1 | Casa Scarpa, schema della pianta (da R. Masiero, Afra e Tobia Scarpa).
I. Intorno. Paesaggio rurale con figure
La strada bianca si stende diritta tra i campi coltivati, con file ordinate di mais, fitte spighe di frumento tra le quali spuntano papaveri in fiore, piante di vite ben allineate e distanziate, una fila di platani su di un solo lato. L’alternarsi delle coltivazioni accompagna il cammino per un paio di chilometri dopo le ultime case. Un folto gruppo di alberi alti e scuri, pioppi e lecci, annuncia un cambiamento nel paesaggio. La casa è subito dopo, con la sua massa nera, compatta che si lascia intravedere. Avvicinandosi, si scorge un’altra sagoma scura, un lungo muro di cemento parallelo alla strada, appena oltre il fosso che delimita la strada. Pur seminascosto dalla vegetazione, la sua presenza è un forte segno di discontinuità, e con le sue dimensioni misura lo spazio che la casa si è ritagliata nella campagna e disegna il recinto abitato. È un corpo basso, profondo circa quattro metri che si interrompe a metà per diventare un varco coperto, dal quale finalmente, al di là di un cancello in compensato marino, il grande parallelepipedo si presenta allo sguardo. Poco oltre, verso ovest, dove ci si aspetta una prospettiva di campi a perdita d’occhio, perché così era un tempo, emergono le lunghe falde della copertura di una enorme stalla, un’azienda agricola modello completamente automatizzata, costruita dai nuovi proprietari della casa. Pur distanziata, la sovrasta e depotenzia la relazione che i progettisti avevano voluto instaurare tra l’edificio e il territorio – una relazione esclusiva, un gesto radicale – e che per cinquant’anni era rimasta inalterata. Anche il ghiaino ben compattato della strada, i margini ampi e solidi della carreggiata sono indizi del cambiamento che è avvenuto, di un uso più frequente, di mezzi di altro peso che la percorrono: era più accidentata quando di là passavano solo i trattori e la due cavalli di Afra che portava ogni giorno i bambini, Bastiano, Carlotta, più tardi Nicolò, a scuola, in paese.
Afra Bianchin (1937-2011) e Tobia Scarpa (1935-) progettano e costruiscono la loro casa nel 1969, facendone anche il tema della tesi di laurea che insieme sosterranno quello stesso anno. Hanno già all’attivo due notevoli complessi industriali, saggi di un approccio allo specifico tema architettonico e costruttivo basato sulla ricerca di un rapporto con l’intorno e la sua tradizione e di un nesso necessario tra la forma e la funzione degli elementi strutturali, e una casa, villa Benetton, lussuosa residenza immersa nella campagna trevigiana. Oltre a oggetti di design: il divano Bastiano, la poltrona Carlotta, riconducibili a pochi pezzi facilmente assemblabili, il letto Vanessa, il divano Coronado, la poltrona Soriana, la lampada Foglio, per citarne alcuni.
La casa non nasce come architettura-manifesto, opera programmatica o paradigmatica rispetto alla produzione successiva; non è concepita come un prototipo da riprodursi serialmente perché, a differenza degli oggetti che disegnano, pensati per un utente astratto, l’abitazione non può non avere le sembianze del committente, rispondere alle sue richieste, esplicite ed implicite, che sono da intercettare, interpretare e trasformare in forme, spazi e luoghi.
La casa di Afra e Tobia è una casa-laboratorio, intesa sia come luogo di vita e lavoro, sia come oggetto di esperimenti, campo di prova e per questo caratterizzata da scelte radicali, da opere lasciate in sospeso, e soggetta a modifiche e aggiustamenti successivi.
Sotto questo aspetto, la casa degli Scarpa non è certo un episodio isolato, e forse, tra le case costruite per sé da progettisti, non stupirebbe scoprire che la condizione sperimentale è più diffusa nelle abitazioni di coppie di architetti per le quali il progetto di vita comune si intreccia con il progettare insieme, cosicché la condivisione di vita privata e professionale rende labili, fino ad annullarli i confini tra le due sfere.
Dalla casa per le vacanze nel Wiltshire di Alison e Peter Smithson costruita tra il 1959 e il 1962 ma con continui aggiustamenti fino al 1982 – il Solar Pavilion, edificio sperimentale sia in termini di risparmio energetico che di materiali nuovi o in inedite combinazioni, divenuto poi esemplare episodio della ricerca brutalista della coppia inglese (Smithson, Smithson 1963, 135-136; Smithson, Smithson, 1986, 24) – alla recente, e tuttora in fieri, Holes in the House (2017-) casa-studio degli architetti giapponesi Mio Tsuneyama e Fuminori Nousaku – una casa degli anni ’80 recuperata attraverso grandi fori tra i piani che vengono nel tempo adattati alle esigenze di vita e lavoro (Tsuneyama 2025, 25), gli esempi che si possono rintracciare sono numerosi. Tutti testimonianze di una volontà di ricerca che prescinde da incarichi e committenze, e che non si esaurisce sul tavolo da disegno, ma richiede riflessioni e verifiche dirette, comprese quelle che riguardano il vivere le soluzioni oggetto di esperimento.
La scelta, da parte degli Scarpa, di denominare “habitat” nel titolo della loro tesi di laurea, la casa che stanno costruendo va forse ascritta al carattere non concluso, né fissato o stabilizzato, ma progressivo e aperto, della casa-laboratorio: l’habitat indica le condizioni, gli elementi basilari del vivere, piuttosto che un insediamento compiuto. Su questa accezione di habitat riflettevano i CIAM negli anni ’50, guardando alle modalità abitative di base; gli stessi Smithson vi fanno riferimento nell’installazione Patio and Pavilion – intesi il patio e il padiglione come requisiti minimi del vivere: un pezzo di mondo e uno spazio raccolto – che presentarono con Nigel Henderson all’esposizione This is Tomorrow nel 1956 (cf. This is tomorrow, 1956).
“Habitat nella campagna veneta” è, più precisamente, il titolo della tesi e da qui, dalla campagna tra Treviso e le Prealpi conviene cominciare per riflettere su questa casa, su come è stata concepita e realizzata, sul ruolo che ha avuto nella poetica degli Scarpa. Trevignano è un piccolo centro agricolo nella campagna a nord-ovest di Treviso, che oggi conta diecimila abitanti, ma ne ha la metà alla fine degli anni ’60 quando Afra e Tobia decidono di costruire qui la loro casa. Una campagna piatta, uniforme, priva di quelle discontinuità che si possono osservare più a settentrione, sulle prime alture che preannunciano le Prealpi, i repentini mutamenti di orizzonte, gli squarci che si aprono improvvisi e destabilizzano il riguardante, costringendolo a interrogarsi sempre di nuovo su ciò che sta contemplando. Non le terre di Andrea Zanzotto, il paesaggio tormentato che specchia e si riflette nei tormenti del poeta. I rilievi restano lontani, a movimentare con il loro profilo lo sfondo. Campi di terra argillosa, ben tenuti, diligentemente divisi da fossi per l’irrigazione e da strade che si piegano ad angolo retto. Un ordine che induce a un ragionare lineare, essenziale, capace di indugiare sulle cose per afferrarne il senso al di là di apparenze consolidate; di rallentare lo scorrere del tempo e imprimergli un ritmo regolare in armonia con quello delle stagioni, della vita nei campi.
2 | Casa Scarpa a Trevignano, vista dai campi, foto di Tobia Scarpa, c.1969.
Poco più a nord di Trevignano, c’è Montebelluna, dove il territorio comincia a prendere movimento, a farsi ondulato, tra il Montello e le colline di Asolo. È il paese di Afra Bianchin. Il padre ciclista, con alcuni importanti successi, aveva un laboratorio per la fabbricazione di biciclette in paese. Morì tragicamente nel crollo dell’officina che stava ampliando. La madre di Afra e dei suoi tre fratelli, Alfio, Anzio e Alberta, prosegue l’attività del marito, mentre i figli prendono altre strade: molto diverse, come gli studi universitari per Afra e Alberta, o attigue, come un negozio di motociclette, accanto all’officina della madre, e uno di articoli sportivi nei pressi, per i due maschi.
La grande casa sopra e intorno il laboratorio, continua a essere punto di riferimento per la famiglia e anche per Afra e Tobia che vi si stabiliscono nei primi anni ’60, per poi trasferirsi, alla fine del decennio, nella nuova casa. Si insediano all’ultimo piano con il loro laboratorio dove pensare e sperimentare gli oggetti di design e i progetti di architettura che in quegli anni cominciano a produrre. Pareti in stucco di calce, imposte in carabottino e serramenti in acciaio piegato, porte e maniglie che poi entreranno in molte delle case che costruiranno, vengono provati qui, nell’appartamento-laboratorio. All’interno di quel sistema casa-e-bottega tipico della campagna veneta, le cui radici contadine vengono recepite, consolidate e tramandate dal modello economico legato alla villa veneta. Un sistema dove vita e lavoro si sovrappongono e si intrecciano senza conflitti, fluiscono l’una nell’altro, con naturalità, senza scandalo, indifferenti tanto alle teorie tayloriste dell’organizzazione scientifica del lavoro, quanto alla separazione tra i tempi del lavoro, del ricrearsi e del riposo all’origine dell’urbanistica razionalista – i trois établissements humains di Le Corbusier.
3 | Afra e Tobia Scarpa, ritratti nel 1985 da Cesare Colombo.
Si sono conosciuti casualmente, molto giovani, e Tobia ha convinto Afra a studiare architettura, meta quasi scontata per il figlio di Carlo Scarpa, meno per lei che, come racconta nella doppia intervista concessa a Marco Sorteni nel 1986 (Sorteni 1986, 293-317: 301), era più orientata verso gli studi di ingegneria e considerava l’architettura un “mestiere provvisorio”.
Lo Iuav che frequentano – poco – alla fine degli anni ’50 è quello di Samonà, Piccinato, Albini, Gardella, Zevi, Scarpa, che nel decennio successivo perderà la compattezza che lo aveva reso esemplare “isola felice”, e conoscerà dissidi, contestazioni, e poi un rinnovamento radicale. Difficoltà e rivolgimenti dai quali sia Afra che Tobia restano lontani, proiettati come sono, dalla casa-laboratorio di Montebelluna, verso l’impegno professionale, il design di mobili, la progettazione di stabilimenti industriali e case. Ma non è solo l’aver scelto il lavoro, lasciando in secondo piano lo studio, a renderli estranei ai fermenti universitari e sociali: vi è infatti in entrambi un chiaro atteggiamento anti-intellettualistico, anti-ideologico e antidogmatico, che scaturisce dalla diffidenza verso il primato dell’astrazione, e da una istintiva inclinazione per un’operatività concreta e un pragmatismo che verranno loro rimproverati – pur rivolgendosi al solo Tobia – da Maria Bottero in un’intervista su “Zodiac” in cui la futura direttrice della rivista contesterà anche l’anacronistica aulicità della villa da poco realizzata per Benetton, la scarsa incisività sul reale di interventi puntuali, quasi artigianali pensati non per generici committenti ma per persone specifiche. La risposta di Tobia è eloquente: “Io tengo innanzitutto alla mia libertà e, se domani mi fosse impedito di fare l’architetto nel modo in cui credo sia giusto farlo, smetterei di operare e mi ritirerei a fare il bifolco in campagna” (Bottero 1970, p. 77). Quella campagna che Tobia ritrova nei versi di Giacomo Noventa: “Co’ done e fioi, intorno ai foghi / El pan, el vin… / Cussì mi vivo, zorno par zorno / come un alegro agricoltor…” (Tobia Scarpa in Sorteni 1986, 317).
Nella terra di Afra, Tobia trova la disarmata e profonda semplicità di cose che sono solo se stesse; nel suo ragionare rigoroso, diritto, insofferente ai compromessi, all’ostentazione, egli trova il modo di fare i conti con idee e visioni che gli provengono dalla tradizione veneziana e dall’esperienza con il padre, dalle quali prende le distanze, alla ricerca di una propria poetica. Il “bisogno di terra” (Brusatin 1984, 195) che spinge Carlo Scarpa a trasferirsi nel 1963 ad Asolo, la città dei carducciani cento orizzonti, porta invece Tobia prima nell’anonima Montebelluna, dove inizia a spogliarsi di modi, forme e convenzioni, poi a cercare il luogo dove vivere e lavorare nella campagna meno caratterizzata possibile, quasi una tabula rasa su cui impiantare una propria – sua e di Afra – visione del mondo. La casa con le sue forme antimimetiche irrompe nel paesaggio e sconvolge la continuità dei campi coltivati, asserisce la propria presenza, non impone però la propria alterità attraverso recinti esclusivi: la radicalità del gesto dichiara un voler ricominciare da capo ma a partire da quei luoghi e dal loro senso più profondo.
È difficile e forse poco fecondo individuare e distinguere nelle opere di Afra e Tobia Scarpa, il contributo dell’una e dell’altro. Roberto Masiero, che si è occupato a lungo del loro lavoro e molto li ha frequentati, ha tratteggiato della coppia un doppio ritratto che mette in luce affinità e complementarietà della loro attitudine verso le cose: “Lui è curioso, goloso, intransigente, generoso. Insegue la perfezione e non sopporta l’inciviltà. Ha un grande rispetto delle cose. Le vuole docili e orgogliose, efficaci non per eccesso di praticità, belle perché essenziali, utili perché vive. Lei vorrebbe che tutti avessero la semplicità e la chiarezza di chi sa usare un solo vestito di materia nobile (cioè non necessariamente prezioso), la disponibilità di chi ha imparato nel dolore e non sull’orgoglio a dire di no. Sa quanto pesa l’angoscia e la fatica di impedire che Icaro si bruci le ali e non sopporta la stupidità” (Masiero 1992, s.p.).
Il connubio tra i due è ben raccontato dal monogramma che li ha fin dall’inizio identificati, una sorta di rebus dove il segno di frazione che separa la “a” a numeratore e le “B” e “A” a denominatore contiene parte dei nomi di entrambi (a-fratto-bi-a) e da simbolo di divisione diventa ciò che in realtà tiene unito, così che si legga: Afra-Tobia.
4 | Logogramma di Afra e Tobia Scarpa, versione grafica per il volume V. Scheiwiller (a cura di), Afra e Tobia Scarpa designers (1959-1967), Milano 1968 e disegno a mano.
II. Esterno. Intorno a una corte
Il grosso muro che fiancheggia la stradina, lungo circa quaranta metri è in realtà un edificio porticato su due piani, senza alcuna apertura verso l’esterno, e interamente aperto verso l’area recintata, con un doppio solaio continuo in cemento, sostenuto da pilastri che creano una serie di campate, delle quali la centrale funge da ingresso. È adibito a studio, deposito, con un piccolo alloggio.
La casa è invece un parallelepipedo alto dieci metri, lungo venti e profondo sei, quindi meno estesa longitudinalmente e, pur parallela al muro-ingresso-portico-studio-deposito, con le due facciate maggiori rivolte a nord e sud, non si attesta sull’asse di simmetria di quello, ma è spostata leggermente a ovest. Uno slittamento non vezzoso, ma che serve ad allargare la prospettiva laterale, stabilendo un forte legame tra la casa e l’intorno. Interamente dipinta di nero, la facciata che si presenta a chi ha superato l’ingresso ha rade, piccole bucature, e una porta sovrastata da un taglio che prosegue fino all’ultimo solaio.
5 | Afra e Tobia Scarpa, Casa Scarpa, Trevignano. Prospetti nord e sud, e sezione longitudinale.
6 | Afra e Tobia Scarpa, Casa Scarpa, Trevignano. Planimetrie.
Il rapporto tra il muro-ingresso-portico-studio-deposito e la casa è mediato da un ampio spazio aperto attraversato da un percorso di lastre di pietra. Un’area non delimitata ai lati, ma che, estesa quanto il corpo d’ingresso e frapposta ai due edifici, si percepisce come una corte, attivando l’associazione con il sistema della villa veneta e le sue componenti: casa padronale, barchessa, corte, giardino, brolo. Un sistema improntato a un rapporto simbiotico con il territorio, collaudato nei secoli, che qui non viene riproposto schematicamente ma nel ripensamento di ogni sua parte. È questa, d’altronde, la modalità operativa dei due architetti, che con inesausta caparbia e pazienza si interrogano su ogni cosa che devono progettare, ne indagano significato e funzionamento, la smontano concettualmente, allineandone sul tavolo da lavoro le diverse componenti, per poi analizzare ognuna di queste, riprogettarla e riassemblare il tutto, come nell’officina di biciclette di Montebelluna. E come fa chi sceglie di “percorrere tecniche di produzione antiche, adattarle a possibilità attuali per darti un vino che è frutto non di una tecnica ma di una sapienza” e infine impadronirsi del mestiere: “soltanto allora puoi introdurre l’elemento dell’invenzione formale che è poi la capacità di dare ordine alle sparse e inerti parole del tuo vocabolario” (Tobia Scarpa in Sorteni, 316). Una metafora non casuale, quella che associa enologia e architettura, due ambiti che effettivamente si intrecciano a Trevignano, poiché i vigneti che circondano la casa producono un vino, il Corbulino – giocoso omaggio al maestro svizzero-francese – rosso e bianco, che sarà pure presente al Vinitaly per parecchi anni. Capire il processo e le variabili in gioco, sapendo che ogni volta il risultato non potrà essere il medesimo, accomuna il fare vino all’architettura, e, in fondo, a ogni altra attività in cui fare e pensare si intrecciano.
Il sistema della villa viene dunque reinterpretato, per instaurare un “rapporto non succube, non formalista e non storicista con la tradizione veneta” (Masiero 2009, 137). E il disegno iniziale che prevedeva una precisa conformazione degli spazi e distribuzione delle funzioni, con un insieme fitto e regolare di alberi sul fondo, una siepe a circoscrivere il giardino, un campo da tennis nella corte, viene sostituito da un fluire e compenetrarsi di spazi e funzioni. In tal modo, stabiliti i due perni attorno ai quali ruota il sistema – la casa e il muro-ingresso-studio-deposito, moderna barchessa – la corte si stempera ai lati nel brolo, le piante ornamentali si mescolano agli alberi da frutta, i vigneti si allineano nei pressi per estendersi nei campi circostanti.
Il tema della corte ha già impegnato gli Scarpa, nei due progetti per Benetton, lo stabilimento e la casa, situati nella campagna trevigiana. In entrambi i casi la disposizione degli edifici viene disegnata intorno a un doppio cortile, formato da due quadrati tra loro slittati ma comunicanti. Per la fabbrica di maglieria attorno al cortile si organizzano gli edifici della produzione e le piccole costruzioni irregolari dell’amministrazione, con il quarto lato aperto sui vigneti dell’adiacente Villa Minelli – non ancora proprietà dei Benetton – con il suo complesso organismo formato dalla villa, le barchesse simmetricamente disposte intorno alla corte, il portico laterale (Mulazzani 2009, 85). Nel caso della villa, un grande quadrato in ciottoli separa il verde circostante da quello che cresce oltre e sugli edifici che compongono l’abitazione, mentre un quadrato più piccolo, racchiuso tra le ali dell’abitazione e una vetrata che inquadra il paesaggio rurale, mettendolo in un dialogo a distanza con il grande soggiorno che si apre sul cortile, è collegato al primo attraverso una lunga vasca, una “riga” d’acqua. Entrambi sono geometricamente e architettonicamente definiti, come quelli della fabbrica e la loro funzione mediatrice nei confronti dell’intorno è diretta con gli edifici che li circondano, ma, volutamente, soprattutto visiva con il territorio.
A Trevignano, la corte viene spogliata degli attributi architettonici e ricondotta a puro spazio unificatore e organizzatore. Costituisce la base su cui si innestano le diverse componenti chiamate a dar luogo all’insediamento abitativo (Cf. Masiero, Maguolo 2009, 16). Con paziente ostinazione, Afra e Tobia compiono nei confronti di ogni oggetto, gesto o azione una sistematica opera di scomposizione e smontaggio, per comprenderne il senso e verificarne o ripensarne la forma, in modo che si appalesi senza infingimenti o ambiguità il nesso tra ruoli, funzioni e forme. Centro e fulcro di questo processo, la casa di Trevignano appare come il luogo in cui gli interrogativi restano aperti, le fasi della riflessione sono lasciate in evidenza, le risposte alle domande, ancorché provvisorie, sono radicali. Il progetto non mira allora a costruire un insediamento compiuto, ma a delineare, come si osservava prima, un habitat, quell’insieme di condizioni e di elementi che forniscono l’ambiente in cui un organismo, un individuo o un gruppo di individui vive. Con modalità simili, e forse più estreme, Mio Tsuneyama e Fuminori Nousaku plasmano la loro abitazione a Tokyo, scavando letteralmente la struttura per scoprire i rapporti tra i volumi e la luce, le esigenze dell’abitare e le riflessioni sul costruire, senza cercare di giungere a una forma compiuta, conclusa che nella sua levigata coerenza metterebbe a tacere il ragionamento che invece va sempre ripreso, approfondito, rielaborato.
7 | Afra e Tobia Scarpa, Casa Scarpa, Trevignano, vista del fronte nord e della corte. Foto di Aldo Ballo.
Inizialmente, del muro-ingresso-deposito-studio solo le due estremità erano chiuse e contenevano a est lo studio, a ovest un piccolo alloggio. Con il tempo, una parte delle campate è stata chiusa con grossi teli da camion tesi tramite cavi d’acciaio, a proteggere i prototipi; un altro gruppo, quello verso ovest, venne tamponato quando si decise di conservare qui l’archivio di Carlo Scarpa, morto improvvisamente nel 1978. Le vetrate in profilo di ferro, i piccoli fermavetro cubici, le maniglie in tondino d’acciaio sono le componenti dei serramenti sperimentali che poi saranno applicati in tante altre occasioni.
Una costruzione aperta, come il fienile delle case di campagna, ma anche in quanto suscettibile e disponibile ai cambiamenti che possono intervenire nel tempo e riverberarsi sugli spazi dove si decide di abitare e lavorare; aperta infine, nel senso di embrione di configurazioni che possono trovare sviluppo o compimento altrove. Infatti, una volta chiarite le caratteristiche di ciascuna componente e delle modalità con cui esse si relazionano tra loro, diventa possibile elaborarne delle variazioni, verificarne la tenuta in altri contesti, mettere in campo soluzioni di finitura che chiudono l’opera lasciata invece aperta nella casa-laboratorio.
Ne è esempio, pochi anni dopo, Casa Lorenzin (Bandera 1996a, 68-71), nei dintorni di Abano Terme, dove lo schema sperimentato a Trevignano viene ripreso in una configurazione più articolata e disegnata che prevede l’inserimento dell’acqua, con due specchi quadrati nei quali si possono rintracciare le antiche peschiere – ulteriore, seppure raro e tardo, elemento del sistema villa veneta. Anche qui il lungo volume della barchessa – una cortina uniforme verso la strada, una serie di campate aperte verso l’interno – delimita e misura l’intera area e si confronta con la casa attraverso la corte-giardino, ma l’insieme è stabilizzato, bloccato sull’asse di simmetria al quale tutte le componenti si allineano. Il cemento grezzo del ‘muro’ esterno è sostituito da pannelli prefabbricati con sottili nervature diagonali, gli spazi porticati sono chiusi da infissi. La casa, non più un parallelepipedo compatto ma diviso in tre parti che, slittando lateralmente, lasciano due vuoti, è concepita per offrire allo sguardo, attraverso le grandi pareti vetrate, il profilo dei colli Euganei. Il dialogo con l’intorno, che a Trevignano era cercatamente basilare, assume qui contorni più complessi, sofisticati.
III. Interno. Niente è per caso
La facciata con cui la casa si presenta al visitatore – nera e sempre in ombra – non è accogliente, non invita ad avvicinarsi ed entrare, e le piccole aperture quadrate che la punteggiano, chiuse da imposte in carabottino accentuano l’aspetto austero, che viene appena mitigato dalla pensilina gialla in tubolare d’acciaio e vela in tensione davanti alla porta d’ingresso. Scarsi indizi trapelano sull’interno: l’allineamento dei fori si limita a suggerire una sequenza di tre piani, con ambienti che si ipotizza siano di piccole dimensioni. Sono i lati – divisi verticalmente in due parti, una più stretta, completamente nera e cieca, l’altra larga circa il doppio, completamente aperta – a svelare la logica che governa la casa, la dialettica serrata tra nord e sud, chiuso e aperto, vincolato e libero, nero e bianco, servente e servito. Una contrapposizione che vede le componenti enucleate, isolate per meglio comprenderne i meccanismi, definirne i contorni, individuarne punti e momenti di interazione e da lì cominciare a innescare relazioni, intessere dialoghi in cui le diverse voci non sono mai sfumate ma mantengono il proprio timbro, dichiarano ciò che sono: non giustapposti “frammenti” scarpiani (Cf. Dal Co 1984, 34 e sgg), all’interno di un’architettura-racconto, ma parti di un discorso che ha come obiettivo la loro sintesi.
Il disegno è radicale nella sua semplicità: a nord il blocco dei servizi, che si configura come un’intercapedine compresa tra due dei tre muri a tre teste costituenti la struttura verticale, a sud gli spazi dell’abitazione. È a questo blocco che corrisponde la facciata nera, realizzata con uno strato di bitume applicato direttamente sui mattoni, per proteggerli dalle intemperie, per proteggere l’interno dall’umidità; la parete sud con aperture più ampie che si moltiplicano ai livelli superiori, è rivestita in calce bianca, traspirante e riflettente. Una simile impostazione era stata pensata l’anno precedente per una casa poi non realizzata, dove l’articolazione degli ambienti crea giochi di sporgenze e rientranze che culminano in un grande vuoto centrale: tutto ciò viene meno a Trevignano e l’impianto è ricondotto al suo schema, così da renderne immediata la leggibilità e il controllo delle componenti.
Uno schizzo sintetizza il principio di questa suddivisione, con i “servizi” da un lato, dall’altro la “vita” che si espande verso l’esterno sui lati brevi, completamente aperti, mentre il percorso nord-sud passa attraverso i due ingressi allineati e mette in comunicazione la corte e il giardino che si apre verso la campagna. Tra i servizi, l’ingresso principale, piccolo ambiente funzionale che filtra e distribuisce senza cerimonie e simbologie, con solo un gradino che segnala il passaggio al vano che contiene la scala, anch’essa deputata alla sola distribuzione ai livelli dove si trovano le diverse zone-letto, per i genitori e per i ragazzi, e la cucina, grande, attrezzata, ma non luogo conviviale: il rito del mangiare si svolge nell’ampio, luminoso spazio di soggiorno, rivolto verso il tramonto.
8 | Afra e Tobia Scarpa, Casa Scarpa, Trevignano. Foto di Tobia Scarpa, 1969.
La volontà di raccogliere in un unico contenitore gli spazi di servizio richiama la distinzione che Louis Kahn faceva tra spazi serventi e serviti, cardine della filosofia progettuale del maestro di Philadelphia, che, nelle case come nei complessi universitari, consentiva agli ambienti principali del progetto di espandersi senza incontrare ostacoli. Anche l’impaginato delle facciate, con tagli e aperture verticali nei muri che si allargano verso l’alto fino a incontrare il solaio per portare più luce all’interno, diffonderla e farla scendere, ha alcune assonanze con le opere di Kahn. In particolare, viene in mente Casa Esherick (1959-1961, McCarter 2005, 161-163), nella quale si possono rintracciare delle somiglianze: la parte dei servizi, a esclusione della scala posta al centro, è confinata nel lato nord-est, la cui facciata ha quindi poche e piccole bucature; un fronte, quello rivolto a sud-est, ha due grandi aperture da terra al tetto, e una porzione cieca in corrispondenza dei servizi, mentre il fronte opposto ha le tipiche finestre a ‘T’, già presenti nel Tribune Review Building e poi riprese in forma modificata nel Salk Institute. In un dibattito sull’architettura dominato, a Venezia, dalla lezione di F.L. Wright, Mies van der Rohe e Le Corbusier, il messaggio che i progetti di Kahn trasmettono è dirompente, ed è forse nel deciso allontanamento dall’International Style, alla ricerca di un ordine che non è classico ma archetipico – “Nell’ordine è la forza creativa” (Giurgola 1981, 9), enunciava Kahn nel 1955 – che Afra e Tobia colgono l’affinità con la loro ricerca per la casa-laboratorio di Trevignano.
Ma vanno oltre e radicalizzano il processo di casa Esherick: individuati gli elementi serventi, li concentrano tutti, comprese la scala e l’ingresso, nel blocco a nord; legano il rapporto tra orientamento, distributivo e aperture con le altre componenti del sistema abitativo che hanno messo a punto; creano una complessa fluidità spaziale che si estende a tutti i livelli della casa. Kahn vede la casa nel 1969, quando viene a Venezia, invitato da Giuseppe Mazzariol, per il progetto del Centro Congressi. Lo storico dell’arte, regista dei progetti di Le Corbusier e poi di Kahn per la città lagunare, era molto legato agli Scarpa, sia Carlo, al quale aveva affidato il riallestimento della Querini Stampalia, sia Tobia e poi Afra. Non ancora terminata, con i muri nudi e senza infissi, pare che la casa, nella sua forza di pura struttura, abbia impressionato l’architetto americano.
9 | Afra e Tobia Scarpa, Casa Scarpa, Trevignano, veduta dell’interno. Foto di Tobia Scarpa, c. 1969.
I due lati brevi sono, escluso lo spessore cieco dell’intercapedine dei servizi, completamente aperti, protetti da grandi serramenti a libro: a est divisi in tre parti e apribili separatamente, a ovest in un unico elemento alto quanto la casa, che una volta dischiuso, annulla ogni distinzione tra dentro e fuori e lascia entrare una grande quantità di luce – la luce morbida del mattino e della sera – che si diffonde, si rifrange, si riflette sulle superfici che incontra, mentre, quando è filtrata dalle imposte in carabottino, crea intrecci mobili con le trame dei muri in mattone.
La casa non ha vere e proprie stanze racchiuse da muri, ma ambienti delimitati da bassi parapetti che consentono alla luce, come all’aria, allo sguardo e ai suoni di circolare, penetrare, raggiungere ogni luogo. Spazi molteplici, differenziati per altezza e dimensioni, separati dal vuoto che congiunge gli ingressi, oppure affacciati gli uni sugli altri, si intersecano e fermano lo sguardo, come dice Georges Perec: “Quando niente arresta il nostro sguardo, il nostro sguardo va molto lontano. Ma, se non incontra niente, non vede niente; non vede che quel che incontra: lo spazio è ciò che arresta lo sguardo, ciò su cui inciampa la vista, l’ostacolo: dei mattoni, un angolo, un punto di fuga: lo spazio è quando c’è un angolo, quando c’è un arresto, quando bisogna girare perché si ricominci.” (Perec [1974] 2016). Anche le porte non sono fatte per chiudere, sigillare, isolare: non sono, per citare ancora Perec, ciò che “rompe lo spazio, lo scinde, vieta l’osmosi, impone la compartimentazione”: al contrario, esili pannelli di compensato marino, prive di controtelaio e serratura, con maniglie di cuoio e tenuta affidata a una striscia di gomma, più che a dividere fisicamente, servono a segnare il passaggio da una parte della casa all’altra, a separare simbolicamente. Collocate sul muro tra le zone servente e servita, le mettono in comunicazione anziché ribadire la loro alterità.
10 | Afra e Tobia Scarpa, Casa Scarpa, Trevignano, veduta dell’interno. Foto di Tobia Scarpa, c. 1969.
Laboratorio che sottopone a verifica e tenuta le relazioni tra gli spazi e tra questi e le persone che li abitano, la casa di Trevignano è anche luogo in cui si provano materiali e tecniche costruttive. I muri in mattoni, i pavimenti in battuto di cemento, i serramenti in corten piegato e installati senza controtelaio, avvitati direttamente al muro, le intercapedini orizzontali e verticali per isolare la casa, la vasca metallica per la porzione di tetto adibita a roseto, il trattamento dei muri, la scala in piatto d’acciaio appesa al solaio superiore, gli impianti concentrati lungo il blocco-intercapedine e lasciati a vista: sono oggetti e soluzioni nati dalla necessità di rimettere in discussione ogni cosa, spogliarla dalle convenzioni, interrogarne funzione e senso e solo una volta chiariti questi, riprogettarla, non in nome della novità, ma come imprescindibile esito di un processo logico rigoroso, sintesi di elaborazione concettuale e verifica sperimentale. Questo atteggiamento fa sì che, per esempio, anche se prevista fin dall’inizio, la dipintura di muri e soffitti – diretta, senza intonaco – avvenga solo in un secondo momento, consentendo ai due progettisti-abitanti di riflettere sulle valenze materiche, spaziali e visive del mattone nudo, il suo essere terra, la elementarità archetipica, e poi il disporsi regolare nella tessitura muraria, il dialogo con altre tessiture, proiettate dalla luce del sole. La monocromia introdotta successivamente riconduce la presenza austera e drammatica del mattone a un’uniformità quasi astratta, pur mantenendo traccia, come accade nelle “stanze” di Louise Nievelson, della forma modulare iterata, della sua identità. Il non-colore – bianco, nero, oro – di Nievelson, citata da Afra nei suoi appunti per la discussione della tesi, imprime un ordine ai disparati oggetti affastellati in un ambiente; il bianco nella casa di Trevignano preserva l’idea di ordine che è implicita nel mattone, la riporta alla sua essenzialità, disinnescando, di quello, la forte carica espressiva.
Molti dei temi affrontati nella casa di Trevignano verranno sviluppati nei progetti successivi, con declinazioni necessariamente diverse: anche quando il committente chiede espressamente una casa come la loro, l’esito assumerà una configurazione propria, dettata da fattori contingenti e da esigenze e abitudini degli abitanti che quando non esplicitamente espresse, vengono ricavate dall’osservazione delle loro azioni quotidiane, secondo una prassi, non scontata, che fa parte della modalità operativa dei due architetti. In Casa Lorenzin, si diceva prima, l’impianto allungato è confermato, ma il parallelepipedo viene aperto, mediante slittamento delle estremità, e i vuoti rivestiti con lastre di vetro: due teche di cristallo frapposte a tre volumi chiusi. In quello centrale sono concentrati i servizi. Un’ulteriore elaborazione dell’impianto di Trevignano è, a Casa Molteni (1985), la piegatura di novanta gradi del parallelepipedo facendo perno sulla scala, così da creare un patio, una piccola corte coperta sulla quale si aprono gli spazi di soggiorno dove è riproposta la doppia altezza su cui affaccia il ballatoio superiore (Bandera 1996b, 94). I pavimenti in battuto con le fughe contrastanti a segnare i confini tra gli spazi, i muri in mattoni a vista dipinti di bianco rimandano alla casa di Afra e Tobia, perché così hanno voluto i committenti, ma dettagli preziosi, come i soffitti in marmorino, anziché in carta velina applicata direttamente sulle pignatte con colla vinilica – suggestiva quanto economica ed efficace soluzione escogitata dagli Scarpa per catturare e rifrangere la luce – manifestano la volontà di esplorare le potenzialità di quanto enucleato a Trevignano, attraverso forme e materiali più complessi e ricercati.
Significativa è l’evoluzione della scala che lì, puro dispositivo funzionale al collegamento tra i diversi livelli della casa, è parte degli spazi serventi, racchiusa, quasi compressa nel vano quadrato che la contiene, mentre in lavori successivi sembra stendersi, espandersi nello spazio circostante, fino a diventare, in alcuni casi, elemento caratterizzante del progetto. A Casa Tonolo (1978-1983) la struttura messa a punto a Trevignano, data da due serie di elementi in piatto d’acciaio saldati tra loro e resi solidali da barre trasversali annegate nel getto di cemento che la rendono oggetto autonomo appeso al solaio superiore, acquista audacia, si fa segno che taglia in diagonale lo spazio del portico, per poi attraversare l’intera casa, e diventare, con i caratteristici pilastri lenticolari, momento identificativo di questa ristrutturazione (Maguolo 2009, 199-201).
Non c’è contraddizione tra la ruvidezza formale, le polarità portate agli estremi e rese esplicite della casa di Trevignano e l’aspetto polito, gli attenti equilibri delle opere successive. Non è la crudezza dei materiali o la schematicità funzionale in sé l’orizzonte della poetica degli Scarpa: il “brutalismo” della loro casa – la struttura esposta, gli impianti a vista, le finiture ridotte al minimo – è punto di partenza per la messa a punto di un linguaggio architettonico depurato da convenzioni. Un lingugaggio “privo di retorica”, si potrebbe dire con l’espressione che i neobrutalisti Alison e Peter Smithson usano per spiegare la propria poetica, ricavata, spiegano in Without rhetoric, dalle abitazioni contadine più che dalla tradizione architettonica aulica (Smithson, Smithson 1973, 6).
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Quel pomeriggio di aprile, percorrendo la strada bianca, fra distese di papaveri, con Carlotta Scarpa e Alessandra Chemollo (si veda in questo numero: Abitare Casa Scarpa / Fotografare una casa di Carlotta Scarpa e Alessandra Chemollo) ci si chiedeva preoccupate come sarebbe stata la casa, come la si sarebbe trovata, ora che i nuovi proprietari vi si erano trasferiti. Sappiamo che i grandi, stupefacenti serramenti in corten sono stati sostituiti, sappiamo della grande stalla – così grande che su Google Maps la casa sembra essersi ristretta. Ci accorgiamo della strada ben tenuta, con i margini solidi e compatti. Temiamo stravolgimenti, e di non essere pronte a vedere i ricordi traditi. Siamo consapevoli che i nuovi abitanti non possono fare a meno di appropriarsi della casa, che la devono adattare alla loro vita, adattandosi un po’ a loro volta a quegli spazi, a quei materiali. La casa non diventerà un museo di se stessa, quel manifesto di architettura che non è mai stata, non starà lì a testimoniare la straordinaria opera di Afra e Tobia Scarpa. Non ci sarà alcun intervento filologico a salvarla dal degrado e impedirne la perdita di leggibilità. Il suo destino appare diverso da quello del Solar Pavilion degli Smithson, che dopo anni di abbandono è stata accuratamente restaurata nel 2003, dallo studio Sergison Bates, recuperando e salvaguardando il carattere essenziale – brutale – dei suoi spazi e degli arredi.
Ci guardiamo intorno per ritrovare i segni familiari: l’assenza dei battiscopa, le porte senza serratura, le scatole delle prese elettriche e i cavi esterni sono lì; altre cose hanno cambiato aspetto, gli ambienti hanno preso la forma di stanze, lo sguardo non si muove più così liberamente abbracciando tutto lo spazio. La luce inciampa, si blocca. E tuttavia, infonde una sensazione di tranquillità vedere come i nuovi abitanti si muovono con familiarità e sicurezza in quei luoghi, li hanno fatti propri senza arroganza, ma anche senza soggezione: consapevoli di quello che è e rappresenta, ma convinti che non potrà restare la stessa. Però, a un certo punto, il proprietario sorpreso e compiaciuto osserva: “Non c’è niente di casuale in questa casa, ogni cosa all’apparenza stravagante e incomprensibile ha una sua precisa ragione, dal colore nero della facciata, alla forma delle maniglie”. E conclude: “C’è sapienza e cura, e un po’ alla volta voglio arrivare a capire ognuna di queste cose, imparare quello che Afra e Tobia hanno imparato nel farle”. Comincia a piovere, li lasciamo tra le mucche e i vitelli, saliamo in auto: non guardiamo nello specchietto retrovisore.
Riferimenti bibliografici
- Bandera 1996a
M. Bandera, Casa Lorenzin, Abano Terme (Padova) 1976, in Roberto Masiero, Afra e Tobia Scarpa. Architetture, Milano 1996, 68. - Bandera 1996b
M. Bandera, Casa Molteni, Carimate Ronco (Como) 1985, in Roberto Masiero, Afra e Tobia Scarpa. Architetture, Milano 1996, 94. - Brusatin 1985
M. Brusatin, La casa dell’architetto, in Francesco Dal Co, Giuseppe Mazzariol (a cura di), Carlo Scarpa 1906-1978, Milano 1985, 195-198. - Dal Co 1985
F. Dal Co, Genie ist Fleiss. L’architettura di Carlo Scarpa, in Francesco Dal Co, Giuseppe Mazzariol (a cura di), Carlo Scarpa 1906-1978, Milano 1985, 24-71. - Giurgola 1981
R. Giurgola (a cura di), Louis I. Kahn, Bologna 1981. - Maguolo 2009
M. Maguolo, Casa Tonolo, in R. Masiero, M. Maguolo (a cura di), afra e tobia scarpa architetti 1959-1999. tobia scarpa architetto 2000-2009, Milano 2009, 199-201. - Masiero 1992
R. Masiero, Nel mondo di Afra e Tobia Scarpa, catalogo della esposizione Nel mondo di Afra e Tobia Scarpa, Preganziol, 14 novembre 1992-9 gennaio 1993, Preganziol 1992. - Masiero 2009
R. Masiero, Semplicemente una casa, in R. Masiero, M. Maguolo (a cura di), afra e tobia scarpa architetti 1959-1999. tobia scarpa architetto 2000-2009, Milano 2009, 133-137. - Masiero Maguolo 2009
R. Masiero, M. Maguolo, Cercando di capire, in R. Masiero, M. Maguolo (a cura di), afra e tobia scarpa architetti 1959-1999. tobia scarpa architetto 2000-2009, Milano 2009, 13-36. - McCarter 2005
R. McCarter, Louis I Kahn, London-New York 2005. - Mulazzani 2009
M. Mulazzani, Allegoria della Prudenza, in R. Masiero, M. Maguolo (a cura di), afra e tobia scarpa architetti 1959-1999. tobia scarpa architetto 2000-2009, Milano 2009, 85-87. - Perec [1974] 2016
G.Perec, Specie di spazi [Espèces d’espaces, 1974], tr.it di Roberta Delbono, Milano 1989 (1a ed. digitale 2016). - Smithson, Smithson 1963
A. and P. Smithson, Architects’ own house, Tilbury, Wiltshire, in “Architectural Review”, vol. 133, n. 792, 1963, 135-136. - Smithson, Smithson 1973
A. and P. Smithson, Without rhetoric. An Architectural Aesthetic 1955-1972, Cambridge (Mass.), 1973. - Smithson, Smithson 1986
A. and P. Smithson, Upper Lawn Solar Pavilion, Barcelona 1986. - This is tomorrow 1956
This is tomorrow, Exhibition catalogue, White Chapel Art Gallery, London 1956, s.p. - Tsuneyama 2025
M. Tsuneyama, Making through Demolition, in About Conditions Truwant+Rodet+, Mio Tsuneyama+Fuminori Nousaku, “Dixit” 05, 2025, 25-36.
English abstract
The house designed and built by Afra Bianchin and Tobia Scarpa in 1969, in the countryside of Trevignano near Treviso, emerges from a flat, orderly agricultural landscape. Conceived as both a home and a laboratory, it reflects a radical architectural approach rooted in experimentation, personal identity, and a desire to reinterpret the essence of traditional rural architecture. By examining themes such as the courtyard, the relationship between served and servant spaces, the role of light in shaping interiors, and the use of unconventional materials and technical solutions, this essay highlights Afra and Tobia Scarpa’s intention to create an open work – composed of elements conceived as archetypes to be further developed in future projects.
keywords |Architect’s house; Experimental architecture; Habitat.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Michela Maguolo, a/BA. La casa di Afra e Tobia Scarpa, “La Rivista di Engramma” n. 226, luglio/agosto 2025.
Per citare questo articolo / To cite this article: Michela Maguolo, a/BA. La casa di Afra e Tobia Scarpa, “La Rivista di Engramma” n. 226, luglio/agosto 2025, pp. xx-yy | PDF dell’articolo (con link quando è disponibile il PDF)