
1 | Fotografia di Abdul Akim Khaled Abu Rayash, Deir al Balah, archivio gaza_fuorifuoco_palestina, Gaza, 14 giugno 2024.
Non sono io che piango, è la terra (Giabra Ibrahim Giabra)[1].
Tra Napoli, Firenze e Orvieto con Ali Rashid[2] (da fine 2023 al 12 maggio 2025), ragionando sul potenziale critico delle testimonianze “fuori fuoco” provenienti dalla Palestina. Rivedendo appunti, brevi messaggi, ricordando telefonate, frasi interrotte (a casa, in treno o in auto, da vicino, sgomenti) sul tenere aggiornato un registro dell’annientamento, un archivio “in marcia”. “Cos’è questo assiduo flusso di fotografie ricevute da Gaza e Cisgiordania, qual è la loro eccezione, perché riesce a snebbiare i nostri occhi affaticati, distratti? L’evidenza di uno sguardo che nato in cattività vi si oppone? Questo, forse, il fotografare tra le rovine: l’essere imprigionati ma continuare a vedere. In condizioni di cattività dei corpi ma non dei sensi, un insistere nel vedere per incoraggiare il vedere straniero. A incitarlo”. Gaza tra noi, nelle nostre dimore, grazie a quel vedere estremo, forse a un ultimo vedere: “Noi non trasmettiamo storie, le viviamo e ne restiamo uccisi. Scriviamo il testamento finale prima di diventare un numero in una dichiarazione urgente. I nostri corpi sono gli scudi della parola […] produciamo microfoni dal dolore, sputiamo verità dalle ceneri. E qui resteremo, resistendo in ogni fotografia e in ogni suono, in ogni notiziario andato in onda mentre sanguiniamo […] alzando la voce, silenziosamente” (Janina).
[…] La polvere è premessa alle immagini, polvere divenuta composizione, poi humus, rapidamente deposto in superficie (su monitor e carta, su retina). Polvere e cenere sono la grana stessa delle fotografie che compaiono qui, quelle particelle da cui Janina sputa la verità. Sporcano i nostri occhi al guardarle, sarà un modo per non tenerle da parte. Nelle singole immagini, in ogni occasione, inseguiamo il precipizio che vi è celato, lo si trova avendo pazienza dice qualcuno (Winfried G. Sebald). Nel tracciato dei segni si apre un varco inatteso, dipende da cosa siamo e da dove osserviamo: lasciamoci cadere al suo interno. Nel precipizio la libertà di chiudere gli occhi per allenarci ad un differente vedere. A scorgere più che a un rassegnato vedere. “Non ho più macchina fotografica, venduta per comprare cibo tra una fuga e l’altra, chiedo in prestito la camera o il cellulare ad altri fotografi, scatto tremando (anche se sembro immobile), invio qualcosa, restituisco …” (Hashem).
“Dal 1948 abbiamo una esistenza minore. Molta parte della nostra esistenza non è stata documentata, molti di noi furono uccisi, fummo colpiti da lutti, azzittiti senza lasciare traccia, l’immagine che ci rappresenta ci diminuisce”, scrive Edward Said. “[…] ‘Prima di noi non vi era niente’, la procedura coloniale guadagna i nostri giorni, intatta”. Uomini e paesaggi nativi scompaiono dall’immagine celebrativa della conquista, lentamente o in fretta, con qualche concessione o con la forza. I dettagli preesistenti alla colonia sfumano, nella fotografia ufficiale l’indigeno è spinto oltre l’inquadratura, oltre i margini di una iconografia notarile degli imperi. In primo piano resta il dominus, padrone di terre e schiavi, tutt’intorno regnano vuoto e silenzio. Soccorsa da verbi divini, la sua figura ingombra insieme allo spazio il tempo presente. “Noi siamo il tutto”, appunto. Oltre noi non vi è nulla di considerevole, solo barbari, creature senz’anima, impurità, scarti. Il linguaggio odierno dell’Azienda Israele, quello degli animali non umani e via elencando, viene da stermini lontani e non solo. Il crimine subìto è scudo e guida per le moderne offese. La ferocia fascista è fatta propria, la si rivendica, la si applica. Nell’estetica delle uniformi di guerra, dei vessilli, delle tecnologie, degli affari e dei fonemi. I suoi alleati di oggi sono gli sterminatori di ieri, stimati maestri di morte, distinti delegati di Dio nel promettere terra e contratti. La croce uncinata si insinua in filigrana, non più nascosta, la stella dipinta su ogni caterpillar, aereo, ambasciata, avamposto e asilo del paese-caserma, apre la sua trama blu e bianca al filato nero dell’antico carnefice. Lo fa con gioia, ridendo dell’agonia e dello stupore altrui (“Stanno soffrendo, è buona cosa che accada […] ma non soffrono abbastanza, dovrebbero morire […] dite che non hanno un tetto? Oh, ci rendete felici!”). “Robot, Robot!” si grida tra le macerie, “Robot!”[3]. Non si fa in tempo a dirlo, i cingolati senza pilota esplodono straziando i corpi, sbriciolando cemento e ossa. La viltà di Tel Aviv è lì, nella ferraglia che annienta i sopravvissuti, le bestie incredule, i ripari. Nell’uccidere senza essere uccisi. “[…] A Gaza le nostre macchine fotografiche sono disinteressate alla gloria, a Gaza le nostre penne non conoscono il lusso della neutralità. […] La parola è fatta di sangue, il nome di chi scrive sarà il prossimo titolo o un misero numero nella lista degli spariti” (Janina).
“Non riesco più a guardare, non riesco […] è insopportabile veder morire il mondo che ci fu tolto, e in cui ci è impedito tornare […] è inguardabile lo strazio, ma ancor di più lo è il candore dell’omicida”. Eppure Ali continua a scorrere immagini, si impone di farlo, affannando. È costretto a parlarne, a diffonderle: laggiù le nostre orbite in fiamme, la nostra conclusiva verità. Nelle fotografie da Gaza si innalza uno spartiacque, un prima e un dopo, il sorgere rapido di uno sguardo corale, di un occhio unanime, in rivolta, fatto di singole visioni convergenti, di mille inquadrature strette in un sol grumo: spettrale, disturbante, perpetuo. Immune ai codici occidentali dell’immagine-merce: “Questa fotografia, fotografia dell’insorgere, disarticola occhi e virtù intorpidite. Perde il fuoco restando fuoco, pone in disordine la parola bianca e mendace del cronista muto”.
Il 9 maggio Mohamad Olwan invia un gruppo di fotografie e video: olivi secolari, e altri più giovani, bruciano nei campi intorno Ramallah. I coloni, scortati dall’esercito, hanno tagliato le recinzioni in ferro dei contadini, versato benzina sui tronchi e nelle cavità delle piante, acceso con torce e stoffe ogni singolo albero. Poi fuggono, nonostante le armi che imbracciano e la protezione amicale dei bravi soldati, bravi manzoniani. Una ripresa dal cellulare di Mohamad, dura sei secondi, mostra uno dei grandi tronchi prender fuoco dall’interno, al pari di quelli vicini: il dispositivo è tenuto in verticale, parallelo all’olivo, in quel tempo breve il rosso vivo delle fiamme fuoriesce a malapena dalla corteccia aperta, palpita, trema, mentre un fumo nerastro trova sfogo in alto. C’è vento, tra fiamme e soffio il sordo crepitio che ascoltiamo somiglia ad una implorazione. Forse è solo fierezza, qualcosa che sfugge all’incendiario, entusiasta assassino. “La pianta piange, impotente, nonostante tutto sembra perire senza sbalordimenti, avendo coscienza di sé e del destino che spetta alle creature native. Tawfiq Zayyad traduce quel pianto nella nostra lingua bandita: “Non raccontare… non mi raccontare! / io vengo, io, da dove / le coscienze sono fiamme, e borbotta lo zolfo / nelle vene del ribelle, / dove marciano le strade / con gli uomini […] e nelle piazze gli alberi / sono bandiere a un popolo / che non se ne andrà via […] Radice della mia radice! Io torno, / non c’è dubbio, ritorno. / E tu m’aspetti nel cavo / delle rocce, m’aspetti nelle spine, / negli oliveti e nel colore / delle farfalle, e nell’eco e nell’ombra, / nell’inverno del fango e nell’estate / polverosa […]”[4].
A Deir al Balah, al centro della striscia di Gaza, l’abitazione della famiglia di Abu Aisha è colpita dall’aviazione israeliana. È il 14 giugno 2024, da quel che resta dell’edificio, tra fumo e detriti “Un’anziana donna viene aiutata a scendere in strada da due giovani vicini, polvere a coprirli. I piedi sono scalzi, imbiancati, come gli abiti, le lenzuola di un giaciglio e i poveri arredi in frantumi […] Le pareti esterne sono sbriciolate, una colonna in cemento trattiene quanto è ancora in bilico”. L’immagine, scattata da un fotografo giunto con i soccorsi, dopo poche ore è inviata in Italia. Nel trasferimento è omesso l’autore, come per centinaia di altre immagini (sembra che i nomi si possano trascurare, che siano un di più rispetto all’accadere). Ali, con fatica, a volte con l’aiuto del giornalista Safwat Kahlout, tenta di attribuire la paternità dei file ricevuti: “È doveroso farlo, ogni scatto appartiene a chi scrive con gli occhi cos’è il genocidio, sopravvivendo ai cecchini. Eccoli, i nostri poeti visivi”[5]. E quando la fotografia è scelta per essere stampata in grandi dimensioni, si vuole mostrarla dai terrazzi di più città italiane, si chiede ai fotografi chi la riconosce come propria. Ali Jadallah e Abdul Akim Khaled Abu Rayash rispondono: “potrebbe essere mia” e girano le rispettive schermate dai cellulari. È tardi ma ci consultiamo, le due fotografie sono simili, Ali e Abdul erano vicini mentre inquadravano la scena, ma in un dettaglio divergono: in quella di Abdul la donna sembra già toccare terra, nell’altra no, la fotografia è sua. “Siamo avviliti per quanto succede, stremati, eppure esaminiamo le più piccole cose, atomi del reale, ci appassioniamo alla fotografia e a cosa dice da Gaza (ascoltandone il rumore interno), accostandoci a chi vive e muore lì, sperando si fermi l’israelizzazione del mondo, siamo folli o storditi, un fare impossibile ci avvicina e tiene svegli da così tanti anni, mai braccia incrociate, diciamo”. “È molto difficile, anzi è impossibile! Per questi motivi va capovolto il mondo com’è. Per dire che l’impossibile accadrà se ancora ‘resteremo qui, come un peso sullo stomaco… lottando in stracci’, che l’impossibile aiuterà la speranza se ancora ‘su questa terra esiste qualcosa per cui vale la pena vivere’, per dire che dalle pratiche del possibile finora non è venuta alcuna giustizia”[6].
Aeroporto di Fiumicino, dicembre 1988, primo viaggio in Palestina. “Ali mi accompagna in auto. Ecco, porta con te Gerusalemme! Gerusalemme! [di Dominique Lapierre e Larry Collins, 1971], troverai ‘il clima di quel tragico 1948 palestinese’ e la desolante ‘dominazione britannica durata trent’anni’, non posso scriverti una dedica, potrebbero trovarla, i bagagli sono ispezionati con cura. Da Roma sei venuto da solo, in autobus, il biglietto l’hai buttato via. All’arrivo al Ben Gurion meglio prendere un taxi collettivo per Al Quds, nostra capitale, la Lega degli artisti e l’Unione dei giornalisti ti accolgono al National Hotel, con loro si può lavorare alla prima mostra di Kufia (al teatro Hakawati, credo)”. “Notte in albergo, insonne, sfogliando il libro, prima pagina: ‘O Gerusalemme, tu che uccidi i tuoi profeti e lapidi chi ti sono mandati […] ho voluto adunare i tuoi figli come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto alle sue ali’” [Gesù contemplando Gerusalemme dal Monte degli Olivi, Mt 23-27]. “Sotto le ali di Ali, penso, sottolineando il rigo, piume fraterne a difesa, una grazia”.
“[…] Ormai la devastazione è arrivata ai momenti più intimi della nostra vita quotidiana. E ci viene un’immensa tristezza quando guardiamo indietro nel tempo, pensando a quello che eravamo e quello che avremmo potuto essere, se non avessimo incrociato loro sulla nostra strada. E ci attanaglia una profonda angoscia quando ci accorgiamo di quello che stanno progettando per il nostro futuro: ci sembra di essere giunti alla fine del nostro triste viaggio”, scrive Ali nel 2002 (per la nuova edizione internazionale di Kufia, dopo l’assedio e le distruzioni dell’operazione Scudo difensivo a Jenin).
Venerdì 15 maggio, sul treno per Orvieto. “Gaza insegna l’infedeltà. Ai nostri mestieri, ai nostri committenti, alle nostre comodità, ai nostri paesi armati. Ad inchiodarci sono occhi barbari, a smentire la nostra voce superba, padronale e imbecille, la nostra delinquenza coloniale, trasparente come non sempre. Infedeltà al passato e all’oggi. Liberi se non somiglianti a ieri, liberi se eguali ai barbari, presto”.
.png)
2 | Fermo immagine dal video di Mohamad Olwan, archivio gaza_fuorifuoco_palestina, Ramallah, 9 maggio 2025.
3 | Fotografia di Hashem Zimmo, Al Rashid Road, archivio gaza_fuorifuoco_palestina, Gaza, 27 gennaio 2025.
Note
[1] G.I. Giabra, Betlemme 1920 - Baghdad 1994 (poeta e traduttore di Shakespeare, Eliot, Byron, Wilde, Beckett), da Sequenze poetiche, in La terra più amata. Voci della letteratura palestinese (a cura di Wasim Dahmash, Tommaso Di Francesco, Pino Blasone), Roma 2024.
[2] Ali Rashid (Khalil), Amman 5 aprile 1953 / Orvieto 14 maggio 2025
[3] Voci da una ripresa video di Hashem Zimmo, ricevuta da Giuditta Sborgi il 16 ottobre 2025
[4] Tawfiq Zayyad, da Apparenza e profondità, in La terra più amata. Voci della letteratura palestinese (a cura di Wasim Dahmash, Tommaso Di Francesco, Pino Blasone), Roma 2024.
[5] All’archivio gaza_fuorifuoco_palestina collaborano: Abdul Hakim Khaled Abu Rayash, Bilal Hassan Elnabih, Issam Rimawi, Muhannad Abdulwahab, Mahmoud Elyan, Mahmoud Illean, Mohamed Mohana, Omar Abu Nada, Yasser Qudaih, Mohamad Al Baba, Musa Al-Shaer, Wala Hatem Sabry, Soha Sukkar, Hashem Zimmo, Mohammad Al Masri, Abnal Masri, Kamel Bulbul, Mohamad Al Aswad, Thaer Aabed, Bashir Abu Al-Shaar (elenco aggiornato all’ottobre 2025).
[6] A. Rashid, per gaza_fuorifuoco_palestina, dicembre 2024 (stralci poetici di T. Zayyad e M. Darwish).
English abstract
The article pulvis Gaza by Patrizio Esposito examines the circulation and reception of photographic from Gaza and the West Bank between late 2023 and May 2025. Referring to reflections by Ali Rashid (promoter of the archivio gaza_fuorifuoco_palestina project; and Kufia exhibitions 1988/2002), the text hints at the political and ethical implications of visual documentation produced under conditions of ongoing violence. It analyzes how images function simultaneously as evidence and as vulnerable material subject to erasure, manipulation, and selective visibility. Particular attention is paid to the material conditions of image transmission and to the responsibilities of viewers in interpreting photographic testimony within contemporary debates on witnessing and representation.
keywords | Ali Rashid; archivio gaza_fuorifuoco_palestina; Kufia; Photography; Palestine; Destruction of Gaza.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: Patrizio Esposito, pulvis Gaza, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.