"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

La casa come spazio dell’anima

Intervista-dialogo con Julio Gaeta e Luby Springall

a cura di Roberta Albiero

English abstract

“Dobbiamo porci di fronte allo spaccato di un edificio e fornirne una spiegazione, il piano superiore è stato costruito nel XIX secolo, il pianterreno è del XVI secolo ed un esame più minuzioso della costruzione mostra che essa è stata innalzata su una torre del II secolo. Nella cantina scopriamo fondazioni romane e sotto la cantina si trova una grotta colmata, sul cui suolo si scoprono, nello strato superiore, utensili di selce, e, negli strati più profondi, resti di fauna glaciale. Questa potrebbe essere, all’incirca, la struttura della nostra anima”.
Gaston Bachelard, La poetica dello spazio

 

Casa-studio Gaeta-Springall a Città del Messico

Questa conversazione, nata durante un incontro veneziano con Julio Gaeta e Luby Springall — architetti con studio a Città del Messico, che da oltre vent’anni condividono lavoro e vita — si è svolta attorno al tema dell’abitare: dall’idea di casa come luogo della memoria e dell’immaginazione, all’avventura di progettare una casa per sé stessi; dalla vita e dalle trasformazioni delle case, intese come organismi vivi, agli oggetti che le abitano — quelle cose della casa che trasformano e trascendono lo spazio geometrico, facendone uno spazio vissuto e amato. Un rifugio, una capanna originaria, una piccola parte della terra — o meglio, un modello dell’idea della terra — fatto non soltanto di spazio fisico, ma anche di spazio mentale, emotivo, creativo, psichico, di chi la abita.

Nel cuore della più evoluta delle case – scriveva Gaston Bachelard - è possibile costruire il sogno della capanna. Il problema dell’architettura in rapporto al suo fondamento, infatti, è immutabile. La casa, inoltre, è analogica della nostra anima, per quel suo essere organismo fatto di stratificazioni del tempo e della memoria. La casa, quindi come progetto aperto e mai finito, una storia a più mani, a più strati, con sette ristrutturazioni e un’idea ben chiara: la casa non si conclude, si abita in trasformazione. Julio Gaeta e Luby Springall raccontano - e si raccontano - attraverso le fasi di evoluzione della loro casa a Città del Messico, una casa che incarna la condivisione di un’idea di architettura e di vita.

Roberta Albiero | Come nasce la vostra casa? Non è un progetto ex-novo, ma è la trasformazione di un edificio preesistente, con una sua storia, un suo passato.

Julio Gaeta | La casa originale fu progettata da un architetto modernista, uno dei funzionalisti più importanti del Messico, Francisco Artigas. Era una casa situata in una zona vincolata dal punto di vista storico, dove oggi non è più possibile costruire architettura contemporanea; tutto dev’essere storicista, è ridicolo. Era una casa molto grande, che fu divisa in cinque parti perché cinque erano i figli, quando morì il padre. Tagliata così, come se fosse stato costruito il muro di Berlino. Era un rettangolo di 900 metri quadrati, ma il terreno aveva un lotto triangolare. La nostra casa è un quinto di quel tutto, è la parte finale, la migliore, proprio per la forma del terreno. La più piccola, ma la migliore. È una casa chiusa da un muro, e che risulta piuttosto protetta.

Luby Springall | Sì, ha un muro su un lato che dà su una strada e sull’altro su un’altra. È un angolo a forma di lama, come si dice, un triangolo isoscele. Quello che è bello è che proprio questa forma fa sì che tutta la vegetazione si affacci sulla strada principale del quartiere. Un quartiere che un tempo erano gli orti di un convento del XVI secolo — i giardini di un convento — poi urbanizzati. C’era anche un fiume, che è stato interrato e ora scorre sotto, ma ci sono ancora alberi fantastici. Hai visto le fotografie? Ce li siamo “rubati”, da un lato e dall’altro. Perché abbiamo, insomma, trenta metri qui, e credo trenta anche dall’altra parte, molti metri di facciata, anche se la casa è piccola.

R.A. |  Il progetto lo avete fatto insieme, vero?

L.S. | Sì, certo.

R.A. | Voi siete originari di due paesi diversi, no? In qualche modo vi portate dietro due culture dell’abitare, giusto? Una sorta di negoziazione tra culture?

J.G. | Sì, esatto. E il modo di vivere in Uruguay è un po’ diverso da quello in Messico. A volte questo genera discussioni. Per esempio, in Uruguay sentiamo molto l’influenza del Brasile. Per noi, Mendes da Rocha è un riferimento assoluto. E ci piace il tetto in cemento, quello che puoi toccare, con il Modulor lì, a portata di mano. Un’altezza di 2,30 metri è perfetta. In Messico è impossibile. E quindi a volte ci sono discussioni: no, deve essere più alto. E Luby dice: l’altezza dev’essere almeno 3,50. E io le rispondo: ma perché? 2,50 metri è più economico, e ha una buona scala, eccetera. Quindi è proprio una differenza di percezione, di come si vive, di come si progetta. Anche se la casa originaria, essendo molto funzionalista, aveva già 2,30 metri di altezza.

L.S. | Qui in Messico, all’epoca credo che il minimo fosse 2,40 metri. Abbiamo fatto alcune modifiche, ma la casa ha vissuto varie fasi. Inizialmente era abitata da una famiglia con cinque figli e un giardino molto grande. Il progetto è del 1956 o del 1958. Un solo piano, con colonne di quattro pollici, sottilissime. Quando la casa fu divisa, i miei genitori la comprarono — io abitavo proprio nella via di fronte. E quel giorno che misero il cartello “in vendita”, mio padre la comprò subito. All’inizio la usavamo solo come giardino, nessuno la utilizzava, andavo io a prendermene cura. Poi mi trasferii a Londra, e al mio ritorno dissi a mio padre che volevo andarci a vivere. Lui mi disse: va bene. Feci un primo intervento di ristrutturazione, adattai quegli 80 metri con 310 mq di giardino, con pochissimo, per poterci abitare.

R.A. | Da sola, quindi?

L.S. | Sì, da sola. Era il febbraio del 1997. Poi ho conosciuto Julio. Io avevo un laboratorio di pittura nella colonia Roma, lontano, molto lontano — ci mettevo 45 minuti per andare e tornare. Mi stancai di quel lungo tragitto e decisi: costruirò il mio atelier sopra casa. Ed è in quel momento che ci siamo conosciuti. Io stavo già iniziando a lavorare sul progetto. Ci conoscemmo e cominciammo a progettare una nave per una pittrice. Non sapevamo quanto reggesse la struttura della casa, quindi scegliemmo solo materiali molto leggeri. Le facciate le realizzammo in policarbonato, perché il clima di Città del Messico lo permette. È un clima temperato, fantastico.

J.G. | E poi dovevamo pagare tutto noi, avevamo un budget basso.

L.S. | Esatto. Era un progetto economico. E così costruimmo una scatola sopra la scatola super funzionalista: una scatola in policarbonato con un’altezza massima di 4,50 metri, perché il regolamento di zona permetteva al massimo 7,50 metri. Quindi quella grande scatola divenne l’atelier.
E mesi dopo — appena finita — Julio si trasferì lì con il suo studio. Io all’epoca avevo ancora un laboratorio con mio fratello.

R.A. | Quindi il tuo atelier inizialmente era di pittura?

L.S. | Sì, all’inizio era il mio atelier di pittura. Poi diventò anche studio di architettura. Entrò Julio con il suo studio di architettura, io continuavo a dipingere.

R.A.| Dividevate lo stesso spazio?

L.S. | No, io avevo tutto lo spazio, e lui un pezzetto! Poi mi separai da mio fratello, e ci associammo io e Julio. Così nacque il nostro studio di architettura. E io smisi di dipingere. Noi vivevamo sotto, vivevamo da soli.

R.A. | Ho guardato con attenzione il progetto, e i materiali che mi avete mandato. Al piano terra avete predisposto uno spazio minimo per vivere, essenziale…

L.S. | Si, il minimo indispensabile: una stanza, una cucina, un piccolo soggiorno, una sala-cucina.

R.A. | Ma il fatto di avere lo studio e la casa insieme, nello stesso edificio, non creava un’interferenza con il vostro spazio privato?

J.G. | All’inizio andava bene, ma poi lo studio è cresciuto, siamo arrivati a trenta architetti. Col tempo si sopporta sempre meno il rumore. Come un’invasione dello spazio.

L.S. | Sì, facevamo tanti concorsi, quindi si lavorava anche di notte. E a un certo punto, non tanto tempo fa, nel 2016, abbiamo detto: basta. Abbiamo il diritto, ce lo meritiamo, di avere la casa da una parte e lo studio da un’altra. E così abbiamo eliminato lo studio dalla casa. È stata la decisione migliore della nostra vita. Quello spazio l’abbiamo trasformato in un ambiente alto 4,50 metri: un soggiorno, una sala da pranzo, una cucina. E lì siamo molto felici.

R.A. | E la zona notte, invece, è rimasta al piano terra? E poi avete fatto anche un ampliamento esterno?

L.S. | Sì, anche esterno. Abbiamo cambiato la facciata, messo delle vetrate. Il giardino, che era al livello della strada, in parte è rimasto, e in parte l’abbiamo rialzato al livello superiore, ed è molto bello, perché così non si vede il muro di recinzione. O meglio, il muro c’è, ma ha una certa altezza, e si vedono tutti gli alberi che ci siamo “rubati”.

R.A. | Chi è che si è occupato di più del cantiere, di seguire i lavori dell’edificio? Quello che stiamo cercando di capire con questo numero della rivista, che si chiama “Afra e le altre”, è quali siano le relazioni anche sotto il profilo professionale all’interno di una coppia di architetti che vivono insieme. Come si sviluppano le dinamiche di condivisione del progetto della propria idea di abitare, perché ognuno di voi ha il proprio modo di vedere la casa. La casa è una memoria che ci portiamo dentro, è spazio dell’immaginazione, qualcosa di antico, che ognuno possiede in modo molto personale. Si pensa sempre che fare la casa sia il progetto più semplice, ma in realtà è sempre il più complesso. Fare la casa per sé stessi, con il proprio compagno, a me ha portato molte difficoltà, anche se i compiti erano chiari: in quel caso io avevo pensato maggiormente alla struttura dello spazio, e lui si era occupato di più dei dettagli, dell’arredo, di alcune finiture. Non so se voi vi siate trovati ad assumere dei ruoli, a discutere, e magari a non trovarvi d’accordo sulle soluzioni.

J.G. | Certo abbiamo discusso ma sempre con equilibrio. Tra tutte le società che ho avuto come architetto, e non lo dico perché ora Luby è presente, questa è la società più matura. Sappiamo che su certe cose la pensiamo in modo diverso, ma quello che a lei sembra migliore, rispetto a ciò che sembra migliore a me, non ha una distanza così grande. Quindi, in generale quello che è successo con la casa, ci succede normalmente anche con le soluzioni per un concorso — che forse è il momento di maggiore pressione — e noi lavoriamo molto con i concorsi. Avevo un professore che diceva: “Quando uno ha talento, sa che può trovare una soluzione brillante, una eccellente e una molto buona. Non potranno esserci soluzioni mediocri, saremo sempre in alto”. Quindi, se per me questa è la soluzione brillante, e Luby sceglie quella molto buona, allora sono io che ho un problema di ordine, e Luby probabilmente ha un ordine inverso, no? Oppure sono io ad avere l’ordine inverso. E con la casa è successa esattamente la stessa cosa. In Uruguay parliamo molto dell’“architettura del partido”. Il ‘partito’ è l’idea. L’idea forte [nella cultura architettonica ibero-americana per ‘partido’ non si intende solo l’organizzazione distributiva funzionale dello spazio ma l’atto generatore di una idea di spazio ndr]. E quando lavoriamo insieme — e ormai lavoriamo insieme da ventidue anni, ci concentriamo sull’idea guida o principio organizzativo del progetto.

R.A. | Mi spiegate meglio? Mi interessa molto capire questa idea di “partido” e il modo in cui lavorate. Siete molto affiatati …

J.G. | Nel nostro studio, ora che siamo in dieci o dodici — prima eravamo trentacinque — abbiamo sempre lavorato allo stesso modo. L’idea è il ‘partido’, ci sediamo per ore a discutere: questo, questo, questo. E non siamo per niente democratici, siamo verticali. Niente lavoro collettivo, brainstorming. Questa fase è il nostro privilegio, il nostro spazio privato. È quello che ci piace fare. È quello che ci piace di più. Poi gli architetti dello studio svilupperanno i progetti esecutivi e i disegni costruttivi. Ma è anche un metodo molto legato alla nostra generazione, credo. Ora si tende a fare il progetto collettivamente, un progetto fatto da tante teste. Per noi non è così: l’idea deve essere una. Può sembrare un po’ rigido, ma l’idea è unica e dev’essere chiara. Forse alcune cose non sono così importanti, ma se hai un’affinità elettiva, quello è il punto. E anche l’affinità generazionale, perché puoi parlare e capirti, no? Dire: "Eh, Louis Kahn al Salk Institute, con quell’asse …, o Aldo Rossi". Ora non si può più parlare nemmeno di Kahn, ci sono altre famiglie di analogie. Si parla di Zumthor, che mi piace, peraltro. Però tutti quei nomi che prima ci erano familiari e usavamo sono scomparsi. Qualche giorno fa parlavo di un progetto di Stirling a Stoccarda: quello del Museo ( Neue Staadtsgalerie ndr) dove si attraversa la strada e si può passare da una parte all’altra senza entrare nell’edificio. E un mio assistente che sa molto, mi dice: “Stirling a Stoccarda? Come?” E subito a cercare su Google. “Ma quello è super postmoderno. Ma è bellissimo!” Noi abbiamo studiato nel periodo del Postmoderno. “È molto bello – gli dico – è postmoderno, ma è buono, no?” Ma sono ormai progetti proibiti. Come quelli di Ungers. Quindi il condividere quella generazione penso che ci dia empatia, quella possibilità di vedere in modo diverso.

R.A. |  Tornando alla vostra casa…

J.G. | Non è che ci fossero molte possibilità per la casa. La preesistenza determinava già molto. Piuttosto era questione di finiture, di come distribuire il programma, insomma, si definiva facilmente. E averla lì, viverci, ci permetteva di salire quando non c’erano operai e risolvere le cose. Perché disegnavamo poco, non avevamo tempo. Quindi risolvevamo i dettagli lì, perché ci stavamo vivendo. Ed era un piacere. Salire e dire: “Vediamo, togliamo questo.” Cambiamo l’altezza della finestra. Ovviamente i materiali sono stati completamente ripensati. Non era più uno studio di architettura, era una casa, la nostra casa. Abbiamo messo pavimenti in legno. Quello che era policarbonato è diventato vetro. Abbiamo fatto la terrazza per collegare molto bene l’interno e l’esterno, perché viviamo sempre così, dentro e fuori. Il clima lo permette, tranne nella stagione delle piogge, che dura metà dell’anno.

R.A. | Ma è anche interessante il fatto che pensiate la casa non come fanno certi architetti, no? “La faccio così, è perfetta, un’opera d’arte finita e non si tocca più”. Ho un’amica che ha fatto una casa molto bella, l’ha fatta un architetto scarpiano molto bravo, ma se lei vuole appendere un quadro deve chiamarlo e lui le dice: “No, non puoi mettere quel quadro.” Io penso che la casa sia un organismo vivo, che deve permettere anche la libertà dell’immaginazione. La mia prima casa, ad esempio era la classica casa del giovane architetto: troppo disegnata, troppo pensata. Tutto troppo … finito. Non potevo muovere nulla, perché ogni misura era fatta per ogni singolo pezzo, e questo oggi — da architetto — mi opprime. La casa dove ci troviamo ora è invece molto meno progettata. Quasi non è progettata, perché penso che dopo si debba poter cambiare … sì, le cose hanno un loro posto, ma tu puoi – devi poterle – cambiare.

L.S. | Certo. Cambiarle nel tempo … Il progetto non finisce. È un progetto vivo. Deve essere aperto.

R.A. | Si, anche per me è così.  E mi sembra che nella vostra casa, il fatto di alzare un piano, cambiare il programma, non avere una configurazione definitiva... beh, questo è il risultato di un’idea di casa che cambia in base alla vita …

J.G. | Sì, infatti abbiamo fatto sette ristrutturazioni. Anche noi cambiamo nel tempo. Per esempio, noi eravamo super minimal. Completamente minimalisti. E ora, credo che con l’età …

R.A. | Stai accumulando oggetti.

J.G. | Sì, e collezioni. “Eh, Luby, guarda quello!”; “Te l’avevo detto”. E noi siamo uguali. Andiamo in giro a cercare legni, pietre, come sempre … Bruno, mio figlio regista, mi dice: “Papà, ma non eravate minimalisti?” "Eh, no, visti da un’altra angolazione." Abbiamo comprato delle cassette cinesi di lettere, quelle da tipografia. E sono piene di cose che non hanno valore, a parte i ricordi, la memoria, no? Ecco, in tutto, sette volte abbiamo fatto lavori nella casa. E l’ultima l’abbiamo finita nel 2017, e da allora non abbiamo più fatto nulla. Siamo diventati più … Sì, più attenti. Più tranquilli, perché pensiamo di aver raggiunto qualcosa, però gli oggetti crescono. È molto simile a quello che succede a casa tua. Ci sono libri dappertutto. È molto simile.

R.A. | Io inizio a pensare che devo eliminare tante cose. Anche libri che so che non leggerò più.

L.S. | … che non ti interessano, certo.

R.A. | I libri importanti non sono poi così tanti.

L.S. | Sono nella stessa situazione. Anche noi siamo così. Io ogni tanto butto via libri. Questo non serve più. E oggetti anche. Perché la casa è viva e deve rispondere a te, vuoi sederti in un certo punto e non vuoi più il tavolo davanti, lo togli. Io non potrei … nemmeno un quadro. Basta, via.

R.A. | Sì, via. Vuoi sapere lo storia dello specchio che è lì? Non è un progetto. C’era questo specchio nel padiglione del Lussemburgo, ora è una Galleria d’Arte Africana, e lo stavano togliendo e buttandolo via. Allora ho detto: lo prendiamo noi. E lo abbiamo riciclato. Ma non avevo un’idea precisa. Poi ho pensato: dove lo metto? L’unica parete è quella. Allora si è raddoppiato il giardino, ma è stato casuale, no?

J.G. | Sì, casuale. E così costruisci, no? Perché altrimenti la casa diventa un museo. E la casa non è un museo. La casa è dove sei con tutta la tua vulnerabilità. E, succedeva anche prima, Roberta. Io credo che a noi è successo tanto. Credo sia una storia ripetuta. Col COVID non ce ne siamo resi conto. Ora sì, perché è vicino, sono passati cinque anni. Ma a noi ha cambiato totalmente la vita. Il modo di lavorare. E la casa, in questo senso, è diventata un luogo dove passiamo molte più ore. Prima andavo spesso, andavo sempre in studio. Ora posso dire: oggi non esco. Resto a casa, lavoro qui. E lavoro meglio e tutto. Ah, devo andare in università, ma poi torno. Non passo dall’ufficio.

L.S. | Ma è che la casa aveva questa vocazione. Sapevamo lavorare da casa perché avevamo già l’ufficio lì. Allora ci siamo goduti tantissimo il COVID. Non uscivamo, non veniva nessuno. Eravamo soli. Ci siamo portati due tavoli identici dall’ufficio. Molto stretti, uno per Julio e uno per me. Perché tutto fosse ordinato. E ancora oggi … A me piace andare in studio, ma amo lavorare a casa.

J.G. | Sì, allora passavamo più tempo lì e la casa è diventata qualcosa … come un luogo dove passa la tua vita, no? Come in quella cosa che ti dicevo di Vittorio Gassman, della famiglia. Sì. È lì che sta la tua vita. Pezzi di vita, sì. Ora che la mia vita è cambiata, perché sto molto a Puerto Escondido. Perché è un progetto molto forte, molto importante per noi. E poi stiamo anche investendo. Ci terremo una parte importante lì.

R.A. | È un po’ l’altra faccia dell’abitare, no?

J.G. | Sì, esatto.

R.A. | Quanto ci metti ad arrivare? Vai spesso?

J.G. | Un’ora in aereo. Sono circa 700 chilometri. Si può anche andare in macchina, ma sono 10 ore. Passi da Oaxaca. È bello, però è un viaggio lungo quindi prendo l’aereo. E adesso passo quasi il 50% del tempo a Puerto Escondido, il 50% a casa. Mi piace stare lì perché sono di fronte al mare. Sono felice. Felicissimo, davvero. E seguo il cantiere, sono molto coinvolto. Ma quando torno a casa, arrivare e … wow! Questa è vita, no? Là sono più rudimentale … A casa ho tutto. I libri. È più fresco. A Puerto Escondido il clima è molto forte. È da spiaggia, 30 gradi. Bello, però … 

R.A. | E sei vicino al mare, vero? Ma si può costruire vicino al mare?

J.G. | Sì. A 40 metri. Perché qui ormai ci sono delle regolamentazioni, ma sì. E questo progetto … la casa dove sto lì e anche il progetto dell’hotel, tutto quanto, è in prima linea, fronte mare. Allora sono sempre con il mare. E poi torno in questa casa, a casa mia, nostra. E dormo benissimo la notte. E dico: sì, mi piace il mare. Perché? E’ come tornare, ed è come essere ormai di due luoghi e … però quando torni a casa ti torna l’anima nel corpo. È un ritrovarsi. Succede spesso: andiamo via in viaggio, ma diciamo, com’è bello tornare a casa, ma in questa casa, che ha tanta storia di progetti, oggetti, tutto.

R.A. | Anche per me, e poi la natura che sta dentro lo spazio della casa, gli alberi … è una forma per me almeno, di libertà. Se non ho alberi … sono cresciuta sempre in spazi, non nel centro della città, quindi ho bisogno di spazi verdi, anche se non mi piace vivere isolata, in una casa unifamiliare. Dentro la città mi piace sentire la presenza della natura.

J.G. | Sì, la casa di vacanza è diversa, è l’opposto. Vado a isolarmi, voglio vedere, per esempio, il mare. Per me è vivere in modo diverso. L’idea è proprio vivere in modo diverso, no? Quando vai nella casa al mare oppure qui a Venezia … 

R.A. | Ci vai anche tu spesso Luby o va Julio solo?

L.S. |Ci vado ogni due mesi circa. A me il caldo non piace troppo, non sono fan della spiaggia, della sabbia, però vabbè, mi sto abituando e ci vado ogni due o tre mesi, una settimana. A me manca la città, il paese, l’urbanità, più che altro … Però va benissimo anche andare a vivere in modo diverso, connettersi direttamente con la natura. Per esempio, la parte esterna della nostra casa è fondamentale. Quei due patii, quello sotto e quello sopra che abbiamo … credo che vivere in un appartamento senza quelli sia impossibile.

R.A. | Com’è il clima, la temperatura minima ad esempio?

J.G. | La minima in un giorno normale … è temperata. D’inverno la minima all’alba può essere cinque gradi, e la massima in stagione calda, 32 gradi. Ma cinque gradi se parliamo di dicembre e gennaio. In generale siamo sempre attorno ai 15 gradi. Tra i 15 e i 20. Una temperatura incredibile, perfetta. Davvero, il Messico ha un clima perfetto. Sai che piove da tal mese a tal mese. Non può piovere a febbraio. È vietato. Piove in modo molto ordinato. E quando comincia il gran caldo, che è in aprile e maggio, prima delle piogge, il grande caldo sono 32 gradi, a Città del Messico, perché siamo molto in alto, poi comincia a piovere. E subito scende. Che meraviglia! Ideale. Diciamo sempre, noi di Città del Messico, che abbiamo il miglior clima del mondo. Davvero.

L.S. | E allora lasciare un clima così piacevole … Là (Puerto Escondido) c’è il caldo della spiaggia e le zanzare. Però è un progetto bello, è in un certo senso il nostro progetto, diciamo, più importante, perchè è un investimento nostro, e l’idea è che ci vogliamo vivere. Tu vivi in questo giardino veneziano che è un luogo magico. Ma devi venire a trovarci. Ti aspettiamo in Messico

English abstract

This interview explores the deeper meaning of dwelling through the voices of architects Julio Gaeta and Luby Springall, life and professional partners based in Mexico City. Their home, built upon a pre-existing modernist structure, becomes a living organism—transformed over time through seven renovations—mirroring their approach to architecture as an evolving, layered, and emotionally charged process. The conversation touches on the role of memory and imagination in designing one's own home, the negotiation between different cultural visions of domestic space, and the interplay between private life and professional practice. Nature, impermanence, and shared authorship emerge as central themes, redefining the house as a dynamic place of affection, creativity, and identity. An intimate and professional reflection on the act of building and living, where architecture becomes a vessel of memory, transformation, and belonging.

keywords | Julio Gaeta and Luby Springall; house; Mexico City; Mexican Contemporary Architecture. 

Per citare questo articolo / To cite this article: Roberta Albiero, a cura di, La casa come spazio dell’anima. Intervista-dialogo con Julio Gaeta e Luby Springall, “La Rivista di Engramma” n. 226, luglio/agosto 2025.