1 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra. La casa vista dal giardino. ©Matthew Weinreb.
Meno del 30 percento. È la percentuale di occorrenze che, nelle principali pubblicazioni dedicate al lavoro cinquantennale di Michael Hopkins and Partners, fa riferimento a Patricia – detta Patty – rispetto a quelle rivolte a suo marito Michael. Forse troppo poco per un sodalizio professionale, oltre che personale, di questo genere. Un sodalizio iniziato con lei nemmeno ventenne, durante gli anni universitari svolti all’Architectural Association della swinging London, quando le donne erano 5 su 60, in un ambiente culturale radicale animato da figure influenti come Peter Smithson e Cedric Price. Un sodalizio, quindi, costruito insieme condividendo la formazione, consolidato con la fondazione del loro studio di cui sin dall’inizio sono entrambi soci e sviluppato con un progetto di vita, personale e professionale, in comune. Patty – e molte altre – scontano una sorta di cancellazione operata da una narrazione dominante misogina e parziale, che ignora il contributo delle figure femminili, specie se ‘mogli di’, alla produzione architettonica e spaziale. Una cancellazione che è stata reale per Patty, eliminata attraverso fotoritocco da un’immagine promozionale realizzata per un documentario della BBC (Waite, Mark 2014)[1], in cui è stato lasciato solo il marito con i colleghi, nonostante lei sia partner paritaria nella società. Lui dice di lei che è la “colla e l’olio dello studio” (Hopkins 2014), in una intelligente contrapposizione di significati che descrive una realtà complessa. Lui dice che l’architettura permea la loro vita e vanno avanti insieme, senza divisione di ruoli (Donati 1996). Ma, questo è meno del 30 percento.
2 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra, 1975-76. Patty Hopkins nel cantiere della Hopkins House. ©Hopkins Architects.
La loro casa-studio, costruita a Londra tra il 1975 e il 1976, casa dove tuttora Lady Hopkins abita[2], è un’icona dell’architettura contemporanea[3], in particolare del movimento high-tech, di cui rappresenta uno dei pochi esempi di edilizia residenziale (Davies 1988), incarnandone limpidamente tutti i principi: la prefabbricazione, la flessibilità, l’esposizione della struttura, la fedeltà ai materiali. La Hopkins House è così come la si vede. È un essenziale macchina per l’abitare. Un solido blocco rettangolare di acciaio e vetro, alieno dal contesto, diviso orizzontalmente in due piani, uno al livello della strada inizialmente ad uso dell’ufficio e uno inferiore dedicato alla vita familiare. Un edificio sperimentale, primo progetto congiunto, sede del nuovo studio a nome comune, biglietto da visita e vetrina del loro lavoro, e allo stesso tempo casa di famiglia. Un edificio che nasce da una serie di condizioni di necessità, a cui gli Hopkins, come nel loro stile, danno una risposta estremamente pragmatica. Progettando per sé stessi, la risposta si traduce con la proiezione nello spazio della propria concezione di vita e di un modo di abitare, facendo coincidere le ragioni del costruttore e quelle dell’abitante. Il compromesso è con sé stessi, con la propria biografia, con le trasformazioni della vita privata, con il desiderio di aderire a un principio o di derogare a una regola. Non è sempre immediato ricostruire il nesso tra storia personale e forma dell’opera, ma appare evidente come, per diversi aspetti, la Hopkins House sia un ‘affare di famiglia’.
Siamo nel 1975. I coniugi Hopkins hanno tre bambini piccoli e vivono in una moderna casa popolare a schiera di Highgate, progettata da Neave Brown, loro professore all’AA. Michael in quel momento era socio di Norman Foster. Lo aveva conosciuto durante la discussione della tesi di laurea di Patty, di cui era membro di giuria, tesi sui sistemi costruttivi industrializzati da cui Foster rimase molto colpito (Hopkins 2014). Patricia faceva la libera professione in autonomia e, con l’aiuto di una ragazza alla pari, si occupava dei tre figli piccoli (Hopkins 2024). Tutti avevano bisogno di spazio. La loro casa era ormai diventata troppo stretta, un po’ come la collaborazione di Michael con Foster (Davies 1994), Patty voleva conciliare il lavoro e la cura dei figli. La soluzione: costruire una casa-studio, manifesto delle loro idee. Il 1975 non era di certo l’anno più favorevole per avviare una nuova attività. L’uomo era stato da poco sulla luna, ma la crisi energetica del 1973 aveva in parte spento gli entusiasmi, innescando una fase di recessione. Questa congiuntura negativa per il mercato immobiliare rende eccezionalmente disponibili diversi terreni anche in zone pregiate. Gli Hopkins si imbattono in un lotto disponibile su Downshire Hill, elegante strada alberata di Hampstead, circondata da ville del periodo georgiano e regency, in mattoni e stucco. Il lotto deriva dalla suddivisione del giardino della casa confinante appartenente a Frederick Gibberd, architetto e urbanista, presso cui in momenti diversi entrambi avevano lavorato. Liberata da uno studio e da un garage preesistenti, la proprietà era stata suddivisa e messa in vendita. Un fronte insolitamente largo (14 metri) e profondo per gli standard londinesi, che si sviluppa 3 metri sotto il livello della strada, con restrizioni edilizie derivanti dagli allineamenti con gli edifici adiacenti, sia sul retro che sul davanti. Al momento dell’acquisto, era stato già concesso un permesso di costruzione per uno sviluppo residenziale rimasto in stand-by a causa della crisi, costituito da due case a quattro piani, analoghe a quelle adiacenti. Le autorizzazioni per il loro edificio, indipendente e leggero in acciaio e vetro, sono state rilasciate principalmente grazie alla minore densità del loro schema (Hopkins 1979).
Ma quali erano le loro necessità? Sicuramente molto concrete. Dovevano ottenere il maggiore spazio possibile entro i vincoli del sito. Era necessario contingentare i costi; tutto il ricavato dalla vendita della loro vecchia casa era stato investito nell’acquisto del terreno, lasciando risorse limitate per la costruzione. Sempre per ragioni economiche, l’esecuzione doveva essere rapida e permettergli di entrare nella nuova casa, anche se non completamente finita. Doveva essere flessibile per adeguarsi facilmente alle esigenze di una famiglia in evoluzione. Sapevano di voler usare una struttura modulare a telaio e solo due materiali, metallo e vetro. Una scelta naturale, rilevabile in una chiara linea di continuità con i progetti su cui stavano lavorando o di cui si erano occupati di recente. Michael aveva seguito da Foster il Willis Building a Ipswich, sede centrale della compagnia assicurativa, e gli uffici dell’IBM Pilot Headquarters a Cosham nell’Hampshire, un padiglione modulare, smontabile e flessibile con struttura in acciaio a vista, servizi integrati e rivestimento in vetro. Patty, oltre alla sua tesi sulla standardizzazione delle componenti, era stata responsabile da Foster dell'ampliamento della Pond House a Hampstead, un’estensione leggera e modulare di una ex rimessa per carrozze, anche questa caratterizzata da strutture in acciaio a vista e da ampie superfici vetrate, ma accostate in questo caso a pareti in blocchi di cemento. La tecnologia in acciaio e vetro era quella su cui avevano accumulato maggiore esperienza e su cui stavano sperimentando. Quando si trattò di progettare la loro casa-studio, scegliere questa opzione era la soluzione migliore. Erano in ritardo, avevano poco budget, dovevano ottimizzare. E magari anche consolidare le collaborazioni già sperimentate, come quella con Tony Hunt, ingegnere dell’edificio IBM, a cui affidano la progettazione strutturale. La casa costituiva l'opportunità per sperimentare l’adattamento alla scala domestica delle tecniche, tecnologie e componenti che stavano utilizzando negli edifici industriali (Hopkins 1975).
La costruzione è stata molto rapida. Un anno dall’acquisto, meno di 8 mesi di cantiere. Per ridurre i costi, Michael e Patty hanno gestito il progetto personalmente, da un lato cercando di contenere le spese di realizzazione usando elementi semplici e ripetuti, dall’altro assumendo il ruolo di appaltatori principali, Patty in particolare [Fig. 2] mentre Michael lavorava ancora da Foster (Hopkins 2014), coordinando piccole squadre di manodopera e subappaltatori specializzati, ma garantendosi allo stesso tempo il controllo della qualità costruttiva (a queste condizioni la casa è riuscita a costare meno di 20.000£ – 30.000£ il terreno –, inclusi tutti gli elementi strutturali, gli accessori e le finiture interne con moquette e tende. I pezzi prefabbricati sono arrivati in cantiere e saldati in due settimane in loco da un artigiano locale [Fig. 3]. Dopo sei mesi si sono trasferiti nell'involucro dell'edificio, mentre gli allestimenti erano ancora in corso (Hopkins 1979).
3 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra, 1975-76. Fasi di montaggio della struttura in acciaio. ©Hopkins Architects.
4 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra. Sezione trasversale. ©Hopkins Architects.
Il dichiarato riferimento è la casa di Charles e Ray Eames costruita nel 1949 nel quartiere di Pacific Palisades a Los Angeles. Non a caso un’altra emblematica casa di famiglia, un’altra casa-studio, anche questa realizzata in economia. Come dice lo stesso Hopkins (1992), per la loro generazione, la cultura americana sembrava essere l’espressione di una società più libera e aperta, che trovava una traduzione spaziale in architetture luminose, leggere e ottimiste. La casa degli Eames è una delle Case Study Houses, programma promosso dalla rivista Arts & Architecture (1945-1966), per ripensare l’abitazione moderna, sperimentando l’assemblaggio di componenti industriali standard e l’uso di nuovi materiali. Per gli Eames l’obiettivo era dimostrare come fare architettura con ‘pezzi da catalogo’, quindi sperimentare tutte le possibilità derivanti dalla combinazione del maggior numero di elementi; a distanza di 25 anni, i componenti prodotti industrialmente sono ormai comunemente assorbiti nell’edilizia e per gli Hopkins, al contrario, la sfida è quella di assemblare il minor numero di componenti, materiali e dettagli per ottenere il massimo spazio possibile, al minor costo possibile. È stata Patty per prima a esplorare le potenzialità spaziali della prefabbricazione seriale, progettando per la sua tesi di laurea un centro sanitario con il SCSD, School Construction Systems Development (Hopkins 2014). Il SCSD, sviluppato in California nei primi anni Sessanta, era un sistema edilizio sperimentale che prevedeva la realizzazione di scuole pubbliche con sistemi modulari prefabbricati, le cui parti erano progettate appositamente da diversi produttori e acquistabili da un unico catalogo. Un’idea innovativa, mai del tutto assorbita in Europa dove, la mancanza dei cataloghi rendeva i componenti quasi artigianali, progettati ad hoc in pochi esemplari, vanificando la logica e i vantaggi della standardizzazione. Oltre alla residenza degli Eames, la casa è stata spesso accostata alla Farnsworth House, realizzata da Mies van der Rohe tra il 1945 e il 1951 a Plano, in Illinois. Ma paradossalmente la critica architettonica si divide equamente fra i ‘più Eames che Mies’ (Sudjic 1989) per la leggerezza e la trasparenza, e i ‘più Mies che Eames’ (Donati 2006) per il rigore, la nudità (Pawley 1985), per l’uso non convenzionale del vocabolario domestico (porte, finestre, tetto).
5 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra. Il leggero ponte metallico su Downshire Hill che conduce all’ingresso della casa. ©Matthew Weinreb.
Individuando la massima area edificabile nel rispetto dei vincoli normativi, distanziandosi solo di un metro per lato dagli edifici adiacenti per essere indipendenti, con ben chiari i modelli di riferimento e impostando le loro regole progettuali, gli Hopkins sostengono che la casa si è sostanzialmente progettata da sola (Componenti standard 1978). Un modulo base di 2 metri in entrambe le direzioni definisce un’impronta di 12x10 metri, sviluppata su due livelli di 120 metri quadrati ciascuno. Poiché il terreno si trova 3 metri sotto la quota stradale [Fig. 4], l’ingresso avviene dal piano superiore, attraverso un leggero ponte in metallo [Fig. 5] asimmetrico rispetto alla facciata, mentre il piano inferiore è in continuità con il giardino retrostante. Camminando su Downshire Hill, la casa passa quasi inosservata [Fig. 6]. Dalla strada si percepisce solo il piano superiore, per di più nascosto da siepi e piante [Fig. 7]. Più che una casa, sembra una veranda o una serra, costituita solo da sei lastre di vetro. Stilisticamente è in forte contrasto con le case circostanti in mattoni e stucco, ma l’altezza ridotta e il carattere discreto le consentono di scomparire. Totalmente dissonante, ma invisibile. In questa fase della loro esperienza professionale, la ricerca degli Hopkins è incentrata sul tema dell’oggetto senza contesto, inserendosi nella traccia della tradizione funzionalista e dell’estetica della macchina. L’interesse è rivolto alla riproducibilità degli oggetti, intesi come prodotti tecnici da assemblare nel miglior modo possibile, a prescindere dai contesti, tanto da poter essere spostati liberamente. Ricercano soluzioni generali, applicabili nelle diverse condizioni. La facciata vetrata riflette il verde circostante e moltiplica il paesaggio urbano. Entrando dal ponte incorniciato da salici [Fig. 5], si traguarda il profondo giardino posteriore, le cui alberature sono state in gran parte conservate nel tentativo di preservare l’atmosfera di un giardino maturo. Un giardino essenziale: un prato continuo, piante e rampicanti lungo i confini, alcuni alberi. La natura è presente, ma fa da sfondo. Nella loro visione, potrebbe essere sostituita con qualsiasi altro contesto. Essendo una scatola di vetro, la Hopkins House ha una trasparenza che cambia con la luce. Il giardino, che restituisce alla casa una sorta di contrappunto bucolico, è sempre visibile dall’interno, ma anche dalla strada, attraverso la casa stessa. Dietro le facciate vetrate, schermi continui costituiti da veneziane in alluminio regolano il grado di apertura visiva dall’interno e dall’esterno e possono rendere l’edificio una scatola luminosa [Fig. 1] o un volume completamente opaco. Se da fuori le tende conferiscono una sorta di opacità, dall’interno questa percezione è completamente assente (Davies 1993), lasciando spazio a una sensazione di apertura e continuità.
La casa è una scatola ottimale (Goldstein 1978), rigorosa, logica e leggibile. È costituita da pochi elementi, piccoli, semplici e ripetuti, acquistabili sul mercato. Tutto si descrive in pochi nodi e dettagli ben risolti. Con l’idea di lasciare scenari aperti di trasformazione, hanno scelto una griglia strutturale con un passo ridotto (4x2 m), adatta ad un contesto domestico, così da evitare elementi strutturali di grandi dimensioni e l’inserimento di una struttura secondaria per supportare i rivestimenti e le suddivisioni interne. Otto esili pilastrini quadrati da 60 mm sorreggono una griglia di travi a traliccio alte 25 cm. Le travi sostengono il solaio del primo piano e il tetto che, come le pareti esterne laterali, sono tutti in lamiera d’acciaio profilata. Si tratta di membrane sottili (circa 8 cm), ma che contribuiscono a irrigidire la struttura portante, insieme ai controventi a incrocio visibili in facciata, posti in alcune campate strategiche. I pannelli delle pareti laterali sono isolati con fibra di vetro e rivestiti in teflon. Per migliorare la fonoassorbenza, i pavimenti interni sono costituiti da pannelli di truciolato a incastro, ricoperti da moquette. I due fronti maggiori, sia sulla strada [Fig. 6] che sul giardino [Fig. 1], sono costituiti da grandi pannelli di vetro a tutta altezza (3x2 m). In un ritmo fisso-mobile, scorrono lateralmente l’uno sull’altro. Tutti uguali, compresa la porta di ingresso. Non hanno i telai [Fig. 8]. Gli Hopkins hanno progettato un’unica estrusione di alluminio che fissa il vetro in modo quasi invisibile nelle tre diverse condizioni, all’attacco con la gronda, nel marcapiano centrale e nella soglia con il terreno [Fig. 9]. L’unico elemento di circolazione verticale è la scala a chiocciola aperta, posizionata quasi al centro dell’impianto. È costituita da elementi prefabbricati (alzate forate e lamiera d'acciaio mandorlata), assemblati in loco. Corrimano e protezioni sono ridotti al minimo o completamente omessi. I materiali strutturali sono sempre a vista, ad eccezione dei pavimenti ricoperti dalla moquette, una sola superficie continua in cui non è visibile alcun elemento di giunzione. L’acciaio è l’unico elemento verniciato. Non ci sono controsoffitti, né rivestimenti murali. Queste scelte rendono l’edificio notevolmente economico, adattabile e di rapida realizzazione, richiedendo poca manutenzione nel corso del tempo.
6 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra, 2025. Il prospetto su Downshire Hill, nel contesto di case regency e georgiane. ©Raffaele Patitucci.
7 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra, 2025. La casa vista da Downshire Hill. ©Raffaele Patitucci.
Il programma per la Hopkins House era impegnativo. Doveva accogliere una coppia di architetti, tre bambini tra i 5 e gli 11 anni, uno studio professionale con sei-dodici collaboratori, oltre a clienti e visitatori [Fig. 10]. Diversamente da una residenza tradizionale, l’edificio doveva assorbire un uso intenso e diversificato durante la giornata e la settimana, alternando dimensioni private e pubbliche, funzioni domestiche e professionali, in un equilibrio dinamico e reversibile. L’organizzazione planimetrica è estremamente aperta e modulabile. L’ossatura volutamente leggerissima della griglia strutturale punteggia in modo non invadente lo spazio, omogeneo, continuo, invaso dalla luce. Gli Hopkins sanno che la casa dovrà cambiare e la progettano per soddisfare facilmente questa esigenza. L’idea è quella di non dividere lo spazio in modo permanente, ma di regolare usi e funzioni attraverso partizioni facilmente modificabili all'interno della griglia. Gli esili pilasti offrono molteplici possibilità di suddivisione, ma sono allo stesso tempo abbastanza piccoli da non interrompere lo spazio quando la suddivisione non è necessaria.
Avevano sviluppato diverse ipotesi di separazione degli ambienti, ma dopo aver completato la struttura si sono resi conto di voler vedere come avrebbe funzionato, in una sorta di colonizzazione progressiva. L’hanno così cominciata a usare prima di completare l’allestimento interno (Jackson 1996); gli impianti erano stati installati, ma non c’erano ancora le pareti, così per i servizi utilizzavano un piccolo capanno metallico posizionato nel giardino. Originariamente, infatti, i blocchi servizi (bagni, cucina, lavanderia, dispensa), due al piano terra e uno al primo piano, erano gli unici elementi chiusi, staccati dalle pareti, che determinavano la distribuzione. Non c’erano tramezzi o porte interne. La separazione tra gli spazi era definita soltanto attraverso tende veneziane in alluminio color argento, le stesse usate per schermare i prospetti, posizionate tra i pilastri secondo il ritmo della griglia. Le tende permettono di isolare zone di lavoro o di riposo quando necessario. Immaginando le necessità future, in particolare rispetto ad una richiesta di maggiore privacy da parte dei figli in crescita, già in fase progettuale era stato definito un sistema di partizioni verticali smontabili, a tutta altezza, simili a quelle dei blocchi servizi, adattabili alla griglia strutturale. Anche gli impianti erano predisposti per una possibile suddivisione futura. Nella pratica dell’uso hanno poi riscontrato che, nella maggior parte dei casi, le tende erano sufficienti per definire i diversi gradi di privacy.
8 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra, 2025. Dettaglio dei pannelli scorrevoli in vetro. ©Raffaele Patitucci.
9 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra. Dettaglio della soluzione d’angolo tra il prospetto frontale vetrato e il prospetto laterale in lamiera metallica. ©Hopkins Architects.
10 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra. Piante al livello della strada e al livello del giardino. ©Hopkins Architects.
Quando hanno iniziato ad abitare la casa nel 1976, gli spazi dell’ufficio erano al piano d'ingresso, insieme alla camera della coppia [Fig. 11]. Collegati dalla scala a chiocciola, alla quota inferiore, erano disposti gli spazi dedicati alla famiglia, con le aree comuni rivolte verso il giardino e le tre camere dei bambini posizionate nella zona più protetta verso il pendio [Fig. 12]. Non c’erano separazioni sostanziali. Le camere erano intervallate da librerie portate fino all’intradosso delle travi e separate dalle parti comuni con le tende [Fig. 13]. Nel corso degli anni, le camere sono state rese più private con le partizioni opache, rivestite in melammina, dotate di porte a tutta altezza e attrezzate con arredi e scaffalature. Quando nel 1985 lo studio, cresciuto nelle sue dimensioni, è stato trasferito in una nuova sede, la famiglia si è riappropriata del piano superiore, pur mantenendo alcuni spazi di lavoro per la coppia. Qui hanno continuato a svolgere le riunioni per cui era necessaria una maggiore privacy, così come gli incontri privati con i clienti (Holliss 2015). L'edificio continua ad essere un biglietto da visita e mezzo per promuovere le pubbliche relazioni. Quando i figli sono andati via, la casa si è nuovamente adattata alle esigenze di una coppia che vive da sola, con la rimozione di alcune partizioni opache non più necessarie, ed è stata poi ancora adeguata negli ultimi anni per facilitare i movimenti di Michael (Hopkins 2024), trasferendo le principali funzioni domestiche al primo piano.
11 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra. Lo studio, il living e la camera da letto al piano superiore che affacciano sul giardino. ©Matthew Weinreb.
12 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra. La sala da pranzo e il soggiorno al piano inferiore. ©Matthew Weinreb.
13 | Hopkins Architects, Hopkins House, Londra. La scala a chiocciola, blu come le strutture, e le camere da letto al piano inferiore, separate tra loro da librerie e veneziane. ©Tim Street-Porter.
Quale modo di vivere, quale immagine di famiglia proietta il modello proposto, abitato e vissuto dagli Hopkins? Emerge un’immagine pragmatica, che si esprime in una sorta di frugalità. Spazi essenziali, quasi spartani, di un’eleganza brutale. Pochi oggetti, molto raffinati, poca possibilità di accumulare. La casa richiede inevitabilmente autodisciplina da parte dei suoi occupanti per mantenere il suo aspetto sobrio e ordinato. Propone un modello di abitare radicalmente alternativo rispetto alle convenzioni borghesi, incorporando gli uffici nel programma domestico, eliminando le divisioni permanenti tra le stanze e ridefinendo il concetto di territorio abitativo. Non c’è nessun tentativo di pensare diversamente lo spazio domestico e quello lavorativo. La coesistenza non viene mediata né da partizioni funzionali né da strategie di zoning. Ciò ha permesso di assorbire le espansioni e contrazioni che i due ambiti hanno reciprocamente avuto nel tempo e di accettare il cambiamento (Winter 1977), adattandosi senza snaturarsi. Come in un Fun Palace alla scala domestica, lo spazio è fluido, democratico, condiviso, continuamente messo in discussione. L’assenza di gerarchia dello scheletro strutturale diventa impalcatura di possibilità, lasciando agli usi, agli oggetti e ai comportamenti quotidiani il compito di definire i confini simbolici fra le funzioni, tra il pubblico e il privato. Un’apertura che implica un costo in termini di privacy, ridotta a poche possibilità. L’immagine familiare che ne emerge è quella di un’unità conviviale e operosa, fondata su un equilibrio dinamico tra prossimità e autonomia, tra ordine e libertà. È una casa ‘abitata’ e non solo ‘occupata’, poiché intende l’abitare come una pratica quotidiana di costruzione di relazioni e significati. Lo spazio interno racconta di un equilibrio misurato, in una semplificazione che diventa quasi un’astrazione (Glass House 1977). I colori freddi della moquette grigio perla, delle veneziane argentate, l’effetto vetroso delle superfici metalliche rivestite in teflon, su cui si staglia il blu brillante con cui sono verniciate le strutture e la scala, riflettono una luce fredda e meccanica. L’interazione tra spazio e luce è significativa in un interno così semplice. La trasparenza dei fronti fa sì che il verde intenso della vegetazione faccia continuamente da sfondo in un rapporto di continuità, fisica e visiva. È esclusa qualsiasi forma di decorazione. Eppure, dietro questa austerità, la casa appare accogliente e vissuta, in un’eleganza che resiste all’inevitabile accumulazione degli oggetti attraverso cui la casa rivela il mondo (Bachelard [1957] 1975). Sobri accenti di colore nelle sedie con struttura in metallo di Mies e degli Eames, le cassettiere di Colombo, la lucente Splügen Bräu di Castiglioni che si sposta di foto in foto nei diversi anni, animano l’interno. I libri impilati sui tavoli e vivaci poster, disegni e scarabocchi sono fissati con magneti rotondi e rossi sulle pareti di acciaio ondulato. Segni della quotidianità e della vita vissuta.
14 | Ritratto di Patty e Michael Hopkins, Londra, 2001. Foto di Tom Miller. ©National Portrait Gallery, London.
La Hopkins House è oggi una splendida cinquantenne. Nonostante l’età, la casa sembra essere ancora estremamente attuale. Per la sua sinteticità e per l’elevata qualità dei singoli elementi, non mostra i segni del tempo che spesso caratterizzano edifici realizzati nello stesso periodo con analoghe tecnologie. Una casa che si potrebbe definire low-tech più che high-tech, o quantomeno di un high-tech minimalista (Frampton 1993), perché sebbene utilizzi componenti industrializzati, li usa secondo modelli costruttivi semplici, sintetici, programmatici e razionali. Gli Hopkins, la loro casa, la amano molto. Traspare nei loro racconti, nelle loro interviste, nelle loro lezioni. Quasi tutte le loro foto pubbliche, individuali o di coppia, sono fatte all’interno della casa o davanti ad essa [Fig. 14]. La Hopkins House è un affare di famiglia. Una casa che esprime una condivisione di intenti, di visione del mondo e del modo di vivere che ha permesso a Patty, attraverso una risposta pragmatica e inusuale ma perfettamente adatta a loro, di affermarsi professionalmente e, con una certa elasticità resa possibile dal suo ruolo di partner dello studio (Brenner, Langenberg 2024), di occuparsi allo stesso tempo della crescita dei figli. Un’opportunità che, ancora oggi, non è scontata. Una casa che, come nel brief che loro stessi si erano dati, doveva essere in grado nella sua essenzialità di adattarsi nel corso degli anni alle mutevoli esigenze, familiari e professionali, di un gruppo eterogeneo di persone. E per cinquant’anni è riuscita perfettamente a farlo.
Note
[1] Nel 2014 la BBC ha realizzato una serie televisiva e una mostra tenuta al Royal Institute of British Architect, The Brits Who Built the Modern World. La serie, in tre parti, racconta l’architettura britannica del dopoguerra attraverso la storia di sei architetti. Oltre agli Hopkins, Richard Rogers, Norman Foster, Nicholas Grimshaw e Terry Farrell.
[2] Si esprime sincera gratitudine a Lady Patricia Hopkins e allo studio Hopkins Architects per la disponibilità e il generoso supporto fornito nella raccolta delle informazioni e nella ricostruzione critica del progetto. Le testimonianze e i materiali messi a disposizione hanno rappresentato un elemento fondamentale per lo sviluppo di questo contributo.
[3] La casa è stata premiata nel 1977 con il RIBA Architecture Award e nel 1979 con il Civic Trust Award. Nel 2018 è stata classificata come edificio protetto di Grado II dal National Heritage List for England (NHLE).
Riferimenti bibliografici
- Bachelard [1957] 1975
G. Bachelard, La poetica dello spazio [La poétique de l’espace, Paris 1957], trad. it. di E. Catalano, Bari 1975. - Brenner, Langenberg 2024
M. Brenner, S. Langenberg, Patty Hopkins in Conversation with Silke Langenberg and Matthias Brenner, in M. Brenner, S. Langenberg (eds.), High-Tech Heritage, Basel 2024, 21-24. - Componenti standard 1978
Componenti standard, “Domus” 578 (1978), 5-7. - Davies 1988
C. Davies, High Tech Architecture, London 1988. - Davies 1993
C. Davies, Hopkins: The Work of Michael Hopkins and Partners, London 1993. - Davies 1994
H. Davies, Interview/Inside the house the Hopkinses built, “The Independent” (28 March 1994). - Donati 1996
C. Donati, Attualizzare la memoria. A colloquio con Sir Michael Hopkins, “Controspazio” 3 (1996), 14-17. - Donati 2006
C. Donati, Michael Hopkins, Milano 2006. - Frampton 1993
K. Frampton, Towards a New Tectonic, in C. Davies (ed.), Hopkins: The Work of Michael Hopkins and Partners, London 1993, 230-37. - Glass House 1977
Glass House in Hampstead, “The Architects’ Journal” 166/28 (1977), 59. - Goldstein 1978
B. Goldstein, Hopkins House, London. Optimum Box, “Progressive Architecture” 59 (1978), 50-53. - Holliss 2015
F. Holliss, Beyond Live/Work. The Architecture of Home-Based Work, London 2015. - Hopkins 1979
M. Hopkins, Michael Hopkins: Hopkins House, Downshire Hill, London, U.K., 1976, “GA Houses” 6 (1979), 142-47. - Hopkins 1992
M. Hopkins, Technology Comes to Town, “Royal Society of Arts. RSA Journal” 140 (1992), 395-404. - Hopkins 2014
P. Hopkins, I have always revelled in my varied role, a cura di L. Mark, “The Architects’ Journal” (7 February 2014). - Hopkins 2024
P. Hopkins, The house was very important, a cura di P. Buxton, “The RIBA Journal” (16 February 2024). - Jackson 1996
N. Jackson, The Modern Steel House, London 1996. - Pawley 1985
M. Pawley, 1977 Michael Hopkins: Michael Hopkins’ House: Revisits (4), “The Architects’ Journal” 182 (1985), 55-58. - Sudjic 1989
D. Sudjic, The Acceptable Face of Modernism, “Blueprint” 61 (1989), 34-36. - Waite, Mark 2014
R. Waite, L. Mark, BBC slammed for ‘bias’ after Patty Hopkins is sidelined in TV show, “The Architects’ Journal” (5 March 2014). - Winter 1977
J. Winter, House in Hampstead. Criticism, “The Architectural Review” 162 (1977), 377.
English abstract
The Hopkins House is the live-work home that Michael and Patty Hopkins built between 1975 and 1976 in the elegant London neighbourhood of Hampstead. A rectangular box measuring ten by twelve metres, developed over two levels. A bare structure of steel and glass, rigorous and controlled, composed of a modular frame made of a few simple, mass-produced components. A non-hierarchical space, open to transformation, offering little in the way of privacy or internal division. The idea was to create a radical manifesto house, translating to the domestic scale the solutions the couple had been experimenting with in industrial buildings, showcasing the expressive, functional, and performative potential of new materials and technologies. “The glue and the oil of the office”, he once said of her, an attempt, perhaps, to redress the misogyny of dominant architectural narratives that all too often overlook the contributions of women, especially those cast in the shadow of being ‘architects’ wives’. In fact, this house stemmed from Patty’s clear determination to assert herself professionally while also managing the upbringing of three young children, and to do so through spatial strategies and the careful, context-specific use of high-tech design. A flexible box, the house has adapted over the decades to the shifting demands of family and professional life, in terms of space, time, and scale. In many respects, it remains today a strikingly relevant icon of contemporary architecture.
keywords | Hopkins; Live-work house; Manifesto house; Flexibility; High-tech.
La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma)
Per citare questo articolo / To cite this article: Eliana Saracino, Hopkins House. Essenziale macchina per abitare, “La Rivista di Engramma” n. 226, luglio/agosto 2025.
Per citare questo articolo / To cite this article: Eliana Saracino, Hopkins House. Essenziale macchina per abitare, “La Rivista di Engramma” n. 226, luglio/agosto 2025, pp. xx-yy | PDF dell’articolo (con link quando è disponibile il PDF)