“Drama seemed decent again”
La compagnia degli uomini come esempio di “dramatic site” nella regia di Luca Ronconi (2006)
Andrea Peghinelli
English abstract
Manifesto, La Compagnia degli uomini di Edward Bond, regia di Luca Ronconi. Archivio Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Il 5 marzo del 2011 Edward Bond sentì la necessità di scrivere una lettera a Luca Ronconi per esprimere un sentito apprezzamento dopo avere assistito alla rappresentazione de La compagnia degli uomini per la regia dello stesso Ronconi, andato in scena al Piccolo Teatro di Milano dall’11 gennaio fino al 26 febbraio dello stesso anno. Scritto alla fine degli anni Ottanta, In the Company of Men aveva debuttato a Parigi al Théâtre de la Ville nel 1992, per poi trovare la prima rappresentazione nel Regno Unito nel 1996, prodotta dalla Royal Shakespeare Company e diretta dallo stesso Edward Bond. Fu questa una singolare eccezione dato che, sempre più insoddisfatto del modo in cui attori e registi mettevano in scena i suoi testi, Bond si era allontanato dal teatro britannico rimanendo distante dalle maggiori istituzioni teatrali in cui fino a quel momento i suoi lavori avevano trovato grande successo.
Sin dal suo debutto, aveva mantenuto legami stretti e duraturi con i più importanti teatri londinesi, in cui era stato uno dei protagonisti nello scrivere la storia del teatro del dopoguerra. Dal 1965 al 1975 aveva principalmente collaborato con il Royal Court Theatre, che lo aveva visto debuttare con il controverso Saved[1] che portava in teatro la questione della violenza della società senza offrire soluzioni morali ma ponendo il problema in modo che trovasse sul palcoscenico un luogo di discussione, come nella migliore tradizione classica[2]; tra il 1977 e il 1985 a varie riprese aveva collaborato con la Royal Shakespeare Company e con il National Theatre. A seguito di un furioso disaccordo sulla messa in scena della sua trilogia The War Plays con la Royal Shakespeare Company nel 1985, Bond aveva volontariamente preso le distanze dalle scene istituzionali per rivolgere il proprio lavoro verso piccole realtà teatrali o compagnie studentesche. Originariamente Bond avrebbe dovuto co-dirigere la trilogia nella messa in scena al Barbican Theatre, ma abbandonò il progetto deluso dalla qualità del lavoro e giudicò disastrosa la produzione della Royal Shakespeare Company. Come ha scritto Graham Saunders, proprio da questo episodio si è diffusa la convinzione che Bond fosse un autore con cui era difficile lavorare: “the tag ‘controversial dramatist’ has continued to dog the man and his work” (“l’etichetta ‘drammaturgo controverso’ ha continuato a perseguitare l’uomo e la sua opera”: Saunders 2004, 256).
Illustri eccezioni vi sono state, come quella con il regista Sean Holmes al teatro Lyric Hammersmith di Londra che curò la regia di una ripresa di Saved (2011) e di Have I None (2012), e che affidò a Bond la messinscena di Chair e The Under Room (2012). In altre nazioni, invece, i suoi testi hanno continuato a essere rappresentati, anche quelli più recenti e non soltanto quelli più controversi che tra la metà degli anni Sessanta e i primi Settanta del Novecento avevano, con la loro scandalosa inflessibilità, puntato il dito contro la povertà culturale della società contemporanea e gli orrori di cui il genere umano è capace. Oltre alla già citata messa in scena in Francia[3], Bond fu difatti coinvolto nel progetto per la realizzazione di un docu-film basato su In the Company of Men, su adattamento di Arnaud Desplechin, Emmanuel Bourdieu e Nicolas Saada, intitolato En jouant ‘Dans la compagnie des hommes’, presentato al Festival del Cinema di Cannes nel maggio 2003. Ronconi, ad esempio, aveva messo in scena la trilogia The War Plays a Torino nel 2006 nell’ambito del progetto Domani in occasione dei Giochi Olimpici invernali. E proprio in chiusura della lettera sopra menzionata Bond si rammaricava di non avere assistito a quella rappresentazione a Torino, tanto era stato colpito positivamente dalla regia de La compagnia degli uomini. In particolare, giudicò quest’ultima una messa in scena importante perché a suo avviso aveva sollevato questioni di base della realtà umana nella società moderna, questioni sulle quali la drammaturgia contemporanea – e in particolare quella di Bond – si erano interessate.
La commistione di sensazioni raccolte durante il suo soggiorno milanese – durante il giorno aveva ammirato monumenti dell’arte classica e capolavori della pittura e alla sera era stato investito dalle immagini trasmesse in televisione delle dimostrazioni di piazza in Egitto relativi alla cosiddetta primavera araba – lo avevano portato a scrivere a Ronconi: “Your production related to all these things. Drama seemed decent again” (“La tua messa in scena si legava a tutte queste cose. Il teatro è sembrato di nuovo decente”: Bond 2011)[4]. La regia di Ronconi lasciò una profonda impressione su Bond poiché era riuscita a sollevare questioni di metodo che avevano interessato il drammaturgo lungo tutta la sua carriera e che ora vedeva emergere così bene dal suo testo grazie a quella interpretazione. In particolare, Bond si rifaceva a una distinzione presente nei suoi testi, quella tra set e site, una classificazione cardine per la sua drammaturgia. Su questo argomento vorrei riflettere in questo mio scritto.
Set per Bond è una brutta parola perché veicola il senso di staticità, di immobilità, di qualcosa che è fissato e impostato secondo un ordine preimpostato. Letteralmente è la scenografia che raffigura i luoghi dove hanno luogo gli eventi – il soggiorno, la cucina, la camera da letto, e così via – e sul palcoscenico specioso della contemporaneità il set è quello che produce il ‘teatro’ che, tuttavia, rappresenta una forma drammatica falsa. Difatti, come scrisse Bond, “Nowadays the set becomes the packaging for the play and commercialises it” (“Al giorno d’oggi, il set diventa l’imballaggio del testo e lo commercializza”: Bond 2011), e nell’artificiosità del packaging riconosceva la caratteristica tipica della creazione artistica che definisce i giorni nostri. Questa idea di corruzione del teatro che si lascia infiocchettare per essere largamente presentabile e commercialmente appetibile, è stata espressa da Bond in numerose occasioni. In un articolo scritto per The Guardian nel 1995, denunciava la scabrosa corruzione di un teatro che generalizza e diviene triviale, un processo di decadimento che Bond riconduceva a varie e complesse ragioni. La principale, ad ogni modo, era chiara: “directors no longer know – dare not know – what a play is” (“i registi non sanno più – non osano sapere – cosa sia un testo teatrale”: Bond 1995), ossia i registi non cercano più la verità di un testo, non osano nemmeno approfondirne la conoscenza, ma preferiscono nascondere la propria ignoranza e paura dietro gli effetti – i costumi, le luci, la scenografia e la musica – creando quindi una sorta di rumore di fondo, una cortina fumogena che occulta la mancata comprensione del testo. Di conseguenza, i drammaturghi si sarebbero adattati a questo sistema e non farebbero altro che consegnare qualcosa di simile a un pasto ‘a portar via’ (take away) ai registi, un prodotto già ‘cucinato’ che non richiede altro sforzo di elaborazione. D’altronde, è una modalità largamente in uso nel mondo della televisione e del cinema dove questo tipo di correlazione è stata istituzionalizzata sotto le spinte delle produzioni, e ormai le vere innovazioni provengono soltanto dalla tecnologia (Bond 1995). Tuttavia, secondo il pensiero di Bond, grazie al primato della presenza dell’attore il teatro potrebbe resistere e sfruttare questa peculiarità per consentire ai giovani autori di creare, di innovare per distruggere le generalizzazioni. Ma oramai sembra che il teatro sia divenuto buono solo per vendere prodotti commerciali: il teatro stesso si sarebbe trasformato in un bene da smerciare all’interno di un sistema di mercato economico, rinunciando alla propria capacità di essere parte politica della società e di veicolare contenuti critici. “Al massimo è diventato giornalismo”, sostiene Bond, “non si occupa più dei problemi fondamentali, della relazione tra il sé e la società e di come l’uno partecipi alla creazione dell’altra” (Tuaillon 2015, 19). La sua disaffezione per l’istituzione teatrale è stata particolarmente manifesta nei confronti di quella britannica, e il pessimismo legato allo stato di quella scena – probabilmente legato anche a una sua nuova fase drammaturgica – lo ha spinto a prendere la decisone di auto-esiliarsi. La sua presenza nella sala prove era divenuta ingombrante e fu tacciato di essere un maniaco del controllo sui propri testi. Nell’allontanarsi dai maggiori teatri del Regno Unito sentì che poteva tornare a fare il tipo di lavoro che voleva senza restrizioni di metodi derivativi da televisione e cinema a suo modo di sentire, e quindi non vedeva il suo esilio come un gesto romantico o di stizza ma semplicemente come conseguenza logica di quella situazione. Bond stesso riconosceva che dal confronto con sguardi diversi poteva trarre spunti importanti verso una comprensione dei propri testi:
I’m told that I’ve boxed myself into a corner because I believe only I know how to stage [my plays]. This just isn’t true. I don’t know how to stage them – I have to find out with actors, and I learn a lot from many productions of my plays by foreign directors and from questions and dissertations foreign students send me. I need a community of people who want to create a new theatre – to begin again from where Euripides stopped. Here [in the UK], Euripides is probably the name of a soft drink (Saunders 2004, 260).
[Mi dicono che mi sono confinato in un angolo perché credo di essere il solo a sapere come mettere in scena [le mie opere]. Questo non è affatto vero. Non so come metterle in scena – devo scoprirlo con gli attori, e imparo molto da diverse messe in scena delle mie opere fatte da registi stranieri e da domande e tesi che gli studenti stranieri mi inviano. Ho bisogno di una comunità di persone che vogliano creare un nuovo teatro – ricominciare da dove Euripide si è fermato. Qui [nel Regno Unito], Euripide probabilmente è il nome di un succo di frutta].
Si evidenzia, quindi, la necessità di tornare a fare del teatro un luogo politico in cui il sé interagisce o si confronta con sé stesso e con la società, un luogo creato dalla situazione contingente e per sua natura multiforme, in cui accade qualcosa di specifico, di importante, come la ridefinizione dei valori umani. Nella sua drammaturgia queste caratteristiche si esprimono nel site, il luogo metaforico dove si manifesta l’evento drammatico. Al contrario del set, nel site si esprime la rete di relazioni sociali, psicologiche, naturali, economiche, politiche e geopolitiche in cui viviamo e che determinano le nostre vite. L’evento che accade nel site ha la capacità di cambiare le relazioni che in esso hanno luogo. Nonostante la quasi totalità di queste relazioni non siano visibili, trovano la loro espressione negli oggetti. Questo non vuol dire che abbiano un valore simbolico perché altrimenti diventerebbero statici e idealizzati rinunciando a una loro propria vita attiva. Una sedia ad esempio, secondo Bond, deve rimanere tale, un segno della presenza umana che può aiutare a definire il ruolo di chi la occupa e quindi a stabilire le dinamiche di potere all’interno della società, e il processo dinamico di cui si carica è determinato dal significato sociale, dal contesto in cui si trova pur rimanendo un oggetto su cui sedersi.
Dall’esperienza di scrittura per la compagnia Big Brum, le cui attività teatrali coinvolgono ragazzi e adolescenti[5], Bond ha messo a fuoco una particolare strategia drammaturgica che ha chiamato ‘Eventi Teatrali’ [Theatre Events]. Questi eventi consistono in momenti di estrema conoscenza (non necessariamente legati a episodi di violenza) in cui il pubblico non soltanto è assistito nell’analisi dei meccanismi e del significato del momento teatrale ma anche delle “causes and implications of the short-term ‘event’ on the drama as a whole” (“cause e implicazioni dell’‘evento’ a breve termine sul dramma nel suo complesso”: Bas 2005, 216). Per ottenere questo risultato, Bond si avvalse dell’uso significativo di un oggetto per distogliere l’attenzione del pubblico sia da uno straniamento sia da un coinvolgimento emotivo con l’azione scenica del personaggio. L’importanza del termine ‘evento’ risiede proprio nel fatto che si verifica sul momento e nel luogo del teatro, e non fornisce risposte agli spettatori che, al contrario, “have to commit their imaginations to create the reason behind the dramatic action” (“devono impegnare la propria immaginazione per creare la ragione dietro l’azione drammatica”: Lane 2010, 140). Gli spettatori possono così creare le proprie motivazioni, affrancandosi da qualsiasi esplicito didatticismo ideologico e dalla proiezione immaginaria nell’azione; per questo motivo l’‘Evento teatrale’, secondo Bond, contribuisce a formare una società giusta e consapevole.
Il palcoscenico del teatro greco e di quello elisabettiano e giacomiano erano organismi che fisicamente rappresentavano la struttura sociale umana, una prerogativa che il teatro moderno ha perduto, e per questo Bond riteneva che rappresentassero perfettamente l’idea di site. Quelle strutture invisibili di cui si diceva sopra, erano inscritte nell’architettura di quei teatri, che sul palco del teatro moderno rimane uno spazio vuoto. Per questa ragione il site deve essere costruito all’interno del testo. Nella lettera a Ronconi, Bond riconosceva che “if you do not get the ‘set’ right my plays will not work because the set will obscure the site” (“se il ‘set’ non viene costruito correttamente le mie opere non funzioneranno, perché il set adombrerà il site”: Bond 2011). La relazione tra set e site, inevitabilmente, può costituire un problema nel momento in cui Bond si chiede in che modo sul palco debba essere costruito un set che possa evocare un site. Nella messa in scena di Ronconi de La compagnia degli uomini Bond vide l’espressione del site. Sul palco semivuoto in cui dominava lo sfondo grigio chiaro, spiccavano le due poltrone rosse oltre a un tavolo, una scrivania e pochi altri oggetti. In questo modo, “it clarified the play’s structure and showed why it was written as it was. It meant that the actors had to carry more of the play’s burdens on themselves and gave them an unforced, unself-conscious classical responsibility” (“ciò chiariva la struttura del testo nonché il motivo per cui era stato scritto in quel modo. Questo voleva dire che gli attori dovevano farsi carico di una quantità maggiore delle tematiche principali del testo, a cui attribuivano una responsabilità classica senza forzature né autocoscienza”: Bond 2011). Il fatto che i cambi scena avvenissero senza sottofondo musicale e che l’allestimento fosse caratterizzato da una generale austerità permise al significato del testo di emergere, di prosperare, consentendo al testo e alla recitazione di essere più potenti. Bond scrisse di apprezzare le scelte di Ronconi perché la sua messa in scena non solo lo aveva fatto riflettere sul suo testo ma perché gli aveva mostrato la crisi del dramma moderno in cui inevitabilmente si riverbera quella della società.
Si può sostenere che Bond ritenesse ormai irrimediabilmente compromessa una lettura classica e certamente riduttiva della storia umana in chiave marxista. Tuttavia, sembrava riconoscere l’efficacia dell’analisi marxista delle disuguaglianze intrinseche e dello sfruttamento insito nel modello capitalistico di organizzazione economica.
Nei suoi primi scritti critici, dagli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta, il riconoscimento della relazione simbiotica tra l’organizzazione economica capitalista e la produzione culturale incarnava chiaramente elementi significativi della lettura marxista del rapporto tra struttura e sovrastruttura. Tuttavia, con l’emergere del suo concetto di ‘innocenza radicale’ a metà degli anni Novanta e il successivo sviluppo della ‘Trascendenza Interna’, si è andato consolidando il convincimento filosofico e drammaturgico del suo pensiero. Questo processo si è realizzato attraverso una fusione dialettica che riflette un’interrogazione del materialismo marxista e di un’ontologia etica neo-kantiana dell’immaginazione. Da questo processo è emerso – e continua ad emergere – un nuovo ibrido dialettico radicale, tanto paradossale e provocatorio quanto i titoli di molte opere di Bond. Questo processo si colloca e si manifesta nel dramatic site dell’immaginazione umana. L’impatto potenziale di questa concezione sulla natura e sulla possibilità del teatro politico è di grande rilievo (Billingham 2013, 33-35).
La filosofia politica del capitalismo è la competitività e quindi questo non gli permette di guardare alle cause della violenza. La società consumista non si può permettere di ammettere che sotto la pressione del conflitto economico non solo si scatena un’aggressività commerciale tra imprese ma anche una aggressività commerciale delle imprese contro il popolo, con l’evidente risultato di esacerbare i problemi sociali. Di conseguenza, questo tipo di società, sempre più classista, non ha né la vitalità intellettuale per comprendere forme di violenza sociale, né il diritto morale o l’autorità politica per occuparsene seriamente (Bond [1977] 1990, 14). Il capitalismo ha fatto della violenza un prodotto di consumo a buon mercato. “Oggi il tardo capitalismo”, affermò Bond, “ha sostituito la religione, non c’è più unità di valori e niente ha più significato – tutto però ha un prezzo” (Tuaillon 2015, 120). Sarebbe dunque necessario cercare i valori in un diverso sistema. Per Bond questi sono da ritrovarsi nei piccoli gesti o negli oggetti semplici che possono assumere implicazioni fondamentali nell’interpretazione della vita e per questo motivo scriveva basando le sue descrizioni sui dettagli.
Nel definire la funzione degli oggetti all’interno della logica del contesto in cui si trovano, Bond fece un esplicito riferimento a In the Company of Men e all’uso da lui previsto per rappresentare il potere:
L’opera è ambientata principalmente a casa di Oldfield, il più importante uomo d’affari del posto, il ‘re’. Vive col figlio Leonard, il cui problema è come succedere al padre. Ci sono due poltrone che sembrano troni e che sono teatralmente molto potenti: stabiliscono una situazione di potere. La persona che vi siede in quel momento detiene il potere. Non sono solo un simbolo di autorità, poiché sono integrate nelle attività pratiche della vita. Alla fine Leonard non siederà sulla poltrona, ma starà in piedi su una sedia qualunque per potersi impiccare e questo sarà un atto di forza perché si avvarrà del proprio suicidio per sconfiggere il nemico Hammond e proibirgli di prendere il potere (Tuaillon 2015, 108).
Pur se può sembrare un gesto simbolico, in quanto il significato rimane legato al contesto sociale prestabilito, come in questo caso, è altrettanto vero che cambiando la situazione lo stesso oggetto inizia a funzionare in modo diverso. Il bicchiere di whisky che il servitore Bartley offre a Leonard nella Unità 1, ma che in realtà sarebbe destinato al vecchio Oldfield, è un esempio di oggetto che non svolge più la sua funzione convenzionale ma serve a uno scopo diverso, come si venisse a trovare nel posto sbagliato. Potrebbe essere un mezzo di riconciliazione tra padre e figlio quando Oldfield rientra convinto di avere ottenuto una vittoria definitiva sui suoi avversari, e invece sembra che quest’ultimo se ne serva per ammettere la propria insoddisfazione e condividerla con Leonard, e inoltre lo usa per eludere le sue domande. Non sarà più possibile, dunque, considerare quel bicchiere un oggetto. “Tutto sul sito è un attore”, ha affermato Bond, “interagisce coi personaggi. […] Per questo non è mai neutro, è sempre il risultato di una collaborazione” (Tuaillon 2015, 117).
Bond ha spesso riflettuto sulla necessità del teatro esprimendo i suoi – spesso astratti – pensieri in numerosi scritti per presentare e infine contestualizzare gli obiettivi della sua drammaturgia. Il regista e attore Christopher Cooper, che ha lavorato con Bond quando era direttore artistico della compagnia teatrale Big Brum, ha definito gli scritti teorici di Bond come un’impalcatura: “it helps to give you a sense of structure in which to work but it should never come between the play and one’s direct working upon it. As Edward Bond said, drama is about the relationship between the edge of the universe and the edge of the kitchen table. You’ll only ever find the universe if you know how to use the cup on the table to drink tea” (“questa aiuta a dare un senso di struttura nella quale lavorare, ma non dovrebbe mai frapporsi tra il testo e il lavoro diretto su di esso. Come disse Edward Bond, il teatro riguarda la relazione tra il limite dell’universo e il limite del tavolo della cucina. Troverai l’universo solo se sai come usare la tazza sul tavolo per bere il tè”: Billingham 2013, 165). In questo modo si otterrebbe il senso della funzionalità degli oggetti e il loro significato metaforico: nonostante mantengano il loro ‘valore d’uso’ aggiungono al significato metaforico un valore metonimico.
Secondo Luca Ronconi, La compagnia degli uomini si sviluppa lungo due linee tematiche principali: una storico-politica e una emotivo-psicologica. I protagonisti sono due magnati dell’industria: Oldfield, anziano produttore di armamenti, e Hammond, imprenditore in diversi settori, soprattutto nell’alimentazione. Hammond vuole espandere il suo mercato nei Paesi in via di sviluppo e ha bisogno della Oldfield’s per riuscirci, proponendo un cinico progetto di commercio globale che mescola necessità e guerra. Al centro della vicenda c’è Leonard, figlio adottivo di Oldfield, che ambisce a prendere il controllo dell’azienda e per questo si allea con Hammond e altri personaggi ambigui. Nonostante la trama possa sembrare classica, i personaggi agiscono più per impulso che per consapevolezza, e le loro vere motivazioni restano spesso oscure. Il testo non offre risposte facili né soluzioni definite, ma si limita a rappresentare un quadro intenso e potente, lasciando allo spettatore il compito di decifrarne il significato.
Nelle prime scene viene messa in atto una macchinazione che, nella seconda parte del dramma a partire dalla fine dell’Unità 6, come notava Ronconi, si ritorce contro i suoi stessi artefici. Questo crea un’atmosfera di suspense che rende l’opera un thriller storico-politico e psicologico, ma senza una soluzione esplicita, lasciando al pubblico il compito di interpretare e trarre le proprie conclusioni. “Nulla è dichiarato, niente è mostrato con chiarezza”, sostiene Ronconi, “spetta al pubblico vedere, leggere, interpretare, costruirsi un’idea personale, trarre le conclusioni di quanto la commedia intende comunicare” (Vasta, Zanoli 2011).
In effetti, Bond scrisse a Ronconi proprio che la natura del dramma cambia dall’Unità 7. In questa sezione del suo testo individuava la crisi che ci ritroviamo a vivere adesso. Lo stesso tipo di crisi che è proprio della modernità e che aveva riscontrato in quelle opere d’arte che aveva avuto modo di ammirare durante il suo soggiorno milanese, l’Ultima cena di Leonardo da Vinci e la Pietà Rondanini di Michelangelo Buonarroti. Definì i due capolavori opere sperimentali che usano la realtà per cambiarla e che mettono in relazione la crisi della modernità con quella contemporanea. Nel cercare una immediatezza più umana, Leonardo aveva sperimentato una nuova tecnica pittorica per l’affresco e proprio perché i personaggi raffigurati emergessero nella loro umanità aveva bisogno di maggiore intimità. Dal punto di vista tecnico l’esperimento era fallito, ma il dipinto “still has an overwhelming humanness, simplicity and evocativeness (= it ‘speaks’) – it creates all the tensions of betrayal, impending torture, the life of the spectator, longing, human drama, that ‘hover’ round the food table that might have been in any restaurant” (“ha ancora una straordinaria umanità, semplicità ed evocatività (= ‘parla’) – crea tutte le tensioni del tradimento, della tortura imminente, della vita dello spettatore, del desiderio, del dramma umano, che ‘fluttuano’ attorno al tavolo da pranzo che potrebbe essere in qualsiasi ristorante”: Bond 2011). Il risultato è particolarmente emozionante perché consiste in una performance, scrisse Bond, e per questo è ancora contemporaneo. Allo stesso modo, nella Pietà Rondanini Michelangelo cambiò la sua iniziale idea di voler creare un nuovo tipo di scultura che fosse contemporaneamente una forma di impressionismo ed espressionismo, in una contrapposizione di prospettive, perché voleva che la madre e il figlio fossero più vicini. Per questo, come scrisse Bond, “he re-rehearsed the stone” (“egli rimise in prova la pietra”) dando l’impressione a chi osserva di una pietra che pensa – “It’s as if, paradoxically, the sculptor is not changing (a piece of stone in) reality but as if imagination is changing reality” (“È come se, paradossalmente, lo scultore non stesse cambiando (un pezzo di pietra nel) la realtà, ma come se fosse l'immaginazione a cambiare la realtà”: Bond 2011). Avrebbe così creato anch’egli il sito di una performance, esattamente ciò che la drammaturgia – e non il teatro – fa, sempre secondo Bond. Quella crisi, dunque, testimoniata nei due capolavori e ancora contemporanea proprio per la loro natura performativa, era ciò che Bond aveva visto nello spettacolo di Ronconi: “Your production was powerful because it entered this crisis and dramatized it” (“La tua messa in scena è stata potente perché ha penetrato questa crisi e l’ha drammatizzata”: Bond 2011). Inoltre, Bond riconosceva a Ronconi il merito di avere mantenuto radicata nella tragedia classica la prima parte dello spettacolo, fino all’Unità 6 inclusa, e apprezzava in tal senso il lavoro degli attori.
Preliminare al radicale cambiamento in atto nell’Unità 7 è la presa di coscienza di Leonard nelle due unità immediatamente precedenti, in cui capisce di non riuscire più a vivere in quel mondo di intrighi e sotterfugi senza tuttavia calcolare le conseguenze della sua nuova consapevolezza. Quando nell’Unità 6 si rivolge al suo padre adottivo Oldfield per confessare le trame intessute per conquistare il potere, vorrebbe essere onesto e gli parla della sua vita e delle sue esperienze interiori, gli rivela anche del tradimento di Dodd. In compenso riceve il tanto agognato posto nel consiglio di amministrazione e l’accesso all’eredità. Ma noi sappiamo che non è stato abbastanza onesto, che non ha detto tutto e Bond assimilava questo comportamento a quello di altri personaggi letterari: “He has the problem of Hamlet or Raskolnikov or the Karamazov brothers. He must come to know himself, to respond to the temptation to be extreme – in drama this means, of course, to create himself, and this means to create a new human reality in a changed world” (“ha il problema di Amleto, di Raskolnikov o dei fratelli Karamazov. Deve raggiungere la conoscenza di sé stesso, rispondere alla tentazione di essere estremo – nel teatro questo significa, ovviamente, creare sé stesso, e questo significa creare una nuova realtà umana in un mondo cambiato”: Bond 2011). Amleto non può confessare un crimine che ancora non sa di covare dentro di sé, o almeno non ne è del tutto consapevole – come scrisse Bond, Amleto non aveva ancora letto Freud; Raskolnikov, invece, quasi supplica l’investigatore Porfiry di scoprire il suo crimine per potere espiare la sua colpa nella punizione, vi è pur sempre un Dio con cui confrontarsi e che può garantire l’espiazione e la conseguente serenità d’animo. Un dio che nei Fratelli Karamazov Dostojevski non riesce a trovare, il mondo è già caduto in rovina e attraverso quei personaggi ‘amletici’, che rovistano tra le macerie accumulatesi, ne riesce a cogliere soltanto un esile barlume. Ma, come insisteva Bond, tutti questi personaggi, uomini moderni che cercano sé stessi, possono ancora trovare una risoluzione all’interno dell’universo Tragico classico – una morte che restituisca loro decoro e dia speranza ai vivi, una possibilità che viene invece negata ai contemporanei.
Ed è proprio questo il motivo della crisi che investe Leonard nell’Unità 7 quando confessa a Oldfield che ha tentato di ucciderlo. Alla stregua di Amleto o di Raskolnikov, la confessione di Leonard travalica il rapporto contingente ed è rivolta all’universo che, tuttavia, rimane in silenzio di fronte a questa richiesta dal confine estremo del tragico umano. Oltre, come scrisse Bond, è possibile solo la farsa: “Farce is the absence of the decorum of wounds and death. The definition of a joke is this: that it has no answer to the question” (“La farsa è l’assenza del decoro delle ferite e della morte. La definizione di una battuta di spirito è questa: che non ha risposta alla domanda”: Bond 2011). D’altronde, Leonard non può nemmeno essere certo che Oldfield abbia ascoltato la sua confessione dato che, nella scelta registica di Ronconi, durante il suo lungo monologo siede sulla poltrona volgendo lo sguardo in direzione opposta alla scrivania a cui Oldfield siede mentre, ricurvo, legge il testamento. Nella versione ampiamente ridotta dai tagli decisi da Ronconi, il monologo arriva presto al punto in cui Leonard pronuncia forse la battuta più esplicativa di questa transizione: “I’ll never try to kill you again: I’ve set us free. One last thing. This time I must say it all. I said I didn’t kill you father. That’s a lie. I did. You’re dead. So am I. I won’t hide it from you” (“Non proverò mai più a ucciderti un’altra volta: ho liberato tutti e due. Un’ultima cosa. Questa volta devo dire tutto. Ho detto di non averti ucciso padre. È falso. L’ho fatto. Tu sei morto. Anch’io lo sono. Non te lo voglio nascondere”: Bond 1996)[6]. In questo preciso momento, nella messa in scena di Ronconi, Oldfield fa per alzarsi ma collassa e cade all’indietro riverso sulla sedia davanti alla scrivania su cui rimane bene in vista il testamento[7], Leonard non se ne accorge e continua a parlare, soltanto noi spettatori possiamo essere certi che il vecchio padre non lo ascolta. Da questo punto le aspettative del pubblico di continuare ad assistere a una riproposizione della tragedia classica della prima parte sono radicalmente disattese. Difatti, Bond scrisse a Ronconi che se avesse continuato su quella linea il racconto sarebbe divenuto falso e artificialmente oscuro, avrebbe riprodotto la banalità dell’Assurdo – nel porre una domanda invece di fornire una risposta – oppure avrebbe assunto la frivolezza del post-moderno, a suo avviso sarebbe divenuto il pacco dono del consumismo. Nella messa in scena di Ronconi, al contrario, aveva apprezzato proprio la capacità di evitare tutti i trucchi e gli inganni teatrali, che da spettatori ci si potrebbe aspettare a quel punto, perché aveva preso il problema sul serio. “Watching it in your production I felt I was, as a dramatist, being questioned by the world in which I lived”, scriveva Bond, “did I understand it? And if I did, could I create the text of understanding? And if I did that, the problem is how to stage and act it, how to enact it” (“Guardandolo nella tua messa in scena, ho sentito che, come drammaturgo, ero interrogato dal mondo in cui vivevo", scriveva Bond, “lo capivo? E se lo capivo, riuscivo a creare il testo di quella comprensione? E se l’ho fatto, il problema è come metterlo in scena e recitarlo, come rappresentarlo”: Bond 2011).
Nella cruciale Unità 7, quindi, Bond riteneva che bisognasse mostrare come sono due cose che debbono cambiare: la natura della soggettività di Leonard e, di conseguenza, anche la natura del dramma che la contiene deve in maniera crescente divenire auto-consapevole. Nella lunga descrizione del tentato parricidio, Leonard crea una nuova forma di consapevolezza proprio come Amleto, attraverso i suoi soliloqui, riesce a entrare in quelle aree di sé che in precedenza erano impenetrabili. È così che Leonard riesce ad avvicinarsi a quello che Bond definisce un materiale umano grezzo, quello della realtà che ha intenzione di confessare, delle cose che popolano il paradiso e l’inferno e che nemmeno la filosofia può immaginare, come Amleto dice ad Orazio (Shakespeare, Hamlet I 5, 166-7). Il pubblico deve accorgersi del cambiamento in Leonard durante il lungo soliloquio sul corpo del padre morente anche se, pur avvertendone la qualità straniante, non ne comprende la natura. In questo momento del dramma Leonard esplora l’abisso della coscienza umana, quell’abisso che aveva introdotto nell’Unità 4 quando nel descrivere l’arma aveva mostrato il divario tra la natura esteriore della realtà, dell’efficienza tecnologica, e la profonda oscurità della coscienza umana. In questo percorso verso una conoscenza di sé, Leonard trascina anche il pubblico: l’esperienza soggettiva del parricidio si allarga fino ad includere gli spettatori, a entrare nella loro psiche attraverso la logica dell’immaginazione della realtà che la drammaturgia veicola. Questo processo crea una realtà nel presente della rappresentazione scenica che rivela ciò che altrimenti giace nascosto; ma attenzione, non si tratta di trascinare fuori il nascosto per rivelarlo perché, come sosteneva Bond, “the hidden is already in the present and in drama the present reveals it – the symptom becomes the cure (drama is not psychoanalysis)” (“ciò che è nascosto è già nel presente e nel teatro il presente lo rivela – il sintomo diventa la cura (il teatro non è psicoanalisi)” (Bond 2011). La lunghezza non convenzionale del monologo di Leonard è il segno del cambiamento nella natura drammaturgica del testo che deve seguire il cambiamento di Leonard, segnala al pubblico che deve assistere allo spettacolo in modo diverso. Per questo motivo Bond, nel rammaricarsi dei corposi tagli con cui Ronconi aveva accorciato il monologo di Leonard, riteneva che sarebbe stato più facile per il pubblico avvertire il cambiamento se lo avesse lasciato nella sua eccentricità. Purtuttavia espresse il suo apprezzamento per come Ronconi aveva controllato bene il momento successivo alla morte di Oldfield in cui lo spettacolo può rischiare di diventare una farsa – e non deve – e lo definì una delle mosse più attente e sottili della sua regia, ossia quando la tensione del Tragico si avvicina alla tensione del Comico. È la loro disposizione reciproca che produce la natura di una cultura, la sua moralità e la conoscenza di sé, osservava Bond, e il cambiamento nella loro relazione segna il mutamento dell’estrema serietà dell’essere umano e della umana responsabilità. È la rappresentazione della crisi nella connessione tra il passato classico e il presente di cui dava conto nelle due opere di Leonardo e Michelangelo. Ma in primo luogo il cambiamento deve essere rappresentato dagli attori. “This requires a text-of-situations which are critical and extreme”, scrisse Bond, “and a director and actors who may enter the text and take it further than the writer can. Your production did this and there are few other theatres where it could be done” (“Questo richiede un testo-di-situazioni che siano critiche ed estreme”, scrisse Bond, “e un regista e degli attori che possano entrare nel testo e portarlo oltre ciò che lo scrittore può fare. La tua messa in scena ha fatto questo e ci sono pochi altri teatri dove questo potrebbe essere fatto”: Bond 2011). È fondamentale che questo processo avvenga in teatro perché è sul palco che si può affrontare il contesto tragico, nella società si affronterebbero soltanto i sintomi, ma sulla scena si accede ai sintomi e così si può guarire. Si noti bene, tuttavia, non è possibile farlo in un qualsiasi tipo di teatro: “Se fosse rappresentato nel West End”, ossia in un circuito commerciale dei teatri delle amenità, “strutturalmente non si andrebbe oltre la prima scena, con le due poltrone e il bicchiere di whisky”, secondo Bond, “tutto verrebbe risolto e questa è la cosa più importante, gli affari sarebbero salvi. E la morale sarebbe: ‘Come posso vivere appropriandomi dell’azienda in nome di principi etici’! ma ogni mia scena dice: ‘No, non funzionerebbe’” (Tuaillon 2015, 168).
Per decidere come vivere bisogna interrogarsi in modo più radicale sulla realtà e bisogna prendersi la responsabilità di farlo con la stessa serietà tragica dei classici, non basta liquidare i cattivi per purificare il sistema. Al termine de La compagnia degli uomini non arriva Fortebraccio a risolvere la situazione. E il parallelo con Amleto si complica ulteriormente quando Leonard sembra assommare su di sé anche la figura dell’usurpatore Claudio quando, all’inizio dell’Unità 8, si domanda se sia stata la sua confessione a uccidere Oldfield: invece di trattenere le sue parole avrebbe continuato a “pouring my poison in his ear” (“versare il mio veleno nel suo orecchio”: Bond, 1996). Bond ritiene che per ristabilire l’ordine, per creare la giustizia, bisogna portare i corrotti in tribunale e il palcoscenico è il luogo (site) pubblico e democratico della giustizia. Se è facilmente comprensibile per il pubblico notare la corruzione dei personaggi, è più difficile accorgersi che il testo parla di innocenza. Tutti vogliono aiutare Leonard, si umiliano davanti a lui come se inconsciamente volessero appropriarsi della sua innocenza, riconoscono in lui la capacità di porsi il problema di cosa voglia dire essere umano: “To find the means of staging and acting this is the task of modern drama. You and your actors did it in this production” (“trovare i mezzi per mettere in scena e recitare questo è il compito del teatro moderno. Tu e i tuoi attori lo avete fatto in questa messa in scena”: Bond 2011). Con questa affermazione Bond riconosceva a Ronconi di essere riuscito a mettere in scena il contrasto chiave del testo, ossia quello tra la struttura ben definita del mondo degli affari e l’esperienza personale e poetica dei personaggi, e di averlo fatto vivere in un dramatic site.
In fondo le figure tragiche sono sempre innocenti perché cercano la giustizia non solo per sé ma anche per la comunità. Leonard con il sacrificio estremo del suicidio vuole denunciare e giustiziare qualcun altro. È in quel momento, come scrisse Bond, che il palco e la strada, l’immaginazione e la realtà diventano una cosa sola e la fine si presenta nel nostro inizio.
Note
[1] Ronald Bryden, nel recensire Saved sulle colonne del “New Stateman”, aveva scritto che lo scopo di Bond con questo testo era quello di farci sbattere il grugno sul fatto che “the real new poor are the old poor plus television, sinking deeper in a form of poverty we do not yet recognise – poverty of culture” (“i veri nuovi poveri sono i vecchi poveri con l’aggiunta della televisione, e sprofondano sempre più in una forma di povertà che ancora non riconosciamo – la povertà di cultura”: Little, McLaughlin 2007, 93).
[2] Sin dalla sua fondazione il Royal Court Theatre si era distinto per essere un teatro che si poneva consapevolmente in relazione alle problematiche e alle possibilità del presente. Questa sua vocazione a essere una struttura in continua evoluzione, intersecando e contrapponendo le diverse prospettive culturali, lo ha reso un punto di riferimento per gli autori che volevano continuamente ridefinire i criteri etici ed estetici della nuova drammaturgia.
[3] In Francia Bond risulta essere l’autore più rappresentato dopo Molière. Per le rappresentazioni in Francia, e più in generale in Europa, si veda Tuaillon 2015 e Billingham 2013, 15. Secondo quanto fa notare Graham Saunders, “In the Company of Men, dismissed by Anthony Jenkins when it was first presented in this country as ‘a rambling, self-indulgent account of post-modern society’, was a critical and commercial success in France, culminating in the play currently being adapted for a film project in a pseudo-documentary style, similar to Al Pacino’s exploration of Shakespeare’s Richard III in Looking for Richard (1996)” (“quando fu presentato per la prima volta in questo paese [nel Regno Unito, NdT], In the Company of Men fu criticato da Anthony Jenkins in quanto ‘racconto vago e autoreferenziale della società postmoderna’; in Francia fu invece un successo di critica e anche commerciale, che culminò nell’adattamento del testo per un progetto cinematografico in stile pseudo-documentario, simile all’esplorazione di Al Pacino di Riccardo III di Shakespeare in Looking for Richard (1996)” (Saunders 2004, 261).
[4] La lettera è pubblicata sul sito personale di Edward Bond.
[5] Bond dal 1995 avviò una stretta collaborazione con la compagnia Big Brum per la quale scrisse anche numerosi testi.
[6] La traduzione è di F. Quadri e P. Faiella.
[7] L’auotre ringrazia l’Archivio del Piccolo Teatro di Milano nella persona di Silvia Magistrali per aver messo a disposizione una ripresa dello spettacolo.
Riferimenti bibliografici
- Bas 2005
G. Bas, A Glossary of Terms Used in Bondian Theatre, in D. Davis (ed.), Edward Bond and the Dramatic Child, Staffordshire 2005, 201-220. - Billingham 2013
P. Billingham, Edward Bond – A Critical Study, London 2013. - Bond [1977] 1990
E. Bond, Author’s note – On Violence, in Id., Plays, One, London [1977] 1990, 9-17. - Bond 1995
E. Bond, Our theatre trivialises or generalises – both are forms of sleaze, “The Guardian” (28 giugno 1995). - Bond 1996
E. Bond, Plays, Five, London 1996, edizione digitale. - Bond 2011
E. Bond, Letter to Luca Ronconi of Piccolo Teatro, on his production of Bond’s In the Company of Men, (5 marzo 2011). - Lane 2010
D. Lane, Contemporary British Drama, Edinburgh 2010. - Little, McLaughlin 2007
R. Little, E. McLaughlin, The Royal Court Theatre Inside Out, London 2007. - Saunders 2004
G. Saunders, Edward Bond and the Celebrity of Exile, “Theatre Research International” 29.3 (2004), 256-66. - Tuaillon 2015
D. Tuaillon, Edward Bond – la parola al drammaturgo, Livorno 2015. - Vasta, Zanoli 2011
E. Vasta, R. Zanoli (a cura di), Linguaggio, potere, dissimulazione. Conversazione con Luca Ronconi, in Id., Programma di sala, 2011.
English abstract
Ronconi’s production left a deep impression on Bond, as it managed to raise methodological questions that had preoccupied the playwright throughout his entire career – questions that he now saw emerging so clearly from his play thanks to that interpretation. In particular, Bond referred to a distinction found in his own writings: that between set and site, a key classification in his dramaturgy. For this reason, he wrote a long letter to Ronconi in which he expressed his appreciation, believing that Ronconi’s staging had brought to light fundamental questions about human reality in modern society – issues that contemporary dramaturgy had always engaged with, and which he now saw surface within his idea of “dramatic site.” The mix of impressions gathered during his stay in Milan led him to write to Ronconi: “Your production related to all these things. Drama seemed decent again”.
keywords | Luca Ronconi; Edward Bond; dramatic site.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article:Andrea Peghinelli,“Drama seemed decent again”. La compagnia degli uomini di Edward Bond come esempio di “dramatic site” nella regia di Luca Ronconi (2006), “La Rivista di Engramma” n. 224,maggio 2025.