria.
Come rimarginare una ferita aperta?
Il caso di Rane può essere compreso in una più ampia riflessione sull’intersezione tra corpi, arte, politica ed economia, e sulle implicazioni che questa intersezione ha sullo sviluppo della sperimentazione artistica e della sua libertà creativa. La posizione di Ronconi va interpretata dentro quella che Bojana Kunst definisce “l’impotenza artistica in rapporto alla politica e ai metodi di produzione contemporanei” (Kunst [2015] 2024, 25). La condizione di dipendenza economica (sia per il Piccolo Teatro di Milano che per il regista stesso) dai fondi ministeriali aveva rivelato una verità profonda: “a essere oggetto delle speculazioni del capitale non è l’arte in sé, ma anzitutto la vita artistica” (Virno 2001, 11). Viviamo nell’epoca del “consumo radicale” (Kunst [2015] 2024, 45-49) della soggettività, in cui persino i tentativi corporei di opposizione alle strutture del potere, forse, finiscono per rafforzare l’assoggettamento al potere stesso.
Non si può generalizzare, ma è lecito domandarci quante figure professionali del mondo dell’arte, come Ronconi, siano ancora oggi vulnerabili allo sfruttamento e si trovino in condizione di sottomissione, come suggerisce Caleo, a un’“economia del debito basata su una promessa di un futuro che non arriva mai” (Kunst [2015] 2024, 19). Questa dimensione di dipendenza non dovrebbe essere solo oggetto di dibattito pubblico, ma motivo di riflessione personale per l’intera cittadinanza, in virtù degli Art. 33 (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”) e 21, comma 1 della Carta costituzionale (“Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”), che sanciscono e tutelano il diritto alla libertà d’espressione. L’emblematico episodio siracusano può esserci da monito sui processi di ‘sottomissione’, ‘sudditanza’ e ‘soggezione’ al potere politico, e forse ancor di più, a quello economico. È un nodo irrisolto: perché un uomo di teatro come Ronconi, già molto affermato, ha ceduto a questo ricatto?
La sua decisione, pur controversa, lascia dietro di sé un’eredità di assenza e silenzio: non solo le cornici vuote dei pannelli scenografici, ma anche l’assenza del regista e del corpo studentesco dell’Accademia dell’INDA durante i ringraziamenti contribuirono ad amplificare l’ambiguità degli eventi. Un’assenza ulteriormente accentuata dal gesto di Anna Maria Guarnieri che, durante gli applausi, puntò il dito verso le cornici vuote. Eppure, d’altro canto, la scelta del regista può essere letta anche come un atto di tutela e rispetto nei confronti delle maestranze coinvolte nella produzione, sempre protette, ad esempio, da possibili annullamenti delle repliche o da attacchi ad personam.
Resta però un’ambiguità irrisolta, un vuoto che impedisce di giungere a una risposta univoca sugli eventi accaduti. Forse è possibile che proprio in questo vuoto risieda la forza dell’episodio. Una ferita aperta che spinge a interrogarci non solo sulla libertà creativa di Ronconi, ma più in generale sulle dinamiche di subordinazione e resistenza nel rapporto tra arte e potere.
* Le citazioni dal testo di Aristofane, da qui a seguire, sono estratte dal copione di scena, conservato presso l’INDA. Rispetto alla versione edita, pubblicata nel 2002, dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico e Piccolo Teatro di Milano – Teatro d'Europa, [Siracusa/Milano], il copione non riporta la numerazione dei versi, né il testo greco a fronte.
Bibliografia
La ricostruzione cronologica e l’analisi degli spettacoli contenute nel presente contributo sono state possibili grazie alla consultazione dei materiali documentari conservati presso l’Archivio Storico Fondazione INDA, con sede a Siracusa. Per il ciclo di rappresentazioni del 2002 dirette da Luca Ronconi sono stati consultati i seguenti materiali: copione di scena di Rane di Aristofane, traduzione di Raffaele Cantarella; articoli in Fondo Rassegna Stampa INDA 2002; materiali iconografici in Fondo Archivio Fotografico; documentazione audiovisiva in Fondo Archivio Multimediale Audio-Visivo. Tutti i materiali citati dal seguente archivio sono stati indicati con la sigla AFI/SR, secondo la dicitura archivistica fornita direttamente dalla Fondazione INDA.
Riferimenti bibliografici
- Cantarella 2002
Rane [Copione di scena], trad. R. Cantarella, 2002, AFI/SR. - Ciccarelli 2002
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Sitografia
English abstract
This contribution explores censorship – more precisely, self-censorship – in the 2002 staging of The Frogs by Aristophanes, directed by Luca Ronconi at the Greek Theatre of Syracuse. Starting from the episode involving the removal of scenic panels portraying politicians from the then Berlusconi government, the essay reflects on the relationship between artistic freedom, political power, and economic pressures. The case is analysed through the lens of contemporary theories on power (Foucault), ideology (Althusser), and production-related economic dynamics (Kunst, Virno), within a context in which censorship increasingly takes on silent, subtle and invisible forms. If Ronconi removed the controversial elements, was it due to external imposition or to a choice shaped by an invisible system of pressures? The direction, while remaining faithful to Aristophanes' text, ends up exposing tensions between dissent and subordination, between the desire to speak and the need to withhold. The production – part of an ‘anomalous’ trilogy alongside Prometheus Bound and The Bacchae – becomes a battleground between sacred and profane, word and image, classical past and precarious present. Twenty years later, the empty frames left on stage still serve ‘as a warning’ and an open wound, questioning the political role of art even today.
keywords | Ronconi; Theatre censorship; Frogs by Aristophanes; INDA; cultural policy.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Rita Agatina Di Leo, (Auto)Censura. Ronconi nel riflesso della politica berlusconiana (2002), “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.