Il Silenzio dei comunisti
Genesi e messa in scena di una riflessione sulla fine della sinistra
Marco Di Maggio
English abstract
Introduzione
Il Silenzio dei comunisti è uno spettacolo messo in scena per la prima volta da Luca Ronconi nel novembre 2006, a partire da un testo tratto da un piccolo volume dal titolo omonimo, uscito quattro anni prima per Einaudi. Il libro è una riflessione, sotto forma di dialogo epistolare, fra tre importanti figure della sinistra italiana della seconda metà del Novecento: Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin (Foa et al. 2002).
Vista la natura del Silenzio dei comunisti, un dialogo su storia e memoria e una riflessione sul presente, si cercherà di inserire il libro e la pièce teatrale nel contesto italiano e internazionale del primo decennio del XXI secolo e di svolgere alcune considerazioni di carattere storiografico. Il libro e lo spettacolo saranno analizzati tramite la ricezione da parte della stampa generalista di sinistra. Dentro la ricostruzione del contesto sarà poi ricostruito il particolare angolo visuale del regista, cercando di cogliere gli effetti del passaggio dalla particolare forma e contenuto della parola scritta, quella epistolare, su temi di carattere socio-economico e storico, alla loro rappresentazione teatrale. Rappresentazione che avviene a distanza di quattro anni dalla pubblicazione del libro. In questo modo i pensieri del testo e la loro messinscena saranno analizzati come ‘fatti’: come fonte storica e rappresentazione di un’epoca e dei suoi mutamenti.
L’analisi sarà strutturata su tre assi: il contesto storico in cui l’opera nasce e quello in cui Ronconi decide di trasformala in una pièce teatrale; la ricezione del libro e dello spettacolo; la ‘traduzione’ del libro in opera teatrale, quindi il modo in cui il registra, a quattro anni di distanza dall’uscita del libro, riformula con linguaggio teatrale gli interrogativi che attraversano l’opera e il modo in cui tali interrogativi entrano in relazione con l’evoluzione della storiografia sul comunismo a cavallo fra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo.
Foa, Mafai, Reichlin, Il Silenzio dei comunisti e la fine della sinistra
Locandina, Il Silenzio dei comunisti. Centro Studi del Teatro Stabile di Torino.
Per cominciare è importante innanzitutto richiamare brevemente il profilo biografico dei tre autori del testo e protagonisti.
Foa, che è l’ideatore del libro e colui che dirige la discussione fra i tre protagonisti, è un classe 1910. Torinese, inizia la sua militanza politica nelle file di Giustizia e Libertà e del Partito d’Azione, di cui viene eletto deputato nella Costituente. Dopo lo scioglimento del partito nel 1948, si dedica all’attività sindacale nella Cgil e si iscrive al Partito socialista. Nel 1963-64 è fra i protagonisti della scissione socialista e della fondazione del Psiup (Agosti 2013). Dopo aver cercato costantemente di far dialogare il movimento operaio con alcune espressioni della nuova sinistra, negli anni Ottanta è senatore del Partito di unità proletaria, poi confluito nel Pci. Nel 1989-1991 sosterrà la svolta di Occhetto e aderirà al Partito Democratico della Sinistra, di cui sarà senatore fino al 1992.
Miriam Mafai, del 1926, nasce a Firenze in una famiglia di artisti. La madre, ebrea lituana, come molti era fuggita dai pogrom diffusisi in buona parte dell’Europa Orientale nel contesto della reazione alla Rivoluzione d’Ottobre. Aderisce alla resistenza antifascista a Roma nel 1943, ancora adolescente. Da quel momento diviene una militante comunista a tempo pieno, funzionaria, poi giornalista de “l’Unità”. Anche lei sostiene con convinzione la svolta di Occhetto. Nel corso degli anni Novanta, attraverso i suoi scritti e la collaborazione con “La Repubblica” e “l’Espresso”, prende posizione per il superamento dell’eredità della sinistra novecentesca in nome di una prospettiva europeista.
Alfredo Reichlin, nato nel 1925 a Barletta, è stato fra i più importanti dirigenti del Pci: cooptato da Palmiro Togliatti nel gruppo dirigente, lavora prima come giornalista poi come direttore de “l’Unità”. Negli anni Sessanta diventa segretario della federazione pugliese e membro della Direzione del partito. Vicino a Pietro Ingrao, nel decennio successivo è fra i più stretti collaboratori di Enrico Berlinguer. Dopo la morte di quest’ultimo nel 1984, dirige il Centro studi di politica economica del Pci. Reichlin sostiene Occhetto ed è uno dei principali protagonisti della legittimazione politica e ideologica della Svolta. Nel 2006, quando Il Silenzio dei comunisti debutta in teatro, è il Presidente della commissione incaricata di redigere la Carta dei valori del Partito Democratico.
Si tratta, dunque, di tre profili diversi: Foa dirigente sindacale antistalinista e operaista, artefice del legame fra l’azionismo di sinistra, la nuova sinistra degli anni Settanta e i soggetti storici del movimento operaio; Mafai, quadro intermedio comunista; Reichlin alto dirigente del partito, incarnazione della linea di continuità che va da Togliatti a Occhetto passando da Berlinguer.
Tuttavia, è importante richiamare anche quelli che sono gli elementi comuni. In particolare due: il primo è che si tratta di dirigenti del movimento operaio e della sinistra italiana di estrazione intellettuale. Il ruolo degli intellettuali è infatti uno degli elementi che segna l’originalità del movimento operaio e, soprattutto, del comunismo italiano nell’ambito di quello internazionale lungo tutto il corso del Novecento. In numerosi passaggi del Silenzio dei comunisti emerge questa originalità attraverso due elementi. Il primo è il nesso fra movimento operaio e patriottismo e il rapporto fra intellettuali e popolo. Il Pci diventa l’attore della costruzione di questo doppio legame che, nelle specificità del contesto italiano della Resistenza, del secondo dopoguerra e della prima fase della Guerra fredda, costituisce il fondamento della sua dimensione di massa (Di Maggio 2023). L’altro elemento è che sia Foa, sia Mafai e Reichlin, nel 1989-1991, aderiscono e partecipano alla Svolta di Occhetto e condividono l’idea che con la fine della guerra fredda sia necessario superare il Pci: in modo diverso pensano che questo superamento debba passare per un esame critico della storia del partito, che chiuda definitivamente i conti con la Rivoluzione d’Ottobre. Reichlin in particolare, come accennato, è uno degli artefici della Svolta. Egli contribuisce a tradurre il bagaglio culturale del Pci nei termini necessari a definire l’indirizzo politico e ideologico-culturale del nuovo partito. Per il gruppo dirigente artefice dello scioglimento del Pci, il Pds avrebbe dovuto essere protagonista dello ‘sblocco del sistema politico italiano’. Si trattava di costruire una sinistra che, finalmente affrancatasi dalla zavorra della guerra fredda, avrebbe dovuto percorrere la via nazionale ed europea basata sull’uguaglianza dei diritti e su una più equa forma di modernità (Di Maggio 2021). Gli autori del Silenzio dei comunisti condividono quindi il medesimo orientamento, che individua nella fine del socialismo reale un evento positivo, capace di trasformare la sinistra italiana in classe dirigente e protagonista dell’integrazione del Paese nella globalizzazione.
È nelle aporie di questa prospettiva che, all’alba del nuovo secolo, prende forma il dialogo a tre voci contenuto nel libro. Fra il 1998 e il 2002 infatti, si manifestano i primi segnali di quella che da alcuni storici sarà definita la “crisi dell’ordine neoliberale” costruito a partire dalla fine degli anni Settanta con l’ascesa al potere, nei paesi anglosassoni, di Ronald Reagan e Margareth Thatcher. Ordine che raggiunge il suo apice negli anni Novanta, dopo il crollo del blocco socialista - evento che sembra aprire le porte a un’epoca segnata dal trionfo dell’Occidente sul piano politico, economico e culturale – proprio con l’affermazione del pensiero liberal di provenienza anglosassone, incarnato da Bill Clinton e Tony Blair (Gerstle 2022).
Tuttavia, già alla fine del decennio questa rappresentazione inizia a mostrare le prime crepe: tra il 1997 e il 1998 esplode la crisi delle cosiddette “tigri asiatiche”, nel 1999 scoppia la guerra nel Kossovo e si manifestano nuove forme di protesta in occasione dei vertici internazionali di governo della globalizzazione. L’11 settembre innesca la devastante spirale terrorismo-guerra. Per quanto riguarda il contesto italiano, il 2001 si chiude con la fine dell’esperienza dei governi di centrosinistra, il ritorno della destra guidata da Silvio Berlusconi e soprattutto con gli eventi del G8 di Genova, che segnano la consacrazione dell’altermondialismo come movimento di massa in Italia e non solo, ma anche la violentissima repressione scatenata contro di esso. La vittoria elettorale della destra vede inoltre, da parte di Berlusconi e dei media da lui controllati, un largo uso del paradigma anticomunista, collante di una serie di rappresentazioni utili a tenere insieme il blocco sociale della destra. Berlusconi si presenta come il salvatore della patria che rischia di finire nelle mani degli ‘orfani’ e dei ‘nostalgici’ del comunismo, ostili al mercato, alla famiglia e all’individuo, ma soprattutto invidiosi verso coloro che hanno meritatamente conquistato il successo a cui tutti aspirano, e che ciascuno può sognare di raggiungere attraverso l’impegno e il sacrificio individuale (Gentiloni Silveri 2024).
È, dunque, in questo scenario che prende corpo l’idea di una riflessione attorno alla memoria del comunismo e alla sua eredità. Il Silenzio dei comunisti si apre con le domande formulate da Foa: perché i comunisti “che hanno rappresentato un terzo del Paese, oggi sono silenti?” E perché, invece, nonostante il comunismo non esista più, continua a imperversare l’anticomunismo?
Fra fine maggio e inizio giugno 2002 “La Repubblica” e “l’Unità” parlano dell’uscita del volume. Sul giornale fondato da Eugenio Scalfari, Mario Pirani si concentra più sulle domande che sulle risposte degli autori, espressione del loro coraggio nel fare i conti con il passato in un momento storico in cui crescono le incertezze. Pirani recupera quello che è l’elemento principale della critica al Pci almeno dagli anni Sessanta in poi: il fatto che il movimento operaio italiano fosse stato egemonizzato da un partito che non poteva andare al governo a causa del suo legame con l’Unione Sovietica. È questo il “peccato originale” al centro dell’articolo di “La Repubblica” (Pirani 2002). Un paio di settimane dopo, sempre su “La Repubblica”, Giorgio Ruffolo torna sul Silenzio dei comunisti in un articolo che parla anche di un altro libro, anch’esso appena uscito: quello di Giuliano Amato dal titolo Tornare al futuro. L’incipit del discorso è “l’ordine nuovo” della globalizzazione, che abbatte gli Stati nazionali e riduce gli spazi della politica. Il filo rosso che lega i due libri è una riflessione sulle nuove forme della politica intesa come “riformismo”. La sinistra ha infatti avuto i suoi tempi migliori quando ha rinunciato ai “metaracconti rivoluzionari”, cercando di migliorare il capitalismo. È questo il merito dei due libri: quello di interrogarsi sui nuovi spazi della politica. Unico modo per evitare che essa si trasformi in “populismo” (Ruffolo 2002).
Il 6 giugno, anche la recensione di Bruno Gravagnuolo su “l’Unità” è dello stesso tenore: il fatto che il Pci non fosse stato un partito compiutamente riformista ha costituito una zavorra lungo tutto il corso della sua storia, nonostante la sua esistenza abbia permesso l’integrazione delle masse popolari nella vita democratica della Nazione. L’autore sottolinea anche l’elemento alla base della scelta che segna tutta la vita politica dei tre autori: il nesso fra antifascismo e patriottismo e il fatto che questo abbia spinto un’intera generazione di intellettuali verso l’impegno politico in favore della costruzione dell’Italia democratica (Gravagnuolo 2007).
Il libro, quindi, viene recepito dalla stampa progressista come un passo in avanti nella riflessione sulla memoria del Novecento, in continuità con il percorso fatto dal 1989 in poi. Il fulcro di questo percorso è la costruzione di una compiuta cultura “riformista” per la sinistra italiana che, recidendo il legame con il passato comunista, abbandoni definitivamente qualsiasi prospettiva di cambiamento radicale, “rivoluzionaria”.
Da questo punto di vista un elemento comune alle recensioni citate è la scarsa attenzione alle pagine nelle quali gli autori si interrogano sul valore e sul significato del pacifismo nella storia della sinistra e del comunismo italiano. Quello della mobilitazione contro la guerra è un tema al centro dell’attenzione pubblica di sinistra dopo l’11 settembre e il riesplodere nel 2002 del conflitto israelo-palestinese. Attenzione ugualmente scarsa viene attribuita alle domande sulla globalizzazione e sulle forme di antagonismo sorte nel triennio precedente.
Non è un caso che la pubblicazione del Silenzio dei comunisti non sia oggetto di attenzione da parte di quella componente della sinistra italiana che, a partire dal 1989, in modi diversi, si era dapprima opposta allo scioglimento del Pci e poi aveva cercato di mettere in atto percorsi politici e culturali che miravano a una nuova sintesi fra l’esperienza del comunismo novecentesco e la critica alla globalizzazione neoliberale.
Luca Ronconi e il nuovo spirito del tempo. Il Silenzio dei comunisti a teatro
A quattro anni di distanza dall’uscita del libro, quando Ronconi mette in scena Il Silenzio dei comunisti, lo scenario è parzialmente cambiato: l’11 settembre ha innescato la spirale guerra-terrorismo e, nel mondo, il movimento altermondialista si è intrecciato con quello pacifista. In Italia, nella primavera 2003, il governo Berlusconi aderisce alla “Coalizione dei volenterosi” lanciata dal presidente americano George Bush e dal laburista britannico Tony Blair per aggredire e abbattere il regime Saddam Hussein, con il falso pretesto del possesso di armi di distruzione di massa e del sostegno al terrorismo islamico. Nel marzo 2003, secondo la BBC, nel mondo scendono in piazza contro la guerra dagli 8 ai 6 milioni di persone. In Italia, dove da centinaia di migliaia di finestre sventolano le bandiere della pace, si svolge a Roma una manifestazione alla quale partecipa un milione di persone. La stampa internazionale inizia a definire il movimento pacifista la vera seconda “superpotenza” in grado di ostacolare lo smantellamento degli organismi di governo multilaterale globale basati sul diritto internazionale e la deriva guerrafondaia dell’unipolarismo occidentale post guerra fredda.
Mentre il movimento contro la guerra irrompe sulla scena, il quadro politico e sociale italiano è attraversato da un’imponente ondata di manifestazioni contro i tentativi del governo di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Pacifismo e lotta contro la flessibilizzazione del mercato del lavoro costituiscono il terreno per un incerto confronto fra “sinistra riformista” e “sinistra radicale” che, nelle elezioni del maggio 2006, porterà alla precaria vittoria dell’Unione guidata da Romano Prodi e alla nascita di un nuovo governo di centrosinistra (Gentiloni Silveri 2024). È in questo contesto politico, sociale e culturale, dentro il quale le forme di opposizione e di critica radicale si incontrano contraddittoriamente con le ipotesi riformiste di governo della globalizzazione nate negli anni Novanta, che si inserisce la messa in scena del Silenzio dei comunisti. Essa fa parte di un progetto più ampio: al regista viene affidato il compito di coordinare una serie di spettacoli nell’ambito delle Olimpiadi della Cultura organizzate in occasione dei Giochi Olimpici invernali di Torino. Il Progetto Domani, affidato al Teatro Stabile di Torino, è una serie di cinque spettacoli: Il Silenzio dei comunisti, Troilo e Cressida di Shakespeare, Lo specchio del diavolo, testo commissionato a Giorgio Ruffolo su sviluppo e progresso, Biblioetica: dizionario per l’uso, sui temi della bioetica (siamo negli anni degli scontri su clonazione e fecondazione assistita) e Atti di guerra di Edward Bond, ambientato in uno scenario postatomico.
Prima di affrontare il modo in cui Ronconi ‘traduce’ il libro è utile analizzare la ricezione dello spettacolo da parte della stampa di sinistra e indicare gli elementi di continuità e di discontinuità con il modo in cui era stato accolto il libro qualche anno prima.
Domani è oggetto di discussione e polemica politica sulla stampa di sinistra. Sulle pagine di “Liberazione”, quotidiano di Rifondazione Comunista, è criticata la decisione dell’amministrazione di centrosinistra torinese, guidata Sergio Chiamparino, di affidare un finanziamento di sette milioni e mezzo di euro a un unico progetto coordinato da un solo regista. Una scelta ritenuta funzionale a una politica culturale che penalizza lo sviluppo ‘orizzontale’ di progetti radicati nel territorio e la crescita di realtà culturali e artistiche ad esso legato. La critica si inserisce nel quadro dei rapporti burrascosi fra sinistra riformista e sinistra radicale piemontese. Rifondazione sostiene, infatti, la mobilitazione contro l’alta velocità Torino-Lione, e critica duramente le amministrazioni di centrosinistra della regione Piemonte e del comune di Torino per le politiche di ristrutturazione urbana messe in atto in occasione delle olimpiadi, giudicate funzionali ai processi di gentrificazione dei centri urbani e contrari alle esigenze delle classi popolari. Da questa polemica si sfila “il manifesto”, “quotidiano comunista”, che, come si è visto, non aveva dedicato attenzione all’uscita del libro. Su Domani e sulla messinscena del Silenzio dei comunisti il giornale esprime un giudizio positivo. Nell’inserto culturale “Visioni” Gianfranco Capitta evidenzia la massiccia presenza di giovani a Moncalieri, a fronte della quale risalta la totale assenza dei leader della sinistra locale e nazionale. Il progetto di Ronconi è paragonato allo sfoglio di un giornale: memoria, guerra e bioetica, portati sulla scena in tempi di “presenzialismo televisivo” generano un eccezionale impatto culturale. Con la sua regia Ronconi “sgombra il campo alle polemiche” e presenta un’opera teatrale di grande qualità artistica, importante contributo alla comprensione della realtà (Capitta 2006a/2006b e Gregori 2006a).
Anche il resto della stampa di sinistra dedica molto spazio alla pièce: “La Repubblica” si concentra sul successo di critica e di pubblico di Domani e soprattutto del Silenzio dei comunisti, con il Piccolo di Milano e il comune di Sesto san Giovanni che fanno di tutto per avere per primi lo spettacolo dopo l’uscita piemontese (Capitta 2006b). Il quotidiano romano pubblica anche un pezzo di Mafai, nel quale la scrittrice ripercorre la genesi del libro e riprende alcune sue riflessioni sul passato. Insomma, a fronte di numerosi articoli di promozione dello spettacolo, a differenza di quanto fatto quattro anni prima, “La Repubblica” non riprende il filo della riflessione sulla sinistra (Bandettini 2006 e Mafai 2006).
Di diverso tenore invece “l’Unità”, che si concentra sul rapporto fra presente, passato e futuro. Riportando alcune dichiarazioni degli attori, sottolinea uno degli interrogativi centrali dell’opera: perché il comunismo sia stato in grado di mobilitare le energie di milioni di uomini e donne e abbia incarnato, nonostante le “distorsioni del socialismo reale”, la spinta al cambiamento politico e sociale? Come si vedrà meglio nell’analisi delle Note di scena di Ronconi, gli artisti raccontano come il regista abbia loro proposto di interpretare la parte calandosi nel testo, più che nel personaggio. Dice la Paiato-Mafai:
Sarò un’attrice che riflette dal basso su ciò che l'intellettuale propone. Ma l’energia, la lucidità di queste persone mi hanno colpito anche se quel tempo, quella gente di cui si parla non torneranno mai più. E anche se in giro pare esserci sempre una gran paura dei “comunisti” magari rinfocolata ad arte, è necessario andare avanti, guardare al futuro (Gregori 2006b).
Il 6 febbraio, dopo la rappresentazione di Sesto San Giovanni, il giornale pubblica un’intervista a Reichlin. Come accennato, egli aveva fatto parte di quella componente della classe dirigente comunista che, al momento del crollo del socialismo reale, aveva indicato quale principale compito della sinistra quello di correggere le storture della globalizzazione assicurando la “governabilità del sistema” (Di Maggio 2019). Nel commentare la messinscena del Silenzio dei comunisti egli sembra ritornare criticamente su questo orientamento: “Se malgrado gli errori del passato – dice l’anziano dirigente comunista – non si ha l'aspirazione verso qualcosa di più grande allora tutto diventa governabilità, pensiero unico dove sono i mercati che decidono” e, citando Togliatti – figura che aveva conosciuto una sorta di oblio, talvolta di damnatio memoriae, negli anni Novanta – afferma:
Ci sono tre presenti: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Il presente non esiste se non c'è il passato, il futuro non esiste se non c'è il presente e, a sua volta, il presente esiste in quanto il passato gli consegna dei problemi in cui noi siamo immersi e che ci spetta risolvere […] La grande illusione delle forze moderate è che con la sconfitta del comunismo finisse anche la sua storia. Ma la teoria che i mercati governano, i tecnici gestiscono e i politici vanno in tv perché la politica è un sottoprodotto dell'economia, ha fallito (Gregori 2006c).
A differenza del contesto di quattro anni prima dunque, in cui esce il libro di Foa, Reichlin e Mafai, la messinscena del Silenzio dei comunisti sembra inserirsi in uno scenario in cui sorgono i primi interrogativi sulla crisi della globalizzazione e all’interno del quale si tende a valorizzare maggiormente una riflessione meno ideologica e liquidatoria sul lascito del Pci. Lo spettacolo parte da questo intento di riflessione e rappresentazione del rapporto fra passato e presente. Come dichiara lo stesso Foa, la forza del progetto è quella di allargare lo spazio dell’“agire politico” in “arte” e, in questo modo, trasformarlo in una “riflessione che va oltre il presente” (Foa 2007, 188).
La scelta del luogo, innanzitutto: prima le ex Fonderie di Moncalieri e poi l’Hangar autoveicoli di Sesto San Giovanni, due scenari post industriali situati in vecchie roccaforti della classe operaia e della sinistra. L’ambientazione: tre ambienti che si muovono sul palco, in ciascuno dei quali recita uno dei protagonisti. Questa innovativa soluzione scenografica rappresenta tre luoghi spogli, cantieri, dove permangono segni di un passato quasi indistinto, ma che attendono di essere riempiti con un presente che guarda al futuro, ma che fatica a nascere. Come indicato dal regista nelle Note di scena “l’ambiente rappresenta piuttosto un’epoca e non un luogo del passato” (Giammarini 2007, 220). Ancora nelle Note, Ronconi sottolinea come “sarebbe un errore se ci fosse un’identificazione fra ambiente e personaggi” perché i tre ambienti nel quale si muovono i personaggi “sono un luogo del passato, un luogo della memoria, dunque non un luogo del presente”. Suggerisce agli attori di “essere dei visitatori o degli ospiti di quei luoghi” e, al tempo stesso, “di trovare il modo giusto di abitarli” (Giammarini 2007, 220).
Il registra cerca così di costruire e rappresentare uno spazio storico, nel quale la ricostruzione e la narrazione del passato diviene la rappresentazione del rapporto fra il passato (il luogo della memoria) e il presente (gli attori che interpretano i personaggi che a loro volta riflettono sul passato). Ed è proprio nella scelta degli attori protagonisti e nelle indicazioni ad essi fornite dal regista che si sviluppa quella che potremmo definire una dimensione storiografica della rappresentazione teatrale. Luigi Lo Cascio per Foa, Fausto Russo Alesi per Reichlin e Maria Paiato per Mafai sono tre interpreti giovani, che non hanno coincidenza anagrafica con i protagonisti del libro. Ronconi parte da questo dato “ineliminabile” (la differenza anagrafica): si tratta di creare “un rapporto con un presente che si è formato in anni in cui voi non eravate ancora nati”:
[…] le parole che pronunciate non devono possedere necessariamente quella precisa consapevolezza propria di chi è l'autore delle cose di cui parla, bensì l'incertezza, la discontinuità, la contraddittorietà di chi riceve un'argomentazione o la rielabora a modo suo. Cercate di restituire il testo così come lo avete ricevuto voi da lettori, senza esprimere opinioni (Giammarini 2007, 206).
Per questo – prosegue il regista – “il soggetto è il testo” e non i personaggi, e il presupposto è “cosa il testo dice a voi tre?” (Giammarini 2007, 205).
Al centro, quindi, vi è il rapporto fra passato e presente, che, però, a differenza del libro, non è più soltanto letto e interpretato da uomini e donne del Novecento, che riflettono sulla Storia attraverso la loro memoria, ma il modo in cui tre giovani nati alla fine del XX Secolo guardano a questa riflessione e vi costruiscono la loro rappresentazione della Storia e della memoria. Ronconi sottolinea come “ci può essere un certo grado emozionale nel ricordare, nel dire “io c’ero”, ma ce ne può essere uno altrettanto emozionale nel dire “io non c'ero”. Al posto della nostalgia nel ripercorrere un'esperienza vissuta, che tra l'altro risulterebbe un pochino patetica, ci può essere la curiosità, o anche la nostalgia, per qualcosa che non si è vissuto” (Giammarini 2007, 206).
Lo storico inglese Eric Hobsbawm, nelle prime pagine della sua celebre sintesi sulla storia del Novecento – Il Secolo Breve – scrive che quando si affronta un’epoca di cui sopravvivono testimoni oculari, entrano in gioco e si scontrano (o, nel migliore dei casi, si integrano) visioni diverse della storia che si intrecciano con il presente e con la memoria e con il suo portato di “nostalgia”. Per questo la storia del Novecento può essere definita una “zona crepuscolare”: ovvero un’immagine incoerente, solo parzialmente percepita, del passato; a volte confusa, a volte apparentemente precisa, sempre trasmessa grazie a un misto di cose apprese sui libri e di memoria di seconda mano modellata dalla tradizione pubblica e privata (Hobsbawm [1994] 1997, 15 e ss.). Questa zona crepuscolare è onnipresente nella nostra vita, sia nella dimensione pubblica, quella di cittadini, sia nella dimensione privata, quella delle abitudini degli usi e costumi dei linguaggi.
La messinscena del Silenzio dei comunisti è impregnata di questo carattere “crepuscolare”, nel quale è presente anche il tema della “nostalgia”, che è stato recentemente oggetto di riflessione storiografica. Nel suo libro Malinconia a sinistra lo storico Enzo Traverso riflette sul valore della nostalgia come elemento consustanziale alla elaborazione della memoria delle classi subalterne. La nostalgia è parte dello “sguardo dei vinti” sulla storia, da sempre più articolato e complesso rispetto alla “storia dei vincitori” e per questo fecondo di una rielaborazione critica del passato (Traverso 2016).
Questa temperie emerge nella rappresentazione ronconiana del Silenzio dei comunisti e la si ritrova nella scelta dei brani del libro che compongono il testo dello spettacolo. Essi riprendono fedelmente il testo originario ma dalla selezione emerge la volontà di valorizzare lo sforzo dei tre autori di avanzare nella riflessione sul legame passato-presente-futuro (Il Silenzio dei comunisti, Materiali drammaturgici, Busta 59, Fascicolo 1, ASAC, Archivio Luca Ronconi).
In primo luogo la questione della memoria: l’eredità del Pci, il suo rapporto con l’esperienza sovietica, le ragioni dell’adesione di tanti giovani intellettuali e di gran parte delle masse popolari italiane al comunismo, la concezione della rivoluzione, sono i nodi attorno ai quali ruota il rapporto fra passato e presente. Nelle parole dei tre protagonisti l’adesione al comunismo diventa una questione nazionale, di riscatto di una patria ferita e umiliata dal fascismo. Allo stesso tempo il comunismo è anche il mezzo attraverso il quale le classi popolari accedono alla politica, alla partecipazione democratica, esercitano la sovranità. Una sovranità dalla quale erano state a lungo escluse. L’ascesa del fascismo infatti, è proprio l’esito di questa volontà di esclusione (Il Silenzio dei comunisti, Materiali drammaturgici, Busta 59, Fascicolo 1, ASAC, Archivio Luca Ronconi).
Queste considerazioni richiamano le acquisizioni che la storiografia sul comunismo va facendo negli stessi anni. Secondo le quali dentro il processo di stalinizzazione degli anni Trenta e Quaranta si determinano processi molteplici di nazionalizzazione del comunismo, che sono alla base dell’affermazione di partiti che, in varie forme (si parla di “comunismi” al plurale), saranno protagonisti sia dei processi di decolonizzazione (comprese le rivoluzioni cinese, vietnamita, cubana) sia della costruzione dei sistemi dello spazio sovietico, sia, infine, della minoritaria affermazione del comunismo come fenomeno di massa nei paesi a capitalismo avanzato (Francia e Italia in particolare) (AA.VV. 2000, Pons 2013 e Traverso 2021).
In questa cornice si inseriscono le riflessioni sulla concezione della rivoluzione dei comunisti italiani e sul rapporto con l’Urss. I protagonisti dicono di non essere mai stati rivoluzionari, nel senso della rivoluzione intesa come rottura violenta e che si realizza in un breve lasso di tempo. La rivoluzione per i comunisti italiani si risolve – appunto – nella conquista della sovranità per le masse popolari, nel miglioramento delle loro concrete condizioni di vita. Ma – si chiedono - questo è riformismo, è la socialdemocrazia? Su questo si sviluppa la riflessione sul comunismo italiano: la sua funzione nella storia nazionale è stata quella di rappresentare la politica, sociale e culturale capace di organizzare l’esercizio della sovranità delle masse popolari di fronte alla volontà delle classi dirigenti di escluderle dall’esercizio della sovranità stessa.
È su questo punto però, che si incontra anche il suo limite: il legame con l’Urss e con il socialismo reale infatti, diventa la barriera invalicabile all’esercizio pieno di questa sovranità. Non tanto gli equilibri della guerra fredda, ma piuttosto l’adesione a una prospettiva antidemocratica come quella sovietica sarebbero l’elemento che determinano il “blocco” del sistema politico italiano e l’incapacità comunista di riconoscere le ragioni degli altri, dei socialisti in primo luogo.
Su questo punto la riflessione sul legame del Pci con il socialismo sovietico resta, dunque, quella sviluppatasi nel dibattito degli anni Novanta. Il Silenzio dei comunisti assume in maniera parziale, circoscritta al ruolo del Pci nel contesto italiano, le letture sistemiche che individuano nella spinta delle masse popolari innescata dalla Rivoluzione d’Ottobre l’elemento che determina l’allargamento degli spazi di democrazia del capitalismo in Occidente tramite lo stato sociale e la democrazia di massa; l’affrancamento di enormi settori della popolazione mondiale dalla povertà e dalla schiavitù tramite la modernizzazione autoritaria nei regimi di socialismo reale e nei paesi del sud del mondo. Agli inizi degli anni Novanta, nel già citato Secolo Breve, Hobsbawm afferma che la funzione storica del comunismo è segnata da un paradosso: il movimento nato con la Rivoluzione del 1917 aveva come obiettivo la distruzione del capitalismo ma, anziché distruggerlo, ha costretto quest’ultimo ad autoriformarsi.
Reichlin riconosce questo paradosso nella funzione nazionale del Pci, ma non riesce ad allargarlo ad una dimensione più ampia, che inserisca l’esperienza italiana nel quadro del fenomeno comunista nella sua dimensione globale. Il giudizio su Togliatti è espressione di questa lettura del rapporto fra comunismo italiano e comunismo internazionale che riduce il “paradosso” alla sola dimensione italiana. Togliatti – dice Reichlin – è il simbolo “tragico” del limite del Pci: egli è stato per tutta la sua vita un dirigente di primo piano del movimento comunista internazionale e l’artefice del ruolo nazionale di quello italiano. Nell’interpretazione della figura del leader comunista, il ruolo storico del Pci all’interno del comunismo internazionale del secondo Novecento si riduce sostanzialmente alla fedeltà all’Unione Sovietica. Anche questa una lettura prevalente nella storiografia degli anni Novanta.
A partire dal secondo decennio degli anni Duemila gli storici hanno approfondito la specificità “riformatrice” o “riformista” del comunismo italiano. Riconoscendo nel Pci l’artefice e il capofila della ricerca del tentativo di conciliare comunismo e democrazia, diritti sociali e libertà dell’individuo e di favorire il superamento di una concezione sovietocentrica (entrata in crisi nel 1956) del movimento rivoluzionario mondiale, che fosse in grado di far convivere diverse anime e tendenze in una uova forma di internazionalismo e di convivenza pacifica fra gli stati e fra i popoli (Di Maggio 2021 e Pons 2021).
Mafai invece, chiude i conti con il Novecento riprendendo le parole dell’allora leader dei Democratici di sinistra (al momento della pubblicazione del libro) e del neonato Partito Democratico (ai tempi della messinscena) Walter Veltroni, secondo il quale il sogno del comunismo era illiberale, ed è stata una tragedia quella di coloro che per quel sogno si sono sacrificati.
Sulla base di queste considerazioni sul passato, i protagonisti si confrontano sul presente e sul futuro: Foa interroga Mafai e Reichlin sul pacifismo – “è una posizione morale o politica?” - sulle forme della politica ai tempi della globalizzazione.
Il pacifismo – dice l’anziano dirigente della Cgil – è al centro dei movimenti di critica al capitalismo sin dai tempi della guerra del Vietnam, ma “i comunisti sono mai stati pacifisti?”. E distingue fra pacifismo come posizione morale e non violenza come pratica politica. Siamo agli inizi della trasformazione della “guerra asimmetrica” dei primi decenni della globalizzazione. La guerra diviene “premente” e investe in forme diverse tutta la società globalizzata (Flores, Gozzini 2024). Nella riflessione messa in scena da Ronconi si scorge il carattere dilagante e angosciante della questione della guerra, che sempre più impregnerà la storia e la vita civile dei decenni successivi. I tre si pongono il problema dell’efficacia di movimenti pacifisti, che assumono una dimensione prettamente etico-morale. In questi interrogativi si scorge la questione, sempre più urgente nell’epoca della globalizzazione, della necessità di nuove forme di internazionalismo.
Guerra e fine dell’ordine internazionale basato sul diritto, questione ecologica, crisi della rappresentanza democratica e della politica, nella messinscena delle pagine del Silenzio dei comunisti si rafforzano gli interrogativi che sorgono dalla crisi della globalizzazione neoliberale.
Da donne e uomini del Novecento, i tre protagonisti guardano alla ricostituzione di un’idea forza scomparsa con la crisi del comunismo. La quale, coniugando la libertà e una concezione del lavoro come realizzazione dell’individuo, sappia di nuovo porre al centro la politica come partecipazione e perseguimento di un’idea del mondo, un’idea che vada oltre la gestione dell’esistente. Solo in questo modo – dice Foa – sarà possibile scegliere “fra un mondo di possibilità e un mondo di fallimenti”.
Il movimento scenico, costellato da silenzi riflessivi cui si succedono irruente riflessioni tratte dal testo, restituisce l’obiettivo del regista di soffermarsi sul rapporto fra passato e presente ma anche sulla difficoltà, per chi cerca di leggere criticamente il passato, di indicare una direzione per il futuro. Ronconi esorta gli attori a fare attenzione a non scivolare in un tono “saccente” e allo stesso tempo a non caricare emotivamente, rischiando di scivolare nel “patetico”. Esorta a mantenere un atteggiamento di “ingenuità”: senza una identificazione piena degli attori con i personaggi. Pur coinvolti emotivamente, gli interpreti devono partire da una condizione di “ignoranza” (Giammarini 2007, 217). Atteggiamento, quello indicato da Ronconi, che può essere accostato al metodo storico. Ogni ricerca storica infatti, è il rapporto fra il passato e il presente dello storico. E lo storico deve porsi rispetto all’oggetto della sua ricerca con un atteggiamento dubitativo, di ingenua ignoranza (Marrou [1954] 2024).
Questa indicazione è ripresa nella testimonianza di Luigi Lo Cascio, il quale legge Il Silenzio dei comunisti e la sua rappresentazione come “l’inizio di una ricerca”. Il testo infatti, è interpretato da attori formatisi alla fine del “Secolo breve”. Per questo la messinscena di Ronconi pone un parziale elemento di discontinuità rispetto al libro e alla sua ricezione. Nella scelta dei brani che compongono la drammaturgia, in quella degli attori e nelle indicazioni a loro fornite dal regista, nella costruzione della scenografia, si riscontra un elemento che approfondisce un intento, quello di una nuova ricerca sul passato e sulle rappresentazioni del comunismo del Novecento, che si ritrova solo tratteggiato nel libro, più legato alle rappresentazioni degli anni Novanta. Quest’intento appare in sintonia con gli sviluppi della riflessione critica sul comunismo sviluppatesi nell’ultimo ventennio.
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English abstract
Il Silenzio dei comunisti is a theatrical production first staged by Luca Ronconi in November 2006, inspired by a small book of the same title, published four years earlier. The book is a reflection, in the form of an epistolary dialogue, between three important figures of the Italian left in the second half of the twentieth century: Vittorio Foa, Miriam Mafai, and Alfredo Reichlin. In this article, both the book and its theatrical adaptation will be analyzed through the reception of the left-wing generalist press. As part of the contextual reconstruction, Ronconi’s production will then be examined, aiming to explore the effects of the transition from the written word – its form and content, addressing socio-economic and historical themes – into theatrical form. Furthermore, Ronconi’s production takes place four years after the publication of the book. In this way, the contents of the text and its staging will be analyzed as “facts” – as historical sources and representations of an era and its changes.
keywords | Memory; Italian Communism; Luca Ronconi; Vittorio Foa; Alfredo Reichlin; Miriam Mafai.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Marco Di Maggio, Il Silenzio dei comunisti. Genesi e messa in scena di una riflessione sulla fine della sinistra, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.