Gli indistinti confini, un libro di Teresa La Rocca
Ovvero, ciò che soggiace in ciò che diviene, nell’architettura
Giuseppe Marsala
English abstract
Nel 1995 usciva nelle librerie, per i tipi di Medina, Gli indistinti confini, un piccolo ma preziosissimo libro di Teresa La Rocca, architetto e professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana dell’Università di Palermo, prematuramente scomparsa nel 2022. Il volume figura oggi tra i titoli di cui la collana 40DUE Edizioni di Darch Reprint propone una nuova edizione, a trent’anni dalla sua pubblicazione. 40DUEdizioni è la collana diretta da Andrea Sciascia, con l’obiettivo meritorio di ripubblicare libri, scritti e riflessioni sull’architettura che oggi sarebbero, per diverse ragioni, introvabili. Tra queste archeologie del sapere, quello di Teresa La Rocca rappresenta un importante documento, citato ancora oggi in tesi di laurea che spaziano dal restauro architettonico alla geografia in diversi atenei italiani, perché testimonia un approccio molto specifico al progetto di architettura, alle sue pratiche come alla sua dimensione teorica di un alta e significativa stagione della scuola di Palermo dalla fine degli anni ’80 in poi. Il libro adotta come caso studio l’isola di Favignana, arcipelago delle Egadi abitato sin dal neolitico, e dichiara già dal sottotitolo, Osservazioni e progetti per l’isola di Favignana, la generalità di alcune questioni teoriche e procedurali dell’architettura legate al rapporto tra osservazione e progetto, tra descrizione e azione, tra rilievo e trasformazione della realtà. Il titolo del libro trae origine dalla prefazione che Italo Calvino scrisse per le Metamorfosi di Ovidio nell’edizione Einaudi del 1979, curata da Piero Bernardini (Bernardini Marzolla 1979). Riferimento poetico e concettuale, la metamorfosi, viene adottata da Teresa La Rocca come una chiave per descrivere alcune permanenze fisiche, materiali, e anche logiche, nel processo ideativo e costruttivo dell’architettura.
Come il legame tra ciò che soggiace e ciò che diviene, nell’architettura. Una costruzione logica aperta – non deterministica, ma tuttavia fortemente radicata alla storia e alla struttura materiale della formazione dei luoghi e della loro forma – che a Favignana trova radice nei bacini di cava, vero e proprio piano costruito della città e del paesaggio dell’isola. La ricerca muove da una campagna di censimento, rilevamento e ridisegno critico dell’intero paesaggio delle cave, affidato a mappe planimetriche, sezioni e assonometrie che studiano e annotano alcune costanti relazioni che La Rocca legge come generative della costruzione della città. Ne deriva un fertile vocabolario da interpretare attraverso il progetto, che il libro articola attraverso la lettura delle diverse parti della morfologia dell’isola, da quella urbana, densa e compatta, a quella extraurbana, dove gli stessi principi si declinano entro un paesaggio rado e di bassa densità. Sino al paesaggio di costa, dove l’orma dei bacini ne ha modellato, nei secoli, la geografia. A fare da cromosoma terrestre (Ravagnati 2018), in ciascuno di questi paesaggi, sono sempre le cave, di cui la ricerca esplora il ruolo generatore delle relazioni fisiche e spaziali tra gli elementi della città. Come, ad esempio, quelle che riguardano il rapporto strada-casa-cava, intese come un unico, processuale, sistema insediativo. Un rapporto in cui l’orma della cava diviene lotto ribassato e giardino della casa; in cui la materia cavata diviene concio per la costruzione dell’architettura; e in cui l’architettura stessa diviene dispositivo di mediazione e relazione tra la strada e la cava sottostante.
Entro questa relazione, il libro mette in luce quanto – per la pervasiva capillarità con cui i bacini costruiscono il paesaggio dell’isola – la trama stradale si configura come un gigantesco sistema di mura che recingono i bacini ribassati, solcate sul loro dorso dalle strade. La costanza di tale rapporto è evidenziata da La Rocca come una sintassi aperta, capace di regolare la costruzione della città, anche laddove essa, espandendosi oltre il suo antico porto, si densifica e si compatta; e in cui i bordi della cava diventano la trama di un isolato urbano, che si genera per successive aggregazioni di case, e il cui interno diviene corte e giardino ribassato. Cava e isolato, dunque, danno vita ad una condizione spaziale la cui forma deriva da quella dello scavo che vi soggiace. Le posizioni di La Rocca fanno certamente proprie le teorie di Aldo Rossi (Rossi [1966] 1978), riferimento culturale in lei molto presente, e credono che, come diceva lo stesso Rossi, non vi sia nulla di più sorprendente di un meccanismo ripetitivo. Qui la ripetizione è data da gesti, azioni e misure secolarizzate che fondano il loro ordine sulla cultura materiale del lavoro estrattivo. Gli studi di Rossi sulle permanenze nel piano sono, infatti, una traccia importante nel lavoro dell’architetto siciliano, echi teorici e operativi con cui l’autrice guarda alla lezione favignanese: non formule o modelli da adottare deterministicamente, ma piuttosto strutture aperte, analogiche, generative di soluzioni architettoniche inedite entro un campo stabile di relazioni disvelabili, rintracciabili e descrivibili, anche indirettamente, attraverso un metodo rigoroso.
Lo stesso rigore riguarda le procedure dell’osservazione contenute nel sottotitolo del libro. Per l’autrice non si tratta di una osservazione suggestiva o romantica dei luoghi, sebbene la forza del paesaggio e dei suoi elementi entri a far parte della sua affezione verso l’isola. Si tratta piuttosto di riconoscere nella struttura e nel paesaggio delle cave una sorta di architettura prima dell’architettura (Marsala 2021); di inscrivere il rapporto tra natura e artificio entro una dialettica misurabile; e di guardare all’inventio del progetto come possibili variazioni sul genoma. Scrive Teresa La Rocca:
Determinante diventa il modo dell’osservazione; la capacità di isolare proprietà oggettive, fissare caratteri distintivi mediante la forma e la fisicità; la capacità di ridurre ogni fenomeno a un ristretto numero di elementi fondamentali che abbiano tutta una catena di effetti. Gli elementi, così identificati e scomposti possono essere rimontati nei modi più diversi e riducibili ad altro; così il mondo, per le molte combinazioni possibili, si allarga, e al tempo stesso ci si presenta come sistema.
La rigorosa procedura del rilievo, a cui l’autrice affida le basi per la ricerca, assume dunque una dimensione scientifico-conoscitiva agita in una forma critica, orientata verso la trasformazione consapevole. Essa viene adottata come una dimensione dialettica tra vincoli e possibilità per il progetto e conferisce a quest’ultimo lo stato latente di un rilievo di una architettura che ancora non c’è. Questa procedura indiziaria guarda alle relazioni presenti come a quelle latenti; e alla metamorfosi come processo logico – concreto e astratto – di una speciale, specifica, forma di continuità. La stessa di cui parla Ju. K. Ščeglov (Ščeglov 1969), lo strutturalista russo citato nel libro e ai cui studi La Rocca guarda con particolare attenzione riprendendone intere citazioni: “Ovidio, quando descrive una cosa della natura, si astiene da qualsiasi annotazione di carattere soggettivo; più che descrizioni, vere e proprie definizioni. In questo modo scompone e ricompone le cose del nostro mondo riempendoci di stupore e insegnandoci a vedere rapporti insospettati”. Rilievo e progetto, dunque, come osserva Roberto Collovà nella prefazione allo stesso libro, si confrontano “in una metodica e relativa con-fusione”. Come pratica continua e non scindibile, in cui la specificità dei luoghi trova nel progetto un possibile dispositivo rivelatore dei loro nessi, delle loro storie e delle loro geografie. Ma soprattutto delle generalità legate alle loro strutture che connettono, nel senso indicato da Gregory Bateson. Il libro affida la descrizione di queste relazioni a un cospicuo corpus di disegni, rigorosamente eseguiti a mano con la china e con codici espressivi che rimandano alle procedure archeologiche a cui l’autrice guarda a partire da un preciso punto di vista metodologico e di interpretazione dell’isola. Non si tratta, cioè, tanto di guardare alle cave come archeologie protoindustriali e dunque di ascriverle ad una qualche categoria tassonomica. Il riferimento alla condizione archeologica riguarda piuttosto il metodo conoscitivo ed interpretativo di natura abduttiva che la ricerca adotta. Scrive ancora Teresa La Rocca: “Si tratta di riformulare il problema; capire e giudicare l’architettura; riportare la ricerca in ambiti più generali, che vanno dal chiarimento del rapporto natura/artificio al riconoscimento dei principi e delle regole che sostanziano la legittimità delle trasformazioni”. Le cave, dunque, diventano l’architettura della città di Favignana che il libro si propone di descrivere attraverso un lavoro che Roberto Collovà, nella sua prefazione al libro, definisce “su un piano continuo: vedere, descrivere, misurare; ascoltare, classificare, scegliere; disegnare, ridisegnare, trasformare”. Scrive ancora Collovà nella prefazione:
Trovo interessante questo genere di con-fusione, perché mi sembra didattico, e anche molto serio, nel senso che per scelta ripercorre e ridisegna un fenomeno altrimenti indescrivibile, e lo ridisegna per decifrarlo, per scoprire, nell’osservazione dell’intera costruzione, che si compie nel rapporto tra la cava e le case uno dei tanti modi di fare la città – una delle “città invisibili” – a certe condizioni uno dei modi di continuare la città. […] Attraverso descrizione, misura e classificazione essa identifica una specie di vocabolario costruito dalla complessità del rapporto cava-casa. Le due trasformazioni sono l’una di fronte all’altra, anzi si potrebbe dire che si tratta di un unico fenomeno, una specie di metamorfosi.
Trattandosi di un metodo volto a rilevare e rivelare relazioni complesse, lo studio non propone, dunque, una classificazione di natura tipologica, ma piuttosto una sintassi in cui, al variare delle forme, ciò che soggiace al loro cambiamento, o sta dietro di esse, ha una vita più lunga di quanto immaginiamo e si costituisce come una forma di cultura diffusa, di memoria implicita del costruire: una sorta di sistema procedurale interno in grado, tuttavia, di accogliere il cambiamento delle condizioni che pone l’abitare contemporaneo e i suoi nuovi ordini del giorno, non ultimi quelli indotti dal turismo sempre più intensivo. Quest’ultimo, infatti, scrive sempre La Rocca nel suo testo introduttivo, “sostituendosi alle tradizionali attività economiche tende a trasformare uomini, cose e luoghi in merci funzionali al suo sviluppo. È un processo inarrestabile sollecitato dagli stessi abitanti, dibattuti tra la coscienza della perdita di un mondo ed il miraggio di un nuovo benessere”. È anche dentro questo conflitto, dunque, che si muove l’ipotesi scientifica del libro i cui testi di Collovà e La Rocca testimoniano della ricerca di una altra modernità possibile. E di una strada che non si appoggi sulle comode, imbalsamatorie, certezze della conservazione tout court, da una parte; o su quelle di una modernità intesa come lo sfavillante luccichio di una discontinutà ingenua e senza radice.
Gli indistinti confini, dunque, racconta anche di una posizione culturale specifica e del sodalizio antico tra Roberto Collovà e Teresa La Rocca, nato dentro la Facoltà di Architettura di Palermo, alla fine degli anni ’60, e nutrito anche dalla spinta di importanti docenti che la attraversarono, tra i quali Pierluigi Nicolin e Salvatore Bisogni, di cui furono rispettivamente assistenti, per poi diventarne colleghi e amici. Quel sodalizio dà luogo a Palermo a una particolarissima scuola di architettura, una sorta di scuola nella scuola, che ben presto si collega a quella portoghese di Alvaro Siza e Edoardo Soto de Moura. E a cui si deve, prima, il Laboratorio Belice ’80 – esperienza che dà il via alla ricostruzione colta dei paesi colpiti dal terremoto e che vide coinvolti, coordinati da Pierluigi Nicolin, architetti tra i quali Vittorio Gregotti, Franco Purini, Umberto Riva, Alvaro Siza Veira, Oswald Mathias Ungers, Francesco Venezia; e poi, insieme a Marcella Aprile, la realizzazione del recupero del Baglio delle Case Di Stefano a Gibellina, interessante e significativo progetto che declina ancora in modo eloquente il rapporto tra ciò che soggiace in ciò che diviene. Dello stesso periodo, e intorno alla stessa questione, possiamo leggere il Teatro all’aperto di Salemi, che Collovà realizza insieme a Marcella Aprile e a Francesco Venezia; e il progetto della piazza Alicia e della trasformazione della chiesa Madre a Salemi di Siza e Collovà: tutte trasformazioni in cui la dialettica tra luogo e progetto accoglie archetipi, tipi, funzioni, analogie e biografie scientifiche degli autori, generando inediti e sorprendenti site specific architettonici.
Autrice di numerose case, tra cui una proprio sull’isola di Favignana, negli anni Teresa La Rocca ha alternato il mestiere di docente con quello di architetto lavorando, tra gli altri, al Piano di Bagheria, per conto del Dipartimento di Storia e Progetto dell’università di Palermo e poi, in collaborazione con Gae Aulenti, a quello per Palma di Montechiaro. Suo l’allestimento della sezione archeologica del Museo Civico Antonio Collisani di Petralia Sottana, comune per cui aveva redatto, insieme a Gaetano Licata, anch’egli prematuramente deceduto, ipotesi di interventi per la mobilità interna del centro storico. La sua scomparsa nel 2022, improvvisa e inattesa, ha lasciato un vuoto nei tanti allievi che si sono formati con lei e in chi ha condiviso con lei, in tanti anni, pezzi di vita. La ristampa de Gli indistinti confini sarà un omaggio alla sua memoria. Ma è, soprattutto, la nuova disseminazione di una lezione sull’architettura di cui il nostro tempo incerto ha certamente bisogno.
Riferimenti bibliografici
- Bernardini Marzolla 1979
P. Bernardini Marzolla (a cura di), Ovidio, Le Metamorfosi, Torino 1979. - Marsala 2021
G. Marsala, Hafriat, Favignana prima dell’architettura, Palermo 2021. - Ravagnati 2018
C. Ravagnati, Favignana come un'infanzia. Il cromosoma terrestre dell’architettura, Siracusa 2021. - Rossi [1966] 1978
A. Rossi, L’architettura della città, Milano [1966] 1978. - Ščeglov 1969
Ju. K. Ščeglov, Alcuni tratti strutturali delle Metamorfosi di Ovidio, in R. Faccani, U. Eco (a cura di), I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, Milano 1969.
English abstract
Teresa La Rocca was a professor at the Faculty of Architecture in Palermo during a crucial period of architectural experimentation in Sicily. Her professional partnership with Roberto Collovà, which began within the university environment, developed not only through several projects that were highly significant for contemporary architecture in Sicily – with the restoration and redesign of the Baglio Di Stefano standing out as perhaps their most important work even on an international scale – but also through the formulation of a theoretical approach to architectural design, of which the book Gli indistinti confini is one of the key outcomes. This publication outlines the coordinates of a design method rooted in the relationship between nature and artifice, interpreting architecture as a site of metamorphosis. The primary area for exploring architecture from this perspective is the island of Favignana, in the Egadi archipelago.
keywords | Contemporary architecture in Sicily; Favignana Island; Metamorphosis
Per citare questo articolo / To cite this article: Giuseppe Marsala, Gli indistinti confini, un libro di Teresa La Rocca. Ovvero, ciò che soggiace in ciò che diviene, nell’architettura, “La Rivista di Engramma” n. 226, luglio/agosto 2025.