"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

230 | Natale 2025

97888948401

Gaza, il buio e l’eloquenza muta dell’immagine

Un laboratorio visuale del contemporaneo

Lorenzo Donghi

English abstract
Ciò che resta a vedere

Pochi mesi fa, nei giorni a cavallo tra settembre e ottobre, il sistema dei media ha dedicato un’attenzione pervasiva alla copertura della traversata della Global Sumud Flottilla, la missione marittima internazionale finalizzata a forzare il blocco navale imposto da Israele e a facilitare l’ingresso a Gaza di cibo e aiuti umanitari. Quotidiani, emittenti televisive, piattaforme social e altre fonti d’informazione hanno ampiamente insistito sulla rappresentazione mediatica dell’evento, rimediando spesso le immagini diffuse dal canale YouTube della stessa Flottilla. Quest’ultima ha infatti trasmesso lunghe dirette del suo avvicinamento alle coste della Striscia, condividendo le registrazioni delle videocamere installate sulla prua delle imbarcazioni [Fig. 1].

 

1 | La diretta streaming del viaggio della Global Sumud Flottilla sul suo canale Youtube. Screenshot del video girato il 29 settembre 2025 (video intero disponibile a questo link).   

In termini visuali, queste trasmissioni live costituiscono motivo di interesse per diverse ragioni. A partire, per esempio, dal loro presentarsi come split screen composti da una pluralità di finestre: tipico espediente mediale, le cui radici affondano nel cinema e nella televisione, che proprio moltiplicando i punti di visione introduce una condizione di simultaneità scopica che impegna lo spettatore (Hagener 2020). Oppure, dal loro affidarsi a un sistema di videocamere di sorveglianza che fungono da operatori di visibilità, rifunzionalizzate però dalla Flottilla quali dispositivi di “subveglianza” (Mann, Nolan, Wellman 2003), finalizzati cioè a sorvegliare l’imminente intervento dei sorveglianti (vale a dire, la Marina israeliana). L’abbordaggio delle forze armate israeliane è infatti il turning point, lo snodo decisivo all’interno di quella narrazione visuale. Tuttavia, le riprese dell’intercettamento delle imbarcazioni della Flottilla, avvenuto intorno alle 20:30 (ora locale) del 1° ottobre, e seguito sia dall’ispezione a bordo da parte dei militari, sia dalla presa in carico dei volontari presenti, consentono di confrontarsi non soltanto con la restituzione concomitante degli eventi, bensì anche con un ulteriore piano d’analisi – quello del buio – che, all’apparenza, della rappresentazione sembra configurare niente meno che il rovescio, il controcanto negativo.

Il sopraggiungere del buio durante la diretta delle operazioni di contrasto alla Flottilla permette infatti di mettere in dialogo due distinte forme di oscurità, tra loro profondamente differenti. La prima è quella indotta dal crepuscolo e dal calare della sera. Un’oscurità, questa, in cui le sopraccitate videocamere, dotate di ricettori sensibili alla radiazione infrarossa, risultano funzionanti nonostante la scarsa illuminazione dell’ambiente, e in cui il buio naturale appare controllabile artificialmente [Fig. 2]. Un buio, come dire, tecnicamente addomesticato, volto niente meno che alla mostrazione; un’artificial darkness che si pone allora quale attualizzazione contemporanea di un pensiero archeologico sull’oscurità in cui il buio (alla stregua delle illusioni ottiche degli spettacoli di Pepper’s Ghost, della Black Art ottocentesca, così come dei fondali scuri e monocromi di Étienne-Jules Marey e Georges Méliès) non è inteso come ostacolo, bensì come condizione per la produzione di visibilità (Elcott 2016).

2 | La diretta streaming del viaggio della Global Sumud Flottilla sul suo canale YouTube. Screenshot del video girato il 29 settembre 2025 (l’intero video è disponibile a questo link).

C’è però poi un altro tipo di buio, come detto diverso, se non proprio di senso opposto. È il buio dell’assenza di segnale: questo sì, un buio che decreta la negazione della visibilità. Da esso consegue infatti un’oscurità che attesta l’avvenuta interruzione delle trasmissioni video della Flottilla durante le operazioni di blocco da parte della Marina israeliana, quando i sorveglianti irrompono sulla scena e riescono ad avere la meglio sullo sguardo contro-egemonico della subveglianza, disattivandone le fonti di visione [Fig. 3].

3 | La diretta streaming del viaggio della Global Sumud Flottilla rimediata sul canale YouTube di “The Guardian”. Screenshot del video girato il 1° ottobre 2025 (l’intero video è disponibile a questo link).

In una narrazione (il live streaming) fondata sulla promessa di una trasparenza totale, questo secondo buio si fa allora immediatamente notare per i suoi buchi, per il suo deficit di rappresentazione, impattando sul mosaico di finestre più o meno operative tramite un nero che diventa subito segno tangibile del controllo e dell’interdizione: l’effetto visivo di un potere che agisce non solo sul piano militare, ma anche su quello della politica visuale (meglio, che fa della politica visuale parte del suo piano militare). Un buio che certo è mancanza di visibilità, ma non necessariamente di immagine. Anzi, un buio che, con quei rettangoli neri che progressivamente riempiono uno schermo niente affatto spento, ma che conserva la sua vocazione alla visibilità solo come potenzialità soffocata e inespressa, si fa proprio immagine esemplare dell’oscuramento, sintomo e simbolo dell’autorità visuale esercitata dalla Marina israeliana. Immagine che, secondo la lezione di Georges Didi-Huberman ([2003] 2005; [1990] 2016), va pertanto considerata come ciò che resta a vedere, anche quando non c’è più nulla da guardare – sebbene nel mentre, lo sappiamo, qualcosa sta accadendo.

Rimanere a fissare il buio di quello schermo, scorgere indirettamente in esso una realtà che nel frattempo si consuma, ma che la visibilità non è più in grado di restituire, significa in fondo ribadire, persino al cospetto di un’impossibilità coatta, di un impedimento programmato, la forza di quell’assunto secondo cui “ciò che non si può vedere, bisogna mostrarlo” (Didi-Huberman [2003] 2005, 68): fosse anche tramite una teoria di inquadrature nere. Significa anche scorgere, in un punto tanto critico del visibile da renderne evidente la forzata sospensione, e quindi ancora più urgente il confronto, nulla di più – ma d’altra parte, anche nulla di meno – della più autentica, più pregnante testimonianza visuale della sopraffazione in corso, che puntualmente coincide con il brusco arresto della diretta.

Possiamo quindi desumere che il blackout prescritto da Israele alle imbarcazioni della Flottilla non abbia fornito come esito il contrario dell’immagine: ma una specifica forma che l’immagine assume quando è soggiogata dal potere che la controlla. Una forma che le permette comunque di comunicare anche al netto dei suoi palesi “difetti di informazione” (Didi-Huberman [2003] 2005, 66). E che le consente ancora di dire, di sussurrare qualcosa, persino nel paradosso della sua eloquenza muta.

La parte per il tutto

La traversata della Flottilla è un evento visuale che ben si offre anche come pretesto per ragionare nel merito di un quadro teorico più ampio. Una pista di ricerca ormai battuta, ma che risale a Paul Virilio quale fondamentale interprete ([1984] 1996; [1988] 1989), suggerisce infatti di concepire il campo di battaglia (o, come in questo caso, le sue estensioni) come un vero e proprio esperimento visuale (De Landa [1991] 1996; Elsaesser 2004; Der Derian 2009; Bousquet 2018; Kaplan 2018). Secondo questa impostazione, a partire in particolare dalla Prima guerra del Golfo, il conflitto si delinea sempre più come una situazione esperienziale che, tanto a chi vi prende parte diretta quanto a chi ne è spettatore a distanza, si manifesta attraverso forme mediate: forme filtrate, cioè, da apparati tecnici, infrastrutture di comunicazione, tecnologie di controllo, strategie di visualizzazione.

Ne consegue che a un regime di realtà come quello della guerra si accompagna dunque, anche e primariamente, un “regime scopico” (Jay 1988), sempre culturalmente e tecnologicamente determinato. E se c’è qualcosa che si può affermare del regime oggi dominante, è che esso risulta a tal punto attraversato da un’eccedenza, un sovrappiù di percezione, da aver reso necessaria un’integrazione della ricettività dei sensi con quella dei sensori, della visione umana con la visionica delle macchine, della guerra materiale con quella delle immagini. Nell’odierno warfare, la visualità – vale a dire l’insieme delle pratiche, dei dispositivi, dei codici e delle strutture di potere che definiscono come vediamo, cosa siamo autorizzati a vedere, e in che modo attribuiamo significato alle immagini – viene insomma a definirsi come un’espansione decisiva. Un ulteriore terreno di scontro, conquista e predominio; un campo, tutt’altro che simbolico, in cui si combatte una guerra che si potrebbe definire parallela a quella fattuale, se solo a quest’ultima non fosse intrecciata in modo tanto stretto da essersi fatto inestricabile (Mitchell [2011] 2012).

Ciononostante, e venendo al punto, considerare la visualità soltanto come l’orizzonte di ciò che appare, di ciò che, in bilico tra le logiche della rappresentazione e della spettatorialità, prende forma e assume foggia visiva, si rivela ben presto un approccio azzardato, poiché parziale e lacunoso. Nella cornice che dà senso al concetto di “visuale” (Pinotti, Somaini 2016) confluisce infatti anche la dimensione più opaca della guerra, il suo fronte meno esposto ed esibito. Un versante che comprende gli sforzi di risultare invisibili, di sfuggire al controllo, di eludere i sistemi di sorveglianza, di sottrarsi allo sguardo; ma, come del resto ricorda l’episodio occorso alla Flottilla, un versante dove sono convogliate anche questioni cruciali come l’interdizione, l’occultamento, la censura: a indicare tutto ciò che nel regime scopico del conflitto viene deliberatamente omesso, rimosso o cancellato.

Se le cose stanno così, e se l’esperimento visuale della guerra si presenta allora in questi termini – ossia come l’esito di una dialettica tra ciò che si può cogliere e ciò che rimane celato, di una partita giocata tra eccessi e ammanchi, tra squarci di luce e zone cieche – da tempo la Palestina, e Gaza in particolare, si è imposta quale osservatorio di riferimento, modello paradigmatico di tale complessità. Dopo i fatti del 7 ottobre 2023, insieme alle bombe israeliane e ai colpi della contraerea, lì si sono infatti incessantemente incrociate anche le politiche dell’immagine e quelle dell’invisibilità, le sovraesposizioni mediatiche e le radicali rimozioni. Al punto che Gaza stessa è finita per configurarsi come un banco di lavoro esemplare: quasi a rivestire il ruolo di officina, di laboratorio del contemporaneo, in cui si concentrano le dinamiche, i paradossi, le sfide che oggi caratterizzano tutta la nostra cultura visuale.

Questa natura “laboratoriale” di Gaza – peraltro già sondata in altre sedi (Loewenstein [2023] 2024) – si deve probabilmente anche ad alcune caratteristiche intrinseche alla sua conformazione, che la rendono un’espressione territoriale notoriamente chiusa e circoscritta. Piuttosto contenuta in quanto a superficie (un sottile lembo di terra, esteso meno di un terzo della città di Roma), rigidamente perimetrata sul piano geografico (schiacciata com’è tra Mediterraneo, Israele ed Egitto, con i suoi confini impermeabili e i suoi accessi controllati), dal 2023 la Striscia di Gaza è divenuta un teatro specifico dell’assedio, più che latamente del conflitto. Laddove, nell’assedio, già la letteratura antica scorgeva quella particolare declinazione della guerra che svilisce le abilità tradizionali del guerriero (il combattimento in campo aperto, l’onore, le arti marziali), sostituendole con la priorità data alla logistica, alla durata, all’isolamento, alla violenza indiscriminata inferta su una popolazione annichilita (Kern 1999).

L’assedio dato a Gaza nel corso dell’ultimo biennio segna pertanto una nuova e tormentata tappa di un divenire storico da cui, nella regione, è impossibile prescindere, scandito da una costante presenza israeliana – che si è via via tradotta, come ha dimostrato Gil Hochberg (2015), non solo in un’occupazione militare, ma, attraverso una visibilità unilaterale nel conflitto e del conflitto, anche in un’autentica “occupazione visuale”. Dalla prospettiva dei visual studies, a raccontarla è stato anzitutto Nicholas Mirzoeff (2025), in un intervento capace di coniugare militanza, indagine biografica e analisi politica. Un combattivo pamphlet dal titolo evocativo – To See in the Dark – in cui l’autore sottolinea come l’ultima morsa che ha cinto la Striscia vada appunto valutata anche come l’ennesima ricalibrazione del rapporto tra luce e buio, visibile e interdetto, a cui si accennava in apertura; e nelle cui pagine non a caso si propone di ripensare al laboratorio di Gaza come a una sineddoche, alla parte per il tutto (un tutto che, va da sé, è il mondo). “Today, to see Palestine is to see the world”, scrive infatti Mirzoeff, aggiungendo che “it is a particular kind of seeing that I will call seeing in the dark” (2025, 7). L’asimmetrico regime scopico imposto da Israele, oltre a questa idea per nulla metaforica di darkness che ne deriva, insieme alle accezioni che essa ha assunto nel quadro della Gaza assediata, sono i temi che si proverà di seguito a prendere in esame.

Segnali di vita fuori dal white sight

Oltre a quella offerta dalle vicende della Global Sumud Flottilla, una seconda possibile riflessione intorno alla darkness calata su Gaza prende spunto dalla denuncia avanzata proprio da Mirzoeff nei confronti del settler-colonial way of seeing (2025, 36). Si tratta di un tema che l’autore affronta dopo aver dedicato ampio spazio, nei suoi lavori precedenti, alle politiche visuali dell’ordine coloniale (2011; 2023); questa volta, però, la disamina si radica direttamente in alcune operazioni condotte dall’esercito israeliano negli ultimi due anni, finalizzate a far precipitare Gaza in un buio del tutto letterale. La più sfacciata è probabilmente la perentoria negazione, da parte delle autorità israeliane, di assicurare una copertura giornalistica internazionale all’interno della Striscia. Come noto infatti, dal 7 ottobre 2023 Israele non consente ai reporter stranieri di recarsi nella zona, salvo casi limitati e comunque tenuti sempre sotto stretta osservazione militare, opponendosi di fatto a ogni forma di giornalismo indipendente. A ciò vanno aggiunte almeno, da una parte, la sistematica distruzione di infrastrutture mediatiche e studi radiotelevisivi locali, che uno studio condotto dall’Arab Center for the Advancement of Social Media ha stimato essere state danneggiate per il 75% del totale già dopo un anno dai primi bombardamenti (rapporto 7amleh 2024, 4); dall’altra, le politiche capillari di censura imposte dagli apparati israeliani a ogni tipo di comunicazione anche solo vagamente critica nei loro confronti.

Mirzoeff sembra così raccogliere il testimone dei precedenti studi di Hochberg e di Eyal Weizman ([2007] 2022), per quanto spostando il baricentro del discorso sull’invisibilità da una prospettiva interna (come i palestinesi risultano invisibili agli israeliani) a una esterna (come i palestinesi, in particolare i gazawi sotto assedio, risultano invisibili tout court). Per Hochberg e Weizman, infatti, in relazione alla presenza nei territori occupati nel 1967, la dissimulazione funziona come principio dominante che plasma il campo visivo prodotto dalla dominazione israeliana. Un principio che non mira solo a nascondere i palestinesi, o a rendere la loro esistenza impercepibile, ma anche a occultare ulteriormente l’atto stesso della loro rimozione – si pensi solo alla Barriera di separazione israeliana costruita nel 2002 in Cisgiordania, un muro visibile quasi ovunque dal lato palestinese, ma significativamente più celato da quello israeliano, poiché reificato a una distanza considerevole da qualunque insediamento ebraico (Hochberg 2015, 18). Mirzoeff riprende allora questo tema e lo proietta in una dimensione esplicitamente globale: come se, dall’ottobre 2023, per volere israeliano fosse il mondo intero a non doversi più accorgere di Gaza e di quanto lì accade.

Nel laboratorio della Striscia si sperimenta allora qualcosa di simile a un progetto di invisibilizzazione forzata. Un piano di annullamento del diverso che tuttavia, al tempo stesso, si intreccia con l’altro polo della tensione visuale in cui Gaza è costantemente trattenuta: quello della saturazione della sorveglianza. Una condizione duplice e ossimorica quindi, che esprime la sua più lacerante contraddizione proprio nei corpi della popolazione palestinese: considerati invisibili sul piano dei diritti e finanche della dignità, ma al contempo resi iper-individuabili in quanto target, bersagli perennemente esposti all’attenzione di ciò che Mirzoeff chiama il white sight israeliano. Un’espressione dove white non indica tanto un colore della pelle, quanto una gerarchia coloniale e sovrastante (2025, 36); mentre sight non designa esattamente il dominio dello sguardo, almeno non di quello umano (del resto, già al lavoro nella miriade di checkpoint che punteggia il territorio): quanto un rilevamento capillare che si affida anzitutto alla ricognizione aerea dei droni, protesi perfetta nel loro simboleggiare la verticalità, la distanza e l’asimmetria del potere con cui il settler-colonial way of seeing estende il suo raggio d’azione (2025, 39).

In un quadro come questo, di nuovo spartito fra trasparenza e opacità, sovraesposizione e latenza, la sollecitazione che Mirzoeff ci rivolge, quel suo invito a guardare nel buio, sta pertanto a indicare la necessità di osservare la realtà adottando il punto di vista dei sorvegliati, non dei sorveglianti. Guardare nel buio diventa così un gesto politico, un modo di prendere posizione. Un proposito di disallineamento che fa divergere lo sguardo dall’abitudine per sospingerlo oltre il cono di luce della sorveglianza, al fine di comprendere cosa succeda nel piano d’ombra che le sta tutt’intorno: chi si muova in quello spazio, quali messaggi riescano a emergere, come si possa da lì smascherare la violenza dei vigilanti – se è vero che è proprio la darkness che si estende oltre il white sight a indicare un altrove in cui le operazioni dell’oppressione coloniale possono essere finalmente portate allo scoperto, fino a farsi evidenti (2025, 11).

4 | Screenshot di un video della serie It's Bisan From Gaza and I’m Still Alive, registrato da Bisan Owda e caricato su Instagram il 10 aprile 2024 (l’intero video è disponibile a questo link).

Se però per Hochberg sono le pratiche artistiche, e in particolare il cinema (di Elia Suleiman ovviamente, ma anche di autori e autrici palestinesi come Sharif Waked, Azza El-Hassan, Basma Al Sharif) a costituire il principale vettore tramite cui fuoriuscire dall’oscurità e operare una ridistribuzione del visibile, restituendo voce a chi era escluso ed estromesso dal discorso visuale dominante, per Mirzoeff sono invece anzitutto fotografie e video prodotti dentro il buio di Gaza, e condivisi poi tramite i social media, ad aver avviato una vera e propria manovra di “contro-visualità” (2025, 104). E sono sempre questi contenuti ad aver sancito un punto di svolta nel racconto mediale della guerra fornito all’opinione pubblica internazionale. In qualità di forme diffuse di testimonianza audiovisiva, tali materiali, forzando la clausura imposta da Israele, hanno infatti dato prova all’esterno del regime repressivo vigente a Gaza, scatenando tutte quelle forme di solidarietà e partecipazione che, come si è visto, dalle piazze cittadine ai campus universitari hanno assunto proporzioni senza precedenti.

Di questo visual activism, formula che del libro di Mirzoeff riecheggia del resto il sottotitolo, sono state quindi le piattaforme di streaming, di video-sharing, di social networking le principali casse di risonanza. Ambienti digitali che, dal dominio dell’inautentico e del chiacchiericcio querulo, come spesso li consideriamo, dopo le esperienze delle primavere arabe e della Guerra civile siriana (in cui però erano assenti social così visuali come Instagram e TikTok), si sono dimostrati indispensabili strumenti di contro-rivendicazione. Anche solo a partire dal grado zero della comunicazione, dall’invio di meri segnali di vita: sull’esempio di coloro che, rassicurando di essere ancora incolumi nonostante i bombardamenti e gli attacchi subiti, ricorrono alle immagini per continuare “a resistere e a raccontarsi” (Previtali 2025). È il caso della giovane documentarista e attivista Bisan Owda, 25 milioni di follower sui suoi canali social, autrice di un format mediale intitolato come la frase che apre ogni suo contenuto pubblicato online: It's Bisan from Gaza and I'm Still Alive. A reclamare il fatto di essere ancora lì, a Gaza, e di essere ancora viva, nonostante tutto [Fig. 4].

Solo un esempio tra molti: indicativo però di come il laboratorio visuale allestito a Gaza abbia saputo preparare il terreno fertile in cui coltivare un video-attivismo rivelatosi capace di squarciare la coltre di invisibilità sotto cui il popolo palestinese è stato relegato. Attraverso la diffusione di testimonianze prodotte dall’interno dell’assedio, questa ondata informale, creativa e maturata dal basso ha imposto una nuova negoziazione visuale del conflitto. Facendo affiorare ciò che la censura mirava a mantenere sommerso, e lanciando dal buio una sfida che sta a chi guarda saper cogliere.

Lo sguardo cieco dell’AI

Il 28 agosto 2025, un articolo del quotidiano Il Riformista, firmato dal direttore Claudio Velardi (2025a), punta il dito contro la giornalista Cecilia Sala, accusandola di aver condiviso sul social X uno scatto fotografico falso, poiché realizzato con l’AI. L’immagine rappresenta il dolore di una famiglia gazawa che, riunita intorno a un cadavere avvolto in un lenzuolo, compone un motivo figurativo straziante (“una sorta di affresco caravaggesco”, scrive Velardi, come a volerne rimarcare la natura artefatta e imitativa). Da lì la reprimenda alla giovane Sala da parte di un veterano del giornalismo: in sintesi, o Sala non sa fare il suo lavoro, o è in malafede.

Peccato che l’immagine fosse invece autentica, scattata dalla fotografa palestinese Mariam Abu Dagga, collaboratrice di Associated Press, uccisa peraltro nel bombardamento israeliano contro l’Ospedale Nasser di due giorni prima. Velardi, va riconosciuto, si è poi scusato per l’imbarazzante figuraccia (Velardi 2025b). Ma la questione, per quanto di rilevanza ristretta e di pertinenza nostrana, ben si presta a sollevare una domanda che coinvolge ovunque la rappresentazione bellica: è ancora possibile credere all’immagine di guerra nell’epoca dell’intelligenza artificiale? Il tema è cruciale, in quanto obbliga a ripensare ruolo e autorità sia della fotografia, sia del fotogiornalismo (professionista e non), al cospetto dell’avanzata di un immaginario generato da “occhi sintetici” (Ritchin 2025, 101-129). E, data la sua impellenza, è un tema che ha trovato ampia cittadinanza nella dimensione visuale del dibattito su Gaza. A questo proposito, due esempi sembrano particolarmente emblematici.

Il primo è il caso dell’osceno video rinominato Trump Gaza: realizzato online come content parodico (peraltro, proprio in coincidenza dell’uscita del libro di Mirzoeff) e subito ripubblicato sui social Truth e Instagram dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Nella clip, viene mostrato come Trump immagini la Striscia di Gaza in una sua futura ricostruzione [Fig. 5]: una riviera trasfigurata in una surreale selva di grattacieli, resort, limousine e panfili di lusso, una grande statua d’oro dello stesso Trump nel centro di una piazza, e sfrenate feste in spiaggia in cui si gettano al vento banconote.

5 | Screenshot del video generato con l’AI e denominato Trump Gaza, pubblicato sull’account del social network Truth del presidente Donald Trump (post del 26 febbraio 2025, disponibile a questo link).

6 | L’immagine generata con l’AI e denominata “All Eyes on Rafah”.

Il secondo esempio invece rimanda a un’immagine che ha fatto registrare decine di milioni di condivisioni, imponendosi all’attenzione globale e circolando moltissimo, per esempio, nei movimenti di protesta anti-israeliani. L’immagine trae origine dalle dichiarazioni rilasciate in un punto stampa del febbraio 2024 da un rappresentante dell’OMS in Gaza, l’olandese Rik Peeperkorn, che rivolgendosi ai giornalisti, sottolineava come gli occhi di tutti, in quei giorni, dovessero essere rivolti a Rafah: città nel sud della Striscia, al confine con l’Egitto, che Israele aveva indicato come luogo di una probabile e imminente offensiva. Il 27 maggio 2024, Israele effettivamente esegue lì un brutale raid; intanto però, la frase pronunciata da Peeperkorn viene ripresa e trasformata da un content creator malese in un prompt generativo. Nell’immagine che ne deriva, sullo sfondo di montagne inesistenti in quell’area, si nota un campo profughi in cui la disposizione di tende bianche rende riconoscibile la scritta “All Eyes on Rafah”, stagliata in caratteri cubitali su un vastissimo accampamento che si perde a vista d’occhio [Fig. 6].

Ebbene, cosa c’entra il buio in tutto questo? Come si correla, a tali immagini, la darkness di cui scrive Mirzoeff? L’oscurità di cui Trump Gaza e All Eyes on Rafah sono solo due scampoli risiede nel fatto che, proprio perché elaborate dall’AI, entrambe le immagini non costituiscono affatto tracce visive della realtà, ma sono da soppesare come composizioni iconiche ottenute dal calcolo algoritmico sulla base di interpretazioni di direttive testuali. Ciò significa che nessun processo di visione le ha prodotte, nessun dispositivo fotografico o videocamera le ha mai inquadrate, nessun testimone le ha strappate alla realtà, spesso a rischio della propria sicurezza (come dimostra il caso di Mariam Abu Dagga). Sono insomma esiti del buio nel loro essere il risultato di uno sguardo cieco, quello appunto della macchina, e del suo divorzio dalla rappresentazione.

Il primo, il video Trump Gaza, parla da sé, e forse non vale la pena insisterci troppo. Illustra infatti un indirizzo, che almeno in Occidente è attualmente conclamato se non dominante, che accorda un predominio alle destre populiste in merito all’impiego dell’intelligenza artificiale a fini politici (Allchorn 2024; Watkins 2025). Il secondo, l’immagine All Eyes on Rafah, è decisamente più interessante, a partire dal suo costituire una forma di imperativo scopico che si fonda su un lampante paradosso (Cinelli 2025). È infatti un’immagine che simula evidentemente un punto di vista molto riconoscibile, quello del drone israeliano, di cui profana però la funzione di vigilanza; ma è anche un’ingiunzione a guardare (“tutti gli occhi su Rafah”), sebbene tale richiesta sia rivolta non tanto all’immagine in sé (al suo interno non c’è nulla da vedere, giacché esito dello sguardo cieco di cui sopra), ma alla cogente realtà dei fatti (l’attacco che Israele sta preparando nel sud di Gaza).

Questo secondo caso condensa quindi tutta la problematicità e la retorica ambigua insita in una proposta visuale rispetto a cui è inevitabile, per alcuni versi doveroso, maturare delle diffidenze: ma in cui è anche possibile intravedere uno strategico e futuribile impiego politico dell’AI. Nonostante la sua inautentica prestazione referenziale, nella sollecitazione incongruente che ci rivolge il suo sguardo accecato, che ci mostra quel che esso stesso non può vedere, e nella messa in questione della testimonianza a cui ci obbliga quale iniziativa da riposizionare nell’ontologia del “postfotografico” (Grespi, Villa 2024), All Eyes on Rafah pare difatti anche suggerire un’adozione propagandistica dell’immagine molto lontana dal dolo e dalla fakeness.

Le immagini AI, oltre a ingannare lo spettatore, convincendolo con la menzogna di ciò che non è vero, sembrano infatti poter anche esprimere la capacità di porre rimedio all’incompiuto: a ciò che, rimasto senza attuazione, rischia di essere coniugato solo al condizionale passato. In tal senso, possono dunque “essere usate anche per cose che sarebbero dovute accadere ma non sono successe” (Ritchin 2025, 117) – e in questo caso, per canalizzare l’attenzione globale, ritenuta insufficiente e poco informata, su una situazione particolarmente allarmante e in procinto di verificarsi. Nell’epoca del visual activism digitale, la viralità di All Eyes on Rafah, che è come dire il suo successo, diventa insomma un modo di gettare lo sguardo nel buio, per trovare lì un’oscurità algoritmica che profila però una prospettiva inedita, altra rispetto al white sight coloniale. Una prospettiva in cui l’immagine, più che come una finestra aperta sul mondo, funziona a mo’ di deflettore: un espediente per distrarre il pubblico, come nell’allucinazione distopica di Trump Gaza; ma anche per attirarlo con un richiamo critico, concentrandone su di sé gli sguardi (“tutti gli occhi”) al solo scopo di deviarli, direzionandoli verso un altrove situato oltre l’immagine, in uno specifico spaccato di realtà (“su Rafah”, quella vera).

In conclusione, possiamo dunque affermare che il laboratorio visuale di Gaza dimostri come, oltre a quelle tra visibilità e oscuramento e tra testimonianza e censura, sia necessario fare i conti con un’altra dialettica, che è oggi pienamente in corso: quella cioè che contrappone la visione video-fotografica consegnata da dispositivi protesici degli occhi umani e l’operatività postfotografica appaltata invece allo sguardo cieco di occhi sintetici. Quasi a metterci in guardia sul nostro essere spettatori di questo, come di altri scenari del conflitto: perché è anche dalle immagini generate (e non create) dalle intelligenze artificiali che sempre più dipenderà l’esperienza stessa del nostro confronto visuale con la guerra.

Riferimenti bibliografici
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  • Ritchin 2025
    F. Ritchin, L'occhio sintetico. La trasformazione della fotografia nell'era dell'intelligenza artificiale [The Synthetic Eye: Photography Transformed in the Age of AI, London 2025] trad. it. di C. Veltri, Torino 2025.
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    C. Velardi, Il post di Cecilia Sala, la fabbrica del falso e la morte del giornalismo, in “Il Riformista”, 28 agosto 2025.
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    C. Velardi, post su X del 28 agosto 2025, ore 15:14.
  • Virilio [1984] 1996 
    P. Virilio, Guerra e cinema. Logistica della percezione [Guerre et cinéma. Logistique de la perception, Paris 1984] trad. it. di D. Buzzolan, Torino 1996.
  • Virilio [1988] 1989
    P. Virilio, La macchina che vede. L'automazione della percezione [La machine de vision, Paris 1988] trad. it. di G. Pavanello, Milano 1989.
  • Watkins 2025
    G. Watkins, AI: The New Aesthetics of Fascism, in “New Socialist”, 9 febbraio 2025.
  • Weizman [2007] 2022
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English abstract

This article examines Gaza as a paradigmatic laboratory of contemporary visual culture, focusing on the intersection of regimes of visibility and invisibility in contemporary warfare. Drawing on visual studies, it argues that modern conflict operates through technologically mediated perception, generating both an excess of images and deliberate forms of opacity, censorship, and erasure that structure what can and cannot be seen. Through episodes such as the Global Sumud Flotilla livestream blackout, the visual testimonies produced and circulated on Palestinian social media during the siege, and the viral spread of AI-generated imagery – including the Trump Gaza video and the All Eyes on Rafah image – the article traces how visuality becomes a decisive and contested battleground. Engaging Nicholas Mirzoeff’s recent work, it proposes that Gaza exemplifies a global mode of “seeing in the dark,” in which counter-visuality, digital witnessing, and grassroots activism challenge the asymmetric optics and extractive gaze of settler-colonial power.

keywords | Visual Culture; War Representation; Global Sumud Flottilla; Media Witnessing; AI; Nicholas Mirzoeff.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: L. Donghi, Gaza, il buio e l’eloquenza muta dell’immagine, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.