"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

224 | maggio 2025

97888948401

A scuola di teatro con Luca Ronconi

a cura del Centro Teatrale Santacristina, in collaborazione con Associazione Culturale Ateatro ETS
Introduzione di Roberta Carlotto e Oliviero Ponte di Pino. Interviste di Oliviero Ponte di Pino 

English abstract

Luca Ronconi al Santacristina, fotografia di Luigi Laselva.

Nel corso della sua carriera, Luca Ronconi è stato maestro di decine di attrici ed attori, in primo luogo all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma (dove si è diplomato nel 1953), alla Scuola del Teatro Stabile di Torino (che ha fondato nel 1992) e alla Scuola del Piccolo Teatro (che dopo la sua morte ha preso il suo nome, rendendo omaggio alla sua vocazione pedagogica).

È stato poi emblematico l’impegno con il Centro Teatrale Santacristina, l’utopia teatrale che aveva fondato con Roberta Carlotto nel 2002 “con l’idea di dare un contributo al mondo teatrale attraverso attività di formazione e di studio permanente rivolto ai giovani”. Il Centro trova sede dal 2005 in un casale immerso nel verde delle colline dell’Umbria, a poche centinaia di metri dalla sua residenza, e ospita un centro di alta formazione e uno spazio di sperimentazione, dove il regista ha collaudato alcuni dei suoi progetti. La Scuola d’Estate, dopo un primo anno tra Gubbio e Perugia nel 2004, è stata ospitata a Santacristina dall’anno successivo fino al 2023, proseguendo l’attività anche dopo la morte di Ronconi, sempre con la direzione di Roberta Carlotto.

A dieci anni dalla scomparsa del regista, abbiamo pensato che fosse interessante raccogliere le testimonianze di alcune allieve e allievi che hanno avuto occasione di incontrare il regista all’inizio della carriera, sia nel corso della loro formazione sia in alcuni suoi spettacoli. Questi under 50 sono le ultime leve teatrali che hanno avuto occasione di lavorare con uno dei Maestri del teatro contemporaneo. Ci è sembrato utile osservare Ronconi da un punto di vista inedito, che non è quello dei critici e degli studiosi, e neppure quello degli interpreti delle generazioni precedenti, che sono cresciuti e hanno iniziato a lavorare in un contesto culturale molto diverso da quello attuale.

Centrale risulta la ricerca sui Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, condotta a Santacristina con gli allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e culminata nello spettacolo In cerca d’autore. Studio sui “Sei personaggi”. La collaborazione tra il Centro Teatrale Santacristina e la “Silvio D’Amico” è iniziata nel 2010 con il laboratorio “Quattro pezzi non facili” (scene da Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, Il Candelaio di Giordano Bruno, I dialoghi dei morti di Luciano e La teiera di Hans Christian Andersen) ed è proseguita nel 2011 (laboratorio “Condivisioni”, scene da Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini, Pilade di Pier Paolo Pasolini), nel 2012 (scene da Questa sera si recita a soggetto di Luigi Pirandello e La locandiera di Carlo Goldoni) e nel 2013 (testi di Hans Christian Andersen, John Ford, John Fante, Eugene O’Neill). Per questo motivo abbiamo ritenuto opportuno raccogliere anche la testimonianza di Lorenzo Salveti, artefice della collaborazione tra la “Silvio D’Amico” e Santacristina.

Le testimonianze sono state raccolte da Oliviero Ponte di Pino a Milano e Roma tra il dicembre 2024 e il febbraio 2025, in un progetto curato dall’Associazione Santacristina in collaborazione con Associazione Culturale Ateatro ETS. Ringraziamo Anna Antonelli e Marco Beltrame per il supporto organizzativo (e non solo), Laura Mariani per l’appassionata rilettura e la professoressa Marta Marchetti per aver accolto con entusiasmo e generosità la nostra proposta ed “Engramma” per l’ospitalità. Per cronologia e approfondimenti su Luca Ronconi e sulle sue attività, si rimanda al sito.

Prologo
Intervista di Oliviero Ponte di Pino a Lorenzo Salveti

Oliviero Ponte di Pino | Sei arrivato alla direzione dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma in un momento molto particolare.

Lorenzo Salveti | Nell’estate del 2006 c’era stata una specie di rivoluzione da parte sia degli studenti sia di molti docenti, scontenti della situazione. C’era stata un’occupazione da parte dei ragazzi. Tutta l’Italia si interessò ai destini di un’istituzione così importante per il teatro italiano, nonostante i problemi degli anni precedenti. Furono tempi interessanti, perché si rigenerarono molte energie.

L’Accademia venne in sostanza commissariata e mi chiamarono per finire l’anno per quanto riguardava la didattica. Poi dal 2007 ho svolto le funzioni di “Direttore facente funzione”, perché il precedente direttore, Luigi Maria Musati, contro il quale era stata fatta la contestazione, era stato comandato ad altro incarico dal Ministero. E quando nel 2012 Musati andò in pensione, venni nominato direttore a tutti gli effetti per il triennio 2012-2015.

C’erano grandissimi problemi, a cominciare da quelli finanziari e logistici, ma anche sulla linea didattica. La prima cosa che feci fu telefonare a Ronconi. Ci incontrammo a casa di un amico comune, Paolo Terni, che aveva fatto preparare una pasta al forno che sembrava ferro battuto. Sgranocchiando questo ferro battuto, chiesi a Luca di tornare all’Accademia. Disse che lo avrebbe fatto con entusiasmo.

In Accademia c’era già stato sia come allievo sia come insegnante, durante la direzione di Aldo Trionfo e anche prima. Poi non era più venuto, forse perché non gli piaceva la gestione. All’epoca stava a Milano e dirigeva anche la Scuola del Piccolo. Il primo anno venne per un seminario al Teatrino di Via Vittoria e andò tutto bene. Il secondo anno abbiamo affittato uno spazio più grande, una palestra. Luca arrivò con grande ritardo, trafelato, perché sulla linea ferroviaria c'era stato un incidente e tutti i passeggeri di quella carrozza, compreso lui, erano rimasti chiusi dentro e non potevano uscire…

Sempre nell’estate 2009 tutta l’Accademia, allievi e docenti, si era trasferita a Spoleto al Teatrino delle Sei, oggi intitolato a Ronconi, per realizzare un proprio programma in seno al Festival dei Due Mondi. Giorgio Ferrara, che allora lo dirigeva, mi aveva proposto di chiudere un accordo stabile tra l’Accademia e il festival. E così, anche con gli auspici della Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo, firmammo un’intesa che dura credo ancora oggi.

Luca stava facendo Un altro gabbiano da Anton Čechov. Ci vedemmo all’Hotel dei Duchi per stabilire quando sarebbe ritornato all’Accademia, a Roma, per l’anno successivo. Mi spiegò che non se la sentiva, che gli era difficile anche per problemi logistici afferenti alla sua salute: “Non me la sento di stare un mese a Roma. Sto tanto bene in Umbria a casa”. Allora gli proposi: “Scusa, ma allora tu vieni a Roma a vedere gli studenti e vediamo se possiamo organizzare un progetto con gli allievi a Santacristina”.

Alcuni studenti dell’Accademia ci erano già andati negli anni precedenti: “Mi hanno raccontato le cose bellissime che tu Luca e Roberta Carlotto avete fatto a Santacristina”. Così, grazie all’organizzazione pronta e veloce di Santacristina, abbiamo messo in piedi un’esperienza davvero importante per i ragazzi che hanno avuto la fortuna di farla.

OPDP | Come avete scelto i ragazzi da inviare a Santacristina?

LS | Non venivano selezionati, ci andava tutta la classe. Ci tenevo e Luca era d’accordo. Un altro aspetto a cui tenevamo entrambi era poter fare in futuro un progetto che mettesse insieme persone di età diverse, per esempio chi si era diplomato cinque o dieci anni prima, con allievi che ancora seguivano il corso. Sarebbe stata un’esperienza di grande rilievo, ma dal punto di vista economico, per un’istituzione come l’Accademia, sarebbe stato necessario un altro budget. Così il primo anno abbiamo mandato per tre settimane una classe una classe a Santacristina e l’abbiamo rimandata anche l’anno successivo, con un percorso specifico.

OPDP | Quanti erano gli allievi?

LS | Le classi erano di circa venticinque persone, più tre o quattro registi che andavano a Santacristina e collaboravano alla Scuola d’Estate. Luca definì il programma, dicendo che i ragazzi avrebbero lavorato su alcuni testi scelti da lui. Era precisissimo, ce li aveva mandati in anticipo.

OPDP | Dal punto di vista dell’Accademia, qual era l’obiettivo nel mandare i ragazzi a Santacristina?

LS | Volevo che facessero un’esperienza con Luca, che per me era assolutamente impagabile. Tutto il Consiglio d’Amministrazione fu d’accordo, anche se c’erano costi aggiuntivi, per due motivi. In primo luogo perché Ronconi faceva capire ai ragazzi che il teatro non è una sciatta verità, ma insegnava – con assoluta determinazione quotidiana, battendo la pietra come una goccia d’acqua – che il teatro è finzione, costruzione di un linguaggio, e non la ripetizione mimetica del linguaggio quotidiano. Aveva la dedizione per insegnarlo, per farlo capire ai ragazzi. Non imponeva un modello, ma faceva capire che la lingua che si parla sul palcoscenico va continuamente reinventata. Nelle lunghe sedute che faceva con i ragazzi, diceva: “Prova a dirla”, e il ragazzo provava a dirla in un modo. “Prova a dirla in un altro modo”, poi in un altro modo ancora, poi in un altro modo ancora, proprio per andare a scovare le mille cose che ci sono dentro una sola parola: le più patenti, le più banali, le più profonde, i non detti… Così i ragazzi potevano capire che si può fare tutto, tranne pensare di salire su un palcoscenico ed esibire sé stessi. Questa per me era la cosa più importante.

Poi c’era il lavoro che faceva sui personaggi. Non li affrontava mai in maniera banalmente psicologica. Per lui i personaggi erano un groviglio di mistero e di sfaccettature, in cui c’è tutto e il contrario di tutto. Sollecitava i ragazzi a un lavoro di scavo. È stato il percorso magistrale che ha fatto sui Sei personaggi. Non un approccio psicologistico, semplificato, ma un approccio al personaggio come grumo di complessità, forse anche misteriose, irrisolte. È un’analisi che si prospetta infinita, perché è l’analisi di un buco nero.

Nel Novecento, Luca è stato uno dei pochi maestri che ha comunicato ai suoi allievi, e a chi vedeva i suoi spettacoli, la sacralità di colui che recita, la sacralità dell’atto recitativo. Era come se i personaggi vivessero nello spazio del teatro e fossero lì da sempre. E ogni volta dovevano ripresentarsi e ritrovarsi, come se si riaffacciassero dal buio del passato, ritrovando le parole anche forzosamente, difficoltosamente, per poter parlare oggi, dopo anni, dopo decenni, dopo secoli. Questa distanza dava al personaggio e all’attore che lo interpretava l’energia per trovare dentro di sé la forza di risorgere, come se la parola scritta e morta dovesse forzare, compiere un lavoro dilacerante per tornare viva. Gli attori lo capivano, con Luca avevano un’energia straordinaria… Non avrei pensato che saremmo finiti nel modo opposto.

OPDP | Hai parlato della sacralità dell’attore che sale in scena. Ma la sacralità che evocava Ronconi non ha niente dell’aura di misticismo che spesso ammanta il lavoro dell’attore e in generale la pratica artistica.

LS | C’era la sacralità dell’atto del recitare, come se il personaggio non fosse di proprietà dell’attore. L’attore lo avvicina e dà una sua interpretazione, portandolo il più vicino possibile a sé. Parlo di sacralità come consustanzialità: il personaggio esiste e bisogna farlo, ma non si tratta di far vivere una piatta mediazione.

Non c’era la chiesastica sacralità che si è vista negli anni Sessanta e Settanta, quando si sentivano frasi come “Il mio spettacolo ti cambia la vita”, “Se vedi questa cosa poi risorgi, ti si apriranno nuovi orizzonti…” Le operazioni di Luca erano assolutamente razionali nella loro progettazione. E questo trasmetteva agli studenti il concetto di progetto, l’idea che uno spettacolo è fatto di tante componenti che devono interagire tra loro e che ci deve essere una ratio secondo la quale collaborano, un fil rouge.

OPDP | Volevo tornare a Santacristina.

LS | Il secondo anno abbiamo portato sia i ragazzi che erano già stati a Santacristina sia alcuni ragazzi nuovi, e il terzo anno abbiamo inserito altri ragazzi ancora. Hanno portato a compimento il progetto dei Sei personaggi, che ha debuttato a Santacristina in una prima versione, poi al Festival dei Due Mondi a Spoleto ed è stato ripreso a Milano.

OPDP | Quando avete iniziato, pensavi che da quegli incontri sarebbe nato uno spettacolo?

LS | No, neanche Luca. La “Silvio D’Amico” è un’accademia e anche Luca nella sua onestà intellettuale non aveva come obiettivo quello di realizzare uno spettacolo. Lo spettacolo si realizza solo se cammin facendo ci si rende conto che serve, anche nella continuità del percorso didattico, e si trova il modo di produrlo, ma non è aprioristicamente necessario farlo. Nel corso degli anni, diversi saggi dell’Accademia sono diventati spettacoli, però ogni volta che l’Accademia è partita fin dall’inizio con l’obiettivo di realizzare uno spettacolo, soprattutto da parte dell’insegnante, sono nati grossi problemi: lo spettacolo poteva essere bellissimo, ma il progetto risultava carente dal punto di vista didattico. Nella didattica si parte a rovescio, non dal desiderio di fare uno spettacolo, ma dal progetto formativo.

OPDP | L’attività didattica prevede un margine di sperimentazione e di ricerca che la costruzione di uno spettacolo difficilmente consente.

LS | C’è un equivoco che è diventato da anni mastodontico. Si crea spesso confusione tra un’istituzione che mira alla didattica e un centro di ricerca. Un’accademia, o una scuola di teatro, non è un centro di ricerca, un luogo dove fare sperimentazione, ma lo spazio per una serie di esperienze che attraverso una pedagogia portano a un apprendimento. Quando le due cose si ibridano, diventa pericoloso: i ragazzi vengono chiamati a partecipare alle sperimentazioni di un regista-insegnante o di un insegnante-attore. Sono stato per 46 anni in Accademia e conosco le scuole di teatro in Europa: di scivoloni come questi ne ho visti tanti. Un insegnante non viene a sperimentare, ma a testimoniare sé stesso e il modo per trasmettere certe cose dal punto di vista didattico. Magari finisce per sperimentare qualcosa anche dal punto di vista registico, ma dev’essere una ricaduta. Quando invece è programmata, in genere è un disastro.

OPDP | Santacristina metteva insieme attori di generazioni diverse. Questa impostazione riflette l’esigenza di una formazione di secondo o di terzo livello. Un’accademia dovrebbe servire a trasmettere ai ragazzi e alle ragazze una serie tecniche, esperienze, atteggiamenti, memorie, esperienze, forse un’etica, che dovrebbero essere utili nel mercato del lavoro. Una scuola di teatro seria dovrebbe formare attori professionisti che possano iniziare la carriera sul palcoscenico. Almeno in teoria, perché la fase dell’avviamento alla professione è molto complicata. Il lavoro di Santacristina come poteva sostenere questa fase della carriera di un attore?

LS | È il grosso problema del trasferimento dalla didattica alla professione. Ci siamo molto occupati delle strategie per accompagnare l’inserimento gli allievi nel mondo del lavoro. Ma occuparsene significa anche investire, per gli attori ma ancora di più per i registi, a livello sia nazionale sia internazionale. Come Accademia “Silvio D’Amico” in quegli anni abbiamo fondato E:UTSA, la rete delle scuole e delle accademie di teatro europee, che ha l’obiettivo di accompagnare gli allievi diplomati in questo momento di passaggio, anche dal punto di vista tecnico-organizzativo. È stato fatto spesso in Francia, dove hanno creato una sorta di quindicesimo teatro stabile, sovvenzionato dal Ministero del Lavoro, a cui inizialmente potevano accedere gli allievi usciti dal Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique (CNSAD) di Parigi. Poi sono sorti alcuni problemi, perché le altre scuole si sono ribellate alla centralità del Conservatoire. In sintesi è un teatro stabile che dà lavoro ad alcuni ragazzi e ragazze che si sono diplomati e che sono stati selezionati e restano in compagnia per un po’ di tempo, facendo i primi passi nel mondo del lavoro. Non serve una Compagnia dell’Accademia che fa circuitare alcuni lavori, magari firmati da uno dei Maestri. Un’esperienza come quella francese potremmo forse tentarla anche in Italia, ma servirebbe la collaborazione del Ministero della Cultura.

Esperienze come quelle di Santacristina sono importanti, altrimenti il giovane rischia di parcheggiarsi e restare allievo a vita, finché non diventa insegnante in qualche accademia o non apre la sua scuola, magari senza aver quasi mai messo piede su un palcoscenico. In questi percorsi di formazione permanente dovrebbero moltiplicarsi le occasioni di incontro intergenerazionale, da cui possono nascere nuove iniziative.

OPDP | Il Centro Teatrale Santacristina, per come lo vedeva Ronconi, avrebbe potuto essere un modello?

LS | Lo è stato. Aggiungerei che è stato l’unico e che sarebbe importante continuare, non solo in memoria di Luca, ma portando avanti questo progetto. Però ci vorrebbe un sistema teatrale in grado di sostenere un progetto di questo tipo.

OPDP | Quando sei arrivato in Accademia, hai chiamato diversi registi. Ciascuno di questi Maestri aveva una visione del teatro e un proprio metodo di lavoro. Come li hai scelti?

LS | Ho scelto di continuare nella tradizione di Silvio D’Amico, poi codificata da Ruggero Jacobbi: l’Accademia non deve portare avanti un solo metodo, non è un’accademia alla russa, dove si segue il metodo di un unico maestro, con un percorso predefinito. Gli allievi dell’Accademia devono sviluppare il loro senso critico incontrando persone che testimoniano poetiche e pratiche anche totalmente differenti.

OPDP | E gli allievi?

LS | Possono scegliere se seguire una linea, oppure cogliere elementi interessanti da linee diverse. Per farlo è necessario che i maestri siano onesti, che restino sé stessi, con franchezza. Che non siano docentucoli che accarezzano gli allievi per risultare interessanti e per tirarli dalla loro parte. Servono docenti che non facciano da mamme… Per cui ho cercato di scegliere persone che sapessero e volessero fare onestamente i didatti, i pedagoghi, a prescindere dal fatto che fossero registi più o meno grandi. Non è detto che un grande attore o un grande regista sia capace o abbia interesse a insegnare, sono due attitudini diverse. Quante volte ho chiesto a Glauco Mauri se voleva venire a far lezione in Accademia? Mi ha sempre risposto: “Non ne sono assolutamente capace”. Ho pensato che per i nostri allievi sarebbe stato interessante fare un’esperienza con Eimuntas Nekrosius e con il tipo di teatro che rappresentava. Non l’ho preso come insegnante fisso ma gli ho chiesto di fare un laboratorio. Ho distinto gli insegnamenti più strutturali, come il rapporto con Santacristina e con Luca, da queste esperienze laboratoriali. Comunque una volta o due all’anno, ho pensato che fosse necessario che gli allievi facessero uno spettacolo, non per lo spettacolo in sé o per far dire quanto è bravo il maestro che l’ha fatto, ma perché partecipare a uno spettacolo significa mettersi e togliersi il costume, fare la vita di camerino, imparare che quello che fai alla prima lo devi fare anche alla seconda. È necessario farlo il più spesso possibile, tanti giorni di seguito. Non si tratta di dare l’opportunità di fare chissà quale ruolo, ma perché impari a stare dentro una macchina e a conoscerla, in maniera che poi non resti stupito quando inizia a lavorare, perché il web funziona in un altro modo.

OPDP | Come sono cambiati i giovani allievi, attori e attrici, in questi decenni?

LS | Ormai arrivano già bombardati dall’aria che respirano. Qualche volta vanno a teatro. Dico “qualche volta”, perché anche se ci chiamiamo “Accademia d’Arte Drammatica” alle nostre selezioni si iscrive gente che dice: “Teatro? Ci sono stato una volta da bambino”. Sulle mille persone che si presentano ogni anno, ci saranno cento ragazzi che hanno messo piede in teatro, anche se all’università magari hanno studiato Storia del teatro, o hanno frequentato addirittura il DAMS, per quello che vale.

OPDP | Vent’anni fa erano forse pochi a voler fare accademie e scuole di teatro, ma erano più consapevoli di cosa fosse il teatro.

LS | Un anno, alla fine degli anni Settanta, per gli esami di ammissione, eravamo al teatrino di via Vittoria, seduti tutti dietro a un tavolo lunghissimo, il direttore Ruggero Jacobbi, Andrea Camilleri, Lydia Stix Agosti, insegnante di “canto”, e Angelo Corti e Marise Flach, maestri di “educazione del corpo”. Si presentarono 75 candidati. Noi tutti eravamo basiti, Jacobbi era disperato: “Troppi! Com’è mai possibile che in Italia ci siano così tante persone interessate veramente a fare teatro?”. Cinquant’anni dopo quelle 75 persone sono diventate mille: ma non sono le stesse, quelle venivano perché erano interessate al teatro, queste vengono perché sono genericamente interessate al mondo dell’apparire. In queste condizioni, quando fare l’attore significa essere sé stessi, saltano tutti i parametri.

OPDP | Il lavoro che faceva Ronconi poteva essere un antidoto o era fuori dal tempo?

LS | Un antidoto dev’essere totalmente fuori tempo, e dev’essere fuori tempo soprattutto se è applicato a un’arte fuori dal tempo, dove il tempo è sospeso, perché il teatro è tempo sospeso. Il teatro è l’unica cosa attuale, perché è attuale questa sera: il mio Amleto è attuale perché lo faccio stasera. Ieri non esisteva, domani non esiste più.

Ronconi under 50
Intervista a Fausto Cabra

Oliviero Ponte di Pino | Come ti sei avvicinato al teatro?

Fausto Cabra | È stato casuale. Mi mancavano tre esami in ingegneria aerospaziale. Una mia amica, un piccolo genio che si era laureata in filosofia, aveva il sogno di entrare al Piccolo Teatro. Io non ce la facevo più, avevo bisogno di uscire dal formalismo e dal nozionismo in cui mi aveva precipitato l’ingegneria aerospaziale. Le ho detto: “Vabbè, ti faccio da spalla e pago anch’io i 30-40 euro di iscrizione”. Quindi prepariamo un dialogo e facciamo due monologhi, uno per ciascuno. Ci ho provato per gioco. Il mio primo monologo l’ho fatto davanti a Ronconi, senza sapere chi fosse, alla Scuola del Piccolo Teatro. Ho fatto anche l’esame d’ammissione alla “Paolo Grassi” e mi hanno preso in tutte e due le scuole. Ho scelto il Piccolo Teatro essenzialmente perché era gratis.

OPDP | Quindi non sapevi chi fosse Ronconi, e non sapevi niente del teatro…

FC | Avevo visto alcune sue cose, L’Aminta al Teatro Sociale di Brescia, un Ibsen… E mi piaceva l’idea del teatro, avevo fatto piccoli corsi dove non si era mai arrivati alla parola. Era teatro di struscio, dove si fanno movimenti nello spazio, ci si tocca…

OPDP | Hai iniziato partendo da zero, a differenza dei tuoi compagni e compagne che magari qualcosa di teatro sapevano.

FC | E poi ho iniziato a venticinque anni…

OPDP | Come ti sei trovato con persone più giovani e forse più preparate e attrezzate di te?

FC | Sono stati gli anni più belli della mia vita. Il Corso Tofano[1] è stato il più seguito da Ronconi, quello in cui è stato più presente, anche tre-quattro volte a settimana per otto ore, per quasi tutto l’anno. Non sono mai entrato in conflitto con nessuno degli insegnanti, D’Amato e Ronconi non mi hanno mai messo sotto pressione, anche perché io sono un po’ autotorturante. Nessuno mi metteva sotto pressione, perché già me ne occupavo io. Fin dall’inizio sono stato preso come punto di riferimento, forse perché avevo una mente più razionale e scientifica, che andava molto d’accordo con quella di Ronconi. Ormai avevo più di diciotto anni e quindi ero un po’ più strutturato per ricevere quelle ondate di conoscenza che ci spettinavano.

OPDP | Che impressione ti ha fatto Ronconi quando avete iniziato il corso?

FC | Nella prima immagine che ho di lui, era accanto a un’anziana signora: poi ho scoperto che era Franca Nuti. Ci ha fatto leggere dei pezzettini degli Ultimi giorni dell’umanità. Fu folgorante. L’incontro di Ronconi mi ha ribaltato il cervello come un calzino, perché mi ha fatto accedere al gusto della complessità, mi ha eccitato al piacere di scavare nella lingua, dentro le parole. Mi ha aperto una chiave di lettura sulla parola, ma anche sui rapporti spaziali. Non era legata solo al teatro, ma alla lettura del mondo, a cosa sta sotto il testo, a cosa muove le dinamiche tra le persone.

OPDP | Questo accadeva già nelle prove a tavolino?

FC | Il tavolino era l’apice, come è sempre stato: era il luogo delle continue epifanie. Nessuno come lui era capace di entrare nel testo, nella sua struttura e nei suoi significati reconditi. Era un virtuoso dell’imprevisto, ma non era un imprevisto fine a sé stesso, perché quello che non avevi mai pensato era infinitamente più giusto, più complesso ma anche più funzionale al disegno totale. Erano continue fioriture. Andare in scena era un parto senza discontinuità, perché c’era già tutto. Quando ci si metteva in piedi, c’erano naturalmente altre dinamiche, ma nei ricordi più vividi sono seduto a tavolino davanti a una pagina e lui che ti faceva vedere che cosa c’era tra una parola e l’altra e i piccoli mondi che continuamente le congiungevano. A volte gli spettacoli potevano fallire, il progetto poteva non compiersi e lo spettacolo non riusciva a toccare l’altezza del progetto. A volte le fioriture erano complete, come nel Professor Bernhardi, nel Pasticciaccio o in Infinities. Però anche nel fallimento di una messinscena di Ronconi, l’idea base che aveva generato l’ipotesi che poi magari non si era compiuta era sempre illuminante: non ho mai visto uno spettacolo di Luca che non fosse animato da un’idea fiorente. Era impressionante.

OPDP | Ma che rapporto c’era tra questa fioritura, con il suo movimento centrifugo, e l’idea centrale che ispirava la lettura del testo?

FC | Non era un’idea. Era una visione unitaria, come se inquadrasse ogni testo da una prospettiva che lo faceva fiorire in tutta la sua complessità, in un esito imprevisto. Un’idea è legata alla trovata, mentre il suo era uno sguardo architettonico, e inquadrava questa architettura da una certa prospettiva per svelare alcune cose e di colpo come a catena iniziava a fiorire una serie di significati che erano coerenti con il complesso del testo. Questa visione da architetto è uno dei suoi regali: basarsi sulla struttura prima che sui dettagli, e poi far entrare la luce nella struttura che hai individuato e che vuoi illuminare. Partiva sempre dal macrodisegno, che magari ti svelava alla fine o magari non ti svelava neanche. Però intuivi che gli interessava una visione totale e poi andava a definire i singoli elementi. Non l’ho quasi mai visto partire da un dettaglio e andare a tentoni. Aveva l’idea e il particolare era funzionale al disegno. Uso spesso questo metodo anche quando lavoro con altri registi, che magari non hanno questa visione globale del testo: immagino la struttura generale e per quello che mi compete vado a cercare di illuminare i dettagli. Cerco di capire il disegno che ha in mente il regista e la struttura del testo, e mi chiedo quali scelte posso fare per aiutare questi due disegni a sovrapporsi. Quindi faccio delle macroproposte sull’intero arco dello spettacolo e poi cerco di capire quale arcata deve sostenere la singola scena, e quali scelte possono far fiorire il progetto.

OPDP | Mentre frequentavi la scuola del Piccolo hai partecipato a Infinities.

FC | Siamo stati catapultati in Infinities per la ripresa dello spettacolo, che era stato montato con l’ultimo anno della classe di Raffaele Esposito, quindi non abbiamo vissuto il processo, siamo entrati in questa meraviglia a posteriori. Eravamo al primo anno. Le ragazze sono state buttate a fare le Oceanine nel Prometeo incatenato e noi maschi siamo stati buttati in Infinities. Io ero nella scena degli infiniti matematici, al tavolo a fare dimostrazioni alla lavagna. Non avevo mai pensato che il teatro fosse quella roba. Il primo contatto con la scena l’avevo avuto nel rapporto prossemico con la divisione scena-platea, che pensavo dovesse avere il teatro. E neanche avevo visto tutte le stanze di Infinities, perché sono finito subito nella mia.

OPDP | Le altre stanze non le hai mai viste?

FC | Le ho attraversate e le ho viste in video, ma non le ho mai vissute da spettatore.

OPDP | Com’era essere in quella macchina?

FC | Per noi erano sette-otto ore di performance. Le singole scene duravano circa venti minuti ciascuna e ogni mezz’ora partiva un nuovo ciclo. Pensare a uno spettacolo non lineare con il pubblico che entra come in una giostra era già illuminante. Noi eravamo nella stanza con le persone appese al contrario: quindi c’era la libertà di usare lo spazio in una maniera completamente inedita. E siamo stati messi a parte di alcuni segreti. Per esempio, pochissimi sanno che in Infinities c’era un finale: se uno spettatore faceva il ciclo completo per tre volte, la macchina si bloccava e tutti entravano nella prima stanza, quella dell’Albergo Infinito. Quindi lo spettacolo non era infinito, ma quel finale l’abbiamo fatto una volta sola.

OPDP | Hai una formazione scientifica. Che cosa ha significato per te Infinities?

FC | Mi ha dato la consapevolezza che tutto può essere narrazione. Puoi far appassionare un bambino alla matematica raccontandogliela in un certo modo, magari inventando conflitti e scambi che non ci sono: se non c'è conflitto, prendi una frase e la puoi dividere in due e farla dire a due personaggi che hanno opinioni diverse e così creano uno scambio conflittuale, quindi trasformi una frase che non lo prevedeva in un accadimento. La possibilità di far nascere potenzialmente accadimenti su qualunque cosa è un’altra consapevolezza preziosa, un altro grande regalo che Ronconi ha fatto a tutti noi teatranti: il teatro può essere ovunque e può essere fatto con qualunque cosa.

OPDP | Spesso quando si fa divulgazione si tende a semplificare e banalizzare. È accaduto anche con Infinities?

FC | I concetti di infinito erano talmente diversi tra loro che la complessità non era nel singolo quadro, ma veniva generata dall’attrito tra le cinque stanze: ti spiego che cos’è l’infinito matematico, te lo racconto, te lo faccio immaginare, dopo c’è l’eterno ritorno, ovvero l’infinito circolare, poi c’è l’infinito come vita eterna, e ancora c’è l’infinito sapere… La complessità non fiorisce nello spettacolo, ma nella testa dello spettatore che inizia a cercare nessi, rapporti, confronti… La complessità non la deve portare lo spettacolo, è lo spettacolo che deve creare nello spettatore le scintille generative che lo portino altrove. Infinities non era uno spettacolo divulgativo, ma si poneva mille quesiti che non scioglieva.

OPDP | A quel punto, finita la scuola, inizia a lavorare con vari registi e compagnie, molto diversi da Ronconi.

FC | Il primo conflitto che ho avuto con Luca è legato a due situazioni. Appena uscito dalla scuola, mi sono detto che volevo andare all’opposto di Ronconi e quindi mi sono iscritto all’École des Maîtres con Carlo Cecchi, che poi mi ha chiesto di entrare in compagnia con lui per tre anni. Faceva il Tartufo e voleva che facessi l’innamorato, l’ho chiesto a Ronconi che mi ha detto: “No, ti voglio a Torino, per la compagnia permanente di Le Moli”, perché era finito il Progetto Domani per le Olimpiadi. Così sono andato a Torino.

OPDP | Quindi non ti ha lasciato andare da Cecchi…

FC | Aveva quest’altro progetto, che poi è sfiorito vari problemi. Ma è stato il primo attrito. L’estate successiva faceva la Calandria e mi aveva affidato il ruolo di uno dei protagonisti. Però quell’estate avevo incontrato Ricci/Forte, che all’epoca non avevano ancora fatto niente, avevano provinato chiunque e mi avevano scelto come protagonista per Troia’s Discount[2]. Per me la loro era una lingua potente e io avevo bisogno di affrontare anche la mia omosessualità: quel progetto me lo concedeva ho deciso di dire no, che non avrei fatto la Calandria. Tra l’altro non avrebbe neanche dovuto essere una sua regia, anche se poi l’ha firmata lui. Per quattro anni in pratica non ci siamo sentiti.

Poi un giorno mi ha chiamato a casa di mia mamma, a Ghedi, e mi ha chiesto di partecipare a un progetto, Tale padre, dove cinque delle personalità più importanti della cultura italiana venivano intervistate da Lella Costa insieme ai rappresentanti dei loro figli[3]. Era una conversazione tra un padre, sua figlia e suo figlio: “Vorrei che tu fossi il rappresentante dei figli”. Mi sono commosso: “Ti ho rifiutato, me ne sono andato altrove e dopo tre anni mi hai riconosciuto l’autonomia di quella scelta…” Infatti ha voluto portare Troia’s Discount al Piccolo Teatro, anche se eravamo già stati a Milano tre volte.

OPDP | E che diceva dello spettacolo di Ricci/Forte?

FC | Gli è piaciuto l’impianto linguistico, perché ogni personaggio parlava una lingua diversa. Poi Ricci/Forte sono andati in un’altra direzione, non hanno seguito la potenza autoriale degli inizi.

OPDP | Com’è essere figli putativi di Luca Ronconi?

FC | È una responsabilità, però potevi anche avere accesso alle sue opinioni. Se avevo un dubbio o volevo un consiglio, potevo andare al Piccolo, sedermi sul divano del suo ufficio e chiedergli un consiglio su un testo o su un personaggio, o su una scelta professionale. È un grande privilegio che mi manca moltissimo.

OPDP | E tu lo facevi?

FC | Per esempio quando non sapevo come affrontare un personaggio. Stavo provando l’ennesimo Sogno di una notte di mezza estate, non riuscivo a fare Oberon e sono andato a chiedergli come potevo affrontare il personaggio. E lui mi ha spiegato che non si può affrontare Oberon se non si affronta Teseo, perché Oberon esiste solo nel rapporto di deformazione di Teseo: “Se non è chiaro che cosa viene deformato, il personaggio non esiste: Oberon non è un personaggio a sé stante. Dunque se lo affronti come un personaggio, non lo trovi, non lo acchiappi, perché non riesci a capire come interagisce con il mondo esterno. Se invece lo affronti come deformazione, e capisci perché ha bisogno di quella deformazione, allora hai delle chiavi d’accesso”.

OPDP | E questo era uno spettacolo che facevi un altro regista… Ti ha dato anche dei consigli sulla tua carriera d’attore?

FC | Era molto preoccupato dai gruppi. Quando volevo fare scelte che mi portavano a non pensarmi come singolo, come attore in un mercato, ma come attore appartenente a un gruppo, lui ostacolava la mia scelta, si irrigidiva subito. Ma durante le prove di Lehman, in uno degli ultimi dialoghi che abbiamo avuto sul divanetto, mi ha detto: “Finora avevo sempre pensato che l’attore si salva da solo, anche nei singoli spettacoli, e che deve pensarsi solo”. Ma vedendo come sono cambiati i tempi e come è cambiato il teatro, ha concluso: “Adesso, d’ora in poi ci si salva solo insieme”. Me lo ha detto per giustificare una scelta dello spettacolo: “Io ho voluto che i morti non morissero, che Massimo De Francovich e Massimo Popolizio restassero accanto a te nel finale, anche se la loro parte era finita, perché i loro personaggi sono morti. Perché d’ora in poi gli attori non devono più pensarsi al singolare, ci si salva solo insieme”. Penso avesse intuito la deriva che sta investendo la società.

OPDP | Questa intuizione, secondo te, è venuta anche a partire dal lavoro che avete fatto insieme su Lehman Trilogy, con attori che avevano una formazione e storie professionali totalmente diverse? La necessità del gruppo è frutto dell’esperienza delle prove di Lehman?

FC | Quando mi ha proposto di fare l’ultimo dei cinque Lehman, mi ha detto: “Guarda, sei sbagliato, non sei giusto per la parte. Te la do perché mi servono dei virtuosi della parola, persone che non si perdono nel gioco virtuosistico, ma riescono a provarci a piacere”.

Lehman Trilogy è stato il suo testamento teatrale. Nella parte ambientata nell’Ottocento, voleva che l’interprete e il personaggio si tenessero per mano, ma l’uno non doveva mangiare l’altro: dovevano giocare insieme, in modo che il gioco dell’attore nutrisse il personaggio e viceversa, in maniera armonica. Poi nel Novecento – e soprattutto con il mio personaggio – arriva il virus dell’immedesimazione dell’attore con il personaggio, che inizia a complicare tutto. Prima era chiaro che si trattasse di un gioco: era evidente che si giocava con il personaggio, non si era il personaggio. Portare la verità sul palco è un’illusione. Questa è sempre stata la sua cifra: non esiste la verità, ma questa cosa che si gioca o si ricostruisce, ma è una ricostruzione. Ronconi ha sempre avuto uno sguardo molto cinico sul teatro, il suo non è mai stato un teatro di vita, era un teatro di prospettive.

Il testo di Stefano Massini ha una chiave musicale jazz, e dunque gli servivano dei virtuosi che fanno jazz con le parole. È quello che succede andando avanti con lo spettacolo. Una delle sue indicazioni mi ha fatto male: “Guarda, farai bene se nell’ultima mezz’ora di spettacolo la gente rimpiangerà il primo tempo. Perché non possiamo tornare nell’Ottocento, ritrovare la calma, la lucidità, che avevano nell’Ottocento? Dobbiamo rimpiangere i tempi che furono, perché qualcosa li ha corrotti. Nello spettacolo a un certo punto il pubblico deve iniziare a non capirci più niente, mentre prima era tutto nitido. I rapporti devono essere illeggibili, il tono dev’essere nervoso, nevrotico, perché sta andando tutto in questa direzione e la realtà diventa illeggibile”. E mi ha dato un’immagine: “Lo spettacolo dev’essere come una vasca che si svuota. All’inizio è piena e non ti accorgi che il livello sta scendendo. Ma all’ultimo momento c’è questo vortice e tutto va a precipitare”.

Lo spettacolo l’ha costruito così: nella seconda parte iniziano gli effetti di luce, che non c’erano nella prima. Entrano i microfoni e le deformazioni microfoniche, che non c’erano nella prima parte. Iniziano un teatro, e una teatralità, di altro genere. Inizia l’identificazione – o la pretesa dell’interprete di identificarsi anche psicologicamente con il personaggio, che dal suo punto di vista era una follia. Quindi anche il mio modo di recitare nel finale era totalmente diverso da quello del primo tempo.

L’ultima scena non l’ha voluta provare. Non era mai successo che Ronconi non provasse la scena finale di un suo spettacolo: la morte dell’ultimo Lehman non l’ha voluta provare, ha detto quello che voleva – mi ha chiesto di far tremare la mano che tremava a lui, la destra – e l’ha fatta provare agli assistenti. Neanche in lettura l’aveva mai provata, si era sempre fermato prima. Poi, mentre sulla scena moriva l’ultimo Lehman, Ronconi è morto in ospedale. La telefonata che fa De Francovich nello spettacolo è paradossale, quando prende il telefono e dice: “È morta”. È stata un’esperienza forte. Dopo Lehman avremmo dovuto fare l’Arlecchino.

OPDP | Quel malinconico Arlecchino è una figura straordinaria.

FC | Un giorno mi invitò a pranzo, io e lui da soli. Prese il copione: “Vorrei proporti fare l’Arlecchino delle Donne gelose, fa parte di una mia trilogia di saluto”[4]. Aveva già in mente altri due spettacoli. “Le donne gelose l’ho scelto perché è l’addio di Arlecchino. È un Arlecchino a cui non danno più niente da fare, che non trova più un suo compito dentro la trama”. Mi ha molto commosso il fatto che dopo Lehman mi volesse dare questo Arlecchino molto dolce, che in un certo senso salutava le scene. A quel punto ha ribaltato il copione e si è messo a disegnare la scenografia che aveva in mente per il Teatro Studio: voleva alzare un muretto tra il pubblico e la scena e inondare tutto lo spazio in modo che spuntassero solo una marea di tetti tra le acque. Tutti i personaggi cercavano di non toccare mai l’acqua, tranne Arlecchino che era l’unico che stava sui tetti e riusciva a camminare dentro l’acqua, che mi doveva arrivare fino al ginocchio. Dopo la sua morte il testimone è passato a Giorgio Sangati e abbiamo cercato di andare nella direzione che aveva indicato: un saluto alle scene. Abbiamo creato un Arlecchino in bianco e nero, come scottato dal sole, ma sul volto, intorno agli occhi, era tutto più chiaro e si vedeva il segno della maschera che si era tolto. Fino ad allora non se l’era mai tolta, ma in quel momento iniziava la rivoluzione di Goldoni, che ha abbandonato le maschere per scrivere le sue commedie.

OPDP | Nel frattempo eri andato a cercarti consapevolmente altri maestri, una scelta che non hanno fatto molti altri i colleghi.

FC | Carlo Cecchi l’ho scelto perché volevo l’opposto: “Se Ronconi lavora partendo dalla forma per arrivare alla profondità e poi a dare un’unità a questa forma, Carlo – da quello che avevo capito e che vedevo in scena – lavora all’opposto. Parte dall’accadimento, dall’attore nudo in scena in rapporto con l’altro, per poi andare a costruire un personaggio, una forma”. Ho provato a vedere cosa succede a mettersi alla prova su un terreno totalmente diverso.

Carlo arrivava a slacciarsi le scarpe sperando di inciampare in scena. Per il Sogno di una notte di mezza estate[5] aveva riempito tutto il pavimento con fogli di carta liscia, in modo che correndo sul palcoscenico non potessimo stare in piedi e quindi continuavamo a cadere in maniere impreviste. L’obiettivo era perdere il controllo. Dovevamo fare una replica in Francia e tre giorni prima Carlo mi ha detto: “Voglio che tu faccia Lisandro in francese”. Io non so il francese e Cecchi mi ha costretto a ristudiare in tre giorni tutta la parte in una lingua che non conoscevo: il massimo della perdita del controllo.

Poi ho incontrato Ricci/Forte quando non li conosceva nessuno: leggendo il testo, il rapporto con la lingua mi aveva travolto. Eravamo partiti con un’impostazione ronconiana, anche nell’uso della parola, anche perché Stefano Ricci e Anna Gualdo avevano lavorato con Ronconi alla “Silvio D’Amico”. Siamo partiti a impostarlo con la lettura a tavolino, poi hanno incontrato Rodrigo García e quell’intervista ha ribaltato la prospettiva su Troia’s Discount: il modo di recitarlo è cambiato e sono andati sempre di più sul performativo, lavorando sull’improvvisazione degli attori a scapito della drammaturgia.

Poi ho conosciuto Declan Donnellan, che quell’anno era uno dei Maestri della Biennale College. Abbiamo fatto due Biennali insieme e poi mi ha detto: “Vorrei fare il mio primo spettacolo in Italia e vorrei che tu fossi il mio protagonista”. Donnellan non sceglie un testo, ma un attore e in base a quello che gli ispira sceglie il testo da portare in scena. Siccome vedeva in me un rapporto conflittuale con la madre, ha scelto La tragedia del vendicatore[6]. Donnellan lavora su quello che per Ronconi era un inganno. Per Ronconi la vita in scena non è possibile, è possibile solo un teatro cinico: è possibile l’illusione, però sappiamo che è un’illusione. Declan Donnellan parte dall’assunto opposto: devi creare le condizioni, devi lavorare ossessivamente perché la vita possa accadere. Poi magari non accade, ma la tua ossessione è porre nello spazio e nel rapporto con l’altro tutti gli ingredienti che ti permettano di cascare dentro la vita, in alcuni momenti, e poi cercare di darle più spazio possibile. È un assunto antitetico a quello di Ronconi, forse ancora più di quello di Cecchi, perché è teorizzato esattamente come teorizzava Ronconi: ma viene teorizzato l’opposto, in modo molto lucido e consapevole. Declan non ti dice mai come dire la battuta: ti racconta storie e aneddoti, continua a nutrire l’immaginario intorno alla scena: “Una volta ho visto una partita di basket, è successo questo e quest’altro”. Poi basta, la lascia lì. Non ti dice mai cosa fare e hai sempre l’illusione di poter fare tutto.

Per Donnellan quello di Ronconi era un teatro morto, o meglio un teatro della morte, consapevole della propria morte, anche se ricchissimo, elaborato. Ronconi era affascinato dal teatro che viene da Peter Brook, però diceva: “Io non lo so fare, è una cosa che non mi appartiene”, perché aveva pudore a entrare nell’intimità degli altri…

OPDP | …nell’intimità degli attori. Ma Ronconi era geloso anche della propria, peraltro. Il suo era un teatro della morte anche perché la morte è un elemento tematico fortissimo nel suo teatro, quasi ossessivo.

FC | Ne era assolutamente consapevole e questa forse è la ragione che l’ha portato a non lavorare con il cinema o su altre arti: il fatto che il teatro continuasse a morire ogni sera. Dopo il debutto, per lui lo spettacolo non esisteva più, era già al lavoro su quello successivo. Quando sono entrato alla Scuola del Piccolo Teatro, una delle prime immagini che ci ha fatto vedere per farci capire come intendeva la battuta, era la corsa del cavallo filmata da Eadweard Muybridge. Ci faceva vedere i singoli fotogrammi e mostrava che l’illusione della vita e del movimento era nella velocità con cui si passava da un fotogramma all’altro. Però erano fotogrammi. E quindi c’è questa immagine, e poi questa, e questa, e questa, sono tutte immagini separate, ma l’illusione della vita la dà la costruzione. Era un architetto: c’è la trave, c’è il bullone, c’è quest’altra cosa e allora puoi costruire un piano su cui stare. Era cinicamente consapevole di com’è il mondo, che è una continua morte. Anche quello di Donnellan è un teatro della perdita, anche lui continua a dire che l’uomo ha un bug in testa e non ha la capacità di rielaborare la perdita. Ma in Declan Donnellan questo era un motore filosofico: il suo era un continuo tentativo di cercare di vincerla, perché non concepisce la morte.

Per Ronconi la partita è già persa e allora è possibile giocare solo con quello che si ha, ovvero con la struttura. Se una battuta o un personaggio non era vivo, se non era fatto bene, gli bastava la struttura. O meglio, da alcuni attori si faceva bastare la struttura, perché era funzionale all’architettura. Magari un attore non lo faceva bene, era macchinoso, però gli dava la struttura funzionale al suo progetto. Anche se poi questo ha portato alla deriva dei ronconismi. Ma quando lo faceva lui, era tutto iperorganico. Una delle grandi epifanie nel lavoro con Ronconi l’ho avuta durante una delle prove di Peccato fosse puttana. Ha fatto vedere una battuta a Pia Lanciotti e mentre la faceva si è messo a piangere, gli cadeva il muco, proprio mentre stava facendo tutto quello che aveva spiegato dal punto di vista della costruzione della battuta. In quell’occasione, anche parlandone con Raffaele Esposito, che era un po’ più avanti di me nella comprensione del suo linguaggio, ho capito che quando Ronconi ti dava un’indicazione spesso era meglio non ascoltarla ma guardare cosa stava facendo con il corpo, come metteva il respiro, dove stava appoggiando: questo ti aiutava a organizzare tutta la parte mentale che ci stava sopra, le dava un centro. Quando il teatro era fatto così era vivo, o almeno dava quell’illusione. Il teatro di Ronconi fatto bene non era diverso da quello di Cecchi fatto bene. E quando erano fatti bene la mia sensazione è sempre stata che alla fine si connettessero.

OPDP | Dunque partiamo dal corpo, come diceva Raffaele Esposito, dal respiro… Poi c’è il lavoro analitico. Ma nell’esempio che hai fatto vediamo esplodere l’emotività.

FC | Non è che non la volesse, ma non lavorava su quello. E se un attore era bravo, digeriva tutto… Con Ronconi lavoravi bene se ti prendevi la responsabilità di organizzare quello che ti diceva: lui ti diceva tutto, dall’appoggio della sillaba al macrodisegno, eccetera… Ma se cercavi di lavorare contemporaneamente su tutto, ti ingolfavi, non ne uscivi. Io ho svoltato quando ho capito che la mia responsabilità era capire da dove partire, scegliere cosa era prioritario e cosa non lo era: “Iniziamo da questo, il resto non lo faccio ma questa, questa e questa indicazione sono fondamentali. Su questa base costruisco il resto”. Nel momento in cui c’era una presa di responsabilità nel confronto, ti dava tutto il materiale che gli veniva sul momento, ma non organizzato dal punto di vista delle priorità. Quella scelta era una tua responsabilità. Poi se iniziavi a mettere a posto le fondamenta, i problemi di sillabe, accentazioni, ritmiche, andavano a posto.

OPDP | Prendevi appunti durante le prove?

FC | All’inizio riempivo ogni spazio sul copione. Via via molto meno, in Lehman quasi niente. Di sicuro non ho mai registrato, l’ho sempre trovata una scorciatoia orribile. Anche perché te lo diceva lui: “Io ti faccio capire il ‘cosa’, che è uno, ma i ‘come’ sono infiniti. Io ti faccio vedere un ‘come’, ma tu devi capire il ‘cosa’. Intanto puoi partire dall’imitazione, imita il mio ‘come’, ma è un ‘intanto’. Poi, quando sarai bravo, ci saranno dieci modi per fare quel ‘’cosa’”. Paradossalmente, ti continuava a chiedere un atto di improvvisazione. Quando ti dava una battuta, non te la dava mai nello stesso modo. Aveva chiaro l’obiettivo che voleva raggiungere: lo prendeva da destra, lo prendeva da sinistra e poi lo prendeva da sopra. Subliminalmente.

OPDP | Che ricordi hai di Santacristina?

FC | Era il luogo degli esperimenti. Abbiamo passato un mese e mezzo su Il cuore infranto, dove Ronconi lavorava con dei professionisti e ha iniziato a dirigermi in modo diverso: non mi faceva la regia, mi diceva l’effetto che voleva, ma la messinscena la lasciava a me, sceglievo io che cosa fare.

OPDP | Quindi non ti dava le intonazioni, i ritmi?

FC | A Santacristina mi ha dato molta libertà, anche per allestire lo spazio: qui ci metto il divano, qui faccio questa azione, e poi lui mi dava dei rimandi sull’allestimento sulla scena che avevamo letto insieme. Quella palestra mi è stata molto utile, anche perché una settimana dopo la fine di Santacristina mi ha chiesto di entrare in Lehman. Era come se mi avesse fatto fare l’assistente alla regia. Ad altri dava meno libertà. A me diceva: “Questi sono gli obiettivi, non ti dico cosa fare e vediamo cosa succede”. Per me era una novità, perché di solito Ronconi in produzione ti diceva che cosa dovevi fare, l’aveva stabilito lui o te lo inventava al momento e tu lo eseguivi al meglio. A Santacristina c’è stato uno step più autoriale, mi sono sentito autore delle scelte che facevo e ho iniziato a non sentirmi in imbarazzo o sotto pressione quando mi guardava lui. Mi è stato molto utile: “Ah, ok, le scelte che faccio gli funzionano e mi dice quella cosa è giusta e quest’altra cosa va bene, ma attento là che se la prendi così non riesci ad arrivare bene a quel punto”, e glielo rifacevo cambiando alcune cose. Però su come allestire quella scena, non solamente come battute, ma proprio sulla messinscena, mi lasciava libero. È stato un regalo molto importante, una cosa bella che mi ricordo molto bene, uno degli step nel mio rapporto con lui.

OPDP | Quando sei andato a lavorare al cinema, quello che hai fatto con Luca ti è servito o no?

FC | Sicuramente serve. Intanto ti fa capire che il linguaggio è sempre una costruzione. A questa consapevolezza non rinuncio neanche al cinema. La frase non è mai qualcosa di unitario. Il linguaggio è sempre una costruzione. Il cervello la costruisce. Il cervello funziona come il montaggio cinematografico. Al cinema puoi proporre una battuta liscia, morbida, con una posta in gioco bassa, e funziona. Ma il cervello non funziona così. Funziona come te lo racconta Luca: la frase si crea… Se poi la irrigidisci, ecco il ronconismo. Ma quei salti riflettono in modo in cui funziona il cervello. A questa cosa al cinema non voglio rinunciare, cerco semplicemente di ammorbidirla, di non calcarla, di renderla sciolta. Però non voglio cedere alla ricetta facile della verosimiglianza, che diventa uno degli ennesimi codici formali. Sussurri un po’, abbassi la posta in gioco, come direbbe Declan Donnelan, in modo che risulti tutto più credibile. Funziona e te la porti a casa. Ma non è la via che mi interessa, neanche al cinema

OPDP | Secondo te questa differenza d’approccio passa dallo schermo?

FC | Gli attori bravi in una singola frase prendono ottocento decisioni. Anche al cinema, non affrontano mai una frase come un blocco unico. Probabilmente in molti casi è istinto, ma perché la vita funziona così: il linguaggio continua a montarsi, a costruirsi mentre vivi, per quello che vedi, per un’intuizione… Nel testo quelle intuizioni sono state unite, però il cervello non ha mai funzionato così: fino a che non lo dico, non so quel che dirò subito dopo. Questa consapevolezza razionale mi viene da Ronconi. E se qualcuno lo fa senza razionalizzarla, d’istinto, ben venga. Senza sapere perché, sta lavorando nel mondo in cui funziona il cervello quando crea una frase nel qui e ora.

OPDP | Hai parlato di Luca Ronconi, di Carlo Cecchi e di Declan Donnellan. Forse ancora più lontano da loro è Gigi Proietti.

FC | Ci sono arrivato anche lì in modo strano. Loredana Scaramella, l’assistente che seguiva il casting, mi aveva chiesto di mandarle un self-tape su Mercuzio. Le avevo detto di no, che non era roba per me, che non sono giusto, che non sono uno che fa ridere, e non l’ho fatto. Però non riuscivano a trovare un Mercuzio che convincesse Proietti. Il giorno prima di iniziare le prove Scaramella mi richiama disperata, alle nove e mezza di sera: “Senti, entro mezzanotte mi devi fare il monologo della regina Maab”. Non sapendo la memoria, studiavo tre righe e le dicevo. Le ho mandato il montaggio. La mattina dopo mi chiamano: “Entro le due riesci a essere a Roma?”. Il giorno dopo ho iniziato le prove e ho incontrato Proietti, un istrione con un istinto pazzesco. Quel Romeo e Giulietta è stata la sua ultima regia, ho preso l’ultimo treno disponibile. Mi ha dato il ruolo che probabilmente era più adatto a lui[7].

Mi ha fatto un regalo pazzesco: è stato un tripudio di pubblico, venivo venerato. C’è una cosa che non mi ero portato a casa da Ronconi: voler bene al pubblico, fare spettacoli che potessero avere un’adesione popolare. Quegli anni al Globe Theatre di Roma per me sono stati molto preziosi, con un teatro da 1200 persone esaltate ogni sera, che stavano comunque a sentirsi Shakespeare per tre ore e mezza.

Fai il tuo lavoro con tutta la cura necessaria, ma c’è un livello di intrattenimento, di narrazione, che non è detto che svilisca la qualità. Ma deve essere comprensibile. Quando Proietti improvvisava per darmi delle cose di Mercuzio, gli andavo dietro. Mi sono trovato bene, Gigi era contento, è stato bello lavorare con lui. Comunque lo spettacolo dava una lettura raffinata del testo di Shakespeare. Proietti aveva capito che Romeo e Giulietta era il tradimento di un progetto: parte come una commedia, vuole essere una commedia, e poi, come nella vita, succede un incidente e Mercuzio muore. Questo cambia il copione. È un’intuizione forte, come se fossero due spettacoli collegati da un errore drammaturgico.

OPDP | La vita come errore drammaturgico…

FC | Nella prima parte Romeo e Giulietta sono due innamorati quasi goldoniani, da commedia. Poi succede qualcosa e si cade nella tragedia. Nella vita capita esattamente così. Hai un progetto, poi succede un incidente stradale e la vita si ribalta. Era una lettura interessante.

OPDP | Di recente hai iniziato a firmare alcune regie.

FC | Sono un po’ un architetto anch’io: penso agli incastri, alle contemporaneità. L’imprinting di Infinities me lo porto anche nella mia parte registica. È la mia anima ingegneristica. Parto sempre dalle strutture: il macrodisegno che uso come attore lo uso anche come regista. Il mio primo spettacolo “tradizionale”, La storia, è stato anche un omaggio ai miei padri, compreso Carlo che è detentore dei diritti del romanzo di Elsa Morante[8].

OPDP | Che equilibrio trovi tra l’attività di attore e quella di regista?

FC | Chi ama il teatro, fa le due cose. Non c’è competizione tra il mio essere attore e il mio essere regista. Se sono attore con un altro regista, mi piace mettermi totalmente al servizio del progetto. Se faccio la regia, mi piace mettermi al servizio degli attori. E quando faccio il regista, riesco a superare il mio ego. Anche come attore, cerco di non occuparmi di me e di risultare bravo, ma aiuto il progetto. Quello che mi dà maggiore soddisfazione è perdere la mia identità in qualcosa di più bello e grande di me, ovvero lo spettacolo. La mia soddisfazione passa dal successo di qualcun altro e questo mi dà gioia.

OPDP | Era l’atteggiamento di Luca nei confronti degli attori dei suoi spettacoli?

FC | Aveva una dedizione e una cura pazzeschi, nel senso che se gli chiedevi ottocento volte la stessa cosa, lui c’era e non si spazientiva, l’indicazione te la dava in miliardi di modi diversi. Per lui l’attore era un elemento che era importante curare. Credo che la sua necessità di andare in scena non fosse egoica, ma di sopravvivenza: aveva bisogno del teatro per entrare in comunicazione con gli altri, per uscire da una sorta di autismo. Per lui era il mezzo per dire a un attore o a un collaboratore “Ti voglio bene”, per creare una famiglia. Poi nelle ultime settimane prima del debutto andava in ansia da prestazione e quindi aumentava il livello di violenza. Con Lehman – e l’ha anche detto – lo spettacolo era già pronto una settimana prima del debutto. L’ultima settimana se l’è guardato tutto per sei giorni di fila, tutti i giorni, seduto da solo in platea, e continuava a farci complimenti: “Mi distruggeranno perché non ho fatto regia, ma voi siete fantastici”. Non era per niente agitato. In un certo senso è stato giusto finire con quello spettacolo. Non è mai andato in agitazione, non mi sembrava di riconoscerlo. Forse era debole e non ha voluto sprecare energie su quello che non era fondamentale.

Ronconi aveva sempre avuto bisogno del teatro per entrare in relazione con l’altro, ma nell’ultima parte della sua vita me lo ricordo risolto dal punto di vista umano: se voleva dirti una cosa personale, veniva e te la diceva senza aver bisogno della mediazione del palco. Forse per la prima volta, siamo arrivati sereni al debutto. In un certo senso c’è qualcosa di compiuto, almeno mi piace pensarlo.

Intervista a Francesca Ciocchetti

Oliviero Ponte di Pino | Perché hai deciso di iscriverti all’Accademia d’Arte Drammatica?

Francesca Ciocchetti | I vent’anni anni sono stati un’età di passaggio molto importante per me. Era un periodo pieno di contraddizioni e confusione, studiavo psicologia e non pensavo minimamente al teatro, vivevo con un’incessante sensazione di "non aderenza" al mondo che mi circondava. Mi consigliarono una piccola scuola di teatro a Roma, fondata da due attori strehleriani[9], quasi come terapia; effettivamente mi fece un gran bene: sono entrata in contatto con un linguaggio che istintivamente riconoscevo. Poi ho cominciato a lavorare con una compagnia teatrale di Ferrara, dove c’era una giovane attrice che aveva studiato a Torino nella Scuola fondata da Luca Ronconi. Il mito di Ronconi c’era già: la mia amica Francesca, con cui lavoravo, mi parlava di questo grande regista molto conosciuto, tutti mi parlavano di lui. Così mi portarono a vedere il Pasticciaccio che mi ha lasciata letteralmente senza parole. Era successo “qualcosa”, avevo fatto un’esperienza che non capivo ancora bene ma che mi aveva toccato intimamente. Nel frattempo avevo cominciato a lavorare come professionista al Teatro Ghione con piccoli ruoli nella Bisbetica domata; il regista mi disse che avevo talento e mi consigliò di formarmi in maniera più seria.

OPDP | Che cosa ti aveva colpito del Pasticciaccio, rispetto al teatro che avevi visto?

FC | L’idea di utilizzare il teatro per raccontare la vita attraverso un linguaggio letterario e poetico, di utilizzare il teatro come un mezzo di conoscenza, come diceva spesso Luca; leggere e restituire un bellissimo romanzo attraverso un linguaggio teatrale innovativo, grazie ad attori strepitosi. Il teatro come esperienza, quindi. E il famoso momento del muro che cade sui personaggi, attraversandoli, con il palazzo che crolla sulla città, era strabiliante.

OPDP | Non avevi ancora conosciuto Ronconi, che non era stato tra i tuoi insegnanti alla “Silvio D’Amico”.

FC | Ho avuto come docenti Marisa Fabbri per quattro anni e poi Mauro Avogadro, che ci ha diretti nel saggio finale sulla Lisistrata. Quindi si parlava tanto di Luca, delle Baccanti con Marisa a Prato, degli Spettri di Ibsen, e con entrambi abbiamo fatto un grandissimo lavoro sulla parola.

OPDP | Quando hai conosciuto Luca?

FC | Il primo contatto è stato traumatico. Galatea Ranzi aveva un’associazione, Machine de Théâtre a Cortona, dove aveva sede, e l’associazione aveva creato un piccolo festival, invitando tante realtà e amici; e con Mauro Avogadro e tutta la mia classe abbiamo proposto la Lisistrata. Luca Ronconi aveva proposto un seminario di tre giorni sul Trattato di funambolismo di Philippe Petit. Eravamo una cinquantina di ragazzi e Ronconi il primo giorno chiese: “Chi vuole leggere?”. Io, sprovvedutissima, mi sono offerta: lui ha parlato a lungo di quello che stavo per leggere e poi mi ha detto: “Bene, ora leggi”. Ero molto confusa e soprattutto non capivo come mettere in correlazione tutto quel discorso con il testo: aveva presentato l’opera da un punto di vista filosofico, semantico, storico, culturale… Dopo trenta secondi di silenzio ha detto: “Va bene. Un altro”. Così ha fatto leggere il brano a un altro attore. Ma questa volta ha cominciato lui a leggere la prima pagina: e lì ho capito subito cosa chiedeva: il pensiero del funambolo davanti alla corda, il respiro. La sera avevo la gastrite, ero sotto shock. Il giorno dopo quando ha chiesto: “Chi vuole leggere…”, ho alzato di nuovo la mano. Gli piaceva la gente coraggiosa e quando l’ho riletta è rimasto in silenzio, poi guardandomi con curiosità mi ha chiesto : “Di dove sei?”. “Eh, sono romana”. Mi ha sorriso. Il modo in cui passava le indicazioni per me era molto legato alla mia città. Non era un dialetto, ma una mentalità che captavo e in cui ero immersa, un modo ironico, grandioso e profondamente emotivo di vedere il mondo.

OPDP | Ma gli anni con Marisa Fabbri e Mauro Avogadro non ti erano serviti allora…

FC | Non è vero. Il giorno dopo è servito. Di fronte a un approccio intellettuale, l’attore pensa: “Sì, va bene, ma cosa vuoi? Come te la devo fare? Dimmela!”. Ma forse non aveva tanta voglia di entrare in relazione; quindi era partito per la tangente linguistico-filosofica. Invece il lavoro con due grandi attori come Mauro Avogadro e Marisa Fabbri mi è servito per tradurre il raffinatissimo modo in cui Luca, come attore, passava le indicazioni. Poi c’è stato il bando per Santacristina con il nuovo incontro e il provino. Avevo portato un testo che pensavo non gli sarebbe piaciuto, Il bosco di David Mamet, molto parlato, molto americano. Ero emozionata, c’era tutta la commissione; lui è stato molto gentile.

OPDP | E ti ha voluto a Santacristina.

FC | Quell’anno c’erano tanti giovani registi oltre il gruppo di attori; abbiamo lavorato sui Beati anni del castigo di Fleur Jaeggy e tanti altri testi: Il mercante di Venezia, Petrolio, su autori come Calvino, Moresco, D’Annunzio, Enia, Wilcock. Lì ho conosciuto Carmelo Rifici e Paola Rota e abbiamo condiviso una bellissima esperienza.

Nella prima Santacristina dormivamo negli ostelli e poi si andava in teatro a Perugia. Si cominciava a studiare alle sette del mattino e si finiva a mezzanotte per quasi due mesi. Si lavorava dovunque e a tutte le ore; in mensa, di notte, anche nei bagni! Stavamo lì a ripetere ripetere ripetere… Nel lavoro con i giovani emergeva la sua parte più luminosa. Era allegro e si divertiva, si stava molto bene. Dalla lettura dei Beati anni del castigo di Fleur Jaeggy ha tirato fuori delle intuizioni da lacrime. A un certo punto c’era una strana descrizione di una lampadina che pendeva nuda dal soffitto; l’avevo trattata semplicemente come una descrizione; in realtà quella visione era inconsciamente legata alla follia e al desiderio di morte della sua amata: ecco, non era più la semplice descrizione di una stanza, era il modo in cui quella ragazza vedeva il mondo. Riusciva a illuminare la scrittura nel sue correlazioni inconsce. Vedeva nel testo cose che noi non vedevamo. E lo rendeva grandioso. Era bellissimo.

OPDP | E come vivevi questa full immersion in un universo teatrale così assoluto e totalizzante?

FC | Ci stavo bene. Ero nella mia acqua, forse perché anche Marisa Fabbri aveva un concetto molto alto dello studio: uno Stradivari con la mente di Dante, ci diceva sempre… Abbiamo passato mesi a decriptare una pagina della Strada di San Giovanni di Italo Calvino, a sillabarla… Venivo da quella grande compromissione con il lavoro.

OPDP | Nel frattempo avevi iniziato una carriera d’attrice…

FC | Avevo iniziato con lo Stabile di Torino, nella compagnia shakespeariana, e quando ho incontrato Ronconi stavo già lavorando. Il suo approccio non era tanto all’allieva quindi ma alla giovane professionista.

OPDP | Quindi già eri una professionista e hai scelto di tornare a Santacristina. Che cosa è cambiato nel frequentare Santacristina nella sede che aveva costruito Luca?

FC | Lui era ancora più felice, si stava bene. Ci si svegliava la mattina, si faceva colazione con lui e si parlava tantissimo, anche a pranzo o a cena.

OPDP | Quante volte sei tornata a Santacristina?

FC | Credo otto anni. Un po’ erano produzioni, un po’ erano momenti di studio. Abbiamo lavorato su Čechov per poi mettere in scena Il gabbiano, c’è stato un lavoro magnifico sulle lettere di Emily Dickinson, abbiamo provato Troilo e Cressida e abbiamo lavorato sulla Modestia

OPDP | In quegli anni Santacristina è cambiata? E come è cambiato dopo il tuo rapporto con Ronconi?

FC | Non credo che sia cambiata. È rimasto un grandissimo momento di concentrazione, approfondimento, studio e isolamento. Era come fare un anno sabbatico: ci vuole un momento di stop dalla vita. È un luogo perfetto per poter vedere a che punto si è arrivati, confrontarsi con altre persone.

OPDP | Vuol dire che c’è da parte tua la percezione di un percorso, di un’evoluzione nel tuo lavoro?

FC | Certo, un’opera letta a vent’anni o a cinquanta è completamente diversa; tu sei diverso nel fisico, nel percorso di vita, la società intorno a te è cambiata Anche Ronconi aveva vissuto un’evoluzione. Il suo approccio al linguaggio era diventato sempre più sintetico, essenziale. Un grande esempio è il suo ultimo spettacolo, Lehman Trilogy. Per me tornare a Santacristina voleva dire capire ogni volta a che punto ero arrivata come ascolto, sia mio, sia nei suoi confronti, ma anche un momento di libertà e concentrazione nell’approccio a un testo o rispetto alle sue richieste. Era anche un modo di portare a Santacristina quello che avevo imparato e approfondito fuori. Non ho lavorato solo con lui, ma con tanti altri registi e continuavo a fare studi sulla voce e sul canto. Da quel punto di vista Ronconi era molto libero, in ascolto.

OPDP | Ronconi si accorgeva che stavi facendo questo percorso e che stavi assimilando altre competenze, altre tecniche?

FC | In Odissea doppio ritorno ero una Penelope di cento chili. Ho dovuto fare un enorme lavoro sulla voce. Ho una voce medio alta che bisognava scurire, “graffiare”, rompere, studiando altri colori ed emissioni. Ero andata da un bravissimo insegnante della Scuola di Torino per capire come “sfasciare” questa voce: quella Penelope era una specie di matrona rovinata da vent’anni di attesa passati bevendo, fumando… Che voce poteva avere chi aveva fatto quella vita?

OPDP | Non ti ha chiesto con chi avevi studiato?

FC | Sapevo che la sua richiesta sarebbe stata molto alta, quindi mi ero già messa a studiare per una proposta. Toccava arrivare preparati.

OPDP | Così hai cominciato a lavorare nei suoi spettacoli. È stato un passaggio graduale o erano due mondi, due modalità di lavoro diverse?

FC | Io l’ho conosciuto prima in ricerca e poi in esecuzione. Sono due cose completamente diverse. Ho avuto la possibilità di conoscere Luca nell’intimità e nella tranquillità del lavoro e dello studio, nella sua felicità. E poi Luca sotto pressione. I tempi erano molto più stretti, c’era più ansia. Ma era lui a mettersi sotto pressione; lo richiedevano i tempi di progettazione e messa in scena.

OPDP | Quali sono state le tappe più importanti?

FC | Ho cominciato con le Olimpiadi. In Troilo e Cressida facevo Cassandra, per Lo specchio del diavolo, il trattato sull’economia, ero l’Economista che introduceva il pubblico nelle varie fasi della storia della moneta. Nel Progetto Domani Luca gestiva cinque spettacoli contemporaneamente, era un delirio, lavorava dalla mattina fino alla notte.

Cassandra me l’ero studiata: i miti e i trattati sullo sciamanesimo , le visioni… Mi sono presentata con tutte le mie letture. Ci ha detto: “Di solito si immagina Cassandra con le trecce, tutta presa dalle visioni del dio. No, Cassandra è una fine intellettuale con un grave disfonia e altri disturbi del linguaggio…”. Allora sono andata da una logopedista che mi ha spiegato come riuscire a simulare movimenti involontari e spasmi dei muscoli della laringe, che rendevano appunto il parlare faticoso, forzato, strozzato o soffiato: “Non ci voleva molto a capire che Troia sarebbe stata distrutta”, diceva Luca, bastava osservare il concatenarsi degli eventi, come faceva appunto l’intellettuale Cassandra. Ma non le credevano, vedevano la disabilità, lo sforzo, la patologia e non ascoltavano la verità delle sue parole; un’intuizione bellissima. Lo specchio del diavolo era un saggio scritto in terza persona: era dal Pasticciaccio che non gli vedevo fare un lavoro del genere; era incredibile quello che inventava e restituiva da quel testo!

OPDP | Quali altre tappe ti hanno segnato?

FC | Abbiamo fatto Odissea doppio ritorno e l’Antro delle ninfe a Ferrara, un progetto meraviglioso perché erano due spettacoli divisi dal tagliafuoco che andavano in scena contemporaneamente; e a un tratto il tagliafuoco si alzava e uno spettacolo entrava nell’altro, con il passaggio nelle due dimensioni di Ulisse. Poi Il gabbiano, dove era in scena con me. Un Dorn magnifico, molto paraculo.

OPDP | In che senso?

FC | Era un regista che analizzava il testo e restituiva le battute con un precisione chirurgica.. Però poi scherzava, in scena si divertiva. Ti provocava. E io pensavo: “Ma guarda te… al tavolino non me l’hai fatta così…!”. Con Paolo Pierobon ed Elena Ghiaurov c’era una bella sintonia. Ci siamo trovati molto bene e anche lì c’erano delle intuizioni strepitose. Poi La modestia, Il panico, Il sogno di una notte di mezza estate, Santa Giovanna dei Macelli, Giusto la fine del mondo, Il ventaglio, dove un vento fortissimo faceva crollare tutta la scenografia: meraviglioso! E durante le estati a Santacristina studi su Ibsen, sulle lettere di grandi scrittori e artisti, L’inappetenza di Spregelburd con Giorgio Sangati…

OPDP | Le richieste erano sempre le stesse?

FC | Sì. Altissime. Ma non erano richieste: non poteva che vederla così e ti adeguavi. Lavorare con lui era come stare nella bottega di Caravaggio, lui usava quella luce e quei colori e dovevi saperli impastare, dovevi sapere che quella luce è così, che ha una funzione e tu sei quella funzione.

OPDP | Ci sono stati momenti di crisi?

FC | Andava in ansia quando non gli tornava niente. Le crisi più grosse avvenivano nel passaggio dal tavolino al palcoscenico. Ci dicevamo tutti: “Oggi sarà una giornata terribile!”. E infatti lui: “Avete perso tutto! È uno schifo!”. Per lui era uno shock vedere che quello che intuiva a tavolino, non c’era più quando si saliva sul palco. Poi piano piano ci rimetteva mano…

OPDP | Quando ci sono stati momenti di crisi con te, che succedeva?

FC | Leggo il copione e lui comincia: “No, no, no, no, no!”. Mi tendevo. Cercavo di mantenere la calma, non sempre era facile… C’era gente che scoppiava piangere…

OPDP | Come facevi a uscirne?

FC | Ti recuperava lui. A me succedeva sempre. Poi si parlava. Era anche molto tenero quando “recuperava”: sto parlando del mio rapporto personale, era anche un amico.

OPDP | Come faceva?

FC | Faceva un gesto veloce con la mano: “Vieni qua, vieni qua”, e voleva dire: “Facciamo pace, vieni un attimo, siediti e capiamo”. E si metteva lì e cercava di spiegarmi e spiegarsi. Sentivo che era più calmo; aveva avuto un’intuizione. Quando faceva: “Vieni qua”, dovevi superare quel momento. Non era rabbia contro di te, era la sua esasperazione perché non riusciva – “Porca miseria!” – a farti capire quella cosa.

OPDP | Hai raccontato di aver lavorato con vari registi. Che c’era di diverso rispetto al lavoro con Luca?

FC | Ho lavorato con Gigi Proietti, che aveva la stessa antica attenzione alla battuta, ed era un genio sui tempi. Ho incontrato registi che mi chiedevano addirittura: “Fai proposte”, e le ho fatte anche grazie al lavoro fatto con Luca,soprattutto nell’approccio al testo. Però, oggi, quella totalità, quella conoscenza dello spazio e della tua funzione, il fatto che la tua prima battuta aveva un senso come in un gioco di scacchi, fino alla fine, è complesso da trovare. Anche con Gabriele Lavia c’era la stessa attenzione e profondità. Con i registi più anziani ritrovo quel laboratorio, quel lavoro di dettaglio in dettaglio: con i registi più giovani riscontro un diverso approccio al testo. Cerco comunque di lavorare sempre con registi che vogliano creare dei ponti tra il loro linguaggio e i lavori dei grandi maestri e attori del passato.

OPDP | Ronconi aveva grande consapevolezza di quella che poteva essere la carriera di un attore e di un’attrice. Che ruoli sceglieva per te? C’era un filo rosso tra i personaggi che ti ha dato?

FC | Erano diversi e di questo lo ringrazio. Nel Panico potevo fare la ragazzina di ventitré anni, poi ero questa Penelope di cento chili, oppure la signora Lehman, altissima borghesia di primi del Novecento, la Maša mitomane del Gabbiano, la merciaia patologicamente pettegola del Ventaglio, una fata punk nei boschi, o una folle fan dei coreani nella Modestia e contemporaneamente una grande scrittrice in incognito. Ero grande, piccola, grassa, magra. Mi divertivo molto.

OPDP | E c’è qualcosa che tiene insieme tutte queste visioni diverse?

FC | Non lo so, ma mi sentivo sempre a mio agio, anche in grandi spostamenti. E gli ero molto grata per la diversità delle richieste, era molto stimolante e studiavo moltissimo.

OPDP | Nella tua carriera, dopo la morte di Luca, quali sono gli obiettivi che ti sei data?

FC | Sicuramente ho bisogno di qualità, ricerca, attenzione al dettaglio. Appena mi rendo conto che manca, mi dispero e poi mi dico: “Vabbè, vado avanti”, e cerco di collaborare con registi e registe che affrontino seriamente l’analisi di un testo, cercando non di portare il testo a sé, ma di sviscerarlo, come faceva lui. Sto cercando quel tipo di qualità… e se non la trovo, mi metto a piangere dietro le quinte!

OPDP | All’inizio di questa conversazione hai detto che per Luca Ronconi il teatro era un percorso soprattutto di conoscenza. Attraverso il lavoro con Luca, che cosa hai scoperto di te?

FC | Per lui il teatro era un luogo veramente vitale e lo è anche per me. Non farlo è un grande problema, non perché ho bisogno di pubblico, o di farmi vedere, ma perché è un lavoro di conoscenza. Non so se questa cosa me l’ha passata lui. Vai a vedere un suo spettacolo, cominci a vedere le luci, come stanno parlando, la verità di quello che stanno dicendo, la prossemica… Quando vedi spettacoli con quella qualità, non ci puoi più rinunciare. Ho capito di avere uno sguardo allenato a quel modo di fare teatro. E poi devo andare sempre a teatro, le mie frequentazioni sono persone di teatro, la mia vita ne è impregnata. Mi sono fregata!

Intervista a Fabrizio Falco

Oliviero Ponte di Pino | Come è scattata la tua vocazione d’attore?

Fabrizio Falco | A tredici anni ho partecipato a un cortometraggio video. Ero molto intraprendente, ho trovato un annuncio, mi sono presentato a un provino all’insaputa dei miei genitori e sono stato scelto. Alla fine il regista mi disse: “Secondo me devi studiare teatro”. Così, senza sapere nulla, mi sono presentato a un laboratorio teatrale amatoriale e ho fatto diversi spettacoli. Mi sono confrontato subito con il pubblico e questo mi è piaciuto molto. Poi ho incontrato Maurizio Spicuzza, l’insegnante di moltissimi giovani attori palermitani, e con lui ho iniziato ad approcciarmi più seriamente al teatro. Dopo il liceo, mi sono presentato ai provini del Teatro Stabile di Genova e dell’Accademia “Silvio D’Amico” a Roma. Ero già entrato alla scuola dello Stabile di Genova, ma stavo ancora facendo la terza fase del percorso di ammissione all’Accademia. L’istinto mi disse di rimanere a Roma per vedere se riuscivo a entrare. A quel punto mi chiamarono da Genova, perché stavano iniziando i corsi ma non mi ero presentato: “Ma dove sei?”. “A Roma a fare i provini per l’Accademia”. Ovviamente mi cacciarono subito. Rischiai, ma alla fine sono entrato in Accademia. Sono contento, perché in quei tre anni abbiamo fatto tantissime cose. Era il primo anno di direzione di Lorenzo Salveti, una fase di grande cambiamento. Abbiamo incontrato tanti maestri, registi come Valerio Binasco ed Eimuntas Nekrosius, e anche Luca Ronconi, che iniziò una collaborazione con l’Accademia.

OPDP | Sapevi già chi era Ronconi?

FF | Certo, avevo visto Inventato di sana pianta, il Ventaglio e forse La compagnia degli uomini a Milano…

OPDP | Che impressione ti avevano fatto?

FF | Mi sorprendeva la nitidezza del segno e l’assoluta comprensibilità di tutto quello che si vedeva. La prima cosa che ti arrivava era il testo, per il modo in cui veniva eseguito dagli attori: una nitidezza di lettura, sia del testo e delle sue dinamiche, sia del fatto teatrale e di tutto l’apparato di scena, costumi, recitazione.

OPDP | Come hai incontrato Ronconi?

FF | Prima venne a vederci, perché dopo il diploma avremmo dovuto lavorare con lui a Santacristina. Sapevamo che con lui avremmo lavorato su diversi testi e facemmo una specie di saggio conclusivo con Valerio Binasco, una serata un po’ ibrida che si chiamava Frammenti, non un vero e proprio saggio, ma una serie di monologhi. Facemmo una recita apposta per Ronconi, un po’ angosciante perché nessuno di noi lo conosceva personalmente. Era l’unico spettatore al centro della platea, nella penombra. Quella figura con la barba e i capelli bianchi incuteva soggezione. Ci spiegò che cosa avremmo fatto a Santacristina: “Lavoreremo su alcuni testi, mi piacerebbe metterli alla prova, vedere dove si può spingere l’interpretazione degli attori”. E poi accennò ai Sei personaggi: “Mi piacerebbe sollecitare questo testo con dei giovani attori”. Aggiunse che per un giovane attore lavorare su quella drammaturgia, che rifletteva sul concetto di teatro, era molto formativo.

OPDP | Quindi era partito con l’idea di farvi lavorare sui Sei personaggi.

FF | Sì, insieme ad altri testi.

OPDP | Quello fu solo un primo incontro conoscitivo.

FF | La prima volta che abbiamo lavorato con lui, un mio compagno fece un pezzo del Candelaio. E lui cominciò a parlare del testo e gli diede subito alcuni indicazioni. Dagli spettacoli visti e dai racconti sul suo lavoro mi ero fatto un’idea di Ronconi e mi ha sorpreso la freschezza, la giovinezza dell’approccio. Una mobilità della mente che non mi aspettavo da un grande Maestro, anche di una certa età. Per me era tutto nuovo. Era sorprendente sentir parlare così una persona con un’aura così forte. Ronconi ha avuto tanti ammiratori ma anche tanti detrattori. Avevo sentito tante cose sul suo teatro, ma farlo era tutto diverso.

OPDP | In che senso?

FF | L’esperienza era empirica. Ronconi aveva una mente sempre in movimento e questa mobilità rende difficile il racconto, perché spesso dopo aver detto una cosa si contraddiceva subito dopo. Metteva tutto sempre alla prova. La sua una mente in continuo movimento, mai fissata in una metodologia.

OPDP | Com’erano le giornate a Santacristina? Tu abitavi in foresteria?

FF | A volte stavamo lì, a volte dormivano in bed & breakfast un po’ lontani, ma alla fine eravamo sempre lì. È stata un’esperienza totalizzante, fondamentale per la mia formazione, perché tra i vari laboratori a Santacristina ci sono stato cinque anni, dall’anno del nostro diploma, il 2010. Il primo anno abbiamo fatto il primo atto dei Sei personaggi come saggio di diploma, insieme ad altri testi. E poi lui continuò a inserire nel gruppo gli attori che via via si diplomavano all’Accademia, in un processo in continuo movimento, mai statico e fisso. Non si sapeva che avremmo fatto uno spettacolo. C’era un continuo mettere alla prova il progetto.

OPDP | Quindi prima di iniziare il laboratorio a Santacristina vi aveva chiesto di lavorare sul primo atto dei Sei personaggi?

FF | Ci aveva detto di concentrarci sul primo atto. Quindi noi avevamo studiato il testo e poi abbiamo iniziato a lavorare con gli allievi della nostra classe con diverse distribuzioni: tre Figliastre, due o tre Figli, tutti i ruoli divisi per tre distribuzioni.

OPDP | Quindi siete arrivati a Santacristina già avevate lavorato sui Sei personaggi per conto vostro.

FF | Senza fare proposte, però avevamo studiato il testo. Ma a Santacristina è cambiato tutto. È un’esperienza che mi porto dietro, tant’è che Pirandello per me è rimasto un autore fondamentale. Il lavoro che ha fatto sui Sei personaggi era scioccante. La sua richiesta a noi interpreti era talmente alta e raffinata che non ci si poteva mai arrivare. Però era la tendenza verso quella cosa. Nelle prove, i suoi suggerimenti erano sorprendenti e geniali. Anche lo spettacolo è stato bellissimo, anche se secondo me non siamo riusciti a fare quello che avrebbe voluto. Ma anche questo era parte del processo.

OPDP | Puoi fare qualche esempio?

FF | La lettura del Padre e del Capocomico, che sono figure centrali, era geniale. Il Capocomico lo ha ribaltato. Anche su battute molto semplici, che magari chiunque avrebbe letto tranquillamente, faceva passare l’intero senso dell’opera. Per esempio: “Ma quale verità? Qua siamo a teatro, la verità fino a un certo punto”. E lui: “Ma si può dire così questa battuta? Rifletteteci un attimo, che cosa c’è scritto?”. Attraverso questa semplice battuta, faceva passare il senso dell’opera e della sua lettura: non c’era una verità, ce ne sono molte di più, e sono ovviamente i sottotesti. “Ma quale verità? Qua siamo a teatro – due punti – la verità fino a un certo punto”. E spiegava: “È un tormento per il capocomico, non è che arrivano i personaggi che disturbano le prove della compagnia. No, lui vorrebbe rappresentare questa cosa, ma non ha i mezzi, perché il teatro è insufficiente”.

È la sintesi di tutta l’operazione, la sua lettura del testo, quella che si è vista nello spettacolo. Non si era mai visto un capocomico così sfiduciato dalle possibilità di rappresentazione. È una visione del testo molto attuale.

OPDP | A Ronconi Pirandello non piaceva molto.

FF | E proprio per questo è riuscito a darne una interpretazione geniale. Non avendo questa reverenza nei confronti dell’autore, è riuscito, con molta tranquillità ma anche con grande maestria, a togliere buona parte del testo: “Questo non mi interessa, via!”. Non c’era affezione rispetto a cose che reputava vetuste. E questo ha innalzato moltissimo il lavoro, che si è concentrato sul nucleo dell’opera. Per noi è stato un grande insegnamento, anche perché è durato tre anni.

OPDP | Come si è sviluppato il progetto nel corso dei tre anni?

FF | Nel primo anno ci siamo concentrati sul primo atto. Il secondo anno abbiamo proseguito con l’innesto di altri attori che si sono diplomati l’anno successivo nel nucleo degli attori dell’anno precedente, e abbiamo fatto il primo e il secondo atto. Il terzo anno, vedendo come si stava sviluppando, è stata fissata la data del debutto, abbiamo montato il terzo atto e lo abbiamo unito agli altri.

OPDP | Quando avete capito che quel lavoro laboratoriale sarebbe andato in scena?

FF | Qualcuno chiedeva, visto che sembrava funzionare, però non si sapeva cosa sarebbe successo. È capitato altre volte di lavorare con Ronconi su progetti che poi non si sarebbero realizzati. Quindi non sarebbe stato strano se non si fosse fatto lo spettacolo. Per esempio, abbiamo lavorato su Il cuore infranto di John Ford, era partito con grandissimo entusiasmo, poi Ronconi ha reputato che non c’era il materiale per proseguire. E quindi non si è fatto.

OPDP | Altri progetti interrotti?

FF | Ci sono stati altri casi, non per ragioni artistiche, ma perché è stato male. Per esempio, mi è dispiaciuto che non siamo riusciti a fare Il girotondo che aveva programmato e per il quale mi aveva chiamato.

OPDP | Tre anni di laboratorio a Santacristina, e prendevi appunti?

FF | Sì, mi piace molto prendere appunti, e ogni tanto io li rileggo.

OPDP | Che cosa ti ha colpito nel rileggerli?

FF | Le frasi folgoranti, come quando ci disse che dovevamo avere “il fuoco dentro e il gelo sulle labbra”. È una frase rappresentativa del suo teatro: una sensazione molto febbrile, che però nell’esecuzione frega, allora ecco la freddezza, la precisione dell’esecuzione. Una volta ci chiamò: “Venite qua, vi voglio far vedere una cosa. Allora, questa è una vaschetta, questi sono degli stecchini. Ho messo dell’acqua dentro la vaschetta. Questi stecchini sono il testo. Voi avete questa costruzione del testo”, e li mise uno appresso all’altro, ordinati. “Se adesso soffio, gli stecchini andranno tutti di qua e di là. Ecco. L’emozione è il soffio che sconvolge tutto questo movimento. C’è la vostra costruzione, gli stecchini esistono, però quando arriva l'emozione questa cosa si frantuma, si rompe”. È una annotazione interessante, che ti rimane in testa perché ha fatto un esempio concreto.

Gli insegnamenti sono molteplici, ma si riassumono nel fatto che si deve studiare tantissimo, non ci si può accontentare della prima soluzione che ci viene in mente, bisogna sempre approfondire, Diceva anche che l’attore “deve avere un occhio che perfora la pagina”, sulla capacità di analisi e lettura di un testo. Possono sembrare consigli scontati, banali, ma è un imprinting dal quale non si torna più indietro. Sono insegnamenti che si stratificano dentro di te, in rapporto anche alle esperienze che fai.

Un altro insegnamento è uscire da sé stessi, non ripercorrere sempre la propria maschera, non ripetere l’immagine che si ha di sé stessi, anche nei personaggi che si interpretano: tendere a qualcosa che esce da te e dal quotidiano, anche dal banale.

OPDP | Quei Sei personaggi sono stati un grande successo. Come l’hai vissuto?

FF | È stato molto bello, anche perché accanto ai Sei personaggi mi sono accadute altre cose: ero appena entrato nel cinema, avevo vinto il Premio Marcello Mastroianni a Venezia…[10]

OPDP | E che diceva Luca del tuo successo al cinema?

FF | Ogni tanto mi prendeva in giro. Sapeva essere molto cattivo, in maniera sempre giocosa. Durante le prove al Piccolo Teatro di Milano, un mese dopo il premio a Venezia, mi ripeteva: “Non stai facendo un provino al cinema, ricordatelo. Sembrava che la dicevi proprio quotidiana, proprio come al cinema”. Ogni cosa era pretesto per ricordare che avevo fatto film e ormai recitavo come i cinematografari, anche se non era vero. Un’altra volta, durante le prove del Panico fece un cazziatone mostruoso a me e Sandra Toffolatti. Avevamo fatto la scena della sensitiva e di Guido: “No, oggi l’avete fatta quotidiana, quotidiana, quotidiana!!! Se c’era Nicolas Vaporidis, se c’era Cristina Capotondi, era esattamente la stessa cosa!”. Ci aveva accomunato agli attori che facevano lavorare al cinema, in maniera molto diversa da noi.

OPDP | Perché dopo Santacristina Luca ti aveva chiamato per alcuni spettacoli.

FF | Avrebbe dovuto fare Il panico l’anno prima, il mio primo anno a Santacristina. C’eravamo conosciuti da qualche settimana: “Sai, vorrei fare questa cosa…” Per me era una proposta meravigliosa. Poi non glielo fecero fare, quindi per me la proposta era caduta. Passò un anno, arrivai a Santacristina e non mi disse niente. Però poi mi telefonò personalmente, dicendomi che avremmo fatto I sei personaggi al Piccolo. E mi richiamò: “Il panico adesso si fa, io vorrei che tu lo facessi”. Quindi dopo Venezia mi sono trovato a fare I sei personaggi al Piccolo, dopo averli fatti a Spoleto, e poi Il panico. È stato interessante vedere come cambiava il rapporto con lui da Santacristina a una produzione più grande. Non era un approccio differente, però c’era una dimensione più ansiogena, l’esigenza di dover chiudere lo spettacolo. Invece nel Panico non c’era niente di chiuso, fino a una settimana prima dall’andata in scena. Nella dimensione più laboratoriale di Santacristina c’era una maggiore libertà e una sorta di deresponsabilizzazione dall’ansia dello spettacolo che lui sentiva molto. Nei Sei personaggi c’era una sensazione di continua ricerca, senza mai chiuderlo in una formalizzazione definitiva. Nella semplicità dell’allestimento, si poteva permettere una maggiore tranquillità di lavoro e di ricerca. Negli spettacoli c’era questa sensazione di cambiamento continuo, ma i paletti erano maggiori.

OPDP | Dopo Il panico che hai fatto con Ronconi?

FF | Ho continuato a fare laboratori a Santacristina, ogni estate…

OPDP | Nonostante tutto hai continuato a tornarci, anche se in teoria non ne avevi più bisogno.

FF | Sono stati anni meravigliosi di formazione, di confronto. Mischiava le carte e questa era la cosa più bella. Ti faceva sentire subito un professionista. Non c’era la sensazione imperante del “Tu sei giovane”. In Italia ti senti giovane fino a sessant’anni, ma lui ti toglieva immediatamente questa percezione. Eri subito un attore professionista e ti dovevi confrontare con Massimo Popolizio o Massimo De Francovich, con attori che erano in palcoscenico da secoli. Ti toglieva il timore reverenziale di lavorare con professionisti molto più esperti di te e ti rafforzava, perché stavi accanto a Maria Paiato o Paolo Pierobon… Sono esperienze importanti, che fanno crescere dal punto di vista attoriale. Ronconi ti dava anche ruoli di una certa responsabilità. Oggi chi dà ruoli di questo peso a un attore appena diplomato? Credo che per lui fosse una scelta etica, ci credeva profondamente.

OPDP | Ti dava indicazioni sul modo in cui costruire la tua carriera d’attore?

FF | Ne parlavamo tanto. Diceva: “Io sono vecchio, non vi affidate a me”. Però aggiungeva che dovevamo cercare di contrastare la precarietà del mestiere: “Datevi una solidità in questa professione, fatene un’attività professionale”. Spingeva gli attori a non adagiarsi all’andazzo generale di precarietà e frammentarietà dell’esperienza teatrale. La sua indicazione era di non affidare la propria carriera agli altri e decidere in prima persona cosa fare.

OPDP | Nei diversi ruoli che ti ha affidato, vedi un filo rosso?

FF | Ho la sensazione che ci sia qualcosa che unisce i personaggi che mi ha affidato, anche se non c’è stato uno sviluppo così ampio per confermarlo. Mi diceva: “Ormai non puoi più fare il ragazzino. Adesso basta”. E ha cominciato a darmi ruoli dove c’era un aspetto più cattivo. Voleva dirmi: “Non ti non ti adagiare sul fatto che sei un giovane attore che farà per sempre ruoli da giovane, perché tra poco non lo sarai più”. Quindi nella sua richiesta artistica c’era la spinta a uscire da sé, prendersi una responsabilità, mettersi a confronto con attori più esperti.

OPDP | Quindi c’era una visione nel percorso che ti suggeriva. E Lehman Trilogy?

FF | Sono stato il primo attore – e questo l’ha detto lui – che ha scelto per questo spettacolo: il ruolo era abbastanza marginale, ma significativo. Facevo l’equilibrista Solomon Paprinskij, di fronte a Wall Street. Stavo in equilibrio su un filo, era ovviamente una metafora. Secondo me, mi ha chiamato per primo perché in quel ruolo si sintetizzava l’intera operazione, sia il testo sia l’intero progetto. E mi ha fatto camminare sul filo. Può sembrare banale, ma è stato difficile. Stavo a tre metri d’altezza: anche se sei imbracato e sai che non cadi e non spiaccichi per terra, sei a contatto con il vuoto, come spiega Philippe Petit nei sui libri sul funambolismo: è questo rapporto con il vuoto che bisogna conquistare. Quel ruolo mi ha aperto al mondo del funambolismo, che ha molto a che fare con la vita, stare in equilibrio senza cadere… Ricordo un momento che mi mise in grande imbarazzo. Era uno dei primi giorni di lettura, c’erano De Francovich, Popolizio, Gifuni. A un certo punto mi diede alcune indicazioni, le ho elaborate e mentre leggevo mi ha fermato: “Ecco, avete sentito? Dovete farla come la fa lui…”. Non mi aspettavo che mi dicesse una cosa del genere. Però non era un complimento nei miei confronti, ma della figura che aveva creato. Quando Kaprinskij cade, sono gli scricchiolii della crisi del ’29, e è una sorta di metronomo.

OPDP | Prima hai parlato della costruzione del personaggio. Di solito si pensa che il regista impartisca agli attori una serie di istruzioni che loro devono eseguire alla perfezione, esattamente come lui l’ha immaginata. E se non succede, l’attore o l’attrice in questione viene brutalmente redarguito e istruito, finché non dice la battuta nel modo giusto. Dal tuo racconto, per costruire la parte con Ronconi seguivi un altro percorso.

FF | Sulla costruzione del personaggio, aveva una visione legata al suo modo di stare al mondo e al suo pensiero. Rifuggiva l’immedesimazione e l’identificazione con il ruolo e spingeva gli attori a cercare una frammentazione delle parti che ti dava una sana incoerenza, perché “noi esseri umani non siamo coerenti nella vita”, ci diceva. Spesso si lavorava per frammenti che poi assemblati ti davano una figura. Accomuno Ronconi agli artisti cubisti. Questo atteggiamento dà la possibilità di non prenderti troppo sul serio, perché ti permette di vederti dall’esterno, non c’è quell’immersione seriosa nel personaggio che a volte ti fa dimenticare il gioco teatrale. Questa frammentazione ti dà la possibilità consente di giocare. Ronconi non parlava mai di personaggio, ma di figura: “Questa è la figura che tu porti”, diceva, separando la maschera dall’interprete, come se tu portassi a braccetto la tua figura, se tu fossi l’attore e la figura, che sta insieme all’attore ma che non si identifica, non è la stessa cosa.

OPDP | Può suonare strano, vista la sua antipatia per Brecht.

FF | L’antipatia scatta quando due cose sono troppo vicine. Anche Pirandello secondo me è molto ronconiano.

OPDP | Quindi l’attore lavora su questa figura per frammenti. Ma a un certo punto bisogna tirare un filo o si va in scena lasciando emergere queste spinte centrifughe?

FF | Sicuramente c’è qualcosa di organico, ma è un aspetto controverso che Ronconi lasciava in buona parte all’interprete. Lavorava con ciascun attore in modo diverso: ci sono attori non dico naturali, ma che in questa frammentazione trovavano una felice espressività, mentre altri facevano più fatica. Io ho sempre cercato di trovare un’armonia, anche se non so se ci sono riuscito. Tanti interpreti che io ho visto recitare ci riuscivano. Ma secondo me alla fine un’unità si riusciva a trovare.

OPDP | Tra i Sei personaggi e Lehman Trilogy hai lavorato anche in altri spettacoli…

FF | Ho lavorato nel Panico e nella Celestina, in cui avevo dei ruoli importanti. Erano ancora anni di formazione, quando esci dalla scuola e inizi a praticare la professione. E farla a quei livelli è stato molto formativo. Parallelamente ho lavorato con Carlo Cecchi, che è l’opposto di Luca nei propositi, negli intenti, nell’essenza, anche se io trovavo grandi connessioni tra loro. Quella di Cecchi è l’arte dell’attore da palcoscenico, con insegnamenti pratici, soprattutto nell’affrontare la replica, nello stare in scena, nell’essere sempre presenti in quello che si sta facendo, senza dare nulla per scontato, senza mai ripetere quello che si è fatto il giorno prima.

OPDP | È quanto di più lontano da un teatro di regia…

FF | Anche Ronconi diceva: “Non dovete rifare la stessa cosa”, però è chiaro che eravamo all’interno del mondo che aveva costruito. Ci voleva una grandissima esperienza di palcoscenico per far sì che quella cosa diventasse viva, lì, in quel momento, tutte le sere. Si dice sempre che il teatro è ogni sera diverso, ma non è detto che sia davvero così. Con Cecchi era inevitabile che ogni sera fosse diverso, anche perché da un momento all’altro durante lo spettacolo poteva dirti: “Ma come l’hai detta? Ripetila! Ma come ti permetti?”, davanti al pubblico. Allora dovevi per forza stare in quel momento, perché eri terrorizzato che ti accadesse una cosa del genere. Ronconi ti portava in un mondo, tendeva a farti uscire fuori da te. Ho vissuto una schizofrenia molto stimolante. Mi dicevo: “Carlo dice questa cosa, però Ronconi dice quest’altra… A me piace quello che dice Carlo, ma anche quello che dice Ronconi”. La sintesi me la sono trovata da solo, gli insegnamenti servono a quello.

OPDP | Che è successo dopo Lehman Trilogy nella tua carriera?

FF | La morte di Ronconi è stata uno spartiacque per tutto il teatro italiano, e anche io personalmente l’ho vissuto tantissimo. È venuta a mancare una figura di riferimento. Ho continuato a lavorare in teatro, ho fatto tanti spettacoli, e quasi subito ho iniziato a fare il regista, parallelamente alla mia attività di scritturato e di attore cinematografico. Ho cominciato a fare sempre meno lo scritturato, tranne in alcune occasioni, per fare sempre di più il regista e l’attore. Non mi piacciono le etichette, le detesto, però oggi c’è un po’ troppo capocomicato, una modalità in cui non mi ritrovo. Sento due anime dentro di me, io sono sia attore sia regista, e non sono un capocomico come Carlo Cecchi. Ho un approccio registico molto serio, credo nel teatro di regia. Questa schizofrenia non mi ha abbandonato. Cerco di fare i miei progetti anche se è sempre più complicato, perché lo scenario è cambiato. Dopo la pandemia vedo molte più difficoltà.

OPDP | Quando parli dei tuoi progetti, che rapporto c’è tra la tua idea di progetto e quella che aveva Luca?

FF | Tutta la progettualità parte dallo studio del testo. Anche se non si poteva estrarre una metodologia dal suo approccio al testo, perché Ronconi improvvisava molto nelle prove e nello studio e non svelava tutti i suoi segreti, sicuramente era uno studio serio: dava milioni di stimoli, citazioni, cose da vedere e a cui ispirarsi. Ti faceva capire che dietro una battuta c’era un sommerso enorme. La differenza la sento nell’esecuzione. Ronconi aveva una concezione della rappresentazione molto alta, oggi questa mi pare una concezione un po’ elitaria. Non mi appartiene, non la sento mia.

OPDP | Per Ronconi, il momento della rappresentazione aveva un’aura quasi sacrale, mentre oggi questo è difficilmente sostenibile.

FF | Il teatro di Ronconi veniva da ragioni profonde, storiche, radicate nella società in cui è cresciuto e soprattutto dalla sua necessità artistica. Quindi non c’era nulla di fittizio in quello che faceva, era assolutamente aderente alla sua visione del mondo e delle cose, perché era un artista a 360 gradi: aveva questo mondo e ci portava tutti verso questo mondo. Ripercorrere un percorso simile oggi non ha senso. Va accolto il proposito, che sento vivo dentro di me: la sua spinta febbrile, la passione che ci metteva.

Per Ronconi la rappresentazione era qualcosa di molto alto. Rifuggiva da quello che era legato al quotidiano, alla banalità, anche se non è tutto da buttar via… Rilke diceva che se non riesci a vedere qualcosa di bello nella quotidianità, sei tu che non hai abbastanza sensibilità artistica da cogliere la bellezza del quotidiano e del banale. A me piace un linguaggio più vicino alla verità.

OPDP | Però Ronconi osservava con grandissima attenzione la realtà quotidiana e poi la riportava agli attori al momento di lavorare sul testo. C’era un approccio analitico al testo, fatto di studio, approfondimento, scomposizione, però c’era anche un’esperienza di vita che era partiva dall’osservazione della vita quotidiana da portare nello spettacolo.

FF | Parlava sempre di imitazione, ovvero della capacità dell’attore di affinare l’arte di riprodurre i modi di dire, di fare, di essere delle persone, i codici di comunicazione che si possono rubare dalla strada. Lo diceva sempre. Però li metteva in un contesto non era più la vita quotidiana, la strada; diventava un’altra cosa, c’era sempre un filtro che innalzava quel materiale.

Intervista a Gabriele Falsetta

Oliviero Ponte di Pino | Come sei arrivato al teatro?

Gabriele Falsetta | Sono andato a lavorare molto presto, a quindici anni, operaio in fabbrica. Questa vita da adulto a quindici-sedici anni mi pesava. Vivevo in un paesino, non avevo una vita sociale come quella dei liceali, cercavo uno sfogo per incontrare altre persone. Ho aperto l’elenco del telefono, i vecchi elenchi telefonici di Genova, e mi sono chiesto: “Cosa vado a fare?”. Ho aperto a caso, messo il dito ed è uscito il Teatro Stabile di Genova. Con la mia bella tuta da operaio, li ho chiamati: “Salve, vorrei partecipare ai vostri corsi, magari part time, solo nel weekend”. Mi hanno spiegato: “Guarda, non funziona così. L’impegno è più assiduo”. Comunque ho preso questo segno e ho cominciato a fare corsi di teatro. Ma ero ignorante, non sapevo niente…

OPDP | Quindi hai cominciato a seguire corsi di teatro continuando a lavorare?

GF | Facevo il fresatore a Busalla, dove c’è la raffineria petrolifera. I colleghi avevano il doppio della mia età. Facevo questi laboratori e a un certo punto mi hanno spiegato che esistono le scuole e le accademie.

OPDP | Ma andavi a teatro o ti interessavano solo i laboratori?

GF | Nel 2005, quando sono entrato alla Scuola del Piccolo Teatro, avevo visto un solo spettacolo in tutta la mia vita. Più tardi, quando ho rivisto il VHS alla Scuola del Piccolo Teatro per motivi studio, ho ricostruito che era Un mese in campagna di Ivan Turgenev con la regia di Marco Sciaccaluga[11], che avevo visto alle medie. Mi ci aveva portato la scuola. La figlia della rappresentante di classe aveva una cotta per me, era invasata di teatro e ci portava sempre un sacco di gente. Avrei voluto morire: tre ore e mezza di spettacolo, mi veniva da piangere… I miei genitori non avevano l’abbonamento al Teatro Stabile di Genova, a teatro non ci andavamo mai.

OPDP | Quando ti hanno suggerito di fare una scuola più seria e strutturata, ti sei presentato agli esami d’ammissione alla scuola del Piccolo Teatro.

GF | Avevo già provato a Genova e non mi avevano neanche guardato in faccia. Così ho iniziato i miei pellegrinaggi: Genova, Roma, l’anno in cui sono entrati Laura Marinoni, Gabriele Portoghese, Barbara Rocchi, la “Paolo Grassi” a Milano…

OPDP | Invece alla Scuola del Piccolo Teatro ti hanno preso…

GF | Tra 1.600 candidati![12]

OPDP | Perché ti hanno preso, secondo te?

GF | Chissà se c’entrava già Luca in quel momento… Avevo portato un Pinter e un testo italiano di Giuseppe Manfridi da Ti amo Maria, che si trovava nelle raccolte di monologhi e che mi interessava in maniera molto ingenua. Alle prime fasi dei provini, avevo una freschezza da giovane attore che avrebbero potuto utilizzare. Probabilmente aveva a che fare con una certa perdita del controllo, o un’ambiguità.

OPDP | Così sei entrato alla Scuola del Piccolo… A quel punto hai iniziato ad andare a teatro?

GF | Mi innamoro del teatro, anche perché non era tutto Un mese in campagna. Entri alla scuola e dici: “Questo è il teatro che mi piace, quello che vorrei fare”. Ho avuto la fortuna di vedere almeno le prove di Atti di guerra che Ronconi allestiva a Torino durante le Olimpiadi, uno spettacolo che ancora mi pulsa. Poi ho visto un VHS di qualche anno prima, Il gabbiano di Eimuntas Nekrosius, che mi ha aperto un mondo a livello espressivo, anche se non avrei più rivisto quel codice teatrale per diversi anni. Urlo di Pippo Delbono mi toccò molto.

OPDP | Avevi smesso di lavorare?

GF | Nei miei otto anni da lavoratore avevo fatto una piccola pensione, e mi sono mantenuto con quei risparmi e con l’aiuto della mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto senza condividere la mia passione, senza frequentare questo mondo.

OPDP | Perché poi l’atteggiamento è spesso: “Bello, l’attore!… Ma di lavoro che cosa fai?”

GF | Anche se oggi questa domanda sembra scomparsa: tutti vorrebbero che i loro figli facessero gli attori o comunque che apparissero…

OPDP | Alla Scuola del Piccolo, cosa ti ha colpito?

GF | Il primo anno è stato tragico. Mi stava molto stretta la teatralità più accademica, perché non ero assolutamente dotato di mezzi tecnici. La grande sorpresa è stata Ronconi, insieme a Maria Consagra, che ha lavorato a lungo con Luca curando i movimenti, me era soprattutto un coach d’attori, era molto più di una coreografa. All’inizio del secondo anno ho capito che potevo giocare e mi divertivo.

OPDP | Quindi il primo anno hai ricevuto un insegnamento tradizionale, convenzionale. Al secondo anno è arrivato Ronconi…

GF | L’avevamo avuto anche il primo anno. Ma durante quell’estate mi sono successe diverse cose, anche a livello personale. Il primo anno me la spassavo, andavo a mare di notte scendendo da Milano a Genova, saltavo le lezioni. Facevo quello che avrei voluto fare in una vita parallela. Mi ricordo di aver fatto Ruzante con Gianfranco De Bosio, Ronconi mi vide e mi fece dei complimenti, penso onesti, perché aveva visto uno sfogo, mentre i miei compagni e le mie compagne avevano un timore reverenziale nei suoi confronti. Io non lo conoscevo e non sapevo neanche della potenza di fuoco che poteva avere, anche a livello formativo.

OPDP | E il suo corso?

GF | Ci proponeva una decina di testi all’anno, da cui estrarre alcune scene per improvvisarle davanti a lui, anche leggendole. Quando sono arrivato lì, non sapevo niente, cultura generale poca, cultura teatrale zero. Il secondo anno, tornato dalla pausa estiva, ho smesso di uscire, mi sono inimicato diversi compagni e compagne per i quali ero l’anima della festa. Ho cominciato a guardarmi intorno. C’era l’Archivio del Piccolo, ho iniziato a leggere tutto quello che c'era e piano piano ho cominciato a capire. Ero sempre in ritardo, ovviamente, e ho sempre rispettato i miei compagni e le mie compagne, e anche il sapere di colleghi più grandi o di Luca. A un certo punto gli ho detto che stavo leggendo Il diavolo e il buon dio di Jean-Paul Sartre. Si è arrabbiato, diceva che dovevo leggermi l’originale di Goethe, cosa che poi ho fatto, anche se per me Sartre era più divertente… Insomma, cominciavo a sviluppare piano piano il mio senso critico teatrale, anche se devo ammettere che ancora adesso non è così brillante, è più sviluppato quello cinematografico. Ma il confronto con una persona che aveva così tanto da insegnarmi era meraviglioso e mi divertivo tantissimo.

OPDP | Perché ti divertivi?

GF | Si lavorava tantissimo, ma mi divertivo perché mostrava l’idea di recitare. Per me era ancora poco chiara l’idea dell’interpretazione o della performance, ma mi divertivo a stare lì con lui, a farmi tirare addosso questa pallina. Mi sentivo come un cane che andava a riprendere la pallina e gliela riportava. Secondo me questa è la sintesi del lavoro dell’attore: un cane che ti riporta la pallina, anche mille volte.

OPDP | Cosa vuol dire che ti lanciava la pallina?

GF | Mostrava tante alternative diverse rispetto alla convenzione. Eravamo al secondo anno e stavamo lavorando sull’Opera seria di Ranieri de’ Calzabigi. Ci aveva fermato per quattro ore su due battute, a me e a un mio compagno. Quattro ore su quello che significava la musica in Italia, sulla geometria dello spazio. Ho una parte ossessivo-compulsiva che adorava tutto questo, ci sguazzavo, mi divertivo. Anche lui, più di tutti. A volte si arrabbiava e usciva dai gangheri, però si divertiva. Eravamo un corso interessante, perché davamo tanto, eravamo agguerriti e in competizione tra noi.

OPDP | Hai seguito l’intero percorso della Scuola del Piccolo e pian piano sei entrato nel meccanismo e sei andato a Santacristina.

GF | Luca è stato generosissimo. Già dal secondo anno di Scuola ho cominciato a lavorare. Ho esordito nel Ventaglio, siamo stati a Parigi e a Barcellona…

OPDP | Quando hai saputo che saresti entrato nel cast del Ventaglio, cosa hai pensato?

GF | Ho subito chiamato i miei genitori. Era una conferma, volevo dirgli: “Guardate che qualcosa sto combinando, a questo punto della mia vita”. Ero al settimo cielo.

OPDP | Com’è stato lavorare fuori dall’ambito della Scuola?

GF | Una vertigine. Il primo sguardo alla galleria del Piccolo Teatro mi ha dato dieci minuti di apnea. Mi ricordo la prima del Ventaglio con la signora Giulia Lazzarini, il signor Massimo De Francovich, Pia Lanciotti… Vedevamo attori più preparati, più formati. Adoravo Francesca Ciocchetti, che mi insegnava tantissimo, era una sorta di ponte tra quelli della mia generazione e i grandi. Arrivò il primo giorno già con la memoria. Era anche una questione di disciplina, come avevo capito quell’estate, quando mi ero detto: “Adesso ti chiudi in casa e non esci più, altrimenti torni a fare la vita in paese come i tuoi amici, se no torni in Liguria a fare muretti a secco”. E cercavamo di rubare a questi attori i loro trucchi: condividevamo un camerino in tre e con l’interfono ascoltavamo le battute e le ripetevamo con le varie intonazioni.

OPDP | Quindi non ti sei posto il problema di imitare Luca quando ti lanciava la palla?

GF | Girava l’idea che attori con una formazione diversa da quella con Luca, più adulti di noi, potevano permettersi di avere un loro stile. L’allievo diretto e l’allieva diretta erano invece portati a sposare quello che faceva. Lo rifarei con grande piacere, perché era una sfida tecnica costante con te stesso ed è una cosa che ti porti dentro. Anche se era una codificazione chiara, non mi sentivo appesantito, ma mi sentivo incapace e frustrato perché non riuscivo a restituire quello che avrei voluto. A quel punto studiavo fino a farmi uscire il sangue dagli occhi e dalle orecchie. Ho sempre ritenuto alcuni altri attori più pronti, capaci e tecnicamente dotati, oppure disposti a cogliere tutta quella meravigliosa frammentazione sintattica. Quando facevamo il Gabbiano a Spoleto, prendevo appunti su tre o quattro copioni.

OPDP | Segnavi tutte le sue indicazioni?

GF | Una delle mille cose che diceva era: “Le battute sono risposte a domande che non sentiamo”. E questo ti apriva dei mondi, apriva di continuo file ricchissimi. Le difficoltà arrivavano quando cambiava in corsa e magari ti impuntavi: “Ieri avevi detto di farla così!”. E lui: “Appunto! Proprio per questo devi imparare a farla in un altro modo”. Era una sorta di Matrix, in cui si aprivano mondi paralleli, invisibili.

OPDP | Quando pensavi di essere arrivato dove ti voleva portare, ti diceva che dovevi andare da un’altra parte…

GF | Assolutamente. Qualsiasi attore o attrice deve tenerlo sempre presente. Io ci penso sempre. Non c’è un solo modo di dire una battuta, ce ne sono almeno dieci o dodici. I grandi attori te lo mostrano, ti fanno capire con grazia quell’intonazione che magari non raggiungerai mai.

OPDP | Siamo arrivati a Santacristina. Qual è il tuo primo ricordo?

GF | C’erano le prove di Odissea, il testo di Botho Strauss. Era il 2006-2007. Mi aveva chiesto: “Vuoi venire quest’estate?”. Ci sono andato in visita con mio fratello, che all’epoca era ancora piccolo. Mi colpì la quantità di attori e di attrici che trovai a Santacristina, che quindi vivevano e convivevano. In quei giorni era un ambiente molto rilassato e divertente. Erano attori e attrici con provenienze diverse e anche questo melting pot mi piaceva.

OPDP | E quando ci sei tornato da attore, quali sono state le tue sensazioni?

GF | Mi sentivo più importante, con uno status più elevato, ma anche preoccupato dalla necessità di guadagnarmi quel posto. Poi è subentrata l’abitudine, perché la quotidianità ti aiuta ad abituarti alle tue ansie. Sono arrivato a Santacristina per Il gabbiano. Eravamo pochissimi attori, le prove sono cominciate alla fine di maggio, io ero appena uscito dalla Scuola e faceva ancora freddo, ogni tanto la sera c’erano i cammini accesi. La situazione era più intima, ma l’ansia più elevata. Stavamo a studiare dopo la fine delle lezioni e dopo le cene, durante tutte le pause. Non c’era alternativa, solo tanto studio.

OPDP | E questo ti piaceva, vista la tua natura compulsivo-ossessiva?

GF | Mi piaceva quell’interrogarmi costantemente. Poi tenevo un diario parallelo al lavoro delle prove. Luca non dirigeva e basta, dirigeva e faceva scuola. Quindi avevo due diari separati: un copione da affrontare e da domare, mentre nell’altro appuntavo quello che diceva.

OPDP | Quindi hai conservato le sue massime e gli aneddoti che raccontava?

GF | Gli aneddoti erano estremamente connessi all’apprendimento…

OPDP | Che cosa ti ha segnato di più di queste massime, di queste aneddoti?

GF | Forse sto invecchiando, perché li continuo a ripetere, anche ad altri, con emozione. Certe volte faccio finta di appropriarmene, di ghermirli. Una volta, tra una pausa e l’altra, parlando dell’Orlando Furioso, ci diceva che nei giorni prima del debutto era molto preoccupato, non aveva alcuna contezza della possibile ricezione del pubblico e della critica. Ricordò che qualcuno gli aveva consigliato di scappare, di tornarsene via a casa. “Poi siamo andati in scena”, e il resto è storia. E aggiunse: “Il nuovo non lo puoi riconoscere, perché se lo riconosci è già vecchio”. Ci penso ogni volta che vedo un film, che leggo un libro, che torno a vedere uno spettacolo a teatro. Oggi si discute molto di cos’è nuovo, perché il tempo accelera vorticosamente per cui le novità si accumulano e il giorno dopo sono già vecchie. Molto teatro era anche questo: provocare oggi per essere già vecchio domani. Quindi mi ha messo in testa una sorta di chimera: che cos’è il nuovo? che cosa è il mio nuovo?

Ci diceva che per raggiungere certe vette, serve una grande tecnica. E ricordare che un attore è un vettore per qualcos’altro: l’autore, o la visione di un regista. Ci diceva: “Di te non gliene frega nessuno”, all’epoca lo prendevo come un affronto all’epoca. Sei giovane, vuoi essere te stesso, vuoi essere vero. Ma in teatro non c’è niente di vero, non c’è niente di naturale. Stanley Kubrick diceva che la verità è una fotografia di una fotografia. Eravamo a Santacristina, alle primissime prove del Gabbiano. Eravamo cinque o sei attori in una sala vuota: “Immaginatevi questo spazio come un luogo della mente”. È la chiave con cui avrebbe affrontato Il gabbiano: non in termini scenografici o coreografici, ma come un viaggio narrativo all’interno di una psiche, dove lui stesso era in scena. E abbiamo ricamato su questo luogo fisico della mente. È stato il primo a dire: “Non esprimerti, anche se l’espressione è una forza potentissima, anche se è codificata e controllata. Non basta imparare a dire una battuta due volte in due modi diversi, ma bisogna dirla in dieci, quindici modi diversi”. A quel punto, il lavoro diventa molto più bello.

OPDP | Dalle quindici maniere diverse di dire una battuta, come fai ad arrivare al modo giusto di dirla?

GF | All’epoca avrei risposto in modo più contorto. Adesso dico che rimane quello che deve rimanere. Durante le prove del Gabbiano, dove Paolo Pierobon interpretava Trigorin. Andai vicino a Luca: “Mi piacerebbe recitare come lui”, con quel suo legato, questo speech pulito. Luca lo lasciava libero, anche se Paolo era in grado di sguinzagliare i cani dell’inferno quando gli chiedeva qualcosa di più complesso e stratificato. La libertà te la dovevi conquistare.

OPDP | Luca attore, come l’hai vissuto?

GF | Intanto è stato un grandissimo onore. Per noi era un mito che viveva ancora tra noi. L’ho vissuto con grandissima ammirazione, anche perché cominciavo a capire dove voleva andare a parare. Interpretava Dorn, che è uno specchio, un’eco di Čechov. Come maestro di attori e come regista, lo trovavo geniale, e trovo tuttora geniale quello spettacolo, e la ricordo anche con un po’ di tenerezza.

OPDP | E come compagno di scena?

GF | Mi piaceva l’idea di andare in scena con lui, perché pensavo che mi controllasse meno se sbagliavo. Ma non non era così, perché poi arrivava con le note e te le diceva…

OPDP | Per esempio che cosa t’ha detto?

GF | Una volta Mariangela Melato venne alle prove. Eravamo io e Clio Cipolletta, che recitava Nina. Mariangela Melato e Ronconi erano lì seduti davanti a noi e quindi per noi giovani attori era difficile andare avanti. Alla fine fece una battuta citando due attori televisivi e cinematografici all’epoca molto famosi, star di quel cinema un po’ romanesco, “de salotto”, borghese: “Se lo avessero fatta Tizio e Caia sarebbe stata giusta, ma non la stanno facendo Tizio e Caia, quindi rimboccatevi le maniche”. La Melato si mise a ridere, e quindi ridemmo anche noi: c’era sempre un pizzico di ironia… A me piaceva farmi prendere in giro da lui, mi piaceva lo sfottò, mi è sempre piaciuto.

OPDP | Non ti offendevi?

GF | No! Sapeva che ero un bischeraccio, un mezzo criminale, quindi mi divertiva, lo trovavo… non giovanilistico, ma giovane. Sapevo che aveva proprio voglia di scherzare. Quando era tranquillo, e quando le cose sul lavoro andavano bene, ci faceva sbellicare.

OPDP | Poi hai cominciato la tua carriera sia in teatro sia fuori dal teatro, a prescindere da Luca. Che cosa ti sei portato in queste altre esperienze?

GF | Tutto, veramente tutto. Una delle ultime volte ci siamo abbiamo parlati, ero con altri colleghi, bravissimi attori di teatro. Stavamo provando a mettere in scena Il cuore infranto. Era molto contento del nostro lavoro, soprattutto di alcuni di noi: “Bellissimo, lo potreste fare benissimo, però il gusto ce lo metto io”. Sempre un po’ sibillino… Mi piacerebbe tanto ritrovare il gusto che aveva… Per altri versi so di essermi affrancato, anche a livello di gusto. Ho un’altra età, sono nato e cresciuto in altri anni, oggi vedo altre cose. Ma la traduzione del testo, la possibilità di stupire non attraverso la verità o quello che senti, ma attraverso un ingegno tecnico, ha un valore inestimabile. Oggi questo non me lo insegna più nessuno.

OPDP | E vale anche al cinema?

GF | Assolutamente, con tutti i dovuti ridimensionamenti.

OPDP | Poi sei tornato diverse volte a Santacristina.

GF | Cinque o sei.

OPDP | Perché per te aveva senso ritornarci, quando già eri un professionista che lavorava in teatro?

GF | Andando avanti con gli anni, il mio sentimento verso Santacristina era ambiguo. Mi pesava sempre di più, perché sapevo che avrei dovuto mettere in campo tante forze, tante energie. Non erano le tre o quattro ore di prove al giorno, come si fa abitualmente. Erano ventiquattro ore su ventiquattro senza possibilità di fugga. Non c’era nessuna spiaggia vicina dove andare a fare un bagno.

OPDP | Peggio che lavorare al tornio?

GF | Assolutamente. Con la fresa o con il tornio, potevi anche lasciar vagare la mente. Lì dovevi stare sul pezzo. Dipendeva anche di chi incontravi: con gli anni si è alleggerita l’umanità delle persone che gli stavano intorno. Inizialmente vedevo molta competizione e lo trovavo noioso. Erano soprattutto gli attori un po’ più grandi di me. Negli ultimi anni c’era ancora competizione, ma tra le nuove leve di cui facevo parte c’era voglia di imparare o di giocare.

OPDP | E Luca come usava la competizione tra di voi?

GF | Ci sono diverse teorie. Per me, come ho già detto, lo sfottò era un viatico per poter parlare, per stare al mondo. Lo è stato fin da quando ero bambino e lo è ancora adesso. Per quanto riguarda la competizione, nel nostro mestiere o la cancelli o la mostri. C’è il casting director, o il regista, che ti tiene in ballo per mesi e poi prende un altro attore: anche questa è competizione… Nel suo caso, e nel caso del teatro, la collaborazione quotidiana, costante, crea dinamiche che in questo lavoro sono assolutamente naturali. Personalmente non mi sentivo in competizione, altri miei colleghi sì. Quindi entravi in competizione con chi si sentiva in competizione con te, o andavi a tendere una mano a chi si sentiva in difficoltà. Con Luca Marinelli, che negli stessi anni aveva lavorato con Cecchi, trovavamo molte similitudini con Luca: una scuola anche un po’ violenta per farti entrare in testa alcune cose. Ma io la vita me la sono sempre fatta così, quindi questo non mi toccava più di tanto.

OPDP | Eri già allenato…

GF | Ogni tanto gonfiavo il petto e qualche pugnetto qua e là è volato. A volte mi chiedo se è davvero necessario arrivare a livelli di temperatura così alti per tirar fuori quello che si vuole da un attore o da un’attrice. Non ho ancora una risposta, anche se con le buone maniere non si sono mai fatti dei capolavori. È vero che si può lavorare anche con leggerezza, però ci devono essere una comunione di intenti e un trasferimento quasi telepatico di questi intenti… Forse ogni tanto una strizzatina serve… Ma secondo me la competizione ce la mettevano soprattutto gli attori, perché tutti volevano stare in quel posto. E poi Ronconi era il nostro Re Mida, era il nostro impregnatore…

OPDP | Come faceva ad alzare la temperatura per portare gli attori a fare cose che non avrebbero fatto?

GF | Magari divideva lo stesso ruolo in due, cominciava ad attribuire una parte a una persona piuttosto che un’altra. Io soffrivo anche di queste cose. Alla fine del secondo anno ha dato il mio ruolo a un mio compagno. Ci sono rimasto malissimo. Poi ho capito che era più giusto lui di me, per l’energia che portava. Luca mi ha dato tante possibilità, altre non me le ha date, altre sono riuscito a prendermele, altre me le sono fatte scappare. È il gioco, this is the game. Non c’è un regista sempre fedele a un attore. Se un attore sta sbagliando, il regista deve tradirlo, così come gli attori devono tradire i registi. Ronconi ti chiedeva tanto, ma non ti tradiva. Però ti diceva: “O ci arrivi o non ci arrivi”.

OPDP | E ti ha dato consigli sulla tua carriera, su cosa vuol dire essere oggi un attore di teatro, o un attore di cinema?

GF | Non se ne parlava, perché il cinema all’epoca per me era distante, è arrivato dopo. Ma una volta, nei primissimi giorni di lezione al Piccolo Teatro, il primo anno, ci disse: “L’importante è che troviate una continuità”. Sapeva che il nostro è un lavoro che può andare su e giù, ma la continuità è più importante, a lungo raggio. Serve rimanere allenati. Purtroppo ho imparato che è una grandissima verità. La continuità è importante, anche a costo di turarsi il naso. Non basta la spocchia di chi dice che bisogna fare questo mestiere sempre ad alti livelli. Luca gli attori li andava a prendere spesso in ambienti lontani dall’aristocrazia del teatro italiano. Poteva prendere attori di estrazioni diverse. In questo era molto umile, popolare, forse pop.

OPDP | Quindi lavorava con attori e attrici con storie, formazioni, vissuti molto diversi. Che tipo di lavoro faceva per accordare attori e attrici con sensibilità e approcci così diversi?

GF | Non ho risposte. Era un maestro, e i maestri come lui – successivamente ho incontrato Declan Donnellan e Peter Stein – suscitano sempre un timore reverenziale e una certa soggezione. Non ho mai visto un attore mettersi al suo livello. L’unica persona era Mariangela Melato. Persino Franco Branciaroli era consapevole che stava parlando con un pozzo di sapere, di saper fare e di desideri. Ronconi era un anarchico e in questa anarchia poteva inserire anche l’attore che aveva fatto la scuoletta di teatro o l’attrice che veniva da un’esperienza televisiva. Poi magari gli faceva dei mazzi tanti e li distruggeva, però cercava di amalgamarli perché sapeva che questa poteva essere una ricchezza. Non è vero che Luca Ronconi volesse solo degli esecutori, voleva degli autori. Naturalmente questi autori-attori dovevano stare all’interno della sua visione, che era molto complessa. Secondo me, se tutti parlavano la stessa lingua dopo un po’ si annoiava. Diceva: “Io ai gruppi non ci credo tanto. Se un gruppo nasce perché vuole cercare delle cose, non deve tendere a parlare sempre la stessa lingua”. Detto da Ronconi sembra assurdo, ma è vero. C’è una drammaturgia che si appoggia a un modo di recitare, a una visione sterilizzata o neutralizzata. Lo si vede tantissimo in teatro: sono gruppi e codici che vogliono somigliarsi. Ronconi era molto più anarchico.

OPDP | Per Ronconi il teatro era anche uno strumento di conoscenza.

GF | Mi ha dato l’accesso a una conoscenza più ampia e profonda. Gli devo anche questo, la spinta iniziale, uno stimolo a conoscere, perché ti faceva sentire molto ignorante. Mi è stato molto chiaro quando ho fatto i progetti per le Olimpiadi. Quegli spettacoli – escluderei Troilo e Cressida – erano pura divulgazione. C’è chi diceva che il teatro di Ronconi era elitario. È probabile che lo fosse, come tutta la cultura in Italia. Ma vedere uno spettacolo come Lo specchio del diavolo, così divertente e pop, ti faceva venir voglia di avvicinarti a lui, anche se era impossibile. Ronconi a dodici-tredici anni metteva in scena Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus con i burattini che aveva in casa. Non lo avvicinavi e non lo dovevi neanche avvicinare. Non so da dove entrasse tutta quella mole di sapere. A casa sua, a Casa del Diavolo, in Umbria, una parte della biblioteca era riservata alla moda. E quando abbiamo fatto Il sogno di una notte di mezza estate, guardava quei libri. I costumi di Marras non erano un dettaglio, ma una scelta. E in quel momento era una scelta avanguardista: quasi vent’anni dopo, Marras è ancora di nicchia, meno capito di altri stilisti più blasonati. La perizia sta nel dettaglio. Lo vedevo usare certe matitine per inquadrate queste scenografie immense, per vedere la prospettiva.

OPDP | Hai citato il teatro, il cinema, la moda… Che altro c’era nel suo immaginario?

GF | Certe volte aveva un atteggiamento che mi riportava al codice cinematografico. Spesso diceva che lo sguardo era una telecamera, che il pubblico usava delle analogie cinematografiche, tecnico-cinematiche: “Facciamogli fare il montaggio”. Penso a uno spettacolo come Il professor Bernhardi. Sapeva perfettamente modulare i codici cinematografici. Per il John Gabiel Borkman, girato in bianco e nero per la TV, aveva fatto un carrello costante e continuo in un lungo piano sequenza. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se fosse diventato un regista di cinema: è un mio dirty pleasure.

OPDP | Perché non lo è diventato, secondo te?

GF | La risposta che mi sono dato è che lui in teatro era unico. Quello che faceva, come quello che faceva Peter Brook, in teatro era unico. Il cinema lo avrebbe dovuto dividere con tanti altri. Spesso diceva: “Io non uso neanche una macchina fotografica”. Citava Max Ophuls, nel suo lavoro c’era un certo cinema degli anni Quaranta: penso a Gli affari del barone Laborde di Hermann Broch. C’era anche una certa commedia alla Billy Wilder. Era un gusto. Ma Ronconi era assimilabile anche a Stanley Kubrick: se avesse fatto il cinema, non oso pensare a quei poveri produttori.

OPDP | Invece i cartoni animati e i fumetti?

GF | Citava spessissimo i cartoni animati, soprattutto come base reattiva per l’attore. Una base quasi fisica, corporale. Sui corpi di Ronconi, dovremo riflettere.

OPDP | Come passava dalla citazione del cartone e del fumetto a un’indicazione agli attori?

GF | Aiutava a prendersi delle libertà formali ed estetiche, rispetto alla convenzione di un dialogo. Negli spettacoli di Ronconi non vedevi mai un dialogo tête-à-tête con due attori a venti centimetri di distanza, come succede spesso in teatro. In quella situazione scattano le reazioni, il movimento: quale parte del corpo parte prima? Usava i fumetti perché ne era affascinato, e perché usano linguaggi universali. Sicuramente il fumetto, per un uomo nato nel 1933, era un linguaggio più universale del teatro. Walt Disney non aveva sbagliato a fondare la sua società di produzione. E in più il fumetto rendeva visibili tante convenzioni. Era una questione di ricezione della battuta, di reazione e di rifiuto della convenzionalità naturalistica.

OPDP | Quando parli di ricezione e di reazione, vuoi dire che quando l’altro personaggio, l’altro attore, ti dice una battuta, la tua reazione di attore che risponde a questa sollecitazione può usare il fumetto.

GF | Esattamente. Titti e il Gatto Silvestro hanno una teatralità incredibile. E i personaggi minori che intervengono in quel mondo sono sempre nevrotizzati dalle situazioni in cui si trovano. Eravamo ancora a Scuola e stavamo provando un testo in versi: era molto complesso, con una grande quantità di partiture, di movimento. La scenografia era inesistente: solo un pianoforte e quattro sedie. “Non reagisci”, mi ha detto. “Vieni qua”. Era seduto: “Se io faccio così” – e mi ha tirato un pugno – “vedi che reagisci?”. Per lui la reazione doveva essere sempre forte e visibile. Secondo me era anche una forma di intrattenimento. Il minimalismo può essere molto interessante, ma non ci appartiene. Secondo me nel fumento Ronconi vedeva una sorta di – non dico di massimalismo – ma di nevrotizzazione delle reazioni. E a teatro le reazioni sono più interessanti del chiacchiericcio.

OPDP | E però non sono nemmeno realistiche. Sono esagerate rispetto alla normale chiacchiera. Ma viene da chiedersi se il teatro non è esagerato…

GF | E la realtà non è esagerata?

OPDP | Hai mai provato a imitarlo?

GF | Certo che ci ho provato! Provavo a imitarlo, perché quando leggeva una parte era capace di dare a una battuta significati che neanche gli attori che hanno raggiunto le più grandi altezze riuscivano a dare. Era una sorta di automatismo. Quando leggeva Il pasticciaccio, riusciva a fare delle parti anche molto piccole con una precisione fotografica. Diceva che nel teatro è possibile prendersi delle grandi liceità, senza rimanere intrappolati in un contesto convenzionale, che in fondo è quello della chiacchiera.

A proposito del dialogo, diceva che noi monologhiamo sempre: “Il dialogo non esiste. Io in questo momento sono con te ma sto monologando anche quando parli, mi sto già facendo delle domande”. Anche questo va a scardinare il meccanismo convenzionale del dialogo: ti do la battuta, me la ridai, te la do, me la ridai. Nei cartoni animati vediamo la schizofrenia delle emozioni che escono con maggior forza.

OPDP | Vorrei tornare al tema della continuità della professione. Ora la trovi in teatro ma anche fuori, sul set. Come riesci a gestire questi diversi piani?

GF | Non lo so, chiedilo al mio agente!

OPDP | C’è un problema di agenda, per conciliare gli impegni. Ma c’è anche un problema di identità e di modalità di lavoro.

GF | Sono due stanchezze diverse. Forse è solo una coincidenza, ma da quando Luca non c’è più non ho fatto tanto teatro, alcune cose con Giorgio Sangati e poco altro, anche se quest’anno mi stanno arrivando varie proposte. Per me il teatro informa molto il cinema. Sono reduce dalla serie M e per fare quel cinema, che è vicino a Luchino Visconti ed Elio Petri, al Conformista di Bernardo Bertolucci, con il regista Joe Wright abbiamo parlato solo di teatro. Al cinema è complesso far girare tutti gli ingranaggi, non ti dà la pienezza del teatro. Invece il teatro, se è disorganizzato, per me, che sono di una pigrizia patologica, può essere molto pesante. Il cinema viene incontro alla mia pigrizia: posso stare diciassette ore sul set e fare mille altre cose. Luca capiva quando un attore al cinema aveva una certa densità e non l’aveva a teatro. Una volta mi disse che Gian Maria Volontè era un attore superbo al cinema, meno a teatro. Ho avuto uno shock: “Come è possibile che Volontè non fosse grandioso anche a teatro?”

Per rispondere alla tua domanda, mi sto ancora chiedendo dov’è la mia identità. Mi sento molto tranquillo sul set, una situazione che spaventa tanti miei colleghi. Sul set mi sento un bambino che gioca, perché resto un autodidatta. A teatro invece mi ritrovo disciplinato. Ma mi rifarò la stessa domanda tra qualche anno e magari capirò dove sono posizionato.

Intervista a Davide Gagliardini

Oliviero Ponte di Pino | Da dove è venuta la tua passione per il teatro?

Davide Gagliardini | Ho fatto un laboratorio teatrale al liceo, grazie a una mia professoressa di latino e greco che mi aveva fatto conoscere Luca Ronconi.

OPDP | Ti ha portato a vedere i suoi spettacoli a teatro?

DG | Ci ha fatto vedere in video dei pezzi dell’Orlando e dell’Orestea, e da lì ho cominciato a coltivare il mito di Ronconi. Ci voleva portare a Siracusa, c’erano in scena Prometeo incatenato e Le rane, ma purtroppo non siamo riusciti ad andarci. Erano gli ultimi anni di liceo e ho cominciato a fare questo laboratorio anche per alzare i voti di latino e greco. A condurre il laboratorio c’era Carlo Emilio Lerici, con cui abbiamo allestito Sarto per signora di Georges Feydeau, in cui facevo Molineaux, il protagonista. Lo spettacolo è andato benissimo, per come può andare un saggio di liceo. Non vengo da una famiglia con una particolare cultura teatrale, ma quell’esperienza mi ha aperto una prospettiva. Quando mi sono diplomato, volevo guadagnare qualche soldo e Lerici mi ha detto che al Teatro Belli gli serviva un tecnico: “Non so chi prendere, anche perché le finanze sono quelle che sono. Mi piacerebbe formarti come elettricista, macchinista, fonico…” Così la sera ho cominciato a lavorare in teatro. Nel frattempo a diciotto anni, per aderire al mio copione familiare mi ero iscritto a giurisprudenza. Al Teatro Belli passava di tutto, da Maria Paiato a Peter Stein ed Emma Dante, quindi in quella scatolina ho potuto vedere attori e registi di grande livello. Spettacolo dopo spettacolo, notavo le differenze. E mi è sempre piaciuto stare in teatro di notte a fare le luci. Quando in una produzione è arrivata l’esigenza di dire una battuta e chiamare un attore per dire una sola battuta, non era possibile: “Vabbè, è una battuta, facciamola dire al tecnico”. L’ho detta e pigliavo la risata ogni sera.

OPDP | Che dicevi?

DG | “È permesso?”. Facevo il balbuziente, pigliavo questa risata e vedevo che smuoveva qualcosa. Sono stato scritturato per ruoli sempre più grandi dai registi che gravitavano intorno al Belli, finché un giorno Antonio Salines mi disse: “Ma perché non provi a fare l’esame in Accademia, visto che anche senza formazione cinque battute in fila sembra che tu le possa sostenere?”. Ho fatto l’esame e mi hanno preso subito.

OPDP | Chi erano i tuoi insegnanti alla “Silvio D’Amico”?

DG | Mario Ferrero, Lorenzo Salveti, Massimiliano Farau. Era un periodo florido perché il nuovo direttore Lorenzo Salveti voleva aprire ad altri insegnanti, quindi ho partecipato a workshop e corsi di altissimo livello, con Nicolai Karpov, Peter Stein, Massimo Popolizio, con cui abbiamo fatto il saggio di diploma, Roberto Romei, e poi Liseloth Baur, Michele Monetta e Paolo Giuranna, Luca Barbareschi. Ho avuto un’infarinatura su un sacco di cose, anche se l’ossatura del corso di recitazione era data da Lorenzo Salveti e Massimiliano Farau.

OPDP | Quando hai incontrato Ronconi?

DG | Tramite la selezione per Santacristina, per il corso post diploma del 2011. Avevano preparato dei provini, avevo pronto un monologo dei Masnadieri che avevo fatto al Teatro di Roma, dove ero stato scritturato da Gabriele Lavia per il mio primo spettacolo da professionista. Abbiamo fatto i monologhi di fronte a Ronconi, che fece la selezione. Andammo a Santacristina per lavorare su una serie di testi, il Pilade di Pasolini, Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini, I dialoghi dei morti, Il candelaio di Giordano Bruno. Venendo dai tre anni d’Accademia, mi aspettavo qualcosa simile ai corsi che avevo già fatto per esempio a San Miniato, un workshop sostanzioso centrato sulla sua attività. Ho sempre visto e apprezzato i suoi spettacoli, ho sempre trovato il suo teatro eccezionale.

OPDP | Che spettacoli avevi visto?

DG | Mi era piaciuto tantissimo Inventato di sana pianta al Teatro Valle. Me lo ricordo ancora, c’era in scena quello che per me era il Gotha degli attori: Anna Bonaiuto, Massimo Popolizio e Massimo De Francovich. Poi ho visto Fahrenheit all’Argentina, un allestimento eccezionale, un testo che mi interessava molto e un’Elisabetta Pozzi pazzesca. Poi ho visto i due testi di Rafael Spregelburd, Il panico e La modestia… Di recente a Parma ho lavorato con Rafael e abbiamo ricordato quegli spettacoli.

OPDP | Avevi visto alcuni degli spettacoli di Ronconi, avevi un’idea di come funzionavano i laboratori e i corsi di teatro. La Scuola d’Estate a Santacristina era come te l’aspettavi?

DG | Era diverso innanzitutto per una questione di spiritualità. Non sono un mistico, però credo molto nello spirito del luogo. Lì c’era e c’è uno spirito del luogo molto molto singolare. Mi ha subito colpito, per l’energia delle stanze, per la posizione, per com’era organizzato, per lo svolgimento delle giornate e stranamente anche per l’energia emanata da Ronconi, che era molto pacificatrice, soprattutto nei momenti laboratoriali. Mi aspettavo un Ronconi più appuntito, anche dai racconti che mi erano stati fatti da alcuni colleghi. Invece l’ho trovato morbido, appassionato della trasmissione di saperi, e questo non è scontato.

OPDP | Quando parli di trasmissione di saperi, a cosa ti riferisci?

DG | Trasmissione di prassi e di cultura teatrali, una delle cose che ci manca di più: una tradizione unita a un’enorme sperimentazione.

OPDP | Come funzionavano le giornate?

DG | Ci si svegliava, si faceva una breve colazione e via a studiare, recitare, provare, poi si faceva la pausa. Ma le attività della vita quotidiana erano incidentali rispetto alla prova: era un’enorme sessione di prova che non finiva mai, nemmeno durante la notte, specialmente per soggetti come me che tendono a non abbandonare mai il materiale. Era questo stare lì. Un gruppo dormiva a Santacristina mentre altri si appoggiavano ai bed & breakfast lì intorno. Io avevo la fortuna di dormire a Santacristina e quindi di vivere quel luogo al cento per cento delle sue possibilità, sia quando era funzionante e c’era tanta gente, sia quando non c’era nessuno e rimanevi da solo con il tuo testo, il tuo monologo. Non c’era nemmeno Ronconi e c’era una sensazione di totale solitudine, senza telefoni, solo con la biblioteca e la videoteca che avevamo a disposizione, se proprio trovavi l’attimo di distrazione, perché magari il giorno dopo Ronconi doveva vedere la scena di un altro attore e potevi stare un po’ più tranquillo.

OPDP | Il suo metodo di lavoro era diverso da quello degli altri registi che avevi incontrato?

DG | Nella maggior parte dei casi ho trovato registi che cercavano di imitare pallidamente la metodologia di Ronconi. Per quanto riguarda i miei insegnanti, ho avuto una tale varietà di approcci che poi ho dovuto risolverla da solo. Lavorando con Ronconi ho scoperto cose che non avevo mai scoperto. Una su tutte, il testo. Negli anni della mia formazione, non avevo mai sfruttato i testi che avevo a disposizione come con Ronconi – non voglio dire nemmeno “capiti”, perché forse lo sto capendo adesso, dopo quindici anni di mestiere. A Santacristina ho sempre avuto la sensazione di trovare qualcosa di nuovo, che mi apriva tantissime possibilità come interprete e come regista di me stesso. Perché l’attore, soprattutto quando la controparte registica è debole, è chiamato a una funzione registica. Questo approccio ti dà una autonomia che oggi mi sta salvando.

OPDP | Che cosa intendi per lavoro sul testo? Che valore ti ha dato Ronconi?

DG | Mi ha dato la possibilità di abbracciare l’opposto, cioè di aprire i personaggi ribaltandoli. L’ho vissuto sulla mia pelle quando abbiamo messo in scena i Sei personaggi. La sua visione del Capocomico era inusuale, quasi capovolta rispetto a tutte le altre messinscene e persino alla scrittura di Pirandello. Una delle sue prime indicazioni è stata: “Non voglio un Capocomico facile, un praticone che fa il vigile urbano tra il mondo dei personaggi e quello degli attori. Voglio un regista in crisi che scopre attraverso i personaggi che i suoi strumenti non bastano per rappresentare la verità, la realtà”. Ha ribaltato il personaggio: ogni indicazione del Capocomico diventa una sua crisi, una domanda a sé stesso. Ripercorrendo il suo lavoro, vedo questa tendenza a prendere il testo, aprirlo, scardinarlo e trovarne le possibilità nascoste e spesso ignote all’autore. È geniale e crea una tridimensionalità che poi vibra sul palcoscenico.

OPDP | Come è nato il progetto dei Sei personaggi e come si è sviluppato il percorso?

DG | Nel 2011 parte della mia classe è andata a Santacristina, dopo la selezione di cui ho parlato. L’anno prima c’era già stata la classe precedente, con Sara Putignano, Fabrizio Falco, Lucrezia Guidone, Massimo Odierna…Quando siamo arrivati, avevano già fatto il primo atto dei Sei personaggi e lo avevano presento al pubblico. Quando lo vidi, rimasi a bocca aperta: Pirandello non mi era mai piaciuto così tanto. L’anno dopo, alla fine del laboratorio, Ronconi pensò di mettere in scena i Sei personaggi per intero, unendo attori presi dalle due classi.

OPDP | In quell’anno a Santacristina anche voi avevate lavorato sui Sei personaggi?

DG | Sì, nei ruoli minori. Io facevo il Terzo Attore. C’è una foto di Ronconi che dà indicazioni mentre io sto lì dietro con la mia faccia imberbe, mentre cerco di capire. Ronconi ci aveva dato una certa autonomia nella scelta dei personaggi, perché era ancora una fase laboratoriale. Io ho scelto quello che parlava meno, perché volevo vedere il più possibile prima di aprire bocca. Poi è successa una delle cose più belle della mia vita. Con un mio compagno di classe facevo una scena del Pilade di Pasolini, un testo difficilissimo. Dopo una restituzione, lo vidi contento. Insomma, cominciava a funzionicchiare e questo non era scontato per due neodiplomati. Un paio di giorni dopo venne da me alla fine del pranzo: “Avrei piacere che tu facessi il Capocomico di questi Sei personaggi. Ti va?”. E io, dopo dieci secondi di pausa: “Mi va, ma certo, certo, certo”, e poi mi sono inchinato come un giapponese.

OPDP | Cosa aveva visto in te per chiederti di fare il Capocomico?

DG | È una domanda che mi sono fatto, ma non ne ho idea.

OPDP | Ronconi lavora per due anni a Santacristina sui Sei personaggi e a quel punto è diventato chiaro che avrebbe potuto diventare uno spettacolo.

DG | Le prove sarebbero riprese solo l’anno successivo, nell’estate 2012. È cominciata una lunga attesa, che ho riempito con la tournée dei Masnadieri, ho iniziato a fare film…[13]. Subito dopo aver finito le riprese, sarei dovuto partire per Santacristina. Da lì è cominciato un viaggio pieno di curve, montagne russe, messe alla prova, crisi…

OPDP | Che cosa ti succedeva? Qual è stata la tua esperienza?

DG | Il livello delle richieste era sempre più alto. Per un attore della mia età, era impossibile. Ma cercavo di andare in quella direzione, senza nascondere un timore reverenziale: era il regista con cui sognavo di lavorare.

OPDP | Quando dici che le richieste erano molto alte, che cosa succedeva quando ti accorgevi che mancava ancora qualcosa?

DG | Molto spesso entravo in una crisi che, con il senno di poi, era molto funzionale alla scena. Un giorno eravamo a fare una replica dei Sei personaggi a Firenze, alla Leopolda: “Ma tu non hai capito quello che ho fatto con te, vero?”. In che senso? “Quando sei uscito dall’Accademia, puzzavi di successo, e questa cosa non andava bene per il personaggio che dovevi fare. E quindi ho dovuto toglierti tutto da sotto i piedi, e farti almeno comprendere cosa è il fallimento”. E ora che sono passati tanti anni, mi dico: “Eh, il regista…”

OPDP | In qualche modo Ronconi ti ha fatto interpretare il suo ruolo. Di fatto, eri il suo alter ego sulla scena: un regista che continua a interrogarsi sulla possibilità di fare qualunque teatro. Anche questo è molto ronconiano.

DG | L’ho capito dopo. Ho capito quanto quel punto di vista fosse aderente al suo, che si può riassumere, anche se male: “Il teatro c’è, ma non è abbastanza”. C’è sempre qualcosa che manca, che ti allontana. Per accumulo di filtri, di linguaggio… Allora non ne ero consapevole e soffrivo per la mia inadeguatezza di fronte a richieste filosofiche ed esistenziali che fanno parte di una maturità scenica e umana che non potevo avere.

OPDP | Gli altri attori e attrici che erano con te in quell’esperienza avevano già raggiunto quel livello di maturità?

DG | Eravamo tutti alla ricerca, ma in una ricerca differente a seconda del carattere di ognuno, del ruolo, delle cose che riescono facili, delle attitudini. Per la prima volta ho potuto recitare un personaggio in minore, che non cercava di imporsi sulla scena. A scuola e nelle produzioni che avevo fatto, ero stato sempre chiamato in ragione della mia energia, della mia fisicità, delle mie caratteristiche esteriori, con ruoli da protagonista o positivi, e comunque in ruoli di forza o di autorità. Per la prima volta dovevo giocare completamente al contrario ed è stato spaesante. Forse Ronconi in me aveva visto una fragilità che poi ho tirato fuori nelle prove. Non è stato un processo lineare e felice. Quando sono arrivato camminavo a un metro da terra: “Faccio il Capocomico con Luca Ronconi alla mia età!”. E poi boom! È stata una discesa agli inferi e questo mi ha fatto crescere.

OPDP | E chi hai incontrato all’inferno?

DG | Ho incontrato Ronconi travestito da giudizio, perché per me il suo era il giudizio. Ho incontrato me stesso in un modo spaventoso, un me stesso che si voleva richiudere in un guscio di noce dove stare senza affrontare le difficoltà, senza affrontare il fallimento. Ho incontrato la solitudine… Avevo un ottimo rapporto con la classe precedente di Santacristina, perché tramite Luca Bargagna avevo lavorato con loro, e poi con Sara, Lucrezia, Fabrizio e Massimo c’è sempre stato un grande scambio, molto più che con la mia classe. Ma ero l’unico della mia classe ad avere un ruolo sostanzioso, e l’ho pagato. L’Accademia forma dei singoli che possono diventare amici, ma se non succede forma dei singoli abbastanza rincagnati. E questo mi ha fatto molto patire.

OPDP | A Santacristina c’era la possibilità di creare e costruire un gruppo?

DG | È quello che mi ha salvato: sono riuscito a riemergere da tutte queste difficoltà, e dalle difficoltà artigianali del lavoro, non solo dalle difficoltà “psicoprofessionali”, soprattutto grazie alla famiglia dei personaggi e ad alcuni elementi della mia classe a cui sono rimasto legato.

OPDP | Come faceva Luca Ronconi a creare un gruppo?

DG | Dall’interno non ne avevamo la consapevolezza. Anche vedendo le mie esperienze successive, aveva un modo indiretto di creare un gruppo. Non diceva: “Dai ragazzi, adesso andiamo a mangiare la pizza!”, come si usa fare. Non faceva esercizi di confidenza e di conoscenza di sé. A unirci era il suo carisma, la percezione che avevamo di partecipare a un pezzo di storia e la bellezza di quello che stavamo facendo. Univa gli attori attraverso la sua arte. Anche perché noi, appena diplomati, eravamo tutti settati verso di lui. Quindi con noi non ha fatto fatica, anche se di sicuro nella sua vita ne ha fatta: immagino che gli sia capitato di dover convincere un attore, oppure di doverlo attrarre verso di sé.

OPDP | Cosa è successo poi con i Sei personaggi? Vi aspettavate quel successo?

DG | Lo speravamo, pensavamo tutti che fosse un lavoro straordinario. I Sei personaggi fatto da ragazzi, con un taglio così scarno, filosofico, esistenzialista. Era una grandissima innovazione, una lettura del testo straordinaria. Ci siamo liberati dalla lunga incubazione del progetto. A Spoleto c’era molta ansia da prestazione: “Chissà se piacciono o non piacciono, questi Personaggi? Come ci vedono? Come non ci vedono?”. Superato quel primo traguardo, è iniziato il divertimento. Sarebbe stato bello continuare questo percorso di lavoro e di formazione con lui, accanto a uno così non puoi non crescere. Durante le riprese per i Sei personaggi in versione televisiva con Felice Cappa, stava male. Vedeva il girato dal letto dell’ospedale. Un giorno mi dissero che Ronconi aveva apprezzato molto il mio lavoro e ne ero molto felice. Ma ricordo notti a Santacristina in cui non riuscivo a capire come dire due battute. Mi sono spaccato la testa giorni e notti per cercare di afferrare bene quello che mi stava suggerendo.

OPDP | Perché era così difficile? Vi spiegava e rispiegava quel che mancava per arrivare a restituire quello che chiedeva.

DG | Ora lo posso dire… C’era l’attore che lavorava per compiacere, per farsi amare. Mancava l’attore indipendente che se la sbroglia da solo. Al di là della mitologia, non l’ho mai sentito attaccato alla forma. Una delle prime cose che mi disse sul primo atto dei Sei personaggi, era che gli andava bene come lo facevo, e anche il terzo. Il mio problema era l’inizio del secondo atto, le prime tre battute, su cui siamo stati a lungo.

OPDP | E che battute erano?

DG | “Era ora su, signore, ci siamo tutti, attenzione, attenzione, si comincia, macchinista”. In quelle frasi c’era l’impossibilità di rappresentare quello che voleva. Il regista chiama a sé gli strumenti che ha e mentre li chiama sa già che non serviranno a niente. Quando leggeva questa battuta per farci capire cosa voleva, Ronconi era di una leggerezza e di un’ironia meravigliosa: ridevi di quest’uomo, della sua pochezza. Lo capivo e lo volevo restituire, ma non ci riuscivo.

OPDP | Quando sei riuscito a fare il salto?

DG | Quando è passato un po’ di tempo e abbiamo ripreso, lo spettacolo.

OPDP | Quindi non a Spoleto…

DG | Dall’esterno – anche a giudicare dai riscontri del pubblico – a Spoleto funzionava. Ma come si sa, fuori e dentro sono due mondi diversi. Per me ha cominciato a funzionare davvero solo quando siamo arrivati al Piccolo Teatro. Era passato un po’ di tempo, avevo iniziato a sedimentare. Ronconi mi ha insegnato anche ad ascoltare il silenzio, un altro elemento di cui non tenevo conto. Uno spettacolo funziona in base al silenzio della platea: un’aria rarefatta come quella che avevo sentito durante tutto il primo atto dei Sei personaggi a Spoleto non l’avevo mai sentita, un’attenzione estrema. Sentivo che all’inizio del secondo atto l’aria era diversa. Ma perché? Tentativo dopo tentativo, ho imparato a farla rimanere dov’era, grazie anche al lavoro dei mostri che avevo intorno… Il processo è stato molto tortuoso.

OPDP | Hai parlato del sapere teatrale che trasmetteva Ronconi. Dal tuo rapporto con lui, ti sono arrivati consigli su come costruire la tua carriera di attore?

DG | Indirettamente. Ho sentito subito la necessità di trovare un tempo e uno spazio per far fiorire le cose. Questo mal si sposa con la prassi attoriale odierna, in cui sei un prodotto che gli altri comprano. Vai a fare il provino: “Sei bravo” o “Non sei bravo”, “Ti prendo” o “Non ti prendo”, “Fai un monologo. Già so che tipo d’attore sei”. Fin dai provini e dal modo in cui ci ha scelto, Ronconi andava contro tutto questo. In pratica nel primo Santacristina abbiamo fatto un provino lungo tre mesi: è lì che si conosce un attore, in tutte le sue luci e ombre. Anche per quanto riguarda lo studio del testo, suggeriva un approfondimento, una conoscenza, una sapienza… A noi persone normali serve molto tempo per arrivare a quel livello di consapevolezza e di profondità all’interno di un testo. Ho desunto chi ero e cosa mi poteva servire andando a pescare nella sua concezione del lavoro e poi l’ho tradotto nella ricerca di uno spazio che potesse valorizzare la mia tensione verso un’idea di teatro che è nata a Santacristina e poi si è sviluppata.

OPDP | Che cosa vuol dire “un’idea di teatro”?

DG | Significa innanzitutto aver chiara la funzione che il teatro dovrebbe avere e saper dove potrebbe andare. Significa essere consapevoli che il teatro è un contenitore che cambia contenuto a seconda dell’aria che tira o del nome che gira, e questo è un peccato. Coltivare un’idea di teatro significa coltivare la proposta che si fa alla città, coltivare la fede che il teatro abbia un’incidenza e una ricaduta reale sui cittadini, e quindi avere una visione politica. Io avevo solo una vaga idea dell’attore, o meglio di me stesso. Questa consapevolezza mi ha fatto fare un salto enorme: ho fatto scelte forti anche per questo motivo. Ho cominciato a lavorare a Roma, Genova, Napoli, Torino… Poi mi sono fermato a Parma, dove ho incontrato il Teatro Due e soprattutto Gigi Dall’Aglio. Ho visto un terreno dove poter iniziare un cammino che non comprendesse solamente una soddisfazione egoica e sanamente economica. Mi ha permesso e mi permette tuttora di mettere in campo delle idee.

OPDP | Che vi siete detti con Spregelburd di Ronconi?

DG | Pensavo di avere di fronte una personalità di tutt’altro tipo, invece Spregelburd è un essere umano meraviglioso, simpatico, morbido. È stato un incontro bellissimo. Abbiamo ricordato l’importanza che Ronconi ha avuto per lui, la gratitudine per la diffusione dei suoi testi innescata dalle sue due regie. È grazie a Ronconi che ho conosciuto Spregelburd. Poi ha voluto specificare che il suo teatro è l’opposto di quello di Luca, a livello estetico e di ricerca. Ho osservato che però ci sono punti di contatto nella loro teoria del linguaggio, e lui era d’accordo. Sia Ronconi sia Spregelburd, secondo me, si occupano delle onde di senso. È come se la parola fosse un detonatore che non si esaurisce in sé, ma genera onde di senso negli spettatori, che non hanno a che vedere necessariamente con quello che si sta vedendo, ma aprono finestre di riflessione, pensiero, emotività. Gli strumenti con cui arrivano a quella consapevolezza sono diversi: Ronconi ci arriva con la parola, Spregelburd con lo scontro fra due cose apparentemente molto lontane che provocano un senso terzo. Le lezioni che ho imparato a Santacristina sono universali, nel senso che possono essere giocate a qualsiasi livello. Dal punto di vista di acquisizione di strumenti personali, di lettura del testo, di messinscena eccetera, con il senno di poi per me quegli anni sono stati fondamentali.

OPDP | E lì per lì com’era?

DG | Sia da studente sia da professionista, cerco di applicare il principio della spugna: cerco di assorbire il più possibile da chiunque io abbia di fronte. Ho avuto la fortuna di incontrare registi ungheresi, o il bosniaco Haris Pasovic, che è stato assistente di Peter Brook. Da tutti loro ho sempre cercato di assorbire. Ma mentre assorbi non ti rendi conto di quello che assorbi. Poi negli anni vedi quello che il corpo lascia andare, quello che invece ti rimane. Ciò che io sono in scena oggi è frutto di tutto quello che ho assorbito. Ma lì per lì non avevo molta consapevolezza del liquido che stavo assorbendo. Anche oggi avrei lo stesso atteggiamento. All’epoca avevo pochissimi strumenti e meno difese. È stato un bene, anche se al momento era motivo di frustrazione. Quando la scena andava bene, ero al settimo cielo, quando andava male, non c’era purgatorio!

OPDP | Ti è venuta la voglia di fare il regista?

DG | No, è un lavoro difficilissimo. È uno spazio che sto iniziando a coltivare, proprio per alimentare l’idea di teatro di cui parlavo prima. A Parma, oltre a fare l’attore, mi occupo del lavoro sul territorio e nelle scuole, quindi lavoro quindici ore al giorno perché ci credo molto. Lavorando con i ragazzi – e ho fatto anche un paio di lezioni come insegnante di recitazione in Accademia – comincio a cercare di passare un sapere e quindi sento che la regia potrebbe essere la naturale prosecuzione di questo percorso. Ciò che ancora devo coltivare è la visione d’insieme dello spettacolo: funziono molto bene come acting coach, perché posso risolvere i problemi di recitazione e di senso, ma non mi sento ancora all’altezza sull’impianto scenico, sulla lettura da dare al testo, su quei guizzi di interpretazione che hanno fatto grande la sua regia. Piuttosto che andare di fretta e diventare un vetrinista, non lo faccio. Come attore prendo le mie soddisfazioni e ho la possibilità di confrontarmi con gente stimolante. Succederà quando dentro di me avrà coltivato consapevolezze più solide. Comunque la regia deve rigenerarsi, non può essere una copia di quella che abbiamo editato e non può nemmeno andare verso una coincidenza con il mestiere dell’attore. Io credo molto nel valore della regia, che però va alimentata con una linfa che ancora mi sento di non avere. Come attore ormai ho quasi quarant’anni, trentotto, e a livello emotivo lo sento… Ora poi inizia l’era del comando. Diciamo così, no?

Intervista a Lucrezia Guidone

Oliviero Ponte di Pino | Come mai hai deciso di fare teatro?

Lucrezia Guidone | Sono stata una bambina esposta all’arte, alla musica, alla danza. Suonavo il pianoforte e credo di aver inconsapevolmente cercato una transizione dalla pagina musicale a un mondo fatto di corpo, voce, suono. Il teatro forse è arrivato anche per compensare la mia solitudine.

OPDP | Hai cominciato a fare dei laboratori o corsi? Frequentavi il teatro?

LG | Ho cominciato con i laboratori scolastici, un primo approccio. Quando ho sentivo più forte questa passione, era arrivato il momento di scegliere l’università. Devo ringraziare Giancarlo, il marito di mia mamma. Mi ha aiutata a comprendere che applicandomi nello studio con tenacia avrei potuto provare a perseguire il mio sogno. Così ho tentato gli esami di ammissione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”.

OPDP | Quindi sei andata alle audizioni dell’Accademia senza una storia teatrale precedente?

LG | Avevo recitato a scuola, in questi laboratori adolescenziali. Ho fatto l’esame all’Accademia non una, non due, ma tre volte.

OPDP | Quindi ti hanno bocciato due volte? Ci vuole molta determinazione, un’altra si sarebbe scoraggiata…

LG | Ero indisciplinata e forse devo ringraziare che non mi abbiano presa subito, perché non avrei capito niente del percorso successivo.

OPDP | E nei due anni tra il primo e il terzo tentativo, che cosa facevi?

LG | Il patto con i miei era di fare un certo numero di esami in un corso di laurea all’università: se avessi raggiunto questo obiettivo, avrei potuto continuare a inseguire il mio sogno. Prendevo il treno e andavo al Teatro Verdi di Pisa per seguire “Il fiore del teatro”. Per me è stato importante perché questo “corso di avviamento al gioco teatrale” era collegato a “Prima del teatro” e alla “Scuola europea dell’arte dell’attore” che si tiene ogni estate: ci sono andata ed è stato bellissimo perché c’erano allievi attori da tutto il mondo: mi ha dato una grande carica, mi ha fatto vedere quello a cui ambivo, come se l’avessi respirato da vicino. E infatti mi sono settata su quella vibrazione e sono stata ammessa all’Accademia.

OPDP | Cosa ti è successo all’Accademia?

LG | Ho capito subito che avrei dovuto cambiare il mio atteggiamento da ragazzina ribelle. Non l’ho perso totalmente, nella vita ci sto ancora lavorando, ma nel lavoro sono molto concentrata, disciplinata… L’Accademia mi ha fatto capire che servono precisione, studio, dedizione.

OPDP | Tra i docenti che hai incontrato all’Accademia, chi ti è rimasto impresso?

LG | Avevo vent’anni, mi ricordo Lorenzo Salveti e Mario Ferrero, ma abbiamo anche avuto la fortuna di avere, oltre al classico percorso accademico, diversi insegnanti esterni che venivano a fare dei moduli. Questo ci ha fatto capire che in questo lavoro non esiste una sola verità, un solo pensiero, che ogni regista porta un suo mondo e dunque coesistono tante contraddizioni. Questa informazione ti dà una grande mano sul lavoro. Eimuntas Nekrosius, Nikolai Karpov… Abbiamo avuto insegnanti speciali.

OPDP | E a un certo punto è arrivato Ronconi…

LG | L’avevo visto in scena in Un altro gabbiano, lo studio che avevo visto al Festival di Spoleto. E avevo visto altri suoi spettacoli, ero pazza di lui.

OPDP | Che cosa ti piaceva nei suoi spettacoli? Perché ti avevano colpito?

LG | L’imprendibilità. La prima volta che ho visto un suo spettacolo, Il ventaglio all’Argentina, quando ancora ero un’allieva della “Silvio D’Amico”, ci sono tornata tutti i giorni perché non capivo, non riuscivo a staccare gli occhi ma non capivo.

OPDP | Cosa non capivi e che cosa hai capito a furia di rivederlo?

LG | Provando a pensare con gli occhi di allora, perché adesso alcune cose le ho decodificate, mi aveva affascinato l’universo parallelo che aveva creato, il lavoro sul linguaggio. E poi era come se il testo si stesse formando davanti ai miei occhi.

OPDP | E poi lo hai incontrato di persona.

LG | La prima volta l’ho visto in scena, in Un altro gabbiano. Era meraviglioso vederlo anche come attore. Ero impazzita. Andai alla conferenza stampa e presi il bicchiere dove aveva bevuto, un bicchiere di carta. Me lo sono tenuto sulla mensola della cucina per tutti gli anni di Accademia. Arrivati al terzo anno di Accademia, ci hanno comunicato che avremmo fatto un laboratorio a Santacristina. Con Valerio Binasco avevamo preparato uno spettacolo dove facevamo tutti un monologo. I miei compagni avevano monologhi di autori teatrali come Čechov o Shakespeare. A me Valerio aveva assegnato un pezzo di La ragazza sul ponte, il film di Patrice Leconte. Era un pezzo tutto sussurrato al microfono, molto lontano da quello che si sarebbe aspettato Ronconi. Abbiamo fatto lo spettacolo un pomeriggio solo per lui. Io ero morta: “Non gli piacerò mai”. E infatti non gli sono piaciuta. Quando arrivai a Santacristina, Ronconi mi fece leggere un brano di Pirandello e rimase sorpreso.

OPDP | Quindi ha dovuto cambiare idea… Cosa aveva di particolare il lavoro di Luca rispetto a quello che avevi fatto con gli altri registi e rispetto a quello che ti aspettavi?

LG | Mi divertì molto lo stravolgimento della convenzione. Non cercava la brava giovane allieva attrice con temperamento, quella che “la diceva bene”. Cercava l’unicità, voleva qualcosa di tuo, non il significato che convenzionalmente si appioppa a un testo.

OPDP | Come hai fatto a capire che la sua richiesta era questa?

LG | Ce l’ha detto. C’era una ragazza molto brava, che fece il monologo della Figliastra, quando la bambina annega nella vasca. Lui commentò: “Sei molto brava, però così la possono fare tutti”. Mi ha fatto riflettere: essere bravi non vuol dire niente, avere talento non vuol dire niente.

OPDP | Cosa hai cominciato a cercare, se non si trattava di fare la brava attrice?

LG | Un dialogo con le mie immagini, quello che viene fuori dalla pagina in base alla mia sensibilità, i colori di un’altra voce, le sensazioni sceniche. E ho cercato di mettermi in disparte, di guardare il processo un po’ più da lontano.

OPDP | Cioè di guardare il personaggio dall’esterno?

LG | Anche questo. Vuole dire non pensare di possedere già tutte le qualità in base alle quali se io sento quello che dico allora la cosa funziona. Invece allontanando il personaggio, nel percorso che si fa per raggiungerlo, trovi quello di cui hai bisogno.

OPDP | Come è cominciato il percorso per I sei personaggi?

LG | Tra i vari testi utilizzati nel primo laboratorio c’erano i Sei personaggi, ma anche I dialoghi con i morti di Luciano, Candelaio e un racconto di Hans Christian Andersen. Formò alcuni gruppetti, tante famiglie che facevano varie scene dai Sei personaggi. Io ero già la Figliastra in uno dei gruppetti. L’anno dopo decise di proseguire il lavoro sul testo e fece dei provini a Spoleto. Io ero a New York a studiare il Metodo Strasberg e tornai immediatamente. Andò bene, mi illustrò la distribuzione e mi disse che avrei interpretato la Figliastra. E quell’estate iniziamo a lavorare.

OPDP | Quando hai fatto il provino, la Figliastra era già simile al personaggio che poi è andato in scena?

LG | Nella prova aperta che abbiamo fatto il primo anno a Santacristina, quando feci la mia sezione del testo in prova aperta, mi disse una frase che mi emozionò: “Brava, perché sei coraggiosa”. Può voler dire tutto e niente, però per me aveva un significato particolare. Ero sempre guidata dalle suggestioni che ci dava, però in quell’occasione avevo preso una strada pericolosa, molto lontana dalla convenzione, rischiando anche il ridicolo.

OPDP | E che strada avevi preso?

LG | Aveva suggerito di trovare una sguaiatezza, di togliere femminilità: era come se questo personaggio venisse dalla melma, doveva essere sporco, brutto, molto lontano dall’idea che avevamo della Figliastra come la faceva per esempio Rossella Falk. Era un bel salto. Ronconi chiedeva di lavorare su una vocalità sguaiata, che rimandasse a un mondo sporco.

OPDP | In questo percorso di ricerca come ti ha accompagnato Luca?

LG | Dandomi delle letture del testo. Quando lo ascoltavo spiegare o raccontare il testo, dare indicazioni sul personaggio, rimanevo sempre a bocca aperta, soprattutto su un testo visto e rivisto come i Sei personaggi, su cui si è depositata così tanta polvere. Il taglio che gli ha dato Ronconi la prima volta che lo sentimmo leggere fu scioccante.

OPDP | Perché?

LG | La figura del Capocomico, che normalmente è un praticone: quando lo leggeva era commovente, era una figura in crisi. Gli Attori non prendevano in giro i Personaggi, ma attraversavano una crisi creativa per cercare di prendere la forma di qualcuno altro nell’impossibilità di farlo: erano temi bellissimi ed era bellissimo vederlo provare la Figliastra.

OPDP | Che Figliastra faceva Luca Ronconi?

LG | Spietata, molto divertente e imprendibile. Ogni volta che faceva quelle lunghissime battute, andava dappertutto. Ho rubato molto del suo respiro, il suo levare continuo, la sua voce che a volte sembrava venire proprio da sottoterra.

OPDP | Quando ti sei accorta che i sei personaggi erano come spiriti che tornavano dal regno dei morti?

LG | Ci parlò di queste figure che dovevano quasi uscire dai muri, che entravano strisciando. Erano presenze fantasmatiche. Incarnarle era difficile, però ho trovato una fisicità che mi ha aiutato. Mi ha dato molta libertà che il progetto fosse lontano da una rappresentazione convenzionale, dandomi la possibilità di fare questa creatura mostrificata.

OPDP | A un certo punto per la Figliastra hai trovato una voce che non è la tua.

LG | Ronconi chiedeva di lavorare su una vocalità sguaiata, che rimandasse a un mondo sporco. Ho immaginato le voci dei vicoli, la dilatazione di chi urla tanto. Le persone abituate a urlare hanno una voce rotta e da lì sono partita. Questa alterazione poi mi ha portato come una pallina che rotola ad andare sempre più lontano, senza pianificarlo: però se una cosa faceva nascere un altro stimolo, lo seguivo. Non so come sono arrivata a fare quella Figliastra, forse per osmosi, come respirava, quel suo levare continuo, la sua voce che a volte sembrava venire proprio da sottoterra. Dai video, mi sono accorta che dal primo anno di Santacristina fino al debutto a Spoleto la mia voce è molto cambiata, si è perfezionata: all’inizio la cosa ero goffa e adesso capisco quando mi disse: “Sei coraggiosa”: quello che facevo non era bello, ma a lui non importava.

OPDP | Quando sei riuscita a tirare fuori per la prima volta questa voce, cosa ti ha detto Ronconi?

LG | Non mi diceva: “Brava” e nemmeno “Non sei stata brava”. Ma se non diceva niente, andavo avanti.

OPDP | Alla fine, dopo tre anni di laboratori, avete presentato lo spettacolo, che ha avuto grande successo. Voi attori avete mai pensato di fare compagnia?

LG | Non l’ho mai pensato. Era un progetto veramente complesso, uno spettacolo difficile da recitare. Eravamo tutti molto giovani e senza grande esperienza. Ogni volta che andavamo in scena, lo spettacolo funzionava solo se tutti eravamo perfettamente centrati in quello che Ronconi ci aveva messo dentro, se eravamo dentro quell’equilibrio delicatissimo. Dopo la morte del Maestro abbiamo fatto alcune sostituzioni, con giovani allievi attori che avevano partecipato a Santacristina dopo la sua morte e che sono entrati nel progetto per proseguire il filo dei suoi insegnamenti. Quello spettacolo forse avrebbe potuto essere un inizio, ma non l’abbiamo pensato. E dopo la sua morte era ancora più difficile continuare.

OPDP | Com’era la vita a Santacristina?

LG | Bellissimo! Era un tempo sospeso. Era un lusso poterci stare per due mesi, due mesi e mezzo. Non prendeva il telefono, c’erano solo i cinghiali e il teatro.

OPDP | E Luca Ronconi.

LG | Certo. Era un’immersione bellissima.

OPDP | Non l’hai mai vissuta come una costrizione?

LG | La aspettavo tutto l’anno. Andare là e fare teatro da mattina a sera. Quando andavo a dormire, proprio perché dovevo dormire, non vedevo l’ora di ricominciare.

OPDP | Dopo i Sei personaggi hai fatto anche altri spettacoli con Luca Ronconi. Cosa è cambiato lavorare da Santacristina e al Piccolo Teatro?

LG | A Santacristina c’era il privilegio della ricerca, avevamo il lusso di un anno di tempo tra una sessione e l’altra. Il lavoro si depositava, anche se non continuavi a provare tutto l’anno. Però in questo stop, nel silenzio tra un’estate e l’altra, il materiale cresceva con te. Quando ho lavorato con lui al Piccolo Teatro, il lusso dell’indagine dilatata non l’avevamo più, era tutto più concentrato, c’era la corsa per fare lo spettacolo. Era un peccato perché a me le prove con lui sono sempre piaciute, era il momento più bello, a cominciare dal primo giorno, quando ti raccontava la pazzia che aveva in mente e poi magari la cambiava perché si rendeva conto che certe cose erano impossibili. Incontrare quell’immaginario era bellissimo.

OPDP | Di cosa si nutriva l’immaginario di Ronconi?

LG | Chi lo sa? Della vita forse, era un grande osservatore. E poi era molto divertente e cinico.

OPDP | In che senso “cinico”?

LG | Non era sentimentale, aveva un taglio ironico nel guardare i sentimenti, le persone, il dramma. Era uno sguardo molto tagliente.

OPDP | Come ti ha chiesto di lavorare con lui nel Panico? Te lo aspettavi?

LG | Assolutamente no. Prima di approdare al Piccolo Teatro per Il panico ero stata al San Carlo di Napoli. Un giorno ci ha detto: “Vado a fare Semiramide al San Carlo, mi farebbe piacere se qualcuno di voi venisse a fare il mimo”. L’opera mi ha sempre affascinata, è stata una bella possibilità.

OPDP | Com’era vedere dal palcoscenico Luca Ronconi regista lirico?

LG | Diverso, bello. Divertente, con punte di dramma. Si arrabbiava tantissimo con i cantanti. Una volta strappò la parrucca a uno di loro, perché diceva che gli sembrava una mummia. E poi non capiva perché non riuscissero a incarnare le sue indicazioni di movimento, di recitazione… Erano più concentrati sulla musica che sulla recitazione e questo lo faceva infuriare.

OPDP | E mentre succedevano questi drammi, voi sghignazzavate in quinta?

LG | No, ero seria, non mi sarei mai permessa di sghignazzare. Diciamo che non essendo io al centro del cazziatone ero più rilassata. In quello spettacolo non dovevo fare quasi niente rispetto al solito, potevo semplicemente godermi l’atto creativo senza troppe ansie.

OPDP | Torniamo al momento in cui ti ha scritturato per Il panico.

LG | All’inizio mi aveva chiesto di fare una delle ballerine. Andai alla conferenza stampa a Palazzo Marino con dei tacchi molto alti. E a quel punto mi disse: “Ti voglio cambiare la parte. Ti andrebbe bene?”. “Ma sì, quello che vuoi”. “Ma è una cosa particolare. È un travestito, Ursula. Ti va bene?”. La proposta mi piacque. Le ballerine erano più presenti in scena durante lo spettacolo, mentre Ursula aveva soltanto due scene verso la fine. Però era un personaggio pazzesco, potevo fare un lavoro sulla vocalità, una cosa che mi piace tantissimo. Poi aggiunse: “Tutti pensano che Ursula sia un uomo, ma in realtà è una donna. È una donna, ma sembra che sia un uomo. Però è una donna”. Una confusione promettente e allettante dal punto di vista creativo. In più solo due scene e per quasi tutte le prove potevo stare seduta a guardare le attrici meravigliose di un cast prevalentemente femminile: potevo rubare, ci andavo anche quando non ero convocata.

OPDP | Sei andata alla conferenza stampa con i tacchi. Come ti sei trovata con quei tacchi sul palcoscenico del Panico?

LG | Era un piano inclinato, giallo fluo, con una pendenza veramente molto pronunciata. Il personaggio doveva indossare tacchi vertiginosi e avevamo tutti i tendini infiammati. Prima di entrare, mettevamo la pece, come i ballerini. Arrivavamo ore prima della convocazione, per allenarci a fare queste camminate, soprattutto noi che avevamo i tacchi.

OPDP | Com'era recitare in quelle condizioni di squilibrio?

LG | Pericoloso, ma bellissimo.

OPDP | Il pericolo cambiava il modo di recitare?

LG | Il pericolo era presente in tutti gli spettacoli di Ronconi. Essere in scena era sempre pericoloso. Nei Sei personaggi era pericoloso perché vocalmente facevo il diavolo a quattro ed era un rischio fare una Figliastra così dissacrante. Era tutto pericoloso, anche i tagli che aveva fatto al testo. Poteva essere sempre una catastrofe, ma in realtà era poesia.

OPDP | Poi sei entrata anche nel cast della Celestina.

LG | Durante Il panico, una sera eravamo nei camerini, perché lui non vedeva mai lo spettacolo. Siccome entravo solo alla fine e lo spettacolo era molto lungo, stavo per ore vestita, pronta a entrare in scena. Intanto parlavamo, magari vicino alle macchinette che vendono le patatine e cose del genere, che lui non poteva mangiare. E che invece mangiava. Un giorno mi chiese: “Ma tu, per curiosità, reciteresti nuda?”. “Dipende con chi, dipende cosa…” La presi come una delle tante domande che ci facevamo. Mesi dopo mi arrivò la richiesta di fare Melibea in Celestina e collegai le due cose: “No! Me l’aveva chiesto per questo”. E sono finita su un altro piano inclinato, pieno di porte.

OPDP | Quella scena aveva anche altri elementi di pericolo.

LG | Quando ce lo raccontò, Celestina finiva con un monologo lunghissimo, in versi, molto difficile: “Ecco, poi dirai questo monologo. Inutile che lo leggiamo adesso. Sarai nuda e ci sarà un quadro svedese e tu scenderai da questo quadro svedese, in tutte queste posizioni, ti girerai e poi arriverai a terra e morirai”. “Nuda? Scusami, ma come faccio a scendere un quadro svedese nuda?”. Aveva immaginato una figura, ma non si era posto il problema della realtà di un corpo che sarebbe stato in scena, in certe posizioni. A quel punto se ne rese conto: “Ah, no! Forse non si può, dobbiamo trovare un’altra soluzione”. Così iniziò a lavorare con Angelo Ferro, il direttore di scena, e con lo scenografo Marco Rossi: hanno inventato questo ascensore, una specie di colonna di filo spinato che mi strappava il vestito, che si rompeva tutto, e finivo a terra. Io soffro un po’ di vertigini e dovevo andare in cima a una struttura di quel tipo senza imbracatura. Un giorno Angelo Ferro gli ha detto: – “Luca, c’è un problema: quando sale lassù, deve avere un’imbracatura” – “No, non è possibile. Lei è nuda, non puoi metterle un’imbracatura”. E mi chiese:  “Te la senti?” – “Certo”. Alla fine hanno messo due manopole alle quali mi potevo reggere quando ero in cima a quella struttura. E tanti saluti alle vertigini.

OPDP | A proposito di recitare in una situazione di pericolo… E tutto questo senza vestiti…

LG | Avevo un certo pudore, mi vergognavo a fare un nudo a teatro. È diverso che farlo al cinema, il teatro può essere molto più violento. Però non ero l’unica attrice che recitava nuda in quello spettacolo e quel nudo era così bello e funzionale, era importante per raccontare quella scena e quel testo. Il nudo non lo avevamo provato, l’abbiamo fatto solo alla generale. Alla fine è stato più preoccupante il pensiero di farlo che farlo davvero.

OPDP | Ma racconti com’è andata quando hai intervistato Luca Ronconi?

LG | Quando mi proposero questa follia, chiesi: – “Me le date voi le domande, vero?” –“No, le devi fare tu”.

OPDP | Cosa gli hai chiesto?

LG | Qual era stato lo spettacolo che l’aveva preso di più da spettatore, poi gli chiesi di raccontare il processo da quando s’immagina una regia a quando deve fare i conti con quello che riesce a ottenere in scena.

OPDP | E le sue risposte ti hanno sorpreso?

LG | Mi sorpresero, sembrava molto sincero.

OPDP | Gli hai fatto domande personali, o avevano solo a che vedere con il teatro?

LG | Non credo di essermi spinta così in là, erano soprattutto domande sul suo gusto, sul suo pensiero. Però in diretta, durante l’intervista, mi invitò a cena e poi ci siamo andati veramente a mangiare il riso al salto in via Santa Marta.

OPDP | Prima hai raccontato di essere andata a New York per studiare il Metodo Strasberg, che è all’opposto del metodo – o del non metodo – di Luca Ronconi Perché hai sentito l’esigenza di fare quell’esperienza?

LG | Dopo l’Accademia “Silvio D’Amico” non avevo impegni lavorativi e volevo approfondire la recitazione per il cinema. Così pensai che per una formazione cinematografica di livello il posto migliore era New York. Ci andai per imparare a lavorare con la macchina da presa. In realtà il Metodo Strasberg è diverso da quello che mi aspettavo. Ti dicono subito: “Se non ti serve, non lo usare”. È uno strumento che metti nel sacco e puoi utilizzare quando hai delle difficoltà. Può essere anche molto tecnico. Per esempio, con il personaggio di Ursula ho utilizzato le memorie sensoriali. Ronconi non lo sapeva, era il mio processo creativo, ne avevo bisogno. Mi ha detto che Ursula doveva essere un po’ fatta, un po’ ubriaca. E così feci una memoria sensoriale sull’alcol e sul caldo. La memoria sensoriale mi ha aiutato a immaginarmi alterata. È utile capire come funziona, anche se non mi ritengo un’attrice di Metodo. Lo utilizzo più in fase di costruzione, per raggiungere delle sfumature quando ne ho bisogno.

OPDP | Quando hai detto a Luca Ronconi che eri andata a studiare il Metodo, cosa ti ha detto?

LG | Non gliel’ho mai detto, ma lo sapeva. Un giorno si è arrabbiato perché avevo fatto molto male la parte: “Ma buttati là e dilla, anziché pensare ai Metodi!”

OPDP | Altri consigli che ti ha dato?

LG | Le perle di Ronconi…

OPDP | Per esempio?

LG | Non è che dicesse: “Consigli per la carriera”, figurati. Erano piuttosto momenti in cui diceva frasi che dovevi elaborare. Durante una prova aperta a Santacristina, alcuni attori si misero a fare i simpatici. Erano scene comiche, davanti a un pubblico di allievi attori, quindi i ragazzi in scena, quando sentirono le risate del pubblico, calcarono la mano. Capita, erano all’inizio della carriera, il pubblico di giovani colleghi aveva riso molto. Ma gli attori si erano allontanati dal percorso che avevamo studiato, perdendo tantissimi livelli di precisione e di profondità. Ronconi commentò: “Ricordatevi che troverete sempre chi è disposto a ridere delle vostre scoregge, ma non pensate di aver fatto niente di più che una scoreggia”. Un’immagine un po’ greve ma efficace.

OPDP | Hai avuto una carriera che dal teatro si è allargata al cinema. Quello che ti ha insegnato Ronconi ti è servito sul set?

LG | Tantissimo. Innanzitutto quell’insegnamento: “Sei brava, ma così la possono fare tutti”. Me lo porto sempre dietro, cerco sempre di sfidarmi: “Cosa c’è di tuo, di personale, di unico all’interno di questa visione, che non è figlio di quello di cui sei già sicura?”. Anche nei provini cerco, quando posso, di dare un mio taglio, una mia lettura. Non non vuol dire “Facciamola strana”, ma cercare un significato, un piccolo momento in cui esce fuori qualcosa di mio.

OPDP | …e di rischioso. Però in una produzione industriale come quella delle serie o dei film questo atteggiamento non rischia di creare dei problemi?

LG | Lavoro sempre in maniera cosciente su qualcosa che sia fruibile, leggibile. Devi essere sempre consapevole di dove ti trovi, del tipo di linguaggio che si usa, del mezzo. Questo atteggiamento può darti molti spunti, anche se il lavoro che si fa con la parola a teatro è difficile farlo al cinema. In teatro hai la possibilità di arrivare al cuore della materia, dentro il linguaggio. Pensa a Shakespeare: sono vibrazioni, la parola diventa una magia che ti modifica. È difficile arrivare allo stesso livello al cinema, che è principalmente immagine.

OPDP | Con Luca Ronconi hai interpretato diversi personaggi e tutti molto diversi da te. C’è qualcosa che li collega? Che cosa vedeva in te come attrice?

LG | Una certo fuoco, il coraggio e magari il contrasto fra l’aspetto esteriore e le ombre di dentro. Ma non lo so. Chi lo sa? Però questa definizione me l’ha data lui.

Intervista a Licia Lanera

Oliviero Ponte di Pino | Quando hai conosciuto Luca Ronconi, avevi già una tua storia teatrale, però non avevi mai studiato con lui né all’Accademia né alla scuola del Piccolo Teatro.

Licia Lanera | L’ho conosciuto nel 2012. Dal 2005 avevo la mia compagnia, Fibre Parallele, con cui avevo già fatto alcuni spettacoli. Quell’anno alla Biennale di Venezia Ronconi teneva una masterclass per 12 attori e 4 registi. Feci domanda come regista e venni chiamata a un incontro preliminare a Santacristina e con gli altri registi abbiamo lavorato con gli attori su Questa sera si recita a soggetto, poi sono andata a Venezia.

OPDP | Che impressione ti ha fatto Santacristina?

LL | Il teatro è un micromondo, spaventosamente diviso in altri micromondi. La ricerca non conosce il teatro ufficiale e io non sapevo nulla dell’esistenza di Santacristina.

OPDP | Ma gli spettacoli di Ronconi li avevi visti?

LL | All’università seguivo l’indirizzo di cultura teatrale e nel 2002 il professore di Storia del teatro greco e latino ci portò a vedere la trilogia di Ronconi a Siracusa. E in video, sempre all’università, avevamo visto il Pasticciaccio: per me era lontanissimo e grandioso. La trilogia a Siracusa mi colpì molto: il professore e i miei genitori mi sfottono ancora oggi perché quando tornai dissi: “Io un giorno devo lavorare assolutamente con questo regista!”

OPDP | Così sei arrivata a Santacristina.

LL | Arrivare a Santacristina è un’impresa geografica. Ci sono andata con l’auto e mi colpì subito il cartello “Casa del Diavolo”, la località è quella, c’è già questa ironia. Mi sono trovata in mezzo alla natura, con Ronconi mansueto e carino, che ci ospita in questa sala grigia con le pareti bianche. La masterclass a Venezia era a maggio-giugno, ci siamo visti un mesetto prima. Non c’era nessuno, perché non era ancora il periodo della Scuola d’Estate. Mi colpì questo luogo nel nulla e ho iniziato a capire che cosa succedeva.

OPDP | E a Venezia?

LL | Rimasi folgorata dal suo modo di lavorare. Poco prima avevo fatto una masterclass con Eimuntas Nekrosius, con cui ero arrivata quasi alla rissa…

OPDP | Ti aveva fatto arrabbiare?

LL | Partecipavo anche lì come regista ma mi prestavo anche come attrice agli altri registi. Nekrosius non ci diceva nemmeno “Buongiorno”, era la traduttrice che doveva dirci “Buongiorno”, e questo mi dava fastidio perché Nekrosius aveva lavorato tanti anni in Italia e conosceva più o meno l’italiano. Invece con Luca ho subito avuto l’istinto di non chiamarlo Maestro né di dargli del lei, non certo per ridurre la sua grande personalità e maestria. E lui non si è mai innervosito per questo, mentre con Nekrosius se non utilizzavi la parola “Maestro” con un inchino faccia a terra… Nel mio mondo scapestrato questo mi straniva.

A livello attoriale, Luca aveva uno sguardo particolare per le poche cose che facevo, mentre Nekrosius ogni volta che interpretavo una scena con gli altri registi della masterclass mi doveva criticare. Con i mutilati dell’Inferno di Dante, avevo fatto una scena splatter con un mucchio di sangue. E lui: “Non è normale che una donna regista faccia una cosa così forte”. In una scena dal Maestro e Margherita, con Ponzio Pilato e Cristo, avevo messo in ginocchio un’attrice che diceva: “Per favore, non ammazzate il mio figlio!” E Nekrosius: “Ma non lo sai che in teatro una donna in ginocchio non ci può stare?”. A quel punto della mia carriera avevo già tagliato quarti di bue in scena e fatto varie porcherie sia da sola sia con Ricci/Forte sia nei negli spettacoli di Fibre Parallele… Quando fui presa da Ronconi, Riccardo Spagnulo mi prese da parte: “Per favore, non litigare pure con questo!”. Così partii dicendomi: “Speriamo bene…” Invece creammo subito un legame, che si consolidò in un episodio. Luca faceva lezione la mattina, lavoravamo per così dire teoricamente, mentre il pomeriggio lavorava con i quattro attori. Un giorno stava spiegando e io ero tutta concentrata. A un certo punto Luca si gira, mi guarda, mi fa il verso e mi manda un bacio volante. Tutta la classe si è girata verso di me. Io ero imbarazzatissima: “Ma che sta succedendo?”. Nessuno riusciva a spiegarsi l’atteggiamento di Luca nei miei confronti, di grande stima ma anche estremamente affettivo. Io e lui abbiamo condiviso diversi momenti privati molto preziosi, per esempio un Capodanno molto intimo a casa di miei amici qui a Milano, oppure pranzi e cene in casa a Bari, dove ha lavorato per un certo periodo, magari con mia madre e le mie amiche…

OPDP | Però per Ronconi non squartavi quarti di bue pieni di sangue…

LL | A Venezia feci una regia abbastanza misurata, ma sempre con la mia forza. Gli piacque e a un certo punto mi disse: “Sai che ho questa casa in Umbria, ci sei già venuta. C’è la Scuola d’Estate e sarebbe bello se tu venissi. Quest’anno faccio Pornografia di Gombrowicz, l’hai mai letto?”. Risposi di no. “Secondo me ti piacerebbe e sarebbe bello se tu venissi a seguire le prove”. Mi sono segnata l’impegno e sono tornata a Bari. Avevo in programma un’opera lirica con la regia di Mario Martone, che cercava degli attori che facessero delle azioni sceniche. Era già tutto deciso, dovevo solo firmare. Però io volevo andare a Santacristina. Così ho mandato all’aria il progetto, sperando di non entrare nella lista nera di Martone, anche se probabilmente non sapeva neanche chi fossi. La notte sognavo che dovevo andare a Santacristina: “Devo andare, devo andare!”, ma nessuno mi telefonava. A un certo punto ho chiamato Luigi La Selva, l’assistente di Luca: “Io voglio venire…” E lui: “Guarda, quando Ronconi è tornato ci ha detto che gli sarebbe piaciuto avere tra gli assistenti anche Licia Lanera. Ma il percorso era già stato avviato e chi viene a Santacristina per un certo tipo di lavoro riceve un compenso, oltre a vitto e alloggio. Ma purtroppo a quel punto i giochi erano già fatti. Insomma, lui non ti avrebbe chiesto di venire senza…” “Ma io vengo a spese mie, mi pago tutto, anche dormire e mangiare. Se vuole che io venga… se non gli do fastidio…” Non so oggi quanti sono i giovani attori o registi che avrebbero rinunciato a un lavoro ben pagato per andare lì a pagarsi l’albergo in mezzo al nulla. Così Luigi mi disse: “Se proprio vuoi venire, vieni…”

Ci sono andata con un grandi aspettative. A Santacristina Luca aveva una sorta di euforia che condivideva con i suoi commensali. Quando sono arrivata, gli attori che erano a Santacristina si conoscevano tutti e molti di loro devono essersi chiesti: “Ma questa chi è?”. Venivo da un altro teatro, di cui moltissimi miei coetanei non sapevano nulla, non conoscevano né Fibre Parallele né il mio lavoro. Arrivo lì e inizio a seguire questo percorso. Ero davvero spaesata. Oltretutto gli attori hanno sempre voglia di essere guardati e amati dai registi, o magari anche massacrati. E Luca creava un bisogno di attenzione ancora maggiore. Il mio arrivo ha scatenato umori a volte anche forti.

OPDP | Come assistente alla regia, cosa facevi a Santacristina?

LL | In realtà non avevo un ruolo, anche perché Luca aveva già un assistente. La premessa era: “Vieni qualche giorno, poi vediamo che succede”. Ci sono rimasta quasi un mese, mi hanno trovato anche da dormire, stavo a casa di Gae Aulenti con Sandro Lombardi, mi sono occupata un po’ di lui. Ma ci ero andata da osservatrice: non facevo niente, stavo lì a guardare. Quello che ho iniziato a vedere negli anni avrebbe segnato il mio lavoro, anche se in maniera sotterranea. È stata la vera lezione della mia vita ed è cominciata lì.

OPDP | Che cosa ti ha colpito?

LL | Luca lavorava su un romanzo, Pornografia, e quindi ho assistito al suo lavoro su un testi non teatrali, una pratica che poi ho iniziato a utilizzare anche io, inconsapevolmente, e che poi mi è risalita. L’altra sera abbiamo fatto un incontro a Ravenna Teatro e Lorenzo Donati, che lo coordinava, ha aperto con la lettura di un testo che diceva più o meno: “Quando porto in scena un romanzo, non faccio un adattamento drammaturgico ma lascio che gli attori recitino anche le didascalie…” All’inizio ho pensato che fosse una mia citazione, poi ho capito che era una frase di Ronconi. Era un pensiero elaborato, un discorso che di sicuro non avrei potuto scrivere io, e nemmeno dirlo in un’intervista. Però spiegava il mio lavoro. Quindi devo aver assorbito la sua lezione, anche se per anni non ho praticato il romanzo.

Non capivo il suo vocabolario, l’ho capito solo dopo: deve partire tutto dalla parola. È quello su cui lavoro oggi: non ci sono arrivata razionalmente, ma l’ho assorbita proprio a Santacristina. Anni dopo, in Cuore di cane[14] e in maniera esplosiva in Altri libertini[15], ho lasciato che questa lezione agisse. Ho adottato la sua pratica di agire la parola anche attraverso la terza persona, fare l’azione mentre la si sta raccontando. Questo continuo dentro-fuori è diventato la bibbia del mio teatro. Nel 2025 post-Covid la rappresentazione non è più credibile, non la si può più fondare sul personaggio. Ho scoperto di non credere più nel personaggio, perché la parola è sovrana. O, come diceva Luca, la parola è tirannica. Si tratta di trovare quello stato di verità assoluto che va oltre il sentire. Quando abbiamo lavorato sul Panico al Piccolo Teatro, Luca mi cazziava così: “Che fai? La senti? Ma che senti?”

A Santacristina, dopo che aveva montato una scena – e c’era anche il suo assistente – un giorno Luca mi fa: “Adesso devo andare, falla ripetere tu e finisci di montarla”. C’erano Riccardo Bini e Sandro Lombardi. È stata un’esperienza molto difficile anche emotivamente, perché Sandro non stava sempre bene e anche Riccardo aveva le sue tensioni. Era bellissimo vedere la sua analisi del testo, che era la sua peculiarità. Un lavoro incredibile, che non avevo mai visto. Nella ricerca, anche se non sopporto più queste definizioni, il tavolino è una delle pratiche bistrattate, una routine che da teatri stabili o da teatro classico… Io non conoscevo il tavolino e quel poco che avevo fatto non c’entrava niente con l’analisi del testo: si diceva il testo e si tromboneggiava… Non avevo una grande esperienza teatrale. Fino a quel momento, avevo esordito con un paio di registi baresi che avevano in repertorio spettacoli su padre Pio. Avevo fatto La giara di Pirandello, un’Odissea a base di schiaffi e calate dietro la testa, allestita la mattina nelle piazze più desolate della Calabria. Poi avevo seguito percorsi di formazione dove avevo anche lavorato al tavolino, per esempio con Massimo Verdastro. Infine c’era il mio percorso da autodidatta. A Santacristina mi sono ritrovata catapultata in un’altra dimensione. Ho capito che il tavolino era un’esigenza necessaria per comprendere davvero il testo, per dare valore a ogni microparola e per creare una lingua teatrale.

Ronconi viene ricordato come creatore di spettacoli in cui gli attori cantavano. In realtà quando provava Ronconi era come se cantasse, e poi ti diceva: “Hai capito?”. Quando lo faceva lui, aveva qualcosa di naturale. Ci spiegava che quando parliamo mettiamo le pause in punti inaspettati, perché magari non ci viene in mente una parola, o ci attraversa un altro pensiero. Noi scomponiamo le frasi naturalmente. Ci faceva affondare talmente tanto nel testo che ne veniva fuori davvero un’ipotetica lingua parlata. Ed era molto diverso dal naturalismo che a volte viene praticato anche a teatro, che sembra il linguaggio delle fiction della televisione: invece di ‘dire’ le parole, vado veloce e le butto via. Le partiture di Ronconi erano frutto di un lavoro sovrumano sulla lingua. Sembra naturale, ma nasce da uno studio in cui le pause, messe in un punto non canonico, sviluppano un linguaggio molto più articolato e vanno ancora più a fondo nel significato. Riprodurlo è difficilissimo, se non comprendi fino in fondo il meccanismo. Ci riesce un attore come Massimo Popolizio. Io, quando ho recitato Celestina al Piccolo Teatro, l’ho compreso solo in parte. Infatti all’inizio ero entrata in una profonda crisi…

OPDP | Ma come sei passata da Santacristina al Piccolo Teatro?

LL | Passa un anno, un anno e mezzo. Vengo a Milano e invito Ronconi a vedere un mio spettacolo. Non gli avevo mai detto che facevo l’attrice, perché non volevo che pensasse che mi ero avvicinata a lui perché volevo una parte. Non mi interessava proprio, io volevo studiare regia. Ronconi venne a vedere Furie de sanghe[16] e mi chiese di andare a trovarlo alla Scuola del Piccolo Teatro, perché erano venuti anche alcuni dei ragazzi della scuola. Quando arrivai, mi fece fare un applauso in classe. “È una regia estremamente raffinata”, commentò. Il termine mi colpì. Furie de sanghe non era certo uno spettacolo raffinato, anzi, ma Luca stava dicendo che anche nella volgarità c’era una raffinatezza estrema. E poi mi disse: “Non sapevo che facevi anche l’attrice, sei brava”.

Nel 2013 venne a vedere anche Lo splendore dei supplizi[17]. Un giorno ricevetti una chiamata: “Luca ti voleva chiamare, ma sa che sei molto impegnata”. E io: “Ma certo! Fammi chiamare!”. Ero sicura che per me fosse finalmente arrivato il momento di fare l’assistente alla regia di Luca Ronconi in maniera ufficiale.

OPDP | E invece?

LL | Lui mi fa: “Senti, devo fare questa Celestina”. E io: “Sì, sììì!”. “Ci sono due ruoli da puttana. Ce n’è uno, bellissimo… Tu sei perfetta”. L’espressione “tu sei perfetta” mi divertì molto, ma rimasi bloccata. Ci fu un silenzio. Lui ripeteva: “Pronto? Pronto?”. Davvero non me l’aspettavo. Non avevo mai pensato di diventare una sua attrice. Nei miei spettacoli facevo vari ruoli, anche molto diversi tra loro, ma non avevo mai pensato di essere l’interprete adatta per una sua regia. Così gli risposi: “Ma non sono all’altezza, non credo di potercela fare. Pensavo che mi stessi chiamando come assistente”. “Ma no, l’assistente ce l’ho. Sarai perfetta, non ti preoccupare. Ti faccio chiamare alla produzione”.

OPDP | Che cosa aveva visto Luca Ronconi nell’attrice Licia Lanera?

LL | Non lo so, non lo so, non lo so, non lo so.

OPDP | Però la produzione ti ha chiamato…

LL | Mi sono imbarcata, con la stessa sensazione di essere un pesce fuor d’acqua che avevo avuto a Santacristina. Ma al Piccolo Teatro questa distanza si era centuplicata, anche perché un posto preso in una produzione di Ronconi è un posto tolto a una delle sue attrici… E poi venivo da una piccola compagnia, da una situazione familiare, mentre al Piccolo Teatro c’era una gerarchia: ognuno si faceva i fatti suoi, non si andava a cena insieme, si timbrava il cartellino. Era proprio un’altra modalità di lavoro, anche se con un’attrice come Maria Paiato avevo un rapporto strettissimo.

OPDP | Era anche una produzione molto impegnativa.

LL | Era un mondo molto diverso dal mio. Io avevo la mia storia, ma nessuno la conosceva. Chiedermi “Sei di Bari?” era già mettermi in fondo alla gerarchia, come se facessi del teatro amatoriale. Avevo già vinto diversi premi importanti, ma qualcuno venne a chiedermi: “Ah, ma allora voi girate i teatri parrocchiali?”. E poi si è creato il caos, perché io mi sono persa e lui mi ha fatto il culo.

OPDP | Perché ti sei persa?

LL | Non avevo le spalle abbastanza larghe. Fino a quel momento me la cantavo e me la suonavo: mi sono ritrovata in una struttura gigantesca con regole tutte diverse, dalla produzione al palcoscenico, un altro modo di recitare e di lavorare, ma anche di stare insieme agli altri. Non ero pronta. Forse non ero preparata ad abitare quella parola, o meglio credevo di non esserlo. C’è una cosa che avrei voluto chiedergli, ma quando è morto non avevo ancora trovato il coraggio, era passato ancora troppo poco tempo: “Perché sei stato così cattivo con me? Proprio con me?”

OPDP | Cosa è successo?

LL | Ha iniziato a puntarmi. Dicevano che Luca spesso sceglieva una persona che diventava il suo bersaglio. Ero in un momento di grande debolezza e lui me ne diceva di tutti i colori. Se qualcuno faceva male una scena, commentava: “Sì, non ti è venuta bene perché Licia ha fatto male quella prima!”. Era tutto così. “Sei una ciabattara!”, ma era era stato lui a mettermi le ciabatte in scena. A quel punto sono andata in tilt: “Adesso mi butto in una botola, così mi spacco la gambe e devo per forza tornare a casa”. Di notte riguardavo i trailer dei miei spettacoli: “Ricordati chi sei! E se sei qui, è perché Ronconi ti ha voluta per quello che sei. Ha visto quello che sei e ti ha scelto per Celestina”. Ma la storia ha un lieto fine. Con gli anni sono diventata sempre più strutturata come regista e quello è stato il suo modo per farmi arrivare a questo traguardo. Probabilmente se non avesse utilizzato quel metodo non ce l’avrei fatta. Per me un regista è il veggente, ha la capacità vedere prima degli altri come sarà l’opera. E Ronconi, che era un genio, era un grande veggente. Sapeva quello che sarebbe accaduto. Di me aveva previsto tutto.

È stato una massacro. Io incassavo, incassavo, incassavo. Lui stava aspettando. Forse s’aspettava che succedesse prima. Io incassavo finché un giorno, a un certo punto, sono esplosa. Lui era seduto in mezzo alla platea. E io: “Tagliala, questa scena! Tagliala!”. Scendo in platea e a distanza ravvicinata gli grido in faccia: “Non la so fare!!! Tagliala, non la voglio fare più”. E lui, forse intimorito dalla mia reazione: “Pausa!”

Arriva un messaggio in camerino dall’interfono. E io: “Lasciatemi stare!”. Ero diventata una pazza. “M’ha rotto il cazzo!”. Ronconi ha iniziato a provare un’altra scena. Finito di provare l’altra scena, dopo un paio d’ore, Luca mi richiama: “Riproviamo la scena di Elicia!”, perché il mio personaggio si chiamava Elicia. E io: “Ma di nuovo?”. Allora lui mi ha preso da parte: “Prima hai perso il lume della ragione. Ecco, falla così!”

Ero sprofondata nella nevrosi di quegli attori mediocri che registravano le intonazioni di Ronconi e cercavano di riprodurle foneticamente, senza capire la sua lezione. Pure io, più lo imitavo, più mi allontanavo dall’obiettivo, più lui s’incazzava. Così ho fatto la scena fottendomene della mia nevrosi e ho rotto l’incantesimo: “Lo fai benissimo”. Da quel momento non mi ha detto più niente. Io dovevo essere quella cosa là. Con quello spettacolo ho vinto anche il Premio Ubu. Dopo le prime repliche ero ancora arrabbiata con lui, perché ero stata davvero male. Magari durante l’intervallo lui parlava con gli altri attori di uno spettacolo in scena in quei giorni a Milano, e io non lo consideravo. Mi chiedevo: “Perché ce l’ha con me?”, ma non avevo gli strumenti per capire dove volesse farmi approdare.

OPDP | Sei stata davvero male.

LL | Ho sofferto tanto. Ero perduta. Forse era un passaggio obbligato, se non mi fossi perduta non avrei fatto i passi avanti che poi ho fatto. Credo che fosse tutto calcolato, ma in quel momento pensavo che fosse un atto di sadismo gratuito nei miei confronti. E c’era comunque, anche se era calcolato a fin bene. E io non lo comprendevo. Mi chiedevo: “Ma perché se quell’attore fa una cosa completamente diversa da quella che gli chiede, non gli dice niente? E perché a me invece mi deve massacrare?”. Però Luca, quando una persona non gli interessava, quando capiva che non avrebbe tratto un ragno dal buco, la ignorava. Ora capita anche a me: quando mi accorgo che un attore o un’attrice proprio non capisce, e io so che non ci lavorerò più, lo ignoro e gli lascio fare quello che vuole. Poi dico: “Non lo voglio vedere mai più”. Piuttosto mi accanisco con le persone da cui so che posso tirare fuori qualcosa. Forse mi serviva una terapia d’urto, non c’era un altro modo. Dovevo cadere nel fango e nella merda per arrivare a quella rivelazione. Mi stava dicendo: “Voglio semplicemente te. Falla come persona e falla così”. Perché poi la durezza di Luca dipendeva dalla sua grande timidezza e sensibilità d’animo, dove le emozioni sono anche un abisso. Era lo scudo di un uomo con un cuore gigantesco, che ha dedicato tutta la vita al teatro. Io mi sentivo vicino a lui quando diceva: "Se non avessi fatto teatro sarei stato un povero disgraziato”.

OPDP | Quando hai debuttato con Celestina ancora non vi parlavate?

LL | Abbiamo ricominciato a parlarci, ma poco. Celestina è stata un grande successo, anche per me. Capitò anche una recensione molto brutta sullo spettacolo, dove si diceva che l’unica cosa buona ero io. Lui s’incazzò con me e io mi incazzai ancora di più con lui: “Allora basta!”. E piangevo: “Ma com’è possibile?”. Poi ho saputo una cosa tenerissima e dolorosa. Io ero l’attrice che era stata male perché Ronconi mi aveva strapazzato, io ero l’attrice che gli aveva dato dello stronzo e non voleva più lavorare con lui. E quindi si parlava di me. Una sera, a un certo punto Luca disse: “Se Licia vuol diventare una grande regista, una grande donna di teatro, la prima cosa che deve fare è liberarsi dalla sua famigliola”.

OPDP | Che era la tua compagnia.

LL | La mia compagnia e la dimensione della coppia. In quel momento stavo pensando di fare una serie di passi indietro, come attrice e come regista, e se lo avessi fatto non sarei stata quello che sono oggi.

OPDP | Ma questo te lo ha detto?

LL | Era un uomo pieno di pudore e non si sarebbe mai permesso di dirmi una cosa del genere. Poi pian piano la situazione si è sciolta, ci siamo parlati. E quando l’ho visto dieci anni fa, ero alle soglie delle nozze. Gli chiesi di celebrare il mio matrimonio. Che poi non si è fatto…

Celestina ha segnato una frattura nella compagnia e nel rapporto tra me e Riccardo Spagnulo. Quando gli chiesi di celebrare le nozze, Luca accettò, a una condizione: “Se ce la faccio, volentieri. Ma solo se prometti che il prossimo spettacolo lo fai con me”. E io: “Di nuovo? Vabbè, te lo prometto”. Anche se poi il matrimonio e lo spettacolo non si sono mai fatti…

OPDP | Ti ha dato altri consigli per la carriera?

LL | Non mi ha mai parlato esplicitamente di niente. Non mi ha mai dato consigli. Non mi ha mai indirizzato. Ero in una tale confusione, non sapevo più cosa pensare… Invece è come se avessi studiato con lui, come se mi avesse dato consigli su come agire, comportarmi, lavorare sul testo, lavorare con gli attori, strutturare una didattica personale, anche se con lui ho passato un tempo limitato. Poi c’era il suo sguardo sul mondo, attraverso gli occhi del teatro. Per me è un maestro gigantesco, nonostante abbia sempre esitato a chiamarlo così. La mia storia è diversa da quella di registi come Carmelo Rifici o Claudio Longhi, che con lui hanno fatto grandi esperienze. Io l’ho conosciuto nell’ultimo periodo della sua vita, l’ho incontrato sono una volta a Santacristina e una volta al Piccolo Teatro, ma la sua presenza è stata talmente forte che nelle mie scelte quotidiane c’è sempre. Era una trasmissione non detta, come la lingua del teatro, che non è quella della vita vera, è un altro tipo di linguaggio. Attraverso la lingua del teatro, mi ha spiegato come stare al mondo e come state nel mondo del teatro, come creare questo patto con il teatro, come sopravvivere a una separazione, come leggere un testo. E questo forse è successo anche perché avevo già alle spalle un pezzo di carriera.

OPDP | Avevi una storia e un’identità.

LL | Non ho assorbito la sua lezione in maniera sgangherata, avevo già alcuni ferri del mestiere e quindi ho potuto assorbire un’altra lezione.

OPDP | Molti attori e attrici con cui ho parlato si erano formate con Ronconi o con docenti che si erano formati con lui, quindi già usavano il suo linguaggio e il suo metodo. Tu hai una storia diversa, forse alcune delle tue difficoltà venivano proprio da questa impostazione.

LL | Io venivo dalla scuola in cui prima dello spettacolo si fa il training, cioè tre ore di improvvisazione. Lì dovevi stare venti giorni al tavolino e solo dopo andavi sul palco a recitare. E poi c’era il lavoro sul personaggio. Avevo lavorato per anni su un neutro che piano piano si trasforma in personaggio, poi arriva Ronconi e dice: “Ma che è ’sto personaggio?”. Adesso per me il concetto di personaggio non esiste. Ci sono arrivata piano piano. Queste cose le ho assorbite da lui, ma al momento non le capivo. Tutto quello che ho fatto, tutto il resto, mi serve ancora, quando mi spingo verso la deformazione grottesca. Ma il lavoro sul testo su cui si basa oggi il mio teatro mi era totalmente sconosciuto. Si è creato uno strano cortocircuito. Ronconi aveva capito che avrei potuto assorbire la sua lezione nonostante ne fossi a digiuno. Non era un pazzo o uno sprovveduto, avrebbe potuto prendere chiunque altro dal mondo da cui venivo. Nel mio lavoro sia di regista sia di attrice, anche se provenivo da un altro mondo, deve aver capito che quegli elementi c’erano, anche se i suoi ferri del mestiere ancora non li avevo. Ci sono arrivata per istinto. A Santacristina le persone, anche quelle più giovani di me, sapevano esattamente quello che voleva dire. Io non conoscevo nemmeno il vocabolario, ho dovuto imparare l’alfabeto ronconiano, l’alfabeto di un teatro che non è quello classico, perché il lavoro di Luca è molto diverso da quello di Gabriele Lavia, per esempio. Mi fanno ridere quando dicono “il teatro di regia classico di Luca Ronconi”: faceva spettacoli nelle industrie, rivoluzionava gli spazi e la lingua, sceglieva testi non teatrali e anziché Shakespeare faceva Karl Kraus o Infinities. Se questa non è ricerca, che cosa è la ricerca? Quando gli hanno chiesto che cosa lo aveva più impressionato, Luca raccontava di uno spettacolo del Living Theatre: “Non perché mi era piaciuto. Anzi, mi aveva fatto schifo. Ma mi aveva turbato profondamente nella sua unicità, nelle sue modalità”. Poi mi sono ritrovata in alcune delle sue affermazioni, anche ironiche. Sul teatro di narrazione: “Spero di vivere abbastanza a lungo per vederlo morire. È nato quando la mia carriera era già abbastanza avanti e spero di vivere abbastanza per vederlo morire”, anche se lui paradossalmente quando portava in scena i romanzi faceva una sorta di narrazione, ma con un altro approccio alla lingua. Invece non ho assorbito da lui – a differenza di altri suoi “allievi” – il rapporto con lo spazio, anche perché nel mio teatro non ho mai avuto gli strumenti per farlo, né uno spazio adatto né i soldi. Ma forse anche perché non mi interessa. Da questo punto di vista i miei spettacoli non hanno nulla di ronconiano. Quella che sento come una sua eredità è il lavoro con gli attori. Ieri, all’ennesima replica di Con la carabina[18], Danilo Giuva a certo punto ha fatto una cosa ronconiana: ha spezzato la frase in mezzo e ha scomposto il verbo, dando alla battuta un altro significato, credibilissimo e bellissimo. Mi piace l’idea di aver passato questa capacità, ma senza spiegarla: ormai i miei attori la usano continuamente, anche come esercizio per stare sempre allerta con la lingua durante la noia ripetitiva delle recite. Questo gioco di spostare le pause ormai fa parte di noi.

Intervista a Massimo Odierna

Oliviero Ponte di Pino | Perché e quando hai deciso di fare teatro?

Massimo Odierna | Non è che un giorno mi sono alzato e ho deciso di studiare questo mestiere. Mio padre è biologo e pittore, sono cresciuto in un contesto creativo, c’è sempre stato all’interno delle mie famiglie un fermento creativo. Non ho avuto un ottimo rapporto con la scuola e con il liceo. Fin da bambino avevo a che fare con la creazione di mondi, personaggi, sketch, situazioni. Nel condominio del mio palazzo, nella periferia di Napoli, allestivo scenette con i miei amici. Era un modo un po’ romantico per sfuggire al disagio della periferia. A sedici anni ho iniziato a lavorare presso strutture turistiche, saltavo da un villaggio all’altro facendo cabaret, improvvisando. Erano i primi lavoretti. Dopo aver terminato gli studi liceali, ho iniziato a lavorare e studiare teatro a Napoli. La faccenda ha cominciato a diventare più seria: “Il ragazzo si sta applicando”. Pian piano l’impegno è diventato più serio, lucido e concreto. Questa piccola realtà teatrale (L’Accademia teatrale "Il Primo" di Napoli) mi ha dato i primi strumenti per strutturarmi, per capire cosa fossero la disciplina, il mestiere. Dopo tre anni, il mio insegnante mi disse: “O resti con noi a lavorare oppure tenti di entrare in un’accademia”.

OPDP | E hai tentato l’ammissione alla “Silvio D’Amico”. Ti hanno preso?

MO | Al primo tentativo. Così ho preso la famosa valigia e da Napoli sono andato a Roma. Lorenzo Salveti aveva appena preso la direzione dell’Accademia e ci ha fatto incontrare tanti maestri, dallo stesso Salveti a Nikolaj Karpov e Eimuntas Nekrosius, da Valerio Binasco a Peter Stein. Al termine di questo percorso, la nostra classe ha incontrato Luca Ronconi a Santacristina.

OPDP | Quali sono state le tue impressioni quando ci sei arrivato?

MO | Conoscevo Ronconi di fama ma non ero preparato su chi fosse. L’ingenuità che mi portavo dietro mi ha dato la forza, il coraggio e la spregiudicatezza per affrontarlo. Mi sono ritrovato in questo posto unico, estremo, magico. Mi sono reso conto che eravamo in un posto diverso, nuovo e forse irripetibile. La prima cosa che mi viene in mente è il bianco di Santacristina, un colore che associo al ricordo di Ronconi, alla sua immagine. Le prime sensazioni sono state davvero forti, ma ero soprattutto curioso di vedere cosa aveva da dire e da consegnarci questo grande maestro.

OPDP | Avete dovuto preparare qualcosa? Un monologo?

MO | Ronconi era venuto a vedere il provinone finale, una serie di monologhi diretti da Valerio Binasco. Lì aveva cominciato a studiare gli allievi attori con i quali si sarebbe dovuto confrontare. Quando il gruppo è arrivato a Santacristina, si ricordava i monologhi che avevamo recitato. Secondo me, aveva già tutto chiaro, anche dal punto di vista delle caratteristiche, del potenziale, delle possibilità di ciascuno di noi.

OPDP | Come ti sei accorto che aveva già questo sguardo su di voi?

MO | Con Binasco avevo portato il monologo del Don Giovanni di Molière. In questa scena avevo a che fare con il pubblico, anche se poi ho scoperto che Ronconi detestava quando l’attore si rivolge agli spettatori. Mi associò a Don Giovanni, si ricordava del monologo che avevo recitato. A Santacristina iniziò una prima generica distribuzione sui vari laboratori. Iniziammo a lavorare su vari testi. All’inizio del laboratorio sui Sei personaggi, avevamo tutti più di un ruolo. All’inizio c’era tre Figliastre, due Padri, tre Capocomici. Poi nel corso degli anni quel cast si è andato sempre più delineando, finché non si è formato un unico cast con il doppio ruolo del Padre, nel quale io e Luca Mascolo ci siamo alternati fin dall’inizio delle repliche. Nei debutti mi ha sempre fatto fare il Padre e poi nelle repliche ci alternavamo. Era anche un modo per farci stare sempre su chi va là, perché una sera ero un protagonista e la replica successiva avevo un ruolo minore…

OPDP | Ma eravate gli unici ad alternarvi?

MO | Alla fine ha portato avanti solamente questo doppio ruolo, mentre gli altri avevano tutti un ruolo definito.

OPDP | Mentre delle tre Figliastre, due alla fine sono rimaste a casa.

MO | Il cast si è andato via via definendo, un po’ per le scelte di Ronconi, un po’ per scelte di attori che non si volevano sentire sotto stress, sotto esame, in competizione fino alla fine. Invece io e Luca Mascolo, che eravamo amici e compagni di classe già in Accademia, abbiamo portato avanti il doppio ruolo in totale tranquillità e anzi ci siamo aiutati a vicenda. Io ho avuto la fortuna di fare anche la versione televisiva, ma siamo sempre stati complici. Osservando lui, apprendevo alcune cose, mentre lui osservando me ne apprendeva altre. Siamo andati avanti così fino alla fine delle repliche.

OPDP | Hai detto che il Padre e il Capocomico erano due personaggi molto diversi.

MO | Erano due immagini molto diverse, ma già si intuiva che Ronconi non voleva associare il fisico dell’attore al ruolo, ma voleva esplorare le possibilità, le combinazioni. Era già un piccolo atto rivoluzionario: non associare il fisico all’età del personaggio. Il Capocomico, nell’ottica ronconiana, era in crisi, spaesato, smarrito… Aveva perso l’autorevolezza che di solito viene assegnata a questo ruolo. Quindi era febbrile, smarrito, come se perdesse ogni volta le sue certezze. Il Padre era, come lui lo definiva, un ectoplasma che veniva da un altro mondo, che si trascinava dentro una serie di contraddizioni e meschinità, di bassezze, che cammuffava e nascondeva dietro alle sue visioni filosofiche.

OPDP | Prima hai detto che Ronconi aveva fatto una scelta rivoluzionaria: non associare il fisico al personaggio. C’era anche un problema di anagrafe. Avevi venticinque anni e dovevi fare due personaggi decisamente adulti.

MO | Per lui la differenza non era un problema, anzi era uno stimolo in più sia per noi che per lui, perché costringeva l’attore a una costruzione, sia fisica sia vocale, nella verbalizzazione delle battute. Si divertiva a creare questi paradossi, queste contraddizioni sceniche. E ti dava tante informazioni e indicazioni che per un giovane attore sono un bagaglio infinito. Lì giochi veramente, non è più tutto limitato alla tua fisicità, che ti permette di fare solo un tipo di ruolo. Stravolgeva ogni regola legata al gioco del teatro.

OPDP | Come funzionava questo meccanismo, rispetto al vostro lavoro con altri registi? Cosa c’era di diverso nell’approccio di Ronconi alle prove?

MO | La sua capacità di restituirti nelle sue indicazioni la visione del testo, dello spazio, delle battute in modo totalmente unico, originale, ma nello stesso tempo estremamente concreto. Diceva spesso: “Hai fatto benissimo, ma non hai fatto la cosa giusta”. Potevi anche essere molto bravo, dotato, interessante, ma stavi aggirando il problema. Quando centravi quello che chiedeva, era come oggettivare il lavoro. Non c’erano scorciatoie, non potevi fare il furbo, nasconderti dietro ai trucchetti che solitamente si usano in teatro. Tutti gli attori si difendono, cercano scorciatoie, o utilizzano gli strumenti più facili. Con Ronconi centravi il punto, oppure restavi a girare all’infinito intorno al problema. Serviva una grande capacità di addentrarsi dentro la battuta, per dargli quello che voleva ottenere. Era un lavoro di maschera, di costruzione. Lavorava molto con il grottesco, con il tragicomico, ma in maniera totalmente concreta ed efficace: ti restituiva le battute in maniera unica. E ti dicevi: “Questa volta ci posso arrivare, gli faccio una proposta e vediamo se funziona”. E magari diceva: “Interessante, ma adesso proviamo a fare quest’altra”. Emergevano mondi, suoni, modi totalmente nuovi e affascinanti di vedere la battuta. In quel momento l’attore si diceva: “Voglio raggiungere quella qualità, quella capacità totalmente unica e originale”. Bisognava prendere il rischio di non limitarsi all’imitazione, ma di appropriarsi della suggestione di Ronconi.

OPDP | Quando avete iniziato a lavorare sui Sei personaggi, pensavate che sarebbe diventato uno spettacolo?

MO | No, ma dopo la prima restituzione, alla fine del primo laboratorio, rimase particolarmente soddisfatto. Già il fatto che volesse continuare per noi era già un traguardo importantissimo. Il fatto che un regista del suo calibro volesse tornare a lavorare con un gruppo di attori giovani, freschi di Accademia, che in qualche modo gli avevano restituito ciò che aveva chiesto per me resta uno dei momenti più belli, più della formalizzazione finale.

OPDP | Non gli interessavano solo alcuni attori e attrici, era proprio il gruppo che gli piaceva. Che cosa aveva di particolare?

MO | Eravamo un gruppo operaio, ci piaceva lavorare, metterci in gioco, studiare e restituire. Abbiamo preso sul serio la sua poetica, la sua visione e il suo modo di percepire il teatro. Questa forse è stata la carta vincente. Eravamo affamati di qualcosa di nuovo, forse è stato il tassello che ci ha permesso di andare oltre il solito compitino laboratoriale. Ci stavamo avvicinando alla sua visione di teatro.

OPDP | Così un anno dopo siete tornati a Santacristina. Nel momento in cui è emersa l’idea di allestire uno spettacolo, il vostro modo di lavorare con Luca è cambiato?

MO | No, ma è cresciuto, anche perché ci siamo accorti che stavamo andando verso qualcosa di unico, forse irripetibile anche dal punto di vista del percorso formativo e professionale. Sono aumentate la tensione e la posta in gioco. Non si poteva più tornare indietro, perché ci aveva fatto entrare nel suo mondo: e quando hai questa possibilità, devi continuare a lavorare. Ed è salita l’ansia. All’inizio ci arrivi per caso e ti dici: “Vediamo che succede”. Quando la faccenda si fa più seria, quando si parla di debutto, è normale che ci sia maggior attenzione al progetto, che crescano l’aspettativa, la tensione, la voglia di assecondare le sue richieste artistiche. Il processo creativo, l’esperienza dello spettacolo e delle battute ti restano addosso. Ho ancora a casa il copione con migliaia di indicazioni e formule spesso contraddittorie. A un certo punto ti perdi, ti smarrisci e devi lanciarti e sperare che i conti tornino.

OPDP | Quindi non andavi alle prove con il registratore. Ma sul copione segnavi solo le sue indicazioni sui tuoi personaggio o annotavi quelle di tutti?

MO | Non registravo, perché preferivo l’esperienza della memoria, fissare quello che avrei potuto fare senza ripetere i suoni del registratore. Cercavo di arrivarci da solo e quindi ho sempre cercato di seguirlo in maniera più artigianale che tecnologica. Mi sono sempre rifatto al ricordo più che alla registrazione. E ovviamente sono stato più attento al mio personaggio, anche se ogni personaggio si associa e si intona a tutti gli altri. Ma al tempo stesso è vero che i personaggi a volte erano delle monadi, degli archetipi, delle maschere, per cui potevano funzionare anche da soli. Però il lavoro di Ronconi è così preciso e forte, scavato nella pietra, che i personaggi possono anche vivere da soli le proprie battute, i propri suoni, i propri loop, le proprie ripetizioni. E alla fine queste ripetizioni messe in coro creavano una grande orchestrazione.

OPDP | Poi c’erano anche i gesti, i movimenti che dovevate fare. A quel punto ogni monade doveva entrare in rapporto con le altre monadi. Cosa succedeva quando vi alzavate dal tavolino?

MO | Il rapporto con lo spazio era il passo successivo. Anche quello per Ronconi era chiaro e unico, con quel modo di muoversi in maniera circolare, specialmente per alcuni personaggi. Ti dava un elemento in più per capire come interfacciarti fisicamente allo spazio scenico e agli altri personaggi. Ma se eri ben intonato con quello che dovevi fare, e se anche l’altro attore era ben intonato, i conti tornavano, perché nulla era lasciato al caso: c’era un grande lavoro ritmico, musicale, che non si limitava a passarsi le battute. I personaggi parlavano anche con sé stessi e con i loro ricordi, quindi era necessario far chiarezza su tutti i livelli. E una volta che questi livelli ti erano chiari, avevi una bussola che ti guidava all’interno dello spazio scenico. Era il frutto di un lavoro a tavolino molto attento. Questo lavoro di approfondimento non si fa sempre, spesso ci si alza quasi subito in piedi e si comincia a recitare. Qui si trattava di entrare nel testo per poi uscirne, mettersi addosso i vari pezzi e solo alla fine alzarsi in piedi e costruire un nuovo ambiente.

OPDP | Quando parli di “mettere insieme i vari pezzi”, cosa intendi?

MO | Capire come il personaggio doveva muoversi. Spesso era la battuta a dare l’approccio fisico e non viceversa. Non partivamo mai da una costruzione esteriore, ma dal modo di afferrare la battuta, che ti portava a una certa condizione fisica. E quella condizione fisica ti portava a un ritmo, a una musicalità, a un modo di guardare il mondo, lo spazio e gli altri personaggi: a quel punto ti ritrovavi in una coerenza che li univa. Dovevi decifrare tutte le sue indicazioni, perché non va dimenticato che Ronconi era un grandissimo interprete e dovevi fare i conti con la sua capacità istrionica. Non era un intellettuale che faceva una conferenza sul personaggio, ma era lì, ti restituiva le battute, la fisicità, la forza, l’energia. Credo che fosse affascinato dalla personalità di ogni attore, non solo dalle sue doti tecniche e artistiche, dalle sue qualità esteriori. Questa è stata la sua più grande lezione.

OPDP | Della la vita quotidiana a Santacristina che cosa ricordi?

MO | Ricalibravi il tuo bioritmo, perché era tutto scandito: la mattina prove, pausa, poi si riprendeva con le prove e la sera si studiava il materiale laboratoriale oppure stavamo un po’ insieme. Qualcuno ha detto, un po’ provocatoriamente, che era un bellissimo Grande fratello del teatro. Era una comunità, e la condivisione è il modo migliore per sedimentare il lavoro.

OPDP | Ma nel Grande fratello i concorrenti vengono via via eliminati. Come funzionava il meccanismo di selezione a Santacristina?

MO | Non c’era l’eliminazione diretta, però si intuiva chi gli andava a genio, con chi andava d’accordo e quali fossero gli elementi che gradiva meno, anche per scelte artistiche e di gusto. Comunque si capiva chi funzionava di più e chi meno. Era anche un lavoro di tenuta mentale: magari qualcuno, dopo una settimana di convivenza in questo spazio fuori dal mondo, non reggeva.

OPDP | Ma la vera prova da superare era starsene in una specie di clausura teatrale isolata dal mondo, o il fatto che Ronconi cercava di rompere le vostre resistenze interne?

MO | Sicuramente era un provocatore. Non credo volesse tenerci lì per stressarci, ma lì ognuno di noi e forse anche lui poteva esprimersi al meglio. Era un contesto in cui riusciva a godersi il lavoro e la condivisione laboratoriale con gli attori.

OPDP | In seguito hai lavorato con Ronconi anche in alcuni spettacoli al Piccolo Teatro. Come ti ha scritturato?

MO | Durante uno dei laboratori di Santacristina, dovevamo ancora debuttare con i Sei personaggi. Mi chiamò da parte: “Ti andrebbe di far parte di un mio spettacolo? È un piccolo ruolo nella Santa Giovanna dei Macelli di Brecht. Nel cast ci saranno Maria Paiato, Fausto Russo Alesi, Paolo Pierobon, Francesca Ciocchetti”. Me lo chiese con una tale attenzione, con una tale cura, quasi come se gli dispiacesse che non fosse un grande ruolo. La proposta all’inizio mi bloccò, perché a Santacristina non riuscivo più a lavorare, non riuscivo più a macinare proposte, avevo paura di deluderlo: “Ronconi mi ha scritturato. Adesso se sbaglio all’interno del laboratorio, magari cambia idea”. Infatti dopo un po’ mi disse: “Insomma, Massimo, continua a lavorare”. Stavamo lavorando sul Pilade di Pasolini. Poi per fortuna mi sbloccai. Quello che ritrovai a Milano, al Piccolo Teatro, era un Ronconi più “milanese”. Aveva a che fare con tutto il meccanismo: le maestranze, l’organizzazione, i ritmi della produzione. E doveva arrivare a un risultato. Quindi era più nervoso, doveva affrontare tantissimi problemi.

OPDP | Tu hai detto che a un certo punto ti eri bloccato, ti era venuta l’ansia da prestazione. In quella o in altre occasioni, ti ha dato consigli su come costruire la tua carriera d’attore? Magari non personalmente, ma in generale…

MO | Spesso a Santacristina c’erano momenti non legati all’aspetto artistico, erano considerazioni sul mestiere, sul percorso. Ci diceva sempre: “Dovete capire che tipo di attore volete diventare. Qualsiasi tipo di attore vogliate diventare – anche un attore che ha un’attività televisiva, che impara i due o tre elementi necessari a funzionare in quel settore. L’importante è prendere consapevolezza di chi volete essere”. Era estremamente lucido, sapeva che l’attore spesso si difende, si protegge, vuole sfruttare le sue capacità, i mezzi che utilizza più facilmente. Non era un mistico che faceva discorsi New Age sul teatro: era pragmatico e concreto. Se ci diceva: “Dovete capire che tipo di attore volete diventare”, è perché magari l’attore rischia di restare intrappolato nel suo tormento, perché non ha sufficiente capacità, chiarezza, visione. Per lui l’attore deve essere molto lucido e capire che tipo di percorso vuole fare.

OPDP | Nel proseguo della tua carriera, quando hai fatto cinema o televisione, questo ti è servito?

MO | La lezione più importante resta quella di non adagiarsi sugli allori. Il suo grande insegnamento non è tanto il metodo, la recitazione ronconiana, ma la grande voglia di continuare a cercare, senza adagiarsi mai. Questo me lo porto dietro nei momenti più diversi di questo mestiere, anche se devo affrontare un lavoro che non ha niente a che fare con la sua dialettica, con il suo metodo, con la sua autenticità. Magari non ci riesco sempre, però cerco di mantenere quel rigore, quell’onestà, la voglia di fare sempre i conti con me stesso e capire se ho fatto tutto quello che potevo per restituire un prodotto valido.

OPDP | Ora sei anche docente. Cosa insegni?

MO | In questi anni mi sono dedicato alla drammaturgia contemporanea, e mi occupo di improvvisazione e scrittura di scena. Io non formo attori, ma diamo ai nostri allievi del BluLab gli elementi per approcciarsi ai provini delle scuole nazionali: siamo una realtà propedeutica di passaggio. Nel percorso invernale mi occupo di improvvisazione e scrittura di scena, mentre nella preparazione dei provini estivi mi occupo di recitazione per preparare monologhi, dialoghi, eccetera.

OPDP | Cosa intendi per improvvisazione?

MO | Proviamo a fornire ai ragazzi la capacità di reagire all’imprevisto, anche con un lavoro sul gruppo, cercando di codificare all’interno una serie di segni per non creare caos, disordine, chiacchiericcio fine a sé stesso.

OPDP | Diciamo ‘team building’, costruzione di squadra.

MO | La costruzione di una squadra e la capacità di reagire all’imprevisto.

OPDP | Ma questo a cosa serve a un attore che deve preparare un provino, che è quasi sempre un monologo o un dialogo? Perché imparare a lavorare in squadra?

MO | Reagire all’imprevisto e alle indicazioni che arrivano dall’esterno è un elemento di grande importanza, perché quando devi fare un monologo o un dialogo in un provino, ti ritrovi in uno spazio nuovo, diverso, con una commissione che non ti ha mai visto, non ti conosce e ti dà indicazioni estemporanee. La capacità di reagire al momento ti permette di andare avanti nei provini. Dopo di che, le commissioni sanno che i ragazzi si preparano e quindi il loro monologo è trito e ritrito. Nelle fasi successive bisogna poi confrontarsi con il gruppo e con le indicazioni dei docenti: in quel momento, la capacità di reagire e reinventare sul momento dà più forza, perché non resti passivo alla proposta ma sei reattivo: questo può far emergere un candidato dal mare di tutti i provinanti.

OPDP | Quando lavoravi con Ronconi, che spazio avevi per l’improvvisazione?

MO | Nelle fasi laboratoriali era molto aperto alle proposte, lo incuriosiva ciò che proponeva l’attore, anche se si discostava dalla sua poetica e dalla sua visione. Apprezzava una certa spregiudicatezza, l’inventiva, la creatività. Quando feci il monologo di Oreste, quanto torna in patria nel Pilade di Pasolini, mi inventai una sorta di conferenza stampa.

OPDP | Non era un’invenzione d’attore, non era semplice interpretazione. Era un’invenzione da regista.

MO | Era una visione d’insieme, non solo un’interpretazione del testo, ma si trattava di immergersi in uno spazio. In questa conferenza stampa, i giornalisti prendevano appunti su quello che dicevo, qualcuno mi dava dell’acqua perché venivo da lontano ed ero molto provato da quello che mi era successo, mi fotografavano, mi aggiustavano il microfono. Si creava una situazione così concreta per cui riportavo il testo senza nessuno sforzo, reagivo alla situazione. La proposta suscitò interesse e fu accolta da Ronconi, anche se non era una sua indicazione.

OPDP | Quell’esperienza ti ha fatto venir voglia di fare regista?

MO | Non sono un regista, mi limito a dirigere ciò che scrivo. Non credo di avere la cultura necessaria per fare il regista, che deve conoscere molti testi, deve avere una grande conoscenza di tante cose. Io cerco di dirigere solo ciò che scrivo, perché è un mondo creativo che conosco molto bene e sono in grado di inserire e dirigere gli attori all’interno di quel contesto. Più che altro, sono regista dei miei mondi.

OPDP | Hai mai detto a Luca che facevi l’animatore nei villaggi turistici?

MO | Credo di no. L’ho sempre chiamato Maestro, non ho mai avuto la confidenza di chiamarlo Luca. Ho avuto la fortuna di avere molto a che fare con Ronconi, ma in realtà ci siamo scambiati poco dal punto di vista personale, quotidiano e umano. Però mi ricordo tutto dei pochi momenti in cui ci siamo ritrovati soli, anche semplicemente per suggerimenti e suggestioni. In un’occasione mi ha dato il permesso di lasciare Santacristina per un lavoro e poi mi ha accolto di nuovo. Nella Santa Giovanna dei Macelli c’erano alcuni allievi del Piccolo di Milano. Dedicava all’ultima delle comparse la stessa attenzione che dedicava alla protagonista Maria Paiato: aveva un grande rispetto per tutte le figure, non trascurava niente. Se doveva riprendere Paiato, la riprendeva. Se doveva riprendere il giovane attore, appena entrato al Piccolo, lo riprendeva. Aveva una grande onestà intellettuale, un rigore per cui non faceva passare nulla, però rispettava tutti. Poi c’erano momenti in cui esplodeva. Come tutte le grandi personalità, aveva un fortissimo carattere, però sempre con grande rispetto per l’attore.

Intervista a Valentina Picello

Oliviero Ponte di Pino | Come è nata la tua passione per il teatro?

Valentina Picello | Avevo quindici anni, facevo il liceo classico a Casale Monferrato, la città di Roberto Bolle. Roberto frequentava il liceo coreutico a Torino e a un certo punto un’insegnante illuminata, che è nel mio cuore insieme a Ronconi, decise di fare una succursale del liceo coreutico a Casale Monferrato. In un palazzo meraviglioso del FAI vennero create una scuola di danza e una scuola di recitazione. I professori del mio liceo vennero in classe e chiesero se qualcuno voleva fare il corso di recitazione, accanto alla sala dove danzava Bolle. Io ero innamorata del mio compagno di banco, che alzò la mano e la alzai anche io.
Ho iniziato per caso, ma fin dalla prima lezione mi sono resa conto che facevo ridere. Ero un po’ timida, con una famiglia disagiata alle spalle, e questa attenzione, questo riconoscimento mi facevano sentire meglio. La mia insegnante, che aveva anche una compagnia di teatro amatoriale, mi ha detto: “Secondo me, anche se hai solo sedici anni, sei pronta”. Così al liceo mi hanno dato una borsa di studio in modo che potessi frequentare sia la scuola sia la compagnia e così ho iniziato a passare sei giorni su sette in teatro.

OPDP | Quindi la mattina frequentavi il liceo e pomeriggio e la sera eri in teatro?

VP | Stavo il più possibile fuori casa ed ero contenta…

OPDP | Hai cominciato a recitare negli spettacoli della filodrammatica…

VP | Una delle prime cose che ho fatto, a quindici anni, era il Topino nello Schiaccianoci con Roberto Bolle: non parlavo, ma mi piaceva tantissimo. Poi siamo andati a Siracusa con Le nuvole di Aristofane, a un concorso per compagnie amatoriali. In quei quattro anni ho fatto tantissimi classici, Molière, i greci. Nel 1998 ho fatto l’esame di maturità, non ero certo un’allieva da 100, ma a un certo punto ho recitato un pezzo dell’Elettra in greco e sono uscita con 100 centesimi. Poi con la mia insegnante mi sono preparata ai provini per le scuole di teatro.

OPDP | Quali?

VP | Le ho provate tutte, ma non mi ha preso nessuno. Mi hanno mandata via dalla “Silvio D’Amico”, dandomi dell’anoressica e facendomi sentire molto a disagio. Sicuramente ero impacciata, ero molto magra, avevo una vocina… Alla fine mi ero ridotta a fare la spalla alla mia migliore amica, quella con cui avevo fatto tutti i provini. Nel frattempo, siccome nessuno mi voleva, mi ero iscritta all’università a Torino e avevo persino iniziato un corso di teatro con i Marcido Marcidoris e Famosa Mimosa… Avevo rinunciato, ma la mia insegnante mi ha detto: “Valentina, devi andare a fare la spalla alla tua amica. Lo so che sei depressa, ma devi essere corretta”. Era l’esame di ammissione alla Scuola del Piccolo Teatro, la mia amica portava il grande monologo di Maria Stuarda. Io le facevo la spalla, ero Elisabetta. Quando siamo uscite, è venuta da me Ornella Cavazzini, la segretaria della scuola: “Non dire niente alla tua amica. Lei non verrà presa, ma il Maestro vorrebbe che tu facessi un secondo provino”.

OPDP | E il Maestro era…

VP | …Luca Ronconi. Così ho superato la prima fase. Ma solo alla terza fase ho capito che gli piacevo, nonostante certi miei limiti.

OPDP | Tu sapevi chi era Luca Ronconi?

VP | No, non avevo capito che fosse lui. Quando ho fatto il primo provino, quelli che dovevano entrare dopo di me volevano sapere se in commissione c’era Luca Ronconi. Io non sapevo cosa rispondere. Un ragazzo mi ha chiesto: “Ma c’era uno con la barba bianca?”. E io: “Ah, sì!”

OPDP | Ma andavi a teatro? O facevi solo gli spettacoli con la filodrammatica?

VP | Ci andavo. Mi ricordo tutti gli spettacoli che ho visto quando avevo quindici anni. A Casale Monferrato arrivavano gli spettacoli del circuito Piemonte dal Vivo, che mi piacevano tantissimo. Avevo visto anche la Medea di Ronconi, con Franco Branciaroli.

OPDP | Quindi nella selezione del Piccolo, quando ti hanno detto “Il Maestro vorrebbe vederla”, cosa hai fatto?

VP | Ho riciclato tutti i pezzi che agli altri provini non erano piaciuti, e invece a lui sono piaciuti. In particolare, quelli che avevano fatto più cagare. Non ci capivo più niente.

OPDP | E perché agli altri non piacevano e a Ronconi piacevano?

VP | Non mi sono più chiesta che cosa di me non fosse piaciuto, perché sentivo un giudizio sulla mia fisicità, sugli aspetti personali. Per fortuna sono sempre stata sostenuta dalla mia insegnante: “Cosa te ne importa? Adesso sei al Piccolo!”. Ma poi ho cercato di capire perché, anche quando a me sembrava di non fare bene, proprio lì Ronconi mi diceva: “Molto bene”. Non ti diceva mai “Brava” o “Bravissima”. Il suo massimo complimento era: “L’hai fatta molto bene”. Me lo diceva sempre, anche se a me non sembrava né di fare quello che chiedeva lui né di fare così bene. Ma avevo molta fantasia: forse il fatto che le mie proposte fossero sincere, dettate dalla mia necessità di vivere nell’immaginazione, mi faceva apparire diversa. Non volevo dimostrargli di essere brava o diversa, ma molto ligia e ascoltavo tantissimo. Anche se non capivo tutto, sapevo che non lo dovevo interrompere e quindi cercavo di capire le correzioni che faceva agli altri. Quando toccava a me, magari non beccavo tutte le sue indicazioni, però secondo me gli interessava questo sforzo personale, che non era fatto per compiacerlo. Lui aveva dato dieci sottotesti, non potevo dire di averli capiti tutti, ma potevo vedere che cosa potevo fare io, sempre rispettando le sue direttive, che erano soprattutto a livello tecnico. Mi faceva sballare il lavoro che faceva sulla paratassi del testo: in una frase trovava per ogni parola una domanda che le dava un’importanza diversa. E magari ti diceva: “Non battere su questa parola, perché è la meno importante”. Un po’ sapevi quel che dovevi fare, avevi dei paletti, però poi dovevi scegliere. Chi prendeva queste indicazioni solo come spunto musicale, tendeva a ricopiare e quindi veniva fuori una strana musica. Forse è per questo che mi hanno sempre chiesto: “Come mai a te e a Pierobon non vi fa cantare?”. Io sceglievo un po’ da incosciente, invece Pierobon era davvero coraggioso: però secondo me quello che a Luca piaceva era che scegliessimo, anche se sempre con un grande rispetto per tutto quello diceva.

OPDP | A questo punto eri già nella scuola del Piccolo e Ronconi era tra i tuoi docenti.

VP | A lezione mi sono divertita molto più che agli spettacoli. Durante le lezioni Ronconi era allegro e disponibile, difficilmente ti trattava male. E ti faceva divertire, anche se tra molte difficoltà: avevo diciotto anni e mi faceva passare da Il cuore infranto di John Ford ad Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini, da Sarah Kane con Blasted o Purificati a Venezia salva. Per Candelaio, Ronconi faceva le parti delle donne e io lo copiavo perché neanche la mia insegnante faceva le donne così bene. Mi piaceva e mi divertiva. Dava spunti intellettualmente fortissimi per una ragazza a cui piaceva leggere. Nelle lezioni c’era una grandissima possibilità di movimento, di ispirazione, di battute, di interazione. Ronconi era lì solo per te. Nella creazione degli spettacoli era meno attento al corpo, mentre su questo aspetto a scuola eravamo più seguiti. Durante le prove degli spettacoli molto spesso urlava. In Lolita per esempio c’erano dodici binari su cui entravano automobili, frigoriferi, mobili: “Valentina, dove vai? Mettiti lì!”

OPDP | Entri nel cast di Lolita quando sei ancora allieva della scuola.

VP | Lì incontro tutti insieme Franco Branciaroli, Massimo Popolizio, Laura Marinoni, Manuela Mandracchia, Giovanni Crippa, Galatea Ranzi… Sono stata fortunata, perché Ronconi con me era dolce e questi attoroni devono aver pensato: “Se il maestro è gentile con lei vuol, dire che è brava”. Quindi ho avuto subito il loro affetto e la loro stima.

OPDP | Come avevi saputo di essere nel cast di Lolita?

VP | Quando mi metteva in uno spettacolo, me lo diceva en passant davanti alle macchinette del caffè, al piano meno uno del Piccolo Teatro. Prendevo il mio caffè, lui si faceva offrire una Coca Cola e mi diceva: “Senti, ci sarebbe una cosina da fare, ti piacerebbe?”. Anche Pornografia me l’ha chiesto così.

OPDP | Quando eri a scuola hai avuto un problema con i colleghi.

VP | Un giorno nella mensa del Piccolo mi si avvicina l’assistente di Romeo Castellucci, che mi chiede se volevo lavorare con la Socìetas Raffaello Sanzio. Io allo Strehler avevo visto Genesi ed ero impazzita. Rispondo di sì, e lei mi dice che avrei dovuto incontrare Romeo. Vado a Cesena, lo incontro e faccio un provino allucinante. Gli avevano detto che ero della scuola del Piccolo Teatro e Romeo si è messo le mani nei capelli: voleva una ragazzina magra, anzi anoressica, non un’attrice, men che meno una che studiava al Piccolo.

OPDP | Il provino?

VP | All’epoca Romeo faceva uno spettacolo dove c’era un pappagallo che parlava: “A un certo punto, se gli piaci, il pappagallo viene e ti fa il suo monologo”. Il pappagallo è arrivato, mi ha parlato e Romeo mi ha preso per fare Bruto nel Giulio Cesare[19]. Era il 2001. Ho chiesto il permesso a scuola e Ronconi me lo ha dato: “Vai, perché è un’esperienza forte e tu la devi fare perché loro sono i più bravi in questo campo. Poi torni qua”. Anche D’Amato mi dà l’ok e vado tre giorni a Bologna. Una volta diplomata, avrei fatto una tournée in America con Giulio Cesare. Tre giorni dopo, quando sono tornata a Milano, c’era già la sostituta con il mio costume che faceva la mia parte, perché tutti i miei compagni si erano ribellati ed erano andati da D’Amato. Ho chiamato Ronconi, che era a Siracusa per fare la trilogia: “Ma cosa t’importa di fare quel saggio? È pure brutto, io non lo vengo neanche a vedere”. Il saggio l’ho fatto lo stesso, a porte chiuse, perché volevo il diploma. Quando è tornato a Milano, Ronconi ha fatto sedere tutta la classe in cerchio: “Avete iniziato molto male la vostra carriera, perché qui dovevate stare con Valentina, non contro di lei”. La sua dolcezza era nata da un episodio preciso. A vent’anni soffrivo già di depressione e di attacchi di panico. A Casale Monferrato il mio medico di base mi aveva certo spiegato cosa fossero e cosa fare. Oggi forse dico che ho sbagliato a non dire che ne soffrivo, ma all’epoca c’era chi diceva: “Questa è narcolettica”. Mi sono portata addosso questo stigma dell’emotività, con gente che pensa: “Non ti puoi fidare di Valentina, perché non controlla la sua emotività”, mentre io la controllo. Una sera ebbi un fortissimo attacco di panico e non mi presentai allo spettacolo, La vita è il sogno, il primo che facevamo tutti insieme noi allievi. Fummo scritturati tutti in blocco, nessuno di noi parlava e non fu difficile sostituirmi. Nel pubblico nessuno si accorse della mia assenza. All’epoca non c’erano ancora i cellulari e Claudio Longhi chiamò prima mia madre, che gli rispose: “Non c’è, è a Milano che fa lo spettacolo”. A quel punto Longhi chiamò la Polizia. La mattina dopo venni convocata in ufficio. Mi dissi: “Adesso mi manda via… Non so come dirlo alla mia insegnante… Vabbè, le spiegherò…” Invece Luca mi fece questo discorso: “Senti, Valentina, non so che cosa sia successo di preciso, però credo di averlo provato anche io. In virtù di questo, diciamo, ti perdono. E anche per un altro motivo: se c’è una che deve fare questa scuola, sei tu. Quindi non diciamo niente, non facciamo le cose più grandi di quello che sono, diciamo solo che Valentina non è stata bene”. Erano le prime parole che mi diceva e di me non sapeva niente.

OPDP | Ma poi gli hai raccontato che cosa era successo?

VP | No. Credo che abbia capito tantissime cose senza chiedermi niente. Sapeva della mia famiglia, aveva capito che c’erano dei problemi. Un giorno mi chiamò. Il panico e Pornografia erano andati molto bene e io mi ero trovata bene soprattutto con Paolo Pierobon. “Senti, Valentina, anche perché tu stia un pochino più tranquilla visto che vivi da sola qui a Milano, rimani al Piccolo con uno stipendio fisso e fai tutti i prossimi spettacoli con Paolo”, a cominciare dalla Celestina. Gli ho risposto che non potevo, perché avevo la tournée dei tre atti unici di Čechov con Roberto Rustioni[20], ci avevo lavorato per un mese gratis al Paolo Pini facendo laboratori, non ero sostituibile, il testo l’avevo scritto io. Mi hanno detto tutti che con Ronconi avevo chiuso. Invece dopo un po’ mi ha chiamato per Le donne gelose: “Ti faccio fare la protagonista. Se tu avessi lasciato i tuoi compagni in braghe di tela, non ti avrei richiamata, ma per come ti sei comportata, penso che te lo meriti”.

OPDP | Come è nata la tua lacerante agonia in Pornografia?

VP | Anche in quel caso mi ha scritturato alle macchinette del caffè: “Però, Valentina, guarda se te la senti, perché è un’apparizione, solo che dovresti essere nuda”. Io mi sono sempre affidata totalmente a lui, avevo visto i suoi spettacoli, avevo visto i nudi: “Quest’estate sono a tua disposizione”. Ha ripreso: “Sarai in coppia con Franca Nuti, sarete questo strano personaggio, mezzo vecchio e mezzo giovane, vorrei incastrarvi insieme”.

OPDP | Avreste dovuto essere in scena insieme? Quindi provavi con Franca Nuti…

VP | Io non parlavo, in realtà. Ma Franca Nuti non ce la faceva. Forse faceva fatica, o forse aveva delle resistenze, vista la sua profonda fede cattolica. Un giorno, un po’ sofferente, arriva con un mazzo di fiori per me e per Ronconi: “Secondo me questa scena Valentina la deve fare da sola”. Ronconi mi dà appuntamento per la mattina dopo. In una notte mi imparo tutta la parte e la metto insieme alle poche cose che avevo potuto provare fisicamente, fra l’altro neanche nuda, perché eravamo ancora in sala prova. Faccio il monologo e lui mi dice: “Perfetto, la parte è tua. Mi devi solamente promettere che lavorerai insieme a me per creare qualcosa che non esiste, né nella mia testa, né nella tua, né in quella dello spettatore. Non ti faccio fare la vecchia con il bastone, capito?”. Mi ha sorpreso. Mi ha fatto sedere su quella poltrona, dalla quale non mi alzavo mai. E si è messo in gioco anche lui: “La curo in tutti i movimenti, in tutti i micro-movimenti, come deve respirare…”. Non l’aveva mai fatto. Per esempio mi ha detto: “Non devi mai appoggiare la schiena sulla poltrona, neanche quando sei in scena da quattro ore e sei stanca. Mai, non devi appoggiarti mai!”. Poi mi faceva vedere: “Tirati su facendo perno sulle mani, come se fossero gli artigli di un uccello”. E ancora: “Per trovare la voce di questa donna, prendi un respiro, vai all’indietro indietro e poi dici tutta la battuta come se fosse un’onda, fino alla fine, senza prendere il respiro. Così ti arriverà la voce di questa donna”. Un giorno mi chiese: “Sai oggi quante volte l’abbiamo provata oggi?”. Ho risposto di no, avevo perso il conto. Sparò un numero e io: “Ma veramente?”. Avevo le visioni, ero talmente stanca che stavo per cedere. Lui fu duro, ma giusto: “Dopo ti lascio andare a morire in camerino, ma adesso devi recitare questa agonia finché non ce la fai. Appellati all’angelo custode che hai, cercalo nei palchetti e parlagli. Dopo vai a morire in camerino, ma prima ti voglio vedere morire qua!”

OPDP | E hai visto l’angelo custode?

VP | Ho pensato a un libro che mi aveva consigliato Maria Consagra, Franny e Zooey di J. D. Salinger, dove a un certo punto il protagonista dice: “Tu devi sempre vedere la donna grassa”, come la chiama Salinger, cioè lo spettatore a cui puoi dedicare lo spettacolo. Io cercavo di vedere gli angeli, anche perché per me quella scena era un processo spirituale. Non era uno spettacolo o una scena blasfema, nonostante il modo in cui questa donna muore, andando incontro al coltello che si conficca nel suo organo genitale, provocando un ultimo violento orgasmo. In realtà la mia era quasi una figura cristologica e lo stesso titolo Pornografia, come ci aveva spiegato Ronconi, aveva una valenza intellettuale, non terrena e tanto meno commerciale.

OPDP | Quel tuo tremito, che dura tutta la scena, da dove veniva?

VP | Prima pensavo che fosse un Parkinson giovanile. Dopo lo spettacolo, ho scoperto che questo tremito, che un po’ ancora ho, dipende da un problema con la produzione di cortisolo. Non tremo solo durante gli spettacoli: ogni emozione forte, anche bella, anche quando abbraccio un amico, mi provoca questo tremore. Nella vita ormai non mi dà più fastidio quando mi vedono tremare e mi chiedono se ho freddo, non me ne importa più. Ma in teatro mi dà fastidio che si veda. Con Arturo Cirillo avevamo trovato una soluzione: “Ti metterò sempre delle gonne ampie, lunghe fino ai piedi: nessuno vede che ti tremano le gambe e tu sei tranquilla”. Durante le prove di Pornografia, nelle prime scene ero vestita e avevo dei tacchettini. A un certo punto, Ronconi si fermò: “Ma che cos’è questo picchio?”. Erano i miei piedi, che non riuscivo a controllare. Allora Paolo Pierobon trovò questa soluzione: era quasi sempre in ginocchio quando mi parlava e mi metteva le mani intorno alla gonna, fino a quando non mi calmavo. Nella seconda parte dello spettacolo per me era bello sentire il pubblico chiedersi: “Ma che cos’ha?”, oppure: “Ma che cos’è?”

OPDP | Quel tremito diventava parte della performance.

VP | Sì, soprattutto in momenti di vera e propria trasfigurazione, intesa non strasberghianamente: era una trasfigurazione fisica, non psicologica. Io assecondavo questo tremito e Ronconi non me ne ha mai fatto vergognare, questa emotività me l’ha raffreddata al punto giusto. Non mi diceva: “Non devi tremare”, ma mi faceva stare concentrata su alcune cose per tirare fuori una voce più potente, per tirar fuori cose che non immaginavo di poter fare. Non mi ha castrata, quindi gli sono grata per due motivi: per aver creduto in me e per avermi fatto credere di essere amata. Avevo molto bisogno di essere riconosciuta. Grazie a lui lo sono stata.

OPDP | Ti ha dato dei consigli sulla tua carriera?

VP | Mi ha fatto capire che le esperienze sono una cosa diversa dai patti. Emma Dante mi aveva chiesto un patto di vita, ma non l’ho accettato. Non faccio patti di sangue con nessuno. Ronconi mi diceva: “Devi essere una persona libera”. Un giorno mi consigliò: “Valentina, tu non sei ricca. Se ci riesci, tieni un piedino qui, al Piccolo, anche quando io non ci sarò più”. Un attore tendenzialmente viaggia, perché impara dalle esperienze che fa. Io non credo nella famiglia, sono fuggita dalla famiglia perché non amo i ricatti emotivi. Almeno sul lavoro, non ci devono essere. Quindi capivo quando lui, un po’ duramente, mi diceva: “Non sono tuo nonno, non sono il tuo babbo artistico”. E aggiungeva: “Non mi devi chiamare Maestro”. Voleva lo chiamassi Luca, anche se non ci sono mai riuscita. Così ho trovato questo compromesso: lo chiamavo Maestro dandogli del tu.

OPDP | Quali sono le cose più importanti che ti sei portata dietro dopo l’esperienza con Luca Ronconi?

VP | Un’analisi personale del testo, e questo non vuol dire arrivare con la memoria e con tutte le intonazioni già pronte, ma analizzare il testo, leggerlo tante volte vedendo tante possibilità diverse di rappresentazione. Questo forse è un lavoro più registico, ma a me piace proporre tante idee ai registi. Ronconi mi ha reso autonoma e coraggiosa. Nelle parti che faccio, trovo sempre qualcosa di originale, lo scelgo e glielo dedico.

OPDP | In che senso?

VP | Spesso i registi mi dicono: “Che grande intonazione!”. In realtà mi ispiro a quello che diceva Luca: “Il punto di domanda non sta per forza alla fine”. Tra l’altro tendo a non metterlo mai alla fine, perché questo fa scattare subito il piemontese e quindi furbescamente metto le domande dove non ci sono, tolgo il punto interrogativo da un punto e lo metto in un altro. Per me il dubbio è l’inizio.

OPDP | E quell’intonazione resta dello spettacolo?

VP | Certo. Io non spiego mai il segreto, il trucco, anche perché tanti registi con cui ho lavorato subiscono il fatto che non saranno mai Ronconi. Alcuni ne soffrono tantissimo.

OPDP | A un certo punto, parlando del modo in cui tu affronti i testi, hai detto che sarebbe più un compito da regista. Ti vedi come regista?

VP | Non ho velleità da regista. Ma, visto che amo lavorare con i giovani drammaturghi e i giovani registi, adesso mi piacerebbe dedicarmi all’insegnamento, a partire da quello di Ronconi ma filtrato attraverso le mie esperienze.

OPDP | A Santacristina eri stata?

VP | Non mi ci trovavo bene e infatti ci sono stata solo una volta per provare uno spettacolo, Pornografia. I maestri a volte si attorniano di persone che li venerano. E molti venivano a Santacristina nella speranza di conoscere il Maestro. Per chi non faceva spettacoli con lui, era l’unica possibilità di avvicinarlo e probabilmente a lui piaceva. Il mio modo di venerare una persona che non c’è più è portare avanti i suoi insegnamenti, essergli grata e riconoscente, dire pubblicamente che lo ringrazio. Detto questo, Santacristina mi è servita per scoprire che si può fare teatro con le fiabe di Andersen, con i romanzi, con qualunque testo… Forse Ronconi era l’unico capace di farlo, però mi ha trasmesso un amore a 360 gradi, perché adesso vedo che tutto è teatro. Sono in giro, vedo un posto e mi dico: “Qua potrei fare quello spettacolo”.

Intervista a Sara Putignano

Oliviero Ponte di Pino | Come è nata la tua passione per il teatro?

Sara Putignano | Non c’è stato un momento illuminante, è stato più seguire l’istinto. Sono nata e cresciuta a Martina Franca, la città del Festival della Valle d’Itria, e quindi ho iniziato facendo la comparsa nelle opere liriche, perché l’estate non sapevo che fare. Da bambina ho potuto assaporare un po’ di teatro.

OPDP | E che facevi?

SP | I registi che venivano ad allestire le opere liriche, selezionavano i ragazzi e le ragazze del posto per fare le comparse… Poi Martina Franca è la città natale di Paolo Grassi e l’Associazione Paolo Grassi organizzava laboratori con le compagnie locali. Così ho potuto sperimentare il teatro pur non avendolo mai visto. E quando sono andata da mia madre e le ho detto: “Voglio andare a Roma per fare teatro”, non avevo mai visto uno spettacolo. Era un istinto al gioco e alla scoperta, volevo provare a vivere vite al di fuori della mia. Ero una ragazza difficile, timida. Attraverso il teatro riuscivo a scoprire molte più cose che nella vita reale, in una città che un po’ mi opprimeva.

OPDP | Questa sensazione l’hai provata mentre eri sul palcoscenico di Palazzo Ducale a Martina Franca?

SP | Soprattutto negli spettacoli scolastici, perché al liceo ho trovato degli insegnanti appassionati di teatro, che mi hanno trasmesso questa passione.

OPDP | Come hai deciso di candidarti all’Accademia “Silvio D’Amico” a Roma?

SP | Avrei voluto andare a Roma per fare teatro, ma a casa mi hanno detto: “Assolutamente no, devi fare l’università”. L’università è stata la scusa per andare a Roma e ho fatto due anni di Lettere e Filosofia alla Sapienza. Abitavo alla Garbatella, dove stava nascendo una scuola di teatro, che ho frequentato parallelamente all’università. Lì ho capito che il teatro poteva essere una strada da seguire, perché c’era un riscontro molto forte.

OPDP | Un riscontro forte rispetto a quello che facevi tu o un tuo riscontro rispetto a quello che succedeva in quel luogo?

SP | Tutte e due le cose. Poi non ho proseguito, perché il secondo anno il costo del corso era aumentato, ma diverse persone mi hanno incoraggiato a fare i provini. Così l’anno successivo ho tentato il provino all’Accademia “Silvio D’Amico” e alla scuola del Teatro di Genova, perché non era l’anno della Scuola del Piccolo a Milano.

OPDP | E ti hanno preso sia a Genova sia a Roma?

SP | A Genova è andata male. Il mio primo provino a Genova è stato disastroso. All’Accademia è andata bene al primo colpo. Ho incontrato ragazzi che ci provavano per il quinto anno e mi chiedevo: “Ma dove l’hanno trovata tutta questa forza?”. Per mia madre è stata una tragedia, perché significava abbandonare l’università. Fortunatamente l’Accademia era stata inserita nell’ambito dell’università, quindi ora il diploma è equipollente alla laurea triennale e mia madre si è pacificata.

OPDP | A Roma avevi cominciato ad andare a teatro?

SP | All’ammissione in Accademia ero in classe con Fabrizio Falco, che era il più giovane di tutti: aveva solo diciott’anni però aveva visto molto teatro. Nella terza fase c’era una prova scritta dove chiedevano il nome di tre registi e io non ne conoscevo nessuno. Cercavo suggerimenti e mi arrivavano nomi tipo Ronconi e Lavia. Io scrivevo senza neanche capire quello che stavo scrivendo. Da lì sono partita per iniziare a conoscere questo mondo. Ma i primi spettacoli che ho visto a Roma erano spettacoli commerciali e per niente belli…

OPDP | All’epoca ti rendevi già conto che non erano belli?

SP | No, ma soffrivo perché sentivo di non avere gli strumenti non tanto per giudicare ma per comprendere quello che vedevo. Dopo aver visto uno spettacolo, la gente dava un’opinione e io sentivo di non avere gli strumenti per formulare quell’opinione. Però dalla fruizione di quello che vedevo ricavavo sensazioni molto preziose. L’Accademia poi ci indirizzava. Andavamo sempre al Piccolo Eliseo, perché con la tessera dell'Accademia pagavamo un euro di biglietto.

OPDP | Ma ci sono spettacoli ti hanno fatto capire che stava succedendo qualcosa di diverso, che ti interessavano più di altri?

SP | Se trovavo qualcosa che mi parlava o a livello di immagine o di linguaggio scenico, quando diventava comprensibile. Ricordo il primo spettacolo di Ronconi, Il Ventaglio: era come entrare su un altro pianeta, lì ho sentito che mi mancavano gli strumenti per poterlo leggere. Mi rendevo conto che era un mondo che rispondeva a regole diverse dagli altri, che ricreava un linguaggio. Era come dire: “Sto aprendo la porta di un altro mondo”, ero molto affascinata e questo mi ha dato la spinta per raccogliere quante più esperienze e informazioni possibili, per leggere il mondo teatrale che vedevo.

OPDP | Quali altri spettacoli ti hanno dato quella sensazione che stava succedendo qualcosa e dovevi trovare le chiavi?

SP | Siccome frequentavo molto l’Eliseo, ricordo gli spettacoli di Fausto Paravidino, che creavano un linguaggio scenico intrigante, alcuni spettacoli di drammaturgia contemporanea diversi da quelli classici. L’esperienza di vari linguaggi mi faceva vedere che ci sono diversi modi di vedere e fare teatro. All’inizio era più la curiosità di vedere questi altri mondi possibili. Un’esperienza per me molto forte sono stati gli spettacoli di Gabriele Lavia, ma anche quelli di Eimunats Nekrosius, davvero illuminanti sia per la mente sia per gli occhi. Gli spettacoli di Toni Servillo mi riportavano a una concretezza, a una popolarità diversa rispetto a quello che vedevo. Sono stati tutti dei viaggi.

OPDP | E all’Acccademia?

SP | Era l’anno successivo all’occupazione, l’Accademia stava vivendo una rivoluzione del sistema didattico. Abbiamo seguito una didattica molto laboratoriale, perché abbiamo collaborato con registi molto diversi. L’esperienza di allieva con registi che in quel momento lavoravano in teatro è stata molto forte. Alla fine del triennio la classe doveva scegliere se fare un spettacolo con un regista affermato o un laboratorio in un luogo chiamato Santacristina con Luca Ronconi.

OPDP | A quel punto sapevi chi era…

SP | Sì, dai provini erano passati tre anni e qualcosa avevo visto e capito. Così abbiamo detto che preferivamo il laboratorio con Ronconi. E quindi c’è stato il primo incontro a Santacristina.

OPDP | Che impressione ti ha fatto?

SP | Arrivare a Santacristina, in questo luogo così bianco, con il Maestro, ti dava la sensazione di entrare in una specie di Olimpo, un luogo dove c’era il Dio mentre noi non sapevamo neanche come mettere i piedi uno dopo l’altro. Quando ci rapportavamo a lui, quando lo ascoltavamo nei giorni di laboratorio, c’era una tensione così alta e un’ansia da prestazione che ricordo la sensazione della densità dell’aria: era difficile fare tutto, anche mangiare, perché lui lì a mangiare era di fronte a te. Anche la gestione della tensione era molto difficile. In quel contesto era un grande sperimentatore, ma queste sono cose che ho capito solo dopo, avendo fatto sei-sette anni di Santacristina. All’inizio, quando si arriva a venti-ventitré anni di fronte al Maestro, la cosa più importante è riuscire a fare bene i compiti, o comunque cercare di assecondarlo. Mi ricordo gente con i registratori perché si pensava che l’obiettivo fosse la riproduzione di una battuta a livello sonoro. In realtà dietro la battuta che lui, da grandissimo attore, ci faceva vedere per comprendere tutti i mondi che c’erano dietro i testi, c’era una grandissima improvvisazione, un grandissimo senso di sperimentazione e una grandissima apertura verso le mille possibilità del linguaggio. Era la nostra percezione. Noi vedevamo una pagina scritta e leggevamo e dicevamo: “Vabbè, è così”. Poi lui te la faceva leggere in un modo completamente diverso ed era come se si aprisse un mare: era la sensazione fisica di una profondità così grande che capivi che da una parola poteva venire fuori di tutto. È come se lui avesse creato un’altra parte del cervello. Il primo impatto, al di là dell’intonazione, era proprio un altro modo di vedere le cose, un altro modo di leggerle. Mi ha insegnato a non sentirmi sola nel mio rapporto di attrice con un testo. A volte la difficoltà, soprattutto quando si è giovani, è che non sai da dove partire. Avevo avuto tanti insegnanti. Uno diceva: “Il teatro è questo”. E l’altro: “No, il teatro è cosà, si parte da qui”, “No, si parte da qua”. Un allievo dell’Accademia vorrebbe uscire dal corso sapendo da dove iniziare e dove finire, ha bisogno di sostegni. Io sono uscita dall’Accademia più confusa di prima: avevo visto tanti metodi ed ero molto confusa: “Da dove devo partire? Devo partire dal corpo? Devo partire da un’idea mentale?”. Ronconi mi ha insegnato che non potevo perdermi se sapevo leggere il testo che avevo davanti. È stata la cosa più importante, anche se questa consapevolezza è arrivata con gli anni. Ma a Santacristina ho cominciato a vedere la pagina scritta come uno scrigno di preziosi da trovare, da scovare. Era davvero stimolante. Poi io sono stata fortunata. Ci sono stati alcuni ragazzi, miei compagni, che aveva preso di punta. E quando prendeva di punta qualcuno, poteva essere molto pericoloso: era difficile andare avanti o superare il senso di frustrazione.

OPDP | Negli anni in cui sei stata a Santacristina, hai cambiato atteggiamento. Come si è evoluta la tua consapevolezza?

SP | Noi avevamo lavorato sul primo atto dei Sei personaggi in cerca d’autore, riscuotendo un grandissimo interesse, tanto da invogliare Ronconi a farne uno spettacolo. Quindi i primi anni sono stati finalizzati alla costruzione di uno spettacolo.

OPDP | Il Ronconi pedagogo è diventato il Ronconi regista…

SP | È stato impressionante vedere la trasformazione di questi ruoli, soprattutto quando l’abbiamo visto lavorare al Piccolo Teatro di Milano, era diventato un’altra persona.

OPDP | Torniamo ai Sei personaggi.

SP | Nei Sei personaggi ho lavorato sul personaggio della Madre. Il primo anno avevo fatto un certo tipo di lavoro. Il secondo anno, quando ho dovuto riprenderlo, non riuscivo a ritrovare quelle note e non capivo perché. Il personaggio era costruito su un perenne pianto, un pianto continuo. Il limite tra il piagnisteo e il lamento era sottile, un passaggio di incredibile minuzia ed equilibrio, come ho scoperto negli anni. Certi tipi di suoni appartengono a certi risuonatori, che quando sono attivati cambiano anche lo stato psicologico. Ho scoperto che quel linguaggio, che sembrava così cerebrale, in realtà nasceva da un corpo che doveva essere molto forte. Quando facevamo le prove con lui, pensavamo che fosse tutto nelle intonazioni. In realtà quel suono doveva partire da un corpo che doveva essere in un certo stato, perché se il corpo perdeva quello stato, anche l’organicità del suono cambiava.

OPDP | Il punto di partenza è dunque l’analisi del testo, un lavoro intellettuale e di interpretazione. Dopodiché questo processo deve diventare voce ed espressione, che deve partire da un’organicità del corpo. Quando Luca vi dava l’intonazione, non vi spiegava che veniva da un’organicità del corpo che si era conquistato.

SP | L’ho scoperto nel corso degli anni. Tra il primo e il secondo anno mi ero persa, mi chiedevo come riprendere quello che avevo trovato l’anno prima. Ma in un anno cambiano tante cose. Per questo ero andata in crisi: il mio corpo era cambiato. Poi l’ho ritrovato e sono ripartita… Ho capito che la presenza del corpo e le tensioni fisiche e l’atteggiamento sono la base necessaria per poter poi creare quel mondo.

OPDP | Quanti anni avevi quando facevi la Madre?

SP | Ventitré.

OPDP | Quanti anni ha il personaggio?

SP | Molti di più.

OPDP | Questa differenza d’età ti ha creato dei problemi?

SP | È stata l’esperienza teatrale più incredibile della mia vita. Ero completamente nelle sue mani. Mi rendevo conto di essere parte di un progetto più grande. Ronconi diceva: “Posso fare questo spettacolo solo con attori giovani, perché dà più l’idea della rappresentazione rispetto al testo”. Eravamo delle maschere. È stata un’esperienza fisica molto profonda, ho vissuto il senso di trasformazione, senza aggiunte posticce, trasformare un corpo e un viso partendo esclusivamente da un cambiamento di postura fisica e mentale. Quindi la differenza d’età non è stata un problema. È è stata un’esperienza molto forte. Vedere un gruppo di giovani attori che portavano in scena quel testo colpiva anche lo spettatore.

OPDP | Come hai costruito quel personaggio? Che indicazioni ti aveva dato?

SP | Ci recitava quello che dovevamo recitare, ci leggeva il testo. L’ho osservato in maniera molto precisa e minuziosa, per dedurre il progetto da quello che sentivo e vedevo quando faceva la scena. Poi assorbivo le indicazioni che dava ai compagni di scena, perché orchestrava ogni cosa in maniera millimetrica e precisa, era incredibile. Quindi c’era anche il lavoro con gli altri: dovevamo intrecciare le nostre voci, le nostre sonorità, i nostri corpi. Cercavo di dedurre quello che voleva e cercavo di viverlo liberamente. Dava regole precise, ma ho scoperto che gli piaceva quando venivano tradite. Scoprire la possibilità del tradimento rispetto a quello che vedevamo è stata un’esperienza importante.

OPDP | E quando hai cominciato a tradirlo

SP | Avevo l’immagine che bisognava passare attraverso la cruna di un ago, ma dopo averla attraversata, c’erano infinite possibilità. La cosa importante era cogliere l’atmosfera, il mondo che doveva ricreare quella battuta, per come la diceva lui. Capito come doveva essere vissuto quel mondo, provavo a fare la battuta. Questo non riguarda tanto il lavoro sui Sei personaggi, quanto gli anni successivi. Ogni anno a Santacristina è stato diverso. Un anno ha unito degli allievi della “Silvio D’Amico” con quelli della Scuola del Piccolo Teatro per lavorare su vari testi. Ci sono stati anni in cui ci ha fatto lavorare da soli: “Fate voi delle proposte”. Non ci diceva niente, ci chiedeva di lavorare in autonomia e poi di fargli vedere la nostra proposta. Non avrei mai immaginato che ci avrebbe dato questa libertà. Mi ricordo una scena che dovevo fare con Fausto Cabra: “Come si fa? Da dove partiamo?”

OPDP | Che scena dovevate fare?

SP | Voleva mettere in scena Un cuore infranto di John Ford, aveva scelto alcune scene e le aveva affidate ad alcuni attori, perché voleva capire se c’erano le condizioni per portarlo in scena. Quindi abbiamo un po’ tutti giocato e sperimentato su quel materiale.

OPDP | Così vi ha detto: “Ci sono queste scene di Il cuore infranto, fatemi delle proposte”.

SP | Ricordo una scena tra due innamorati, sempre a Santacristina. Io e Fabrizio Falco l’abbiamo fatta in tutti i modi possibili e ogni volta che andavamo da lui: “No, non funziona”, “Così non va bene”, “Eccola, dovrebbe essere più così”, oppure “Dovrebbe essere più… ”, “Eccola… No!!!”. E noi ogni giorno a ripetere e provare nuove proposte. Un giorno ho avuto un crollo, che tra l’altro hanno ripreso nel documentario La scuola d’estate. E lui: “Ma che c’è, Sara?”. “Non so più cosa fare… ”. Finché l’ultimo giorno ci disse: “Ah, ho capito quello che non funziona”. Non era il modo in cui facevamo la scena, il problema era che io e Fabrizio Falco non funzionavamo a livello visivo come fidanzati: “Voi siete più fratello e sorella che fidanzati”, quindi il fatto che non gli tornasse l’immagine non faceva funzionare nulla, perché il suo immaginario poteva essere fortissimo, sovrastava tutto. Amo molto l’ironia e lui ce la metteva in moltissime cose: quindi giocare con lui sull’ironia è stato molto divertente. Ecco, è una cosa che non dico spesso: è incredibile quanto fosse simpatico!

OPDP | Sei partita dall’arrivo in un Olimpo con un dio tremendo e adesso ci dici quanto era simpatico. Ma come è accaduta questa metamorfosi?

SP | È successo gradualmente. Il tuo corpo si libera di un’ansia e anche dall’ansia dimostrativa, poi cominci a non preoccuparti più dell’immagine che emani ma cerchi di vedere e assorbire quello che vedi. La persona Ronconi però resta ai miei occhi un mistero profondo.

OPDP | In che senso parli di mistero?

SP | C’è una zona che non avevo la pretesa di comprendere, inafferrabile. Quando era giovane Dacia Maraini gli aveva fatto un’intervista. Quando hanno voluto rifarla, mi hanno chiesto di fare il ruolo di Dacia e rifargli le domande dell’intervista[21]. È stata la prima volta in cui ho avuto a che fare con lui come persona. Erano domande molto personali e per me è stato un momento molto forte: vedere i suoi occhi, vedere il suo modo di rispondere a certe domande, il suo modo di proteggersi e di aprirsi, conoscere una parte del Ronconi bambino. Ma resta una grande zona di mistero. È stato bello immaginare questo bambino che ha conosciuto il mondo attraverso i libri: “Io conoscevo la vita leggendo i testi”. È un’immagine che mi ha colpito.

OPDP | Hai raccontato di Ronconi insegnante e formatore. A un certo punto arriva il Ronconi regista. Come cambia?

SP | Completamente.

OPDP | In parte è successo a Santacristina, quando avete cominciato a lavorare su Sei personaggi, poi hai iniziato a lavorare agli spettacoli.

SP | Ci è stato detto: “Voi avete conosciuto un altro Ronconi”. Anche lui diceva che la sua vita era divisa in due parti. C’è un prima e c’è un dopo, e noi eravamo quel “dopo”. Abbiamo vissuto anni straordinari. C’era questa sua grandissima voglia di trasmettere alle giovani generazioni una serie di cose. Aveva creato Santacristina perché aveva una grandissima voglia di sperimentare, che si leggeva in quello che facevamo. Quando invece si provava uno spettacolo, il Ronconi regista era molto più duro, anche spietato. Quando siamo arrivati al Piccolo, doveva aver a che fare con tutto il sistema di costruzione, quindi non ci rapportavamo con lui solo nel giocare su una battuta ma con un intero sistema. Abbiamo visto anche sedie volare, un fatto fisicamente impossibile… Si sentiva un’ansia da parte sua, o almeno quella che io definisco ansia… Poi c’erano le “giornate no”: lo incontravamo e dicevamo: “Oggi chissà come sta… ” Se capivamo che era una giornata no, ci facevamo subito il segno della croce: “Oggi va a finire male”.

OPDP | E che succedeva nelle giornate no?

SP | Quando facevamo le prove, eravamo a pochi metri di distanza. Se mentre recitavamo lo sentivamo parlare, capivamo che non stava andando bene. Recitare con lui in quello stato ci faceva perdere fiducia e si innescava un effetto domino disastroso: più sentivamo che non stava andando bene, più andava male. Invece quando lo vedevamo tranquillo e attento, avevamo un senso di tranquillità e fiducia. Era impossibile non farmi condizionare dal suo sentire, che per me era molto forte, perché sono una persona e anche un’attrice che assorbe molto l’ambiente circostante, per cui nel mio lavoro posso crollare oppure fiorire. Negli anni ho cercato di fortificarmi per riuscire a reggere l’ambiente. Lo assorbivo tantissimo, però il fatto che avesse stima del mio lavoro mi faceva sentire sulla strada giusta, sapevo che potevo giocare con quel materiale, che era appunto un materiale di gioco. Poi ci sono le frasi che ci ha detto durante gli anni, che cerco di ricordarmi. Per esempio: “Voglio vedere fino a che punto arriva la faccia tosta degli attori”. Il fatto che l’attore debba avere un po’ di faccia tosta riflette la necessità del tradimento, per andare in zone sconosciute. “Prova a non avere paura”. Quando facevamo proposte con molta faccia tosta, era positivamente sorpreso. Una sua frase per me è diventata una guida: “Ci sono gli attori che dicono ‘Io sono qui’, e quelli che dicono ‘Vieni con me’”. C’è una grandissima differenza tra attore e attore, e cerco di ricordarmelo ogni giorno quando faccio il mio lavoro, che è principalmente raccontare storie, quindi far entrare gli spettatori dentro un mondo altro.

OPDP | Ti ha dato consigli sulla tua carriera? Magari implicitamente, con le parti che ti ha affidato?

SP | A prescindere da lui, mi sono sempre stati assegnati ruoli da adulta, anche quando avevo vent’anni. In Accademia pensavo: “Voglio fare Giulietta”. “No, Sara, tu fai la madre di Giulietta!”. I ruoli delle madri mi hanno perseguitato, tanto da farmi allontanare dalla maternità. Però ho avuto tanti figli teatrali… Per il resto, più che sulla carriera, erano consigli sull’essere attori, un certo approccio e soprattutto porre l’asticella alta, avere sempre obiettivi molto alti.

OPDP | In Accademia hai avuto registi con idee di teatro molto diverse tra loro, ciascuno con la sua visione.

SP | Quando è arrivato Luca, mi si è accesa una lampadina.

OPDP | Il lavoro che hai fatto con Luca ti è servito quando hai lavorato con altri registi?

SP | Sicuramente. Negli incontri con i vari registi ho sempre cercato di prendere quello che mi interessava e che pensavo potesse essermi utile, e soprattutto quello che corrispondeva al mio gusto, ovvero portare in scena storie di vita. Il lavoro sul linguaggio va controcorrente rispetto all’appiattimento del linguaggio di cui oggi si soffre. La ricchezza del lavoro con Ronconi è un fondamento a prescindere da quanto si vuole scavare all’interno di una frase, perché a volte con lui raggiungevamo degli estremi. Ma a prescindere dalla gradazione, la lettura in profondità è un attrezzo che mi è servito molto nell’affrontare i classici, che richiedono un corpo di un certo tipo e un certo tipo di lavoro sul linguaggio. Ma mi serve anche e soprattutto con la drammaturgia contemporanea, che mi piace molto e alla quale per un certo periodo mi sono appassionata. Lavorare sulla drammaturgia contemporanea può essere un’arma a doppio taglio: ti può dare l’illusione che sia un linguaggio quotidiano e quindi che basta niente per portarla in scena. In realtà lavorare su quel niente, riuscire a riprodurre una naturalezza di linguaggio, mi ha insegnato che c’è bisogno di tutto quel lavoro sul testo, che poi naturalmente va trasformato. Il corpo da tragedia serve anche per la drammaturgia contemporanea, e serve quel lavoro su una battuta, su una parola, per scoprire i vari significati di un testo.

OPDP | Secondo te era diverso il modo in cui Ronconi lavorava sui classici e sulla drammaturgia contemporanea?

SP | È stato illuminante il lavoro sulla terza persona che ho fatto con lui in una maniera approfondita. Negli anni successivi mi è capitato di fare spettacoli lavorando sulla terza persona: se non ci fosse stato Ronconi, non avrei potuto farli in quel modo. Era un materiale che mi è familiare. Mi sono resa conto che per chi non aveva mai praticato quel lavoro sulla terza persona, era un limite. Un anno abbiamo lavorato sulle favole di Andersen, un bellissimo momento su uno straordinario materiale di lavoro. Abbiamo scoperto le mille voci che potevano avere quei testi e la vita che può generare un racconto in terza persona.

OPDP | Come ha funzionato l’apprendimento della terza persona?

SP | Bisogna partire dal punto di vista. Abbiamo una storia con tanti personaggi. C’è un narratore onnisciente rispetto alla favola, che ce la racconta. Adesso scegliamo chi parla. Chi sta parlando? Il soldatino, la teiera? O sta parlando il proprietario della teiera? O magari è la tovaglia? Una volta individuato il personaggio che parla, scopriamo come il linguaggio sia attraversato da quel punto di vista, come cambia e come prende forma. Per esempio, nel caso della teiera, qual è il suo atteggiamento rispetto alle tazzine? E rispetto alla mano che la fa cadere? E rispetto a questa sua nuova vita? E se questo racconto dovesse raccontarlo la mano? O se dovesse raccontarlo la tazzina, come cambia? È l’emblema del gioco, con scoperte a volte molto forti.

OPDP | Insisti molto sull’aspetto del corpo, della fisicità. Su questo Luca vi dava delle indicazioni o dovevano venire da voi?

SP | Alcune indicazioni ce le dava, però le indicazioni maggiori riguardavano la sensazione che doveva emergere, quando si lavorava sulle scene era molto forte e importante. Qual è l’atmosfera? Qual è la sensazione? Quello che si porta al di là della parola.

OPDP | Quando parli di sensazioni, non è la sensazione del personaggio, ma quella dello spettatore.

SP | Quello che si dovrebbe trasmettere. Per esempio, un senso di inquietudine. Il corpo reagiva alla sensazione che doveva restituire. Quello sulla sensazione era un discorso molto forte. Quando provavamo, poneva l’accento su un aspetto che spesso viene dimenticato: “Qual è l’aria che si respira?

OPDP | Hai parlato della ricchezza dell’immaginario di Ronconi. Di che cosa si nutriva secondo te, oltre che delle sue letture?

SP | La sua cultura era sconfinata, ma al di là delle letture era un grandissimo osservatore di persone. Ogni volta che finivamo di mangiare, andavamo al suo tavolo e lui ci raccontava degli aneddoti di vita. La sua capacità di imitazione era formidabile: riusciva a imitare le persone in maniera molto efficace.

OPDP | E c’era empatia?

SP | Ironia, tantissima ironia.

OPDP | Che cosa ti porti dietro del lavoro con Luca quando fai cinema o televisione? O fiction?

SP | Cinema e televisione sono un altro mondo. La differenza principale è che cambia la prossemica. Un conto è lavorare per uno spettatore a distanza, un conto è lavorare con l’occhio della telecamera accanto. La capacità espressiva, cioè la tipologia di espressività del corpo, si modifica in base a questa prossemica. La macchina da presa legge anche un micromovimento, mentre in teatro è tutto il corpo che agisce. C’è anche un’altra impostazione vocale. E in TV ti senti all’interno di un sistema ancora più ampio. E viene a mancare la caratteristica più bella del teatro, che è un spettacolo dal vivo, che ti permette di comunicare con persone presenti in quel momento presente, di rendere quel momento assolutamente unico. Puoi sentire come uno spettacolo lavora con il pubblico. Questo nel cinema non c’è, manca questo viaggio emotivo, la continuità temporale. Si lavora in maniera spezzettata, devi sperare che ci siano i tempi sufficienti per fare una scena due o tre volte. Rispetto al lavoro sul linguaggio, quello cinematografico è diverso, ha a che fare molto più con gli occhi e con lo sguardo rispetto alla capacità evocativa di una battuta in teatro. Però la capacità di leggere un testo vale comunque. Anche al cinema e in TV c’è un testo, magari i dialoghi sono scritti così male che ti dici: “Ma cosa ne tiro fuori? Posso avere lavorato pure con Luca Ronconi, ma qua… ” Per cogliere le profondità di un testo, bisogna che sia ben scritto. Se un testo non è scritto bene, non tiri fuori niente, anche se cerchi di dare l’illusione che sia profondo. A quel punto, la grande capacità diventa creare cose che non ci sono. Ma quando ci sono testi ben scritti, il lavoro con Ronconi è un passepartout per estrarre significati che permettono di rendere la parola vibrante.

OPDP | Il cinema lavora per frammenti. Anche Luca lavorava per frammenti quando si concentrava per dei pomeriggi interi su una battuta, su una parola, su una frase. Come riuscivi da questi frammenti a costruire il personaggio?

SP | Sicuramente il lavoro sul personaggio, a prescindere dal lavoro sulle singole scene, parte prima. Non arrivi mai al lavoro su una scena senza aver prima affrontato tutto il testo: questo è il testo, vediamo di cosa parla. Tutti siamo coinvolti nel lavoro di conoscenza di un testo. Poi quando lavori su una battuta per pomeriggi interi, è un’esperienza che ha a che fare con il mistico. Vai a dormire dopo otto ore e ancora te la ricordi. Il lavoro specifico su una scena ti faceva scoprire le chiavi per aprire le altre scene. Non nascevano mai esclusivamente per quella scena. Erano campioni per approfondire gli strumenti che servono per affrontare tutte le altre scene. Magari scoprivi una cosa sul personaggio che era poi utilissima in un’altra scena.

Intervista a Federica Rosellini

Oliviero Ponte di Pino | Al teatro ci sei arrivata dalla musica.

Federica Rosellini | Vengo da una famiglia di musicisti. Il nonno era direttore d’orchestra e compositore, la nonna violinista, due delle mie zie sono pianiste. La musica è sempre stata il mio veicolo preferito per l’arte, per ciò che riguarda non solo la parte emotiva, ma anche la parte degli affetti. Mi è stata passata con il sangue. Da quando ero piccola ho studiato canto e violino.

OPDP | E poi hai tradito la musica.

FR | L’ho tradita ma la porto sempre con me. Negli anni dell’Accademia, lo studio approfondito delle due cose era purtroppo infattibile. Ma l’ho sempre portata con me dopo, ho continuato a studiare e ho ampliato il bacino dei miei studi: adesso mi occupo anche di elettronica, di strumenti come il violoncello elettrico. La musica resta una parte fondamentale del mio lavoro.

OPDP | Quando hai detto che volevi diventare attrice, a casa che hanno detto?

FR | Non erano felici. Mio padre è medico, mia madre professoressa di russo. Ero davvero brava a scuola e per me si aspettavano una carriera da medico o lettere classiche, o anche la musicista. La musica era considerata un’arte nobile, il teatro meno. Non hanno apprezzato subito, però mi hanno appoggiata e con gli anni mi sono venuti dietro.

OPDP | Perché ti è venuta l’idea di iscriverti a un’accademia teatrale?

FR | Ho iniziato ad avere a che fare con il teatro quando ero a scuola. A Treviso la mia scuola media al pomeriggio proponeva attività collaterali tenute dagli insegnanti e quella che allora era la mia professoressa di musica teneva un corso di teatro. Per me è stata una rivelazione.

OPDP | Che cosa ti ha acceso?

FR | Ero una ragazza che aveva problemi a socializzare, facevo fatica ad esprimere quello che sentivo: lo facevo attraverso la scrittura o attraverso il canto, ma era difficile per me costruire relazioni con i miei compagni. Sono stata molto bullizzata. Ero un po’ sovrappeso e quando si è giovani, in questo tipo di dinamiche, non aiuta. Per me il teatro è sempre stato, per tanti anni e lo è ancora adesso, un posto che sentivo mio. Facevo fatica a parlare, non trovavo le parole per raccontare ciò che mi accadeva. In teatro il respiro e la parola mi fluivano naturali, era un posto dove trovare le proprie parole e la propria voce.

OPDP | A un certo punto hai provato a vedere se il teatro poteva essere una scelta di vita e così hai deciso di fare i provini per l’Accademia.

FR | Provai alla “Paolo Grassi”, a Genova e al Piccolo. Avevo diciott’anni, ero appena uscita dal liceo. Alla “Paolo Grassi” e a Genova non superai neanche la prima selezione. Al Piccolo invece andò molto bene sin dall’inizio. All’epoca c’erano due fasi di selezione e quando abbiamo fatto la settimana di prova con i docenti interni sentivo che il rapporto funzionava.

OPDP | Hai portato gli stessi materiali nelle tre selezioni?

FR | Sempre cose diverse. Venivo dalla provincia e all’epoca ancora non esisteva il sistema dei preparatori, così mi ero preparata da sola. A ogni rifiuto, cercavo di capire che cosa funzionava e cosa meno. Al primo provino alla “Paolo Grassi” portai Una specie di Alaska. Decisamente non ero in parte.

OPDP | Ronconi seguiva le ammissioni alla Scuola del Piccolo Teatro?

FR | No, erano gli anni della malattia e quindi c’era Enrico D’Amato.

OPDP | Quando hai conosciuto Ronconi?

FR | Uno o due mesi dopo l’inizio dei corsi. Siamo andati a trovarlo nell’albergo dove stava per lavorare su alcuni passaggi del Candelaio. Provai un monologo e lui fu subito molto caldo, gentile. Durante gli anni della scuola il nostro è stato un rapporto bello, importante.

OPDP | Quando dici che con te è stato molto gentile, vuoi dire che con gli altri non era così gentile.

FR | Secondo me la nostra classe ha subito il fatto che lui non ci avesse scelto. Alcuni di noi gli sono piaciuti e altri no. Non sempre le sue scelte andavano di pari passo con quelle di D’Amato.

OPDP | Che impressione ti fece lavorare con Ronconi?

FR | É stato molto interessante. Sono una ragazza di provincia. Continuo a dirlo, ma credo che racconti qualcosa che porto in me nel profondo, una parte importante della mia storia. Avevo visto molti spettacoli ma non avevo mai visto un lavoro di Ronconi fino al Sogno di una notte di mezza estate al Piccolo Teatro, durante la seconda fase di selezione. Pensai che fosse molto interessante, avevo la sensazione di trovarmi di fronte ad un linguaggio di cui in quel momento non avevo la carta d’accesso. Ero affascinata ma nello stesso tempo mi sentivo come davanti alla musica di Schönberg: davanti a me c’era qualcosa di cui sentivo la malia, ma che nella mia acerbità non capivo. Era il linguaggio dell’arte contemporanea: quelle di Ronconi erano a tutti gli effetti opere d’arte contemporanea, una rarità nel teatro italiano.

OPDP | Che cosa vuol dire che erano “opere d’arte contemporanea”?

FR | C’era una riflessione a tutto tondo non solo rispetto alla messinscena. Nei lavori di Ronconi c’era la creazione di un linguaggio autonomo, come quello dei grandi artisti visivi. I suoi spettacoli avevano una loro autonomia, oltre il pubblico.

OPDP | Però con lui e con gli altri docenti della Scuola del Piccolo Teatro il lavoro era centrato sugli attori. Che metodo usava?

FR | Le sue lezioni erano meravigliose. Il suo approccio poteva apparire tonale, ma in realtà era un lavoro sul contenuto, sui bit del contenuto, sul pensiero, su come poteva essere articolato: le parole potevano essere tradite oppure potevano innescarne delle altre. La sua eredità per me è il lavoro di analisi del testo. Durante le prove dei Beati anni del castigo a un certo punto fece una disanima di un paesaggio che parlava di finestre listate di bianco, una delle primissime pagine del testo: “Si lista il manifesto funebre, che è listato di nero. Qui c’è una finestra listata di bianco…” Ogni parola apriva un universo di possibile ricerca. Oggi è difficile incontrare figure che abbiano la stessa capacità di scorticare i testi ed entrarne fin dentro le ossa.

OPDP | Com’è stato il passaggio da allieva della scuola ad attrice in scena?

FR | Abbiamo fatto insieme un lavoro particolare, I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy. Io ero un personaggio muto ed è stato molto intenso sia per me sia per lui, credo, molto liberatorio, perché si trattava della costruzione e dell’evoluzione di una figura senza la parola.

OPDP | Ronconi ha costruito tutto il suo teatro sul linguaggio, sull’analisi del testo, sulla parola. Che indicazioni ti dava?

FR | Ho avuto una grande autonomia. Ero stata presente a tutto il tavolino e avevo sentito tutto ciò che Ronconi aveva raccontato a Elena Ghiaurov. Un “incintamento”, come dice Albert Ostermaier, lo spalancamento di un mondo di immaginazione e di creatività. Mentre Elena e lui lavoravano, mi dava qualche indicazione ma poi mi lasciava ampi spazi di autonomia. Mi ricorderò sempre quando, dopo tre settimane di lavoro, è venuto da me: “Tieni tutto quello che hai fatto”. Per me è stato emozionante, perché ero dentro il suo lavoro ma nello stesso tempo avevo uno spazio di creatività, mio, che non lo tradiva.

OPDP | E questo margine di libertà sentivi di averlo anche quando lavoravate sui testi?

FR | Come allieva assolutamente sì. Con lui facevamo quella che avevamo ribattezzato La corrida. Soprattutto il secondo anno, anche per conoscerci meglio, ci chiese di portare qualsiasi cosa avessimo voglia di sottoporgli. Gli facevamo vedere il lavoro che avevamo fatto in autonomia e poi ci ritornavamo con lui. Per lui era un modo per capire che scelte che eravamo propensi a fare e come ci rapportavamo ai testi. Di solito la sua reazione ai miei lavori era molto positiva.

OPDP | Che tipo di materiale era?

FR | Sapevamo che le nostre proposte avrebbero avuto il suo sguardo. Quando vedeva che c’era una ricerca sincera e uno scavo approfondito sul testo e sulle parole, promuoveva il lavoro. A volte si pensa che le sue fossero meramente partiture sonore, niente di più parziale: era un sistema di pensiero labirintico, affascinante, in perpetua contrattazione con la Vita e la Morte. C’era libertà e, secondo me, anche desiderio, da parte di Ronconi, di essere tradito.

OPDP | E dopo I beati anni del castigo, che altri spettacoli hai fatto con lui?

FR | Sono stata assistente alla regia per Il panico.

OPDP | Che cosa voleva dire fargli da assistente alla regia?

FR | Seguivamo le attrici. Se qualche attrice secondo lui aveva bisogno di riattraversare alcune cose, io e l'altra collega che con me faceva l’assistente l’accompagnavamo in questo riattraversamento.

OPDP | Eri molto giovane e dovevi fare da coach?

FR | In realtà non era un lavoro di coach. Ronconi aveva già dato alcune indicazioni, ma stava seguendo uno spettacolo molto complesso. A partire dalle sue indicazioni, facevamo dei remind su alcuni passaggi. Certo era una dimostrazione di grande fiducia e stima. Era un linguaggio e un sistema che richiedevano una grande concentrazione e alcuni passaggi venivano persi. Poi c’è stato il lavoro sulle luci ed ero addetta anche a fare da suggeritore. Ricordo con emozione la costruzione e l’attraversamento del testo di Spregelburd e nello stesso momento il suo tradimento: una parola che sulle mie labbra torna spesso parlando di Ronconi, ma per me “tradimento”, in campo artistico, è una parola positiva, prestigiosa, vitale. Certo bisogna saperlo fare bene, e lui era un vero maestro in questo. Il panico coincise anche con la morte di Mariangela Melato. Eravamo in prova e non avevamo ancora montato il secondo atto. Ronconi andò al funerale di Mariangela, tornò, non disse una parola e montò tutto il secondo atto. La scena iniziò a popolarsi di fantasmi tristi. Improvvisamente, dopo una prima parte grottesca, comica, nella seconda parte disegnò questo limbo malinconico, impalpabile, dolce e disperato. Fu commovente: penso che il teatro sia, per chi lo fa, anche un luogo dove poter accompagnare chi non c’è più, oppure farci accompagnare da chi non c’è più, un fiume che attraversa quel limbo che le parole non riescono a dire.

OPDP | Ti aveva chiesto Luca di fargli da assistente?

FR | Gliel’ho chiesto io. Era stato bello lavorare insieme per I beati anni del castigo. Lui fu subito molto contento.

OPDP | Di tutte le tue varie abilità e competenze e del fatto che sei una musicista, Luca ne ha tenuto conto?

FR | Ero molto giovane, quando Luca è venuto a mancare avevo appena venticinque anni, purtroppo non abbiamo avuto molto tempo per lavorare insieme . A un certo punto facemmo come saggio Il flauto magico e io facevo Pamina. E lui mi disse che la qualità del mio canto lo aveva davvero convinto.

OPDP | Sulla carriera ti ha dato qualche consiglio?

FR | Ci fu un momento in cui facevo uno spettacolo che non mi rendeva felice. Andai a chiedergli consiglio e aiuto, come una giovane allieva al suo Maestro. Mi disse una cosa molto bella e a modo suo violenta: “É un momento molto difficile per il teatro, pochissimi giovani attori sopravviveranno e sono convinto che tu sia una di questi. Però credo che tu debba andare il più lontano possibile da qui”. All’inizio l’ho percepita come uno strappo, perché chi ha bisogno di aiuto vorrebbe una maggiore accoglienza e non una spinta verso il fuori. Ma poi, per come è andata la mia storia, credo che non ci fosse davvero un consiglio migliore.

OPDP | Quel calcio nel sedere ti ha dato un senso di libertà e la necessità della libertà.

FR | Non credo sia stato un calcio nel sedere, credo ci fosse la sensibilità, anche violenta, e in questo caso non è un ossimoro, di un Maestro che con la sua esperienza vede qualcosa in un’allieva che lei ancora non riesce a intravvedere. Credo che la fortuna del mio percorso sia stata mettere insieme il lavoro di maestri molto diversi fra loro e trovare la mia voce. Io avevo già quella necessità, ma lui l’ha vista prima che riuscissi a vederla io.

OPDP | Quando dici che sei andata a cercarti altri maestri, chi sei andata a cercare e perché?

FR | Il lavoro di Ronconi parlava molto di corpi, anche quando sembrava negarli. Riuscire ad abitare quella richiesta era segno di grande maturità. Sentivo che un lavoro approfondito sul corpo era il mio desiderio impellente.

OPDP | Quindi stai dicendo che Luca vi insegnava a lavorare con le parole perché quello era il focus del suo lavoro, però in realtà c’era anche un lavoro sul corpo, al quale però si poteva arrivare solo dopo aver raggiunto una certa maturità.

FR | Solo quando avevi una tale consapevolezza del tuo corpo come interprete da capire che il pensiero non è mai pensiero astratto, ma è sempre pensiero incarnato. Quando faceva vedere le cose, era sempre un pensiero incarnato. Alcuni interpreti ci arrivano con la testa. Io per esempio sono un’ interprete che a volte fa i bit del pensiero mentalmente, ma che nella maggior parte dei casi lavora su micro e macro sensibilizzazioni del corpo per aprire nuove zone di pensiero e emotività. Credo che solo così si possa realmente sprofondare dentro il contenuto. Nonostante avessi avuto dei meravigliosi maestri, sentivo il bisogno di un lavoro sul corpo di sperimentare sistemi diversi anche rispetto alla relazione con il pubblico, che richiedessero una generosità nel corpo differente, nel performativo. Quindi per due anni ho accettato pochissimi lavori, ho detto molti no – e continuo a farlo. Ho fatto danza per due anni, accettando solo proposte nettamente più vicine al campo performativo. Sono tornata al teatro quando ho deciso di rispondere alla call di Antonio Latella per Santa Estasi, per giovani attori che si erano diplomati da non più di cinque anni. Avevo fatto anche un provino con Federico Tiezzi e avevo vinto un progetto in Grecia, poi l’economia del paese crollò e il progetto saltò. Ho scelto di lavorare con Antonio perché sentivo che di quello avevo bisogno. Antonio è stato il mio secondo grande maestro, il suo e quello di Luca sono due mondi apparentemente lontani ma hanno tanti punti di contatto.

OPDP | E quali altri maestri sei andata a cercarti?

FR | Nel sistema teatrale italiano si può dire poche volte di aver avuto delle maestre. Ed è un peccato, enorme, un punto su cui c’è una necessità stringente di lavorare. In realtà ho cercato molte maestre, che magari a volte non ho incontrato personalmente, ma che ho attraversato nella lettura, nella coreografia, nell’arte. Rispetto alla regia, ho guardato all’estero: avevo la necessità di un albero genealogico di artiste. Il mio percorso si è nutrito di questo.

OPDP | Il lavoro che hai fatto da giovane attrice con Luca lo usi al cinema o vai su altri piani?

FR | Lo porto sempre con me, perché è un lavoro sulle infinite possibilità che nascondono una frase o un enunciato o un pensiero. Si tratta di mettere un’appoggiatura da una parte o dall’altra, oppure mettere in risalto una parola o darle un colore. E poi c’è il suo meraviglioso discorso sulle ipotetiche: quando fai un’ipotetica, devi capire se è affermativa, dubitativa o negativa. Me lo porto sempre appresso, anche se adesso probabilmente sono un’attrice che apparentemente cerca un naturalismo maggiore. Penso che quel linguaggio fosse suo e io diffido delle imitazioni. É legato a tutto ciò che lui era e credo che non sia giusto ricalcarlo.

OPDP | Parlavi di tradimento. In qualche modo tradisci quel metodo, se vai nella direzione di un naturalismo lontano da lui.

FR | Il naturalismo è la massima artefazione. Anche Ronconi quando faceva sentire le battute ai suoi attori era sempre così naturale, era incredibile. Mi porto appresso questa immagine del suo lavoro, coniugata a Schönberg. Sembra impossibile, ma provando a raccontare di lui non lo è. Peraltro Ronconi dialogava con la musica, la filosofia e la psicanalisi della Vienna d’inizio Novecento. Anche per questo era un artista: riusciva a dialogare con il contemporaneo e dialogherebbe anche con noi.

OPDP | Uno dei luoghi comuni su Ronconi è che stava tutto il giorno in palcoscenico, con i suoi attori. Tu mi dici che invece si confrontava costantemente con la contemporaneità.

FR | Anche per la sua curiosità polimorfa. Credo che fosse alla base di tutto. A Santacristina ho avuto la fortuna di essere ospitata con Elena Ghiaurov a casa sua. Avevi la sensazione di uno studioso vorace e instancabile: è un’altra cosa che io mi porto come dono, lo studio minuzioso, infinito…

OPDP | Ma cosa studiava?

FR | Tante cose differenti e questo era meraviglioso e ci manca. É un aspetto che purtroppo abbiamo perso negli anni: il lavoro scenico è il risultato di uno studio infinito, se si perde le mura della struttura teatrale diventano fragili. Il nostro è un lavoro culturale, a volte si tratta di mettere il pubblico in una “non comfort zone”, in cui gli è richiesto di fare un lavoro di ricostruzione, mentre in genere vediamo spettacoli in cui veniamo messi comodi.

OPDP | Avevi citato Santacristina, tu ci sei andata…

FR | Ci sono stata due volte, una volta ero appunto ospite a casa di Ronconi per I beati anni del castigo, ma poi scendevamo a Santacristina in macchina per fare il tavolino con Elena.

OPDP | Era un periodo di prove, non c’era la Scuola d’Estate.

FR | Mi ricordo la sensazione di un’immersione nel suo mondo, anche in quello umano. Nonostante io, ragazzina, fossi quasi impaurita, intimorita da quegli spazi, facevo lunghe camminate sulla collina attorno alla sua casa. Quando mi propose di fare un bagno in piscina, mi sembrò un’eresia.

OPDP | Quindi non hai fatto il bagno?

FR | No, però ricordo le cene con lui. Quando parlai dei rifiuti ai provini per le accademie, commentò: “Non hanno capito niente”. In quei momenti ho avuto accesso all’uomo, anche se a diciannove anni si fa fatica a vedere nel Maestro l’essere umano. A Santacristina ci sono tornata due o tre anni fa e quindi l’ho vissuta come luogo di residenza, una parentesi spazio-temporale. Sono state due esperienze molto differenti, per me ugualmente importanti. Ho vissuto la Scuola d’Estate solo quando Luca non c’era più, perché quando ero alla Scuola del Piccolo Santacristina era legata alla “Silvio D’Amico”, quindi non era possibile accedervi. L’anno in cui ci sono stata io, oltre a bravissimi docenti, c’era un gruppo composto da alcuni fra i migliori nuovi interpreti, giovani registi e drammaturghi. É stato un momento di grande scambio, anche fra noi, ed è stato prezioso.

OPDP | Hai detto che è difficile per una ragazza di diciannove anni capire l’uomo che c’è oltre il maestro. Che idea ti eri fatta di Luca?

FR | Era un uomo bizzarro. Sembrava molto timido, anche nel modo di parlare, spesso incespicava. Diceva cose incredibili incespicando e questa dicotomia mi sembrava affascinante.

OPDP | Cose incredibili, ma in che senso?

FR | Ci si aspetterebbe un fluire morbido del pensiero. Era uomo che possedeva una cultura vastissima e una incredibile capacità di analisi del materiale. Nello stesso tempo quando l’ho conosciuto era piccolo e fragile, a volte balbettava e si fermava sulle parole come se gli si rompessero in bocca. E poi questi occhi sempre curiosi, così grandi, così vivi, e che ti evisceravano. C’erano in lui fragilità, una cultura incomparabilmente vasta, una sorta di curiosità quasi infantile ma anche una violenza che aveva qualcosa di impenetrabile. Era come il suo linguaggio: riusciva ad essere tante cose nel giro di una sola frase.

OPDP | Tu hai accostato a Luca due volte Schönberg, il compositore che ha preso l’armonia classica e l’ha abbandonata per inventare qualcos’altro. É l’impressione che ti ha fatto Luca quando hai cominciato a lavorare con lui?

FR | All’inizio sì, è stato il primo impatto con la sua “opera”. Poi gradualmente, anche crescendo, e crescendo nel mio rapporto con il linguaggio, ho capito quanta Vita e quanto Desiderio ci fosse in quegli spettacoli, e quanto quella scomposizione raccontasse l’esistente. Ci diceva: “Nei vostri personaggi, non dovete tentare di far quadrare il cerchio. Dovete provare a restituire l’infinita frammentazione che sono gli esseri umani. Poi sarà il pubblico a ricostruire l’intero”. Questo raccontava il suo linguaggio.

OPDP | Quando da violinista suoni un pezzo, ti misuri con l’interpretazione che vuoi dare a quella partitura. Avevi l’impressione che quando Luca esplorava il testo avesse lo stesso atteggiamento che hanno i musicisti quando si accostano a un brano di Mozart, per esempio?

FR | Sì, probabilmente, ma lui avrebbe potuto vedere Brahms dentro Mozart e Mozart dentro Cage.

OPDP | É quello che fanno diversi musicisti.

FR | Spesso non usciva quello che ti aspettavi. Alcuni grandissimi direttori d’orchestra riescono a tirare fuori dalle partiture un’anima nascosta, che poi è l’anima del testo, e fanno emergere il rapporto fra l’anima del testo e la tua anima. In quel dialogo tra anime nasceva sempre qualcosa di imprevisto. Ronconi era in grado di mescolare i due atteggiamenti: da una parte aveva un’idea precisa su quel testo, su quale compositore volesse tirarne fuori, ma non perdeva mai di vista la varietà del possibile.

OPDP | Hai parlato del tuo sguardo sugli spettacoli di Ronconi. Dici che non sono spettacoli, ma opere. Questo si ritrova anche nel tuo percorso: mi sembra di capire che non fai spettacoli, ma cerchi di creare delle opere.

FR | Cerco di creare dei mondi, perché è l’unica possibilità quando si entra in contatto con un testo, sia che lo abbiamo scritto noi sia che lo andiamo a prendere dalla penna di qualcun altro. Cerco di costruire mondi, sia dal punto di vista della materia, sia provando a capire qual è il linguaggio di quella materia.

OPDP | Quando parli del linguaggio e della materia, hai molto più margine di libertà nelle tue scelte rispetto a Luca Ronconi. Quindi la tua materia cambia molto di più di quella degli spettacoli di Ronconi.

FR | Io lavoro su testi di due nature. Da una parte una materia più autoriale, di mia scrittura. Dall’altra parte amo anche portare in scena testi che non sono miei: al momento mi sto dedicando soprattutto al lavoro di drammaturghe che sono gigantesse nei loro paesi ma che in Italia sono colpevolmente ancora troppo poco conosciute. Sono tutti testi in cui ribolle, dentro la forma, una vita vorace, insaziabile, un mondo altro.

Note

[1] Il Corso Sergio Tofano della Scuola del Piccolo Teatro si è tenuto nel triennio 2002/2005.

[2] Troia’s Dscount, drammaturgia di Ricci/Forte, regia di Stefano Ricci, con Anna Gualdo, Fausto Cabra, Chiara Cicognani, Alberto Onofrietti, Giuseppe Sartori, Napoli, Teatro Nuovo, 8 aprile 2008).

[3] Si tratta del secondo evento della serie Tale Padre. Figli d’arte, discepoli e padri putativi con Luca Ronconi, Stella Piccioni e Fausto Cabra che si è tenuto a Milano, Palazzo Reale, il 6 novembre 2011.

[4] Le donne gelose di Carlo Goldoni, regia di Giorgio Sangati, Milano, Piccolo Teatro Studio Melato, 13 ottobre 2016.

[5] Sogno di una notte di mezz’estate di William Shakespeare, regia di Carlo Cecchi, Progetto Thierry Salmon 2005, Ecole del Maîtres, dimostrazione pubblica Roma, Teatro Valle, 14 settembre 2005.

[6] La tragedia del vendicatore di Thomas Middleton, drammaturgia e regia di Declan Donnellan, Milano, Teatro Strehler, 9 ottobre 2018.

[7] Romeo e Giulietta di William Shakespeare, regia di Gigi Proietti, Globe Theatre, Roma, 10 luglio 2013.

[8] Uno scandalo che dura da diecimila anni, liberamente ispirato a La storia di Elsa Morante, regia di Fausto Cabra, Roma, Teatro Vascello, 8 febbraio 2022.

[9]La Scuola Teatro Azione fondata nel 1983 da Cristiano Censi e Isabella Del Bianco.

[10] Fabrizio Falco vince il Premio Mastroianni alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 2012 per il ruolo di Tancredi Ciraulo per É stato il figlio, regia di Daniele Ciprì.

[11] Un mese in campagna di Ivan Turgenev, regia di Marco Sciaccaluga, Genova, Teatro della Corte, 18 dicembre 1996.

[12] Il Corso Bertolt Brecht della Scuola del Piccolo Teatro si è tenuto nel triennio 2005/2008).

[13] Tre giorni dopo di Daniele Grassetti, 2013, e Smetto quando voglio di Sidney Sibilia, 2013.

[14] Cuore di cane, dal testo di Michail Bulgakov, adattamento e regia di Licia Lanera, con Licia Lanera e Qzerty, Bari, Teatro Abeliano. 17 ottobre 2018.

[15] Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli, adattamento e regia Licia Lanera, con Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Roberto Magnani, Romaeuropa Festival, Roma, Teatro Vascello, 15 ottobre 2024.

[16] Furie de sanghe. Emorragia cerebrale di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, regia Licia Lanera, con Sara Bevilacqua, Corrado Lagrasta, Licia Lanera, Riccardo Spagnulo, Teatri di Vetro, Roma, Teatro Valle, 14 maggio 2009.

[17] Lo splendore dei supplizi di e con Licia Lanera e Riccardo Spagnulo e con Mino Decataldo, Primavera dei Teatri, Castrovillari, Castello Aragonese, 1° giugno 2013.

[18] Con la carabina di Pauline Peyrade, regia e spazio Licia Lanera, con Danilo Giuva e Ermelinda Nasuto, Polis Teatro Festival, Ravenna, Teatro Rasi, 5 giugno 2022.

[19] Giulio Cesare da William Shakespeare e gli storici latini, regia di Romeo Castellucci, actio di Claudia Castellucci, declamatio di Chiara Guidi, Prato, Teatro Fabbricone, 5 marzo 1997. Valentina Picello andrà in tournée in America con lo spettacolo nel 2003.

[20] Tre atti unici da Anton Čechov, ideazione e regia di Roberto Rustioni, drammaturgia di Chiara Boscaro, con Antonio Gargiulo, Valentina Picello, Roberta Rovelli, Roberto Rustioni, Roma, Teatro Vascello, 11 ottorbe 2012).

[21] Sara Putignano intervista Luca Ronconi con le domande di Dacia Maraini, intervista registrata il 19 settembre 2013, contenuto extra del DVD di La scuola d’estate di Jacopo Quadri, 2016.

English abstract

This appendix presents a series of interviews, collected by Oliviero Ponte di Pino in a project curated by the Santacristina Association in collaboration with the Ateatro ETS Cultural Association, with some young actresses and actors, who had the opportunity to meet Luca Ronconi at the beginning of their career, both during their training and in some of the director's productions. A new generation of actors and actresses, under 50, therefore bears witness to the legacy of Luca Ronconi, a presence still alive in contemporary theater. In the appendix you can read, in addition to the testimony of Lorenzo Salveti (former director of the Silvio D'Amico Academy), the interviews with Fausto Cabra, Francesca Ciocchetti, Fabrizio Falco, Gabriele Falsetta, Davide Gagliardini, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Massimo Odierna, Valentina Picello, Sara Putignano, Federica Rosellini.

keywords | Luca Ronconi; Training; Santacristina; actors; actresses.

Per citare questo articolo / To cite this article: Associazione Culturale Santacristina, Associazione Culturale Ateatro (a cura di), A scuola di teatro con Luca Ronconi, “La Rivista di Engramma” n. 224, maggio 2025.