"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Abitare Casa Scarpa / Fotografare una casa

Carlotta Scarpa e Alessandra Chemollo

Abitare Casa Scarpa

Carlotta Scarpa
Fotografie di Alessandra Chemollo

1 | Da via Filzi, civico all’inizio 16 poi 40. Una strada sterrata, con buche molto profonde dopo le piogge. Strada comunale, ma spesso si dovevano chiamare camion di ghiaia. Però la 2CV di Afra era molto disinvolta lì. 

2 | La stanza da letto della figlia. Io. Le grandi finestre guardano il tramonto. Sulla putrella della finestra da bambina appoggiavo i sassi più belli che lucidavo quasi tutti i giorni. Non si vede il letto perché, pur di avere una porta, dormivo, come anche faceva Bastiano, in guardaroba. Comunque, un generoso guardaroba di 2 m per 4. 

3 | Per fare le foto si cercava sempre di mettere la casa a posto. Alessandra è entrata, forse, senza annunciarsi e ci ha trovato così, stratificati di libri e oggetti, documenti, borse, pensieri a cui tutti noi promettevamo che saremmo tornati prima o poi a visitarli. Il tempo passava, ma io so che un po’ alla volta lo avremmo fatto. Il povero Canova forse sarebbe stato l’ultimo. La luce gentile illumina la sola cosa in ordine: il muro bianco di mattoni. 

4 | Una Papillona con lampada alogena da 500 W, ricci di mare, una marionetta di cartone, un barometro. Si sono tollerati per anni. 

5 | Questo non c’è più. Solo chi legge Engramma lo saprà; quando questa casa è stata venduta il porta carta igienica di ottone me lo sono portato via. Lo sciacquone senza scroscio è ancora lì. Dietro il pannello di compensato lucido e sottile c’è la nicchia dove corrono i tubi di carico e di scarico dell’acqua. Crescendo qui ho sempre trovato molto illogico dover rompere i muri per trovare i tubi. 

6 | Per non parlare di maniglie e serrature. Fabbro bravissimo: il Signor Cian. I serramenti costarono come tutto il resto della casa. Ricordo un “venti milioni”. Lire. 

7 | E anche questo fatto è sempre stato causa di stupore. Perché le finestre in commercio sono così complicate e richiedono tanti aggiustamenti? Queste finestre si infilano da fuori e sono tutte d’un pezzo. Le fughe sono chiuse internamente da un tubo di gomma da giardino schiacciato dentro. Rosso un po’ trasparente, come erano spesso i tubi per il giardino negli anni settanta. 

8 | Questa dei cerini viene dal nonno Carlo e dalla nonna Nini. Usava molto nel passato che ristoranti e hotel avessero i loro cerini. Ce ne sono valigie a ricordare viaggi e incontri. 

9 | Al tetto si accede da una scala retrattile nel guardaroba, già stanza da letto dei miei fratelli, a est. Non ci si saliva spesso anche a causa dei nidi di vespe. Sapevo comunque che sarei potuta fuggire lì se fossero venuti i ladri e chiudere loro in faccia la botola, bloccandola da sopra. Ho spesso pensato che rovi e arbusti un giorno avrebbero ricoperto tutta la casa e di notte avrei acceso la luce e chi era disperso nel fitto bosco avrebbe trovato ristoro, come nelle fiabe. 

10 | Stesse considerazioni della foto 6. Infilare sotto l’intonaco i fili elettrici? Le spine erano Magic, industriali. Nessun apparecchio domestico si adattava e la casa era disseminata di adattatori a una presa, a due prese, a tre prese. 

11 | Non posso non pensare a Nicolò, il mio fratello più piccolo. La scala, quando siamo andati ad abitare a Trevignano nel 1970 e io e Bastiano avevamo rispettivamente 5 e 9 anni, non aveva alcun parapetto: c’era un buco di quattro piani, nel centro e ai lati. I genitori dei miei compagni delle elementari non mandavano volentieri i loro figli a trovarmi. Dal piano terra, una domenica, la zia Natalina è finita giù dritta in cantina. Quando è nato Nicolò, nel 1979, sono stati messi questi pannelli di multistrato chiaro. 

12 | Piano terra-Est. Il serramento della cosiddetta lavanderia che in realtà era una bellissima e ampia stanza, disordinata e pienissima di ogni cosa, dove la Franca stirava su una vecchia coperta di lana grossa e un lenzuolo bianco con chiazze di bruciatura su un tavolo prototipo di bachelite (credo), che a causa del calore e forse del vapore aveva preso tutte le sfumature di grigio. Da qui si usciva nel boschetto che fu piantato vicino a casa con pioppi, cipressini e lecci, i primi veloci a crescere, gli altri lenti. Al margine un corbezzolo. Poi sul bordo a nord arrivarono i bambù neri. 

13 | Lo studio era di là del giardino, ma ogni momento era buono per inventare qualcosa. Nel mobile alto c’era il piatto del giradischi, l’amplificatore e il lettore di musicassette. Dietro quella parete, la biblioteca, due metri per cinque circa. Il soffitto a sinistra è il pavimento della mia stanza, in alto a destra il parapetto della stanza dei miei fratelli, sotto a destra, la stanza di Afra e Tobia. In basso, in primo piano, il salotto di sopra, dove comparve per regalo ad un certo punto una grande televisione con due casse a torre a sostituire la TV Brionvega arancione (Algol), con quattro canali e due antenne, piccola, quasi sempre spenta. Le cerniere delle porte interne sono avvitate direttamente nel mattone e le porte, un pannello di compensato marino, si possono aprire in tutti due i versi: è il profilo di gomma a comandare. Oggetti, quadri, piccole sculture non erano esposti ma abitavano con noi per affetto, erano quasi tutti di amici. Mario de Luigi, zia Bice (Lazzari), Carlo Guarienti, Emilio Vedova. 

14 | Una Carlotta in camera di Carlotta. Chi è la più poltrona? 

Se sapessi raccontare una storia con le parole,
non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica.
Lewis Hine

Credo che il mestiere che ho scelto abbia a che fare con il piacere che provo a esplorare quanto si mostra nelle espressioni e negli atteggiamenti altrui. Indagare il modo in cui una superficie si increspa lasciando trapelare qualcosa che sembra muoversi sotto, fermare quell’attimo per poterlo riguardare. Un’attività simile a quella di chi raccoglie indizi, ma lasciandoli agire simultaneamente permettendo loro di comporsi, di farsi immagine; tante cose tutte insieme che prendono forma e restano lì quasi congelate. Le pelli degli edifici non sono così mobili, e il processo della rappresentazione richiede in architettura strumenti certamente più complessi. C’è il modo in cui un vuoto diventa spazio, la forma che prende la struttura, la grana delle superfici lambite dalla luce ed il ritmo che le singole voci hanno nell’insieme. Ci sono i colori, il caldo e il freddo dei materiali, il morbido e il duro del vuoto che ci accoglie, le infinite articolazioni di ogni tema. Ciononostante, le fortunate occasioni in cui ho potuto vedere e fotografare l’intera opera di un architetto mi hanno sempre restituito l’emozione di entrare nella sua testa, tanto da ritrovarmi ad immaginare con il mio corpo il modo in cui si muoveva il suo. Ma se progettare una casa è (tra le altre cose) individuare la forma che assume un pensiero, anche abitarla lo è.

Una casa è una casa, e vedendone tante, di persone che non si conoscono, ci si abitua (e un po’ si apprende) a ricostruire le tracce di ciò che si muove sotto la superficie di chi ci vive. Il problema poi è tenerli tutti insieme questi indizi, lasciando che si diano di per se stessi una forma, con la fiducia magari che questa forma appaia poi, dopo che siamo riusciti a “congelarla”. Fotografare una casa significa allora separare l’idea che l’ha generata in quanto architettura dalla forma che ha assunto in virtù di chi la abita: spostare quadri, vasi di fiori, fotografie; fermare l’inquadratura appena prima che la tenda sia visibile. E’ invasiva la presenza del fotografo: varca il limite dell’intimità con degli sconosciuti, rovista tra le cose, le sposta, potrebbe anche romperle... D’altronde il più delle volte nemmeno la relazione tra fotografo e architetto è tra le più facili, è difficile concordare le modalità e il livello dell’interpretazione, capire dove finisce la lettura di un testo dato e dove comincia la declinazione di una lingua propria. Sono rari i casi in cui stabilire questi limiti è facile quanto naturale, rari quanto incontrare qualcuno con cui la comprensione su questioni fondamentali è scontata.

Le case che gli architetti progettano per sé sono dei luoghi perfetti in cui chi le ha progettate va perfettamente d’accordo con chi le abita: una sorta di abito su misura, quasi un calco di quanto si muove sotto la superficie di un pensiero che, giocando contemporaneamente più ruoli, ha dato loro quella forma. Qualcosa che la mia macchina può quasi scientificamente registrare, metà del mio lavoro già fatto. Una passione che devo certamente a Casa Lina di Ridolfi, protagonista del mio primo portfolio, che mi aveva appassionato al punto da studiarla a lungo raccogliendo materiali per una tesi di laurea.

Prima di conoscere Afra e Tobia Scarpa sono entrata nella loro casa per fotografarla. Non si trattava di un lavoro per una rivista: era una sorta di prova a cui venivo sottoposta da un amico comune (curatore successivamente della monografia a loro dedicata) che era rimasto incuriosito dalle immagini del mio portfolio. La precisazione è sensata perché credo che la determinazione del grado di libertà di cui si gode in una precisa situazione influenzi decisamente le modalità e quindi il risultato del lavoro, specialmente quando l’inesperienza ci rende incerti.

Non ricordo con precisione la stagione, ma una vaga memoria di luci e odori mi restituisce le sensazioni di una mezza stagione, forse tarda estate. Ricordo l’arrivo, da una strada trafficata e capannoni in serie a un luogo che la sera si popolava di civette. Ricordo il silenzio, la sensazione di essere in una casa forte, piena di cose trovate, oppure inventate con un poco che diventa prezioso, tutto insieme come la magia di un sacchetto di biglie.

Ricordo la sensazione di essere qualcuno che, venendo da fuori, varca il limite di un’intimità, questo guardare con un tempo lungo ogni cosa, che quando non è un bambino a farlo ci si sente un po’ in colpa.

Spero che le mie immagini conservino le tracce delle emozioni che ho provato. “Questa è la superficie. Pensa adesso – o meglio intuisci – che cosa c’è di là da essa, se questo è il suo aspetto” (Susan Sontag, Sulla fotografia, Torino 1978).

*Questo scritto è comparso nella rivista “Architetti Verona” 76, luglio/ottobre 2006, 76-79.

English abstract

This text reflects on the author’s experience as an architectural photographer, drawn to the subtle signs of life beneath surfaces – both human and built. Photographing a house means navigating between the architect’s intent and the traces left by its inhabitants, often crossing into intimate, emotional spaces. A formative encounter with the home of Afra and Tobia Scarpa highlights how sensitivity, freedom, and trust shape both the process and the result. At its core, the work is about capturing what quietly moves beneath appearances.

keywords | Afra and Tobia Scarpa; Architect’s house; Photography.

Per citare questo articolo / To cite this article: Carlotta Scarpa, Alessandra Chemollo, Abitare Casa Scarpa / Fotografare una casa, “La Rivista di Engramma” n. 226, luglio/agosto 2025.