"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

La casa per i matti e la casa per lo psichiatra che li ha liberati

La collaborazione di Nani Valle e Giorgio Bellavitis con Franco Basaglia e Franca Ongaro

Giuseppina Scavuzzo

English abstract

1 | Fernanda Valle (1927-1987) e Giorgio Bellavitis (1926-2009).
2 | Franco Basaglia (1924-1980) e Franca Ongaro (1928-2005).

Il contesto

Fernanda Valle (1927-1987), nota come Nani, si forma e opera all'interno di una solida tradizione familiare di architetti, lavorando al fianco del padre, del fratello e in seguito del marito. Pur inserendosi in un ambito professionale connotato da relazioni familiari, riesce ad affermare una posizione autonoma e riconoscibile, mai subordinata o marginale, in un contesto storico in cui la piena affermazione di un’architetta era tutt’altro che scontata.Tale affermazione è il risultato di un impegno costante e rigoroso, sostenuto da una profonda consapevolezza della responsabilità civile e sociale insita nella pratica dell’architettura – una consapevolezza che, come testimoniano le esperienze analizzate in questo testo, assume per lei un carattere quasi etico. Forse anche così si potrebbe intendere quel “senso del grave” che anche Carlo Scarpa le attribuisce (Bellavitis 2016, 11).

Il padre Provino Valle (1887-1955) è un architetto molto attivo in Friuli. Quando, durante la guerra, si teme per la sorte del fratello maggiore Gino (1923-2003) erede designato dello studio e allora deportato in Germania, Fernanda viene indirizzata agli studi di Architettura (Bellavitis 2016, 12). Li proseguirà successivamente insieme al fratello, rientrato alla fine della guerra. Si laurea in architettura all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia nel 1951 ed entra a far parte dello Studio Architetti Valle.

Anche una terza sorella, Elena, conosciuta come Lella (1934-2016), si laureerà in Architettura e, con il marito Massimo Vignelli, formerà un altro, celebre, sodalizio professionale fondando a New York lo studio di design Vignelli Associati.

Dopo anni di lavoro nello studio Valle, prima con il padre e il fratello poi solo con quest’ultimo, Nani Valle avvia, dal 1960, un’attività professionale indipendente a Venezia. Nel 1958 sposa Giorgio Bellavitis con cui fonderà lo Studio Architetti Bellavitis & Valle.

Giorgio Bellavitis (1926-2009) partecipa, giovanissimo, alla Resistenza col nome di battaglia Walt Disney, scelto per la sua attività di fumettista. Nel 1943 viene arrestato insieme all’amico giornalista, scrittore e anche lui fumettista, Alberto Ongaro, fratello di Franca Ongaro Basaglia. Dopo la guerra, lavora come illustratore, in collaborazione ancora con Alberto Ongaro e con Hugo Pratt. Si laurea all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia nel 1965.

Lo Studio Bellavitis & Valle lavora prevalentemente a Venezia, soprattutto sui temi del restauro, del recupero e della tutela della città lagunare, in intensa un’attività che vede lo studio impegnato al fianco di istituzioni come l’Unesco e l’associazione Italia Nostra.

Nani prosegue parallelamente la carriera accademica insegnando nei corsi di progettazione architettonica allo I.U.A.V., per divenire, nel 1981, professoressa ordinaria di Composizione Architettonica e Urbana.

La sua opera è stata oggetto di un testo molto ricco, La concretezza sperimentale, a cura di Serena Maffioletti (Maffioletti 2016), che delinea bene il valore della progettista e della docente, facendo emergere la gravitas gentile con cui riesce ad affermarsi come donna e professionista tra tante figure vicine di architetti, soprattutto quella ingombrante del fratello Gino Valle. Come sottolineato anche nel volume curato da Maffioletti, la vicenda del progetto per l’ospedale psichiatrico di Trieste resta in larga parte da indagare (Pastor 2016): potrebbe offrire nuovi elementi per comprendere la modernità dell’approccio progettuale di Valle, finora mai pienamente riconosciuta. Un’attitudine innovativa che non si oppone alla gravitas, ma la orienta verso l’adesione consapevole a una causa rivoluzionaria, quella del movimento per la liberazione manicomiale.

Gli altri due protagonisti della vicenda, e dei progetti oggetto di questo testo, sono lo psichiatra veneziano Franco Basaglia (1924-1980) principale promotore della riforma psichiatrica che, con la legge 180 del 1978, ha condotto alla chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia, e la moglie Franca Ongaro (1928-2005) intellettuale, scrittrice, due volte senatrice (dall’83 al ’92) che molto ha contribuito alla rivoluzione culturale nell’approccio alla cura della salute mentale.

Le due coppie formate da Basaglia e Ongaro e da Bellavitis e Valle, appartengono alla stessa generazione e allo stesso ambiente veneziano. Giorgio Bellavitis e Franco Basaglia sono legati anche dalla comune esperienza antifascista vissuta poco più che adolescenti.

Il legame personale tra i quattro protagonisti si traduce in un confronto culturale e professionale ancora poco indagato, ma che costituisce uno degli episodi più significativi del dialogo tra architettura e psichiatria in Italia. Questo scambio si realizza a Trieste, in un momento cruciale – tra la metà degli anni Sessanta e i Settanta – per quella che è stata definita la più importante rivoluzione italiana del secondo Novecento (Roghi 2015): la trasformazione della cura psichiatrica, considerata in quel momento storico, un misuratore della salute democratica di un paese [Figg. 1 e 2].

Nel 1971, dopo la complessa esperienza alla direzione dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia, Franco Basaglia assume la guida dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, in un contesto politico più favorevole alla realizzazione del suo progetto di riforma. In questo nuovo scenario, lo psichiatra chiama gli architetti Bellavitis e Valle a occuparsi della trasformazione del comprensorio ospedaliero. Il loro lavoro si estenderà per cinque anni. Si potrebbe definire un progetto incompiuto per sopravvenuta libertà (Scavuzzo n.d.), poiché, mentre i tempi lunghi dell’architettura si scontrano con quelli della burocrazia, delle autorizzazioni e dei finanziamenti, il movimento di liberazione psichiatrica procede con la rapidità simbolica di Marco Cavallo. Quando solo una parte degli interventi previsti è stata realizzata, l’ospedale viene chiuso nel 1977. Si tratta del primo caso in Italia di dismissione di un ospedale psichiatrico sostituito da una Comunità terapeutica, con un anno di anticipo rispetto alla legge 180/1978, grazie al riconoscimento di “zona pilota” da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il progetto elaborato da Bellavitis e Valle non è tuttavia incompiuto nel senso convenzionale di un’opera rimasta sulla carta. Si configura piuttosto come un’esperienza progettuale in continua trasformazione, adattata alle condizioni in evoluzione di un luogo che, mentre viene ripensato, cambia nella funzione, negli obiettivi, nella sua stessa natura giuridica. Riletto oggi, attraverso categorie critiche contemporanee, come si vedrà nel seguito del testo, questo intervento si delinea come un processo trasformativo non centrato sulla produzione dell’oggetto architettonico ma volto a rispondere a esigenze sociali in divenire: una prospettiva verso cui, secondo alcune letture recenti, l’architettura è chiamata a orientarsi per divenire pratica sostenibile e civicamente rilevante.

Uno degli aspetti centrali del lavoro progettuale svolto tra il 1971 e il 1977 riguarda la riconversione dei padiglioni dell’ospedale psichiatrico in residenze destinate agli internati in procinto di modificare la propria condizione giuridica, divenendo, secondo quanto previsto dal nuovo impianto normativo, “ospiti”. Questo passaggio segna una tappa cruciale nel processo di deistituzionalizzazione promosso da Franco Basaglia: i padiglioni non sono più pensati come luoghi di cura, poiché la cura non si identifica più con la permanenza all’interno dell’istituzione, in quella coincidenza tra cura e dispositivo architettonico-terapeutico alla base dell’internamento dalla sua nascita.

Garantire una casa a coloro che formalmente sono liberi di lasciare l’ospedale, ma privi di risorse e tutele fuori dall’istituzione, rappresenta forse la declinazione più urgente della “questione casa” per Franco Basaglia e Franca Ongaro. Tuttavia Nani Valle progetta una casa anche per la coppia di amici. In questa occasione si configura una relazione apparentemente più tradizionale tra architetto e committenti, eppure, anche in questo caso, il rapporto personale e lo scambio culturale e progettuale sembrano condurre a un esito non del tutto convenzionale.

L’architettura degli ospedali

Già diversi anni prima dell’inizio della collaborazione con Franco Basaglia, Fernanda Valle sviluppa un interesse specifico per i temi della salute e dell’architettura ospedaliera, sia sul piano progettuale che della ricerca. In questo ambito si colloca il progetto per l’Ospedale Civile Provinciale di Portogruaro, elaborato nel 1955 insieme a Provino e Gino Valle, cui seguirà, nel 1966, l’incarico per l’ampliamento dello stesso complesso, affidato ancora una volta allo studio di famiglia. Nel 1967, conduce una ricerca sugli Organismi Ospedalieri su incarico del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Anche se la ricerca è applicata allo studio di quello che viene definito Ospedale Generale, nel corpus dei casi studio presi in esame sono comprese anche strutture per la cura delle malattie mentali.

Sempre nel 1967, partecipa al concorso nazionale di progettazione, a inviti, per il nuovo Ospedale civile della Provincia di Venezia, a Mirano, con Gino Valle come capogruppo, Giorgio Bellavitis e altri, e al concorso nazionale per il progetto del nuovo Ospedale Psichiatrico della Provincia di Venezia, sempre a Mirano, con Giorgio Bellavitis come capogruppo, e altri.

Quest’ultimo progetto è il precedente più prossimo all’esperienza triestina e testimonia una sensibilità nei confronti delle trasformazioni in atto nel campo della psichiatria evidentemente maturata non solo attraverso lo studio dei progetti e della letteratura scientifica approfonditi nella ricerca per il C.N.R., ma che sembra scaturire da un confronto diretto con un contesto disciplinare in profondo mutamento.

Il progetto, e le parole con cui Valle lo descrive[1], rivelano la lucidità con cui l’architetta riconosce la contraddizione di progettare un ospedale psichiatrico proprio nel momento in cui di questa istituzione si denuncia la crisi e il fallimento. Solo alcuni mesi dopo l’emanazione del bando di concorso – nel marzo 1968 – la legge 431 avrebbe introdotto i Centri di igiene mentale, servizi territoriali proposti come alternativa all’ospedale psichiatrico, in evidente contrasto con il modello di struttura centralizzata richiesto dal concorso bandito dalla Provincia di Venezia. Sempre nel 1968 Basaglia avrebbe messo in azione la sua efficace macchina narrativa di negazione dell’istituzione psichiatrica, aprendo per la prima volta al grande pubblico le porte di un ospedale psichiatrico, quello di Gorizia, per il reportage di Sergio Zavoli per la RAI, I giardini di Abele[2] e, un anno dopo, pubblicando per Einaudi il fotolibro, manifesto di denuncia, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin (Basaglia, Ongaro Basaglia 1969).

Nell’introdurre il progetto per l’ospedale Mirano, Valle scrive: “Crediamo che, se un ospedale psichiatrico debba essere progettato, all’architetto competa soprattutto l’obbligo di suggerire un’atmosfera radicalmente non gerarchica […]. Poiché l’ospedale psichiatrico risulta interessato soprattutto dalle due componenti medico-specialistica e sociale, che ne hanno accompagnato la nascita, la formazione e oggi la crisi, riteniamo che una posizione che decisamente riduca i termini del problema alla ricostituzione dei rapporti interpersonali fra tutti i membri, curati e curanti, della comunità ospitata sia l’unica umanamente accettabile e legittima”[3].  Il motto “Conto aperto” scelto per il progetto, sembra allora alludere al debito che l’architettura ha ancora in sospeso con la cura della salute mentale.

Progettare “un’architettura in grado di autodistruggersi per mutare”

Nel dicembre del 1971 lo Studio Architetti Bellavitis & Valle è incaricato della redazione di un “Piano programma per la riabilitazione del Parco di San Giovanni”, sede del complesso dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, di cui Basaglia è divenuto direttore nell’agosto dello stesso anno. Si tratta di un piano particolareggiato condotto in collaborazione con l’Amministrazione provinciale sulla base di una “Carta programmatica” che ha l’obiettivo di applicare la già citata legge 431, primo passo nella direzione di una riforma dei servizi psichiatrici.

L’attività dello studio di Bellavitis e Valle sul complesso ospedaliero durerà cinque anni e comprenderà interventi a scale diverse: dal ridisegno della viabilità del complesso al restauro dei padiglioni e al loro riuso per diverse funzioni, da quelle ospedaliere a quelle residenziali, fino a usi laboratoriali per l’Università di Trieste.

Come rileva anche Barbara Pastor, nel libro sull’opera di Nani Valle, questo lungo e articolato lavoro è andato incontro a un “oblio”: nella monografia, per il resto ricca, edita per il centenario dell’Ospedale di Trieste nel 2008, compaiono solo due brevi accenni al progetto, in entrambi i casi attribuito, inspiegabilmente, al solo Giorgio Bellavitis[4].

Barbara Pastor attribuisce l’oblio alla singolare “vicenda di un’architettura che progetta il suo trapasso” (Pastor 2016, 176). Il silenzio che ha avvolto questo progetto non sembra, infatti, attribuibile alla sua mancata realizzazione: molti progetti irrealizzati sono comunque documentati e talvolta persino celebrati. Tuttavia, non basta, come spiegazione, il fatto che si trattasse di intervenire su un’istituzione destinata alla dismissione. Anche in questo ambito, non mancano esempi noti di riconversioni che hanno suscitato attenzione critica.

La scarsa attenzione riservata al progetto sembra piuttosto riconducibile alle modalità con cui è stato condotto: un approccio che include interventi sul costruito, ipotesi di nuovi inserimenti architettonici e proposte di modifiche urbanistiche, ma che si distingue soprattutto per la gestione di un processo relazionale complesso. Un processo che si misura costantemente con trasformazioni culturali, normative, fisiche, di luoghi, persone e istituzioni in continuo mutamento.

Un esercizio allora quasi inedito per un architetto ma che oggi può essere riletto con rinnovato interesse alla luce di nuovi paradigmi interpretativi. In diversi contesti contemporanei, infatti, si discute cosa debba essere considerato “architettura”, rivendicando un ampliamento del campo disciplinare verso una prospettiva plurale e a maggiore rilevanza sociale. Si mette in discussione “l’idea che l’architettura abbia a che fare con la forma, l’oggetto piuttosto che l’uso, con l’individuo più che la collettività, con la perfezione piuttosto che il compromesso costruttivo, l’autorialità piuttosto che l’utilità sociale” (Harriss, Hyde, Marcaccio 2021, 8). In questa prospettiva, l’architettura – “liberata dall’obbligo di costruire” (Koolhaas 2005, 20) – può configurarsi come “una metodologia indipendente dal risultato”, una pratica capace di mediare tra esigenze divergenti, di sintetizzare prospettive eterogenee, “di trasformare questa materia prima di persone, prospettive e ambizioni in una visione praticabile per il futuro” (Harriss, Hyde, Marcaccio 2021, 9).

Questo cambio di prospettiva, si fonda su approcci di ricerca alle scienze sociali come quello avanzato da Bruno Latour con l’Actor-Network Theory, secondo cui il sociale è il risultato di associazioni di entità eterogenee e non di una definizione a priori.  Un approccio che lo stesso Latour applica all’architettura, come nel saggio Give Me a Gun and I Will Make All Buildings Move, scritto insieme a Albena Yaneva[5].

Qui la centralità dell’azione demiurgica dell’architetto – che determina la forma architettonica traducendola in statiche rappresentazioni grafiche – è soppiantata dall’idea di un processo complesso e dinamico determinato da attori diversi, di cui l’architetto è solo uno dei partecipanti.

Nel saggio, Latour e Yaneva auspicano l’elaborazione di un dispositivo analogo a quello ideato da Etienne Jules Marey, il fucile  fotografico utilizzato per scomporre in fermo immagine e comprendere la fisiologia del movimento dei viventi, umani, animali, sino a fermare e fissare il movimento degli eventi naturali, onde marine, movimento delle nuvole, dei fumi. Simmetricamente servirebbe un dispositivo per trasformare la visione statica di un’architettura in una serie di fermo immagine che documentino il flusso continuo di trasformazioni, il combinarsi complesso di fattori che costituisce il processo progettuale (Scavuzzo 2025, 162).

Solo una serie di fermo immagine potrebbe descrivere l’interazione continua che costituisce il progetto/processo in cui si trovano coinvolti Bellavitis e Valle nel complesso di San Giovanni.

Nella loro relazione conclusiva, ripercorrendo le tappe del loro lavoro, i due architetti evidenziano il confronto, e la diversa velocità, tra l’elaborazione progettuale e quelle che definiscono le “vicende umane”, che, attraverso l’intervento di altri attori, medici, infermieri, volontari e degenti stessi – anche con azioni performative come la costruzione di Marco Cavallo e la sua uscita per le strade cittadine – trasformano anch’esse lo spazio, erodendone la connotazione manicomiale.

Gli architetti segnalano anche i limiti dei tradizionali strumenti di rappresentazione a dare conto del tipo di lavoro che stanno conducendo, quando scrivono: “La tavola non rappresenta un Piano atemporale ma lo spaccato d’un processo in parte realizzato, in parte da realizzare”[6].

La posizione assunta da Bellavitis e Valle, che appare sorprendentemente in sintonia con sensibilità oggi sempre più diffuse, si fonda sulla sospensione del ruolo tradizionale dell’architetto come esperto portatore di soluzioni, per adottare invece un atteggiamento di ascolto nei confronti della molteplicità dell’altro. Un’attitudine che richiama il gesto fenomenologico che Franco Basaglia propone nel suo percorso di deistituzionalizzazione: sospendere lo sguardo esperto del clinico, mettere tra parentesi la malattia, per ascoltare il malato come soggetto.

Anche agli architetti chiamati a lavorare in ambito psichiatrico, Basaglia sollecita lo stesso gesto fenomenologico, chiedendo di non costruire “sempre le stesse quinte” per quella che definisce la farsa dell’istituzione manicomiale ma di “aprire occhi e orecchie al diseredato committente” (Basaglia 1980, 5), il paziente. Lo psichiatra auspica un’architettura che “contenga in sé la possibilità di autodistruggersi per mutare” che non agisca come una struttura imposta, ma che si lasci trasformare dalle esigenze di chi la abita. Un’architettura fatta di luoghi “elastici” inseriti nel “tessuto connettivo della città” (Basaglia [?] 2023, 517). Queste sembrano le condizioni poste ai due architetti veneziani.

Sciogliere l’ospedale nella città

Nei Rapporti progressivi redatti da Bellavitis e Valle, non si documenta soltanto lo stato di avanzamento del lavoro, ma si registrano in parallelo le trasformazioni del contesto, tra cui quella relativa ai destinatari degli interventi. A partire dal 1973, fa la sua comparsa una nuova figura giuridica: l’“ospite”. Si tratta di persone dimesse dall’ospedale perché considerate guarite, ma che, in assenza di alternative abitative o in attesa di potersi reinserire nella società, continuano a vivere nel parco di San Giovanni in regime di ospitalità.

Il progetto delle case per gli ospiti non è un progetto di casa nel senso consueto del termine. La questione da affrontare è in sé inedita e richiede soluzioni altrettanto originali: i pazienti dimessi, ora ospiti, non riescono a trovare alloggio in città, ma le abitazioni loro destinate, secondo le indicazioni di Basaglia, devono inserirsi idealmente – e, per quanto possibile, fisicamente – nel “tessuto connettivo della città”. L’obiettivo, apparentemente paradossale, diventa allora quello di far uscire le case-padiglioni dall’ospedale. La risposta proposta dagli architetti è radicale: “sciogliere il nodo manicomiale nel tessuto urbano della città”[7] facendo entrare nel complesso gli assi stradali cittadini e rompendo la gerarchia impressa dagli assi originari. Sull’asse di simmetria, infatti, si collocavano gli edifici direzionali e lungo l’asse si graduava il livello di assoggettamento degli internati all’istituzione: agitati, sudici, cronici, tranquilli.

La proposta degli architetti si inserisce con coerenza nella dialettica, solo apparentemente contraddittoria, che caratterizza questa fase del movimento per la liberazione manicomiale che apre – cancelli, padiglioni, reparti – alla città, per poter chiudere – definitivamente – l’ospedale come istituzione totale.

In seguito delle proposte formulate dagli architetti, nel 1975 il Comune di Trieste approva ­una Variante al Piano Regolatore Generale di Trieste che prevede la destinazione a uso pubblico del Parco di San Giovanni, con nuove strade di attraversamento, rendendo il comprensorio parte del tessuto cittadino.

La proposta è verosimilmente legata all’esperienza di ricerca di Nani Valle che, nel suo studio per il CNR, si concentra particolarmente sulle relazioni tra ospedale e intorno urbano. La stessa strategia è presente nel progetto per l’Ospedale psichiatrico di Mirano, dove, nel tentativo di affrontare l’anacronismo di progettare ancora un ospedale psichiatrico, si utilizza l’asse stradale che attraversa la struttura per portare la città dentro l’ospedale e dare libertà di movimento alla comunità curata e curante[8].

Il new domestic landascape delle case per i matti

La nuova condizione degli ospiti imporrebbe interventi radicali sui padiglioni, per liberarli dai connotati ospedalieri e realizzare quegli ambienti che possano favorire il reinserimento nella società.

Dalle relazioni periodiche degli architetti emerge la difficoltà, soprattutto economica, di procedere a modifiche strutturali, almeno in tempi brevi. Di contro la trasformazione dei padiglioni in case è urgente. Nel rapporto progressivo si legge: “In difetto di altre prospettive, nel ’73 si propone un sostanzioso rinnovo degli arredi”. Si procede, quindi, intervenendo sugli interni con una soluzione quasi un ripiego, che si rivelerà, invece, decisiva per cambiare il carattere dei luoghi.

Gli ordini e preventivi conservati nell’archivio Bellavitis e Valle danno la misura dell’intervento, che passa per un consistente ordine alla ditta Bergamin di Latisana[9].

Vengono scelti gli arredi della ditta Artemide, oggi identificata con la produzione di apparecchi per l’illuminazione, allora attiva nella sperimentazione di mobili in materiali plastici. Gli elementi selezionati appartengono al panorama più innovativo del design italiano del tempo e sono tra i protagonisti della mostra Italy: The New Domestic Landscape, allestita nel 1972 al Museum of Modern Art di New York, emblema di uno stile di vita nuovo, libero e informale proposto da architetti e designer italiani.

La scelta di questi arredi incarna quello scarto auspicato da Franco Basaglia rispetto alle consuete “quinte” dell’ambiente manicomiale. L’introduzione degli arredi Artemide nei luoghi della quotidianità contribuisce a ridefinire l’immaginario dello spazio psichiatrico, in continuità con la vivacità, anche cromatica, introdotta al San Giovanni dalle attività teatrali e laboratoriali promosse da Giuliano Scabia e Dario Fo.

Nell’ospedale entrano la sedia Gaudì di Vico Magistretti, del 1971, oggi inclusa nella collezione di design permanente del MoMA, la poltrona Togo di Sergio Mazza del 1968, la sedia e il tavolo Selene, sempre di Vico Magistretti, del 1966, tutte icone del design italiano stampate in un unico blocco e concepite sfruttando la resistenza per forma che conferisce rigidità ai nuovi materiali plastici. Sedie, poltrone e tavoli pensati anche per l’uso all’esterno, vengono acquistati in una gamma cromatica vivace – verde, rosso, bianco e testa di moro.

3 | Pagina da “Il Meridiano di Trieste”, novembre 1973, da Archivio Progetti Iuav, fondo Bellavitis e Valle.

Un quotidiano triestino dell’epoca commenta con ironia l’adozione di questi arredi, parlando di un costoso “stile Hilton” [Fig. 3]. Tuttavia, la scelta di questi elementi va ben oltre il semplice rinnovamento formale o stilistico: si tratta di oggetti che fanno la loro comparsa anche in contesti estremamente evocativi e visionari, come la base lunare della serie televisiva Spazio 1999. È il loro carattere futuribile – espressione dello Space Age design – a conferire loro una forza immaginativa che ben si accorda alla spinta propulsiva, al di là delle convenzioni, che con un’estetica radicalmente altra si intende di introdurre nello spazio ospedaliero [Figg. 4 e 5].

4, 5 | Gli arredi Artemide nella serie televisiva Spazio 1999, 1975.

L’universo vitale e colorato cui appartengono gli arredi incarna lo slancio verso un nuovo paradigma di vita quotidiana. La reazione degli ospiti ne testimonia l’efficacia: i nuovi arredi sono accolti con entusiasmo mentre i vecchi mobili vengono rimossi e accatastati nei viali del parco, in un gesto collettivo che può essere letto come un atto di appropriazione dello spazio, l’affermazione di un nuovo modo di abitare che si emancipa dalle logiche istituzionali [Fig. 6].

6 | Gli arredi Artemide negli spazi dell’ospedale psichiatrico di Trieste, foto Claudio Ernè, 1974.

Oltre agli arredi Artemide, la ditta Bergamin fornisce, in questo caso progettati appositamente per l’ospedale, dei nuovi comodini per le stanze da letto. Meno famosi degli altri arredi, ne condividono il carattere, in quanto scatole colorate e lucide. Il comodino è un elemento d’arredo cruciale per il processo di restituzione della soggettività agli internati. È stato più volte raccontato che il primo provvedimento di Basaglia, divenuto direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, nel 1961, prima ancora di eliminare camicie di forza e pratiche come l’elettroshock, sia stato consegnare ai pazienti dei comodini per riporvi gli effetti personali requisiti al momento del ricovero. La restituzione di uno spazio privato, e della memoria personale, è il primo passo della restituzione della soggettività su cui fondare una propria, possibile, progettualità (Scavuzzo 2020).

A Trieste vengono acquistati 710 comodini, quasi uno per degente ancora rimasto nell’ospedale. Quello che li differenzia dai comodini consegnati a Gorizia, comuni arredi ospedalieri, non è solo il new domestic design che li connota ma anche la presenza di serratura e chiavi. L’ambiguità dei limiti, dell’aprire e del chiudere, si rivela anche qui. Nel manicomio molti limiti sono imposti, da grate, reti, dispositivi di contenzione fisica, ma altri sono violati: i limiti di quella che oggi definiamo privacy, negata nelle docce comuni, nei dormitori, nell’assenza di luoghi dove custodire le proprie cose. Il possesso di un mobile chiudibile segna un passaggio fondamentale: possedere una chiave, e con essa la facoltà di custodire i propri oggetti, significa inaugurare una dimensione domestica, è già un inizio di casa.

Roberto Mezzina – giovane medico negli anni ’70 nell’ospedale psichiatrico di Trieste e successivamente direttore del Centro di Salute Mentale che lo ha sostituito – racconta che molti pazienti, prima dell’arrivo dei nuovi comodini, fossero costretti a portare sempre con sé un sacchetto, contenente le proprie cose più care, temendo di lasciarle incustodite.

L’articolo per Casabella

Sulla vicenda del progetto, Nani Valle, Giorgio Bellavitis, Franco e Franca Basaglia conducono una riflessione scrivendo insieme un articolo, poi mai pubblicato, per la rivista Casabella (Scavuzzo 2020, 254). La bozza di articolo, intitolato Psichiatria e Architettura, si apre con delle considerazioni su come il progetto sia o non sia incompiuto, e in quale senso:

Gli architetti non amano parlare delle cose che non sono successe; oppure sì, ma solo nel caso che si possa produrre un bel progetto non realizzato; anzi fino a qualche anno fa era molto di moda parlare delle ‘architetture interrotte’. Qui non solo dobbiamo parlare di cose che non sono successe, ma addirittura di una esperienza nella quale si è praticamente e criticamente manifestata l’inesistenza di qualsiasi margine per la progettazione, intesa come sequenza reale di atti finalizzati all’edificazione di qualsiasi tipo. Tuttavia, non si tratta di un’esperienza simulata, cioè della risultanza di un dibattito verbale; né di un’esperienza fallimentare, cioè di un caso in cui rinunciando si gettò la spugna; ma di un caso in cui furono escogitate insieme con gli psichiatri delle soluzioni che per vari motivi risultavano alternative alla progettazione.

Segue una riflessione sui rapporti tra le due discipline, psichiatria e architettura, e più in generale tra saperi e poteri, tra discipline e istituzioni.

Dall’articolo, e ancora di più dalla discussione preparatoria del testo tra gli autori, registrata e trascritta, emergono le diverse posizioni dei quattro – con una conferma sulla maternità delle considerazioni sugli assetti stradali attribuita a Nani Valle – e si delinea la crisi di fronte alla quale si trova l’architettura rispetto a una psichiatria rinnovata, che si mette in discussione e problematizza la malattia mentale, smettendo di fornire all’architettura classificazioni e disposizioni da tradurre in tipologie e distributivi architettonici prefissati.

La casa per i Basaglia

L’amicizia intellettualmente vivace tra le due coppie, trova esito in un altro progetto, stavolta realizzato, quello della casa per le vacanze che Nani Valle progetta e realizza per Franco e Franca Basaglia nel 1964.

Nel dossier per l’abilitazione alla libera docenza, Valle indica che il progetto è stato elaborato in collaborazione. Altrove viene accreditato come progetto di Nani Valle e Giorgio Bellavitis, che probabilmente non firma gli elaborati perché si laurea in Architettura un anno dopo, nel 1965.

7 | Localizzazione e piante di Casa Basaglia a San Martino di Castrozza, 1964. Rielaborazione immagini di Martina Di Prisco.

8 | Casa Basaglia a San Martino di Castrozza, isometria senza tetto, con modularità dei pannelli esterni e interni, e assonometria (rielaborazione immagini di Martina Di Prisco).

Si tratta di una casa isolata all’ingresso di San Martino di Castrozza. L’edificio è un parallelepipedo allungato che si sviluppa su un lotto in pendenza, con un alto basamento in pietra che al piano terra è parzialmente incassato nel declivio e contiene un ingresso e gli spazi di servizio. La pianta ha un’estremità poligonale corrispondente, al primo piano, nel soggiorno, a un’apertura panoramica sulle Pale di San Martino, che si trovano esattamente di fronte. Sul lato verso la strada, il basamento in pietra prosegue al primo piano, con il camino e il muro in cui si trovano l’ingresso, l’apertura del garage e un balcone al primo piano. Sul lato opposto, dove il terreno sale, prosegue il ritmo dei pannelli in legno del bovindo poligonale che fa da testa alla casa. Sul basamento in pietra sono impostati dei pilastri in legno tondi che sostengono la copertura, molto sporgente oltre le pareti [Figg. 7, 8].

Come scrive Nani Valle, “Il problema sotteso alla realizzazione del progetto era l’uso di pannelli portanti modulari e prefabbricati in legno derivanti da una produzione che utilizza i residui delle normali tapparelle in pino di Svezia”[10]. Particolarmente rilevante è la ricostruzione proposta da Silvia Moretti in merito all’impiego dei pannelli (Moretti 2016, 135). Sarebbe stato Franco Basaglia a disporne l’acquisto con l’intenzione di utilizzarli per la costruzione di una casa. Tuttavia, a causa dei numerosi impegni legati al suo ruolo di direttore dell’ospedale di Gorizia, il progetto non avrebbe avuto seguito. È allora che i due amici architetti sarebbero intervenuti proponendosi di elaborare un progetto che prevedesse l’utilizzo di quei materiali. Anche la casa nasce dunque da un “compromesso costruttivo” fondato su un’economia di mezzi, infatti i pannelli, dal costo modesto ­– utilizzati normalmente per la costruzione di baraccamenti di cantiere – vengono utilizzati anche per le pareti divisorie interne tra le camere da letto. Il ritmo dei pannelli modulari, unifica esterno e interno. All’esterno, a questo ritmo, si sovrappone quello dei pilastri che sorreggono la copertura. I pannelli sono utilizzati anche come sottofinestra, quindi dettano la misura dei serramenti, chiusi con persiane avvolgibili in legno che, chiuse, creano una continuità con il pannello sottostante, dello stesso materiale.  

La casa di San Martino si discosta abbastanza dalle altre case costruite dallo Studio Bellavitis & Valle. La compattezza, essenzialità e economia non solo di mezzi, legati all’uso dei pannelli, ma anche espressiva,  conferisce un forte carattere alla casa, che sembra una prua protesa verso le montagne, con la parte inferiore chiusa, in pietra, a proteggerla dalla strada, e il ponte aperto, riparato dal tetto sporgente. Anche le aperture sui due fianchi, con i balconi-ponti, rafforzano questa immagine.

Riferimenti più immediati sembrano essere le celebri ville di San Martino realizzate da Bruno Morassutti. In particolare, il sistema dei pilastri in legno cilindrici poggianti su un basamento in pietra e collocati sotto un pronunciato aggetto di copertura riprende soluzioni già adottate nella Villa Morassutti del 1956. La contrapposizione tra il basamento in pietra e la sovrastruttura modulare in legno rappresenta un elemento ricorrente nell’architettura alpina tradizionale, reinterpretato in questo caso attraverso un lessico formale originale, caratterizzato dalla particolare testata poligonale. Tale sintesi tra linguaggio vernacolare e istanze moderne conferisce all’edificio una qualità progettuale che meriterebbe maggiore attenzione critica. L’essenzialità delle linee e la modernità dell’impianto compositivo rimandano, per analogia, a esperienze internazionali, come la celebre residenza progettata da Rudolf Schindler per Gisella Bennati nel 1934.

9 | Casa Basaglia a San Martino di Castrozza, vista attuale dell’esterno (foto Giulia Lombardo).
10 | Casa Basaglia a San Martino di Castrozza, vista attuale del corridoio interno (foto Giulia Lombardo).

Diversi aspetti del progetto restano tuttora poco indagati, anche a causa dell’assenza di disegni esecutivi negli archivi Bellavitis e Valle, che rappresentano una delle principali fonti documentarie per l’opera. Tra gli elementi più enigmatici si segnala il bassorilievo raffigurante San Martino nell’atto di dividere il mantello con il povero, inserito nella muratura del camino. Sarebbe interessante comprendere su iniziativa di chi, tra architetti e committenti, sia stato collocato e quale valore simbolico o culturale si intendesse attribuirvi [Fig. 9].

Architettura e vicende umane

Pur lontanissimi tra loro, il progetto per le case degli ospiti dell’ospedale psichiatrico e quello per la casa per i coniugi Basaglia, più in piccolo e molto meno complesso, dimostrano un’apertura a escogitare alternative, perfino alla progettazione strettamente intesa, a raccogliere sfide anche estreme, in grado di mettere in discussione – o fra parentesi se vogliamo tornare al gesto fenomenologico di Basaglia – il ruolo dell’architetto “che vuole fare il bel disegno”. Se il progetto per l’ospedale rimane più che incompiuto, processo aperto, discorso, fuori dall’oggettualità a cui l’architettura difficilmente sa o può rinunciare, la casa a San Martino, in piccolo, è un esito tangibile di disponibilità, radicata nel sapere costruttivo, a esplorare mezzi non scontati. È un esempio di come “la concretezza sperimentale”, come è stata ben definita la dote di Nani Valle, fosse in grado di gettare avanti esiti freschissimi ancora oggi.

Si tratta di progetti che, seppur rimasti ai margini della narrazione dominante, rivelano una sorprendente attualità nel loro modo di rispondere alle tensioni del contesto in cui sono nati così come a quelle del presente. Essi testimoniano un impegno progettuale centrato sull’ascolto e sulla relazione, distante dalle logiche autoriali o dall’esibizione formale, e più vicino a una pratica architettonica consapevole del proprio ruolo sociale. La discussione tra gli autori dell’articolo per Casabella riflette la complessità di operare in un campo nuovo e privo di riferimenti certi, ma restituisce anche la dedizione e la lucidità di chi si percepiva parte di un cambiamento epocale.

Pur nella consapevolezza che il loro contributo sarebbe potuto rimanere invisibile – come in effetti è accaduto – gli architetti hanno scelto di procedere, per contribuire a quelle “vicende umane” che l’architettura, talvolta, riesce a intercettare. È proprio per questa generosità che, oggi, appare opportuno sottrarre all’oblio le tracce silenziose di un’architettura capace di farsi parte di un cambiamento umano profondo.

Note

[1] Gli ordini, datati giugno 1973, con gli elenchi degli arredi, sono conservati nell’Archivio Progetti Iuav, Venezia, fondo Bellavitis e Valle, in corso di ordinamento.

[2] Fernanda Valle, Casa di vacanze a San Martino di Castrozza, in Dossier per l’esame di abilitazione alla libera docenza in elementi di composizione di Fernanda Valle Bellavitis, scheda 4.19, 1969.

[3] Studio Architetti Bellavitis & Valle, O.P.P.T. Provincia di Trieste. Piano di risanamento dell’ospedale psichiatrico, 1973, Archivio Progetti Iuav, Venezia, fondo Bellavitis e Valle, in corso di ordinamento.

[4] Fernanda Valle, Progetto di Ospedale psichiatrico provinciale di Mirano, in Dossier per l’esame di abilitazione alla libera docenza in elementi di composizione di Fernanda Valle Bellavitis, scheda 5.18, 1969. Archivio Progetti Iuav. Fondo Bellavitis e Valle, in corso di ordinamento.

[5] L'Ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste: storia e cambiamento 1908-2008, Electa, Milano 2008, 60, 73.

[6] Bruno Latour, Albena Yaneva, “Give Me a Gun and I Will Make All Buildings Move”: An ant’s View of Architecture, “Ardeth” 1 (2017), 103-111.

[7] Studio Architetti Bellavitis & Valle, O.P.P.T. Provincia di Trieste. Piano di risanamento dell’ospedale psichiatrico, 1973, Archivio Progetti Iuav, Venezia, fondo Bellavitis e Valle, in corso di ordinamento.

[8] Fernanda Valle, Progetto di Ospedale psichiatrico provinciale di Mirano, in Dossier per l’esame di abilitazione alla libera docenza in elementi di composizione di Fernanda Valle Bellavitis, 1969, scheda 5.18. Archivio Progetti Iuav. Fondo Bellavitis e Valle, in corso di ordinamento.

[9] Sergio Zavoli, I giardini di Abele, 1968. Regia: Sergio Zavoli; sceneggiatura: Sergio Zavoli; fotografia: Franco Tonini, Marziano Lomiry; montaggio: Vasco Micucci; produzione: RAI; b/n; durata: 26'.

[10] Fernanda Valle, Progetto di Ospedale psichiatrico provinciale di Mirano, in Dossier per l’esame di abilitazione alla libera docenza in elementi di composizione, cit.

Riferimenti bibliografici
  • Basaglia [?] 2023
    F. Basaglia, Relazione alla Commissione di studio per l’aggiornamento delle vigenti istruzioni per le costruzioni ospedaliere del Ministero della Sanità, ora in F. Basaglia, Scritti, 1953-1980, Milano 2023.
  • Basaglia 1980
    F. Basaglia, Introduzione, in S. Santiano, b come architettura, z come salute. Per un uomo che sembra doversi liberare, per sopravvivere, e della medicina e della architettura diventate mercificazione, Verona 1980.
  • Basaglia, Ongaro Basaglia 1969
    F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia (a cura di), Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Torino 1969.
  • Bellavitis 2016
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  • Harriss, Hyde, Marcaccio 2021
    H. Harriss, R. Hyde, R. Marcaccio, Introduction, in H. Harriss, R. Hyde, R. Marcaccio (eds.), Architects after Architecture. Alternative Pathways for practice, Routledge, New York 2021, p. 8, traduzione dell’autrice.
  • Koolhaas 2005
    R. Koolhaas, Content, Köln 2005, p. 20, traduzione dell’autrice.
  • Maffioletti 2016
    S. Maffioletti (a cura di), La concretezza sperimentale. L’opera di Nani Valle, Padova 2016.
  • Moretti 2016
    S. Moretti, «Io sono un muratore»: Nani Valle e le case d’abitazione, in S. Maffioletti, (a cura di), La concretezza sperimentale, cit.
  • Pastor 2016
    B. Pastor, Progettazione di ospedali, in S. Maffioletti, (a cura di), La concretezza sperimentale, cit.
  • Roghi 2015
    V. Roghi, La più importante rivoluzione italiana, “Internazionale”, 28 febbraio 2015
  • Scavuzzo n.d.
    G. Scavuzzo, Memorie di un progetto incompiuto per sopravvenuta libertà, in D. Adorni, F. Paladini e D. Tabor (a cura di), Memorie della deistituzionalizzazione in Italia. Testimonianze orali, soggettività e narrazioni pubbliche della liberazione dal manicomio dagli anni Sessanta a oggi, Pisa, in corso di pubblicazione.
  • Scavuzzo 2025
    G. Scavuzzo, Architettura in crisi e prospettive non antropocentriche, “Aut Aut” 405 (2025).
  • Scavuzzo 2020
    G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita, Siracusa 2020.
  • Valle 1969
    F. Valle, Progetto di Ospedale psichiatrico provinciale di Mirano, in Dossier per l’esame di abilitazione alla libera docenza in elementi di composizione di Fernanda Valle Bellavitis, 1969, scheda 5.18. Archivio Progetti Iuav. Fondo Bellavitis e Valle, in corso di ordinamento.
  • Valle 1969/2
    F. Valle, Progetto di Ospedale psichiatrico provinciale di Mirano, in Dossier per l’esame di abilitazione alla libera docenza in elementi di composizione, cit.
English abstract

The text examines two unconventional housing projects by architects Nani Valle and Giorgio Bellavitis: the project for the houses for ‘guests’—no longer patients— of the renovated spaces of the Trieste Psychiatric Hospital, and another for a holiday home for psychiatrist Franco Basaglia. At the core of both projects lies the intellectual and interdisciplinary dialogue between the architect couple Nani Valle and Giorgio Bellavitis and the duo of Franco Basaglia and his wife, Franca Ongaro. These projects reveal the architects’ theoretical contribution—until now largely overlooked—to the process that led to the closure of the psychiatric hospital and, more broadly, to a paradigm shift in mental health care. The projects clearly reflect the central role of Nani Valle, who developed both a design and research expertise on care facilities. Above all, the projects stand out for their striking contemporary relevance, as they seem to respond to the tensions of the context in which they were conceived as well as to those of the present.

keywords | Nani Valle; Giorgio Bellavitis; Franco Basaglia; Franca Ongaro; Italian postwar architecture; Trieste Psychiatric Hospital.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: Giuseppina Scavuzzo, La casa per i matti e la casa per lo psichiatra che li ha liberati. La collaborazione di Nani Valle e Giorgio Bellavitis con Franco Basaglia e Franca Ongaro, “La Rivista di Engramma” n. 226, luglio/agosto 2025.