Sessantasettemila
Cesare Pietroiusti
English abstract
Per tutti questi esseri tumultuosi che vivono e hanno sete di vita, ci sarà presto tanto silenzio! Come alle spalle di ognuno sta la sua ombra, la sua cupa compagna di viaggio! É sempre come nell’ultimo momento, prima della partenza di una nave di emigranti: abbiamo da dirci più cose che mai, l’ora incalza, l’oceano con il suo desolante silenzio attende impaziente dietro questi rumori, così bramoso, così sicuro della sua preda! E tutti, tutti pensano che quanto fino a questo momento è avvenuto, sia poco o niente, che il prossimo futuro sia tutto: per cui questa febbre, questo gridare, questo stordirsi e soverchiarsi! Ognuno vuole essere il primo in questo futuro: eppure è morte e silenzio di morte l’unica cosa sicura e a tutti comune di questo futuro! Come è strano che questa unica sicurezza e solidarietà non abbia quasi nessun potere sugli uomini, e che essi siano ben lontani dal sentirsi quasi la confraternita della morte (Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza, IV, fr. 278).

1 | Dal blocnotes utilizzato durante l’azione.
Dal 2010, in luoghi e forme differenti, il collettivo di artisti “Lu Cafausu” – di cui fanno parte Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese, Luigi Presicce e il sottoscritto – si ritrova il due novembre di ogni anno per celebrare la “Festa dei vivi (che riflettono sulla morte)”. Si tratta di una celebrazione che vorrebbe non limitarsi alla dimensione del ricordo di chi è già morto, ma promuovere piuttosto un pensiero della finitudine, nella convinzione che condividere una consapevolezza profonda della mortalità possa rappresentare un fondamentale fattore di coesione sociale e di creazione di comunità. Per la XVI edizione abbiamo deciso di rivolgere l’attenzione della “Festa dei vivi” a chi, semplicemente, è ancora vivo. In un contesto di distruzione e precarietà, riflettere sul valore di quell’ancora, e sulla cura che ad esso è dovuta.
Varie proposte dei cinque artisti – letture, interventi performativi, visione di film, brani musicali, sessioni di disegno – si sono così succedute e alternate in una diretta online. Come mio contributo ho proposto di realizzare il seguente progetto: contare, a voce alta, continuativamente, da uno a sessantasettemila. Nessun commento, nessun sottofondo, solo contare (una sintesi di 10 minuti dell’azione, è visualizzabile a questo link).
L’azione è stata realizzata nel mio studio di Viale Trastevere 259 a Roma, a partire dalla mezzanotte del primo novembre e si è conclusa alle 22.35 del 3 novembre, dopo 46 ore e mezzo di conteggio ininterrotto. Numerose persone hanno risposto al mio invito a collaborare a questo progetto. Dandosi il cambio a contare all’incirca ogni 30 minuti, sono intervenute: Gloria Fraternale, Christian Fecchi, Michele Miranda, Angela Mara Piga, Helia Hamadani, Martina Merico, Aurora Vivenzio, Pasquale Polidori, Anna Gloria Flores, Luca Valerio, Noemi Saltalamacchia, Sergio Sarra, Francesca Pinton, Luisa De Donato, Ilaria Mancia, Alex Paniz, Manuel Grillo, Costanza Mancuso, Giacomo Raffaeli, Matteo Nasini, Enrica Palmieri, Giorgia Borgogno, Giulia Pistoso, Emily Jacir, Federico Ferrari, Agnieszka Gratza, Giorgia Accorsi, Caterina Borelli, Benedetta Cestelli Guidi, Sara Alberani, Marta Cornacchia, Marta Dell'Angelo, Chiara Boitani.
Il tempo è passato, come accade talvolta, fuori da un ritmo usuale, facendo perdere la consapevolezza del giorno e della notte; della pioggia che a un certo punto è apparsa fuori dalla finestra come se fosse la scenografia di un film; del mercato domenicale di Porta Portese; di una pagnotta di pane impastato durante la notte e cotta nel piccolo forno del mio studio; delle persone che, nelle pause, si addormentavano un po’ ovunque, e di molto altro. E questo è accaduto poiché l'esperienza, nella estrema semplicità della sua produzione, ha assorbito l’attenzione e la passione di ciascun partecipante in un’intensità e una forza condivisa e rafforzata da tale condivisione. Anche nei momenti in cui non stavo contando, sono rimasto a lungo davanti allo schermo nella seconda stanza, dove era allestita una elementare regia, a vedere le altre persone che contavano. Era un po’ come davanti al fuoco nel camino: non sai perché, ma rimani lì, e diventi attentissimo alle minime differenze dell’uguale.

2 | Alcuni momenti dell’azione.
Fra tali differenze, meritano una riflessione gli errori. Contare, seguendo la serie dei numeri interi, è, in teoria, semplicissimo. In pratica, una conta che arriva alle migliaia o alle decine di migliaia è inevitabilmente costellata di errori: salti di numeri, intoppi, ritorni a numeri superati molto tempo prima. L’inciampo, l’incertezza, proprio perché momentanei, e proprio perché intervengono in una azione guidata da una regola elementare, evidenziano una potenza espressiva fortemente individualizzata. Un’espressività che può essere vista come una forma di resistenza (involontaria) all’ordine della consecutio per eccellenza. Il soggetto che sbaglia in quel momento si imbroglia, cioè si presenta all’appuntamento con il numero ‘giusto’ in una veste che non è quella dell’ubbidienza alla regola, che ci aspetteremmo da lui, bensì con le caratteristiche di un personaggio che, seppure per pochi attimi e prima di tornare, letteralmente, all’ordine, racconta un’altra storia, cambia le carte in tavola.
L’espressività che si manifesta in quei pochi attimi ha quasi sempre un effetto comico. Il fatto che il progetto Contare da uno a sessantasettemila avesse un esplicito riferimento allo sterminio di Gaza, e che quindi ogni numero corrispondesse a un morto, rendeva l’effetto comico un’evenienza imbarazzante. Il numero saltato, il numero pronunciato malamente, il numero inesistente, diventava un morto a cui non si dà il dovuto rispetto, un morto-che-non-conta. Un corpo che, dopo il suo annientamento indiscriminato e ingiustificato, ricade per la seconda volta nella categoria della indifferenza di cui parla Judith Butler ne L’alleanza dei corpi: la negazione, che in certi casi viene attuata, della possibilità stessa del lutto.
Sono consapevole di questo delicato nodo etico, e più volte, nel corso della conta, mi sono anche vergognato della mia spontanea risatina di fronte alla goffaggine dell’errore di qualcuna delle persone impegnate nel conteggio. Però credo che la possibilità di includere e comprendere, tanto l’errore quanto l’imbarazzo, sia la caratteristica che allontana Contare da uno a sessantasettemila dalla enfatica dimensione celebrativa o vittimistica avvicinandolo invece a quella del progetto artistico. Proprio nel momento di una massima empatia, in cui si avverte una incondizionata solidarietà rispetto alle vittime, emerge l’accadimento banale, minuscolo, ridicolo. Questa ambivalenza situa il progetto nella traiettoria di una tensione energetica che scorre in un campo definito da polarità in contraddizione fra loro, e non soltanto nella certezza di una “posizione” moralmente e politicamente corretta. L’errore, insomma, è un evidenziatore di complessità, rispetto alla intenzione progettuale dichiarata – peraltro necessaria per dare forma all’opera e renderla riconoscibile, dicibile – del dovere raggiungere la cifra prestabilita.

3 | Dal blocnotes utilizzato durante l’azione.
In maniera simile, il quaderno su cui molti dei partecipanti hanno segnato per iscritto il numero a cui man mano arrivavano – a volte andando di cento in cento, a volte segnandoli a uno a uno – è indice della stessa incertezza per la quale ci si rivolge alla tecnica della scrittura per superare la paura di sbagliare la sequenza verbale. Queste pagine, ora scarabocchiate disordinatamente, ora compilate con meticolosità ossessiva, raccontano anch’esse una forma di resistenza che fa quasi tenerezza, rispetto alla inflessibile esattezza dell’ordine numerico.
Sarebbe cambiato qualcosa se, invece di contare, avessimo letto una lista di nomi (delle persone morte)? A parte la oggettiva difficoltà del reperimento di tutti i nomi e della quantità di tempo necessaria a completare l’azione, la risposta è sì, sarebbe stato diverso. Il numero, rispetto al nome, determina una maggiore potenzialità di riferimenti e di associazioni psicologiche. Ha a che fare con una persona (un morto) – come l’avrebbe il nome – ma è anche un concetto astratto, una unità elementare di senso e di emotività. In chi conta si alternano due tipi di concentrazione: una indirizzata a non sbagliare, l’altra a seguire, in ogni passaggio, un’associazione con la morte, anche nella sua ineluttabilità universale quindi anche nella similarità che avvicina ogni persona morta a Gaza a ognuno di noi.
La consapevolezza della mortalità, con cui ho cominciato questo testo riferendomi alla “Festa dei vivi (che riflettono sulla morte”), vista come un destino che dovrebbe, come dice Nietzsche, accomunare tutti i viventi in una confraternita, è un modo per non cadere nella trappola della “alterizzazione” della morte, che pervade la comunicazione di massa.
La morte è ossessivamente presente nei media, perché – lo sappiamo bene – fa notizia, buca gli schermi. Ma la sua rappresentazione, come in una mascherata, prende le sembianze di un altro assoluto, differente, inassimilabile. Per qualche anno è stato il “terrorista suicida”, lo shahid, il martire islamico coperto di panni neri e bandoliere esplosive. Prima di lui, era il magrissimo giovane africano malato di AIDS, e prima ancora il bambino del Biafra con l’ascite da denutrizione. Più recentemente è il migrante, l’individuo che scappa da conflitti laceranti tanto quanto indefinibili, incomprensibili e senza speranza di una fine. Tutte immagini della morte e al contempo della diversità radicale. Tutte immagini paurose ma anche rassicuranti perché con me, quella maschera, non ha niente a che fare; può irrompere nel mio teatro, ma il suo spirito, il suo corpo, la sua fenomenologia, il suo essere non mi riguardano. Di ciò io, uomo bianco occidentale, sono certo.
I Gazawi, le centinaia di migliaia di persone ammassate in modo inumano in una striscia di terra grande come il litorale romano, sono l’ultima figura dell’alterità che, in quanto diversa, muore. È importante, credo, riuscire a non cadere, anche questa volta, come in fondo tutte le altre, nella solita trappola che ci fa sentire immortali, e che trasferisce la mia consapevolezza della morte nella irriducibile differenza da quest’altro: quello disorientato, in fuga da un capo all’altro di quella striscia, inerme sotto le bombe di un esercito spietato e invincibile.
In questo conteggio ad alta voce, trasmesso in diretta e registrato da una video-camera, ogni numero è diventato un atto di accusa, un lamento funebre, un’evidenza della precarietà dell’esistenza, una monade di tempo prima della morte, ma anche una constatazione dell'uguaglianza delle creature. In una parola, un’unità di vita, quella dell’animale parlante e dotato di autocoscienza che siamo. E in quelle quarantasei ore, in noi tutti noi che abbiamo contato si sono alternate tristezza, rabbia, speranza, disperazione, gioia, affetto, protezione, vicinanza, impotenza, forza, e ancora rabbia. A me è parso, a volte, di poter lanciare in faccia ai signori israeliani dello sterminio, ognuno di quei numeri.
Alla fine, arrivati a sessantasettemila, nel mio studio eravamo in dieci. Abbiamo stappato una bottiglia e abbiamo brindato. Praticamente in silenzio.
Il numero, pure enorme, che abbiamo raggiunto – 67.000 era il numero ‘ufficiale’ dei morti di Gaza al 22 ottobre, data in cui ho reso noto il progetto – è stato già ampiamente superato dalla prosecuzione dello sterminio. In ciò emerge l’aspetto tragico della conta: l’opera d’arte, per obbedire a una esigenza progettuale, si ferma e si forma a un ‘certo’ punto, ma il numero dei morti continua, come, indefinitamente, la sequenza aritmetica. La sequenza, come tale, contiene, promette, una prosecuzione.
Pur nella consapevolezza della immediata inutilità pratica di un gesto come questo, e non avendo strumenti di alta tecnologia per rispedire al mittente il suo odio, continuo a credere che la ricerca artistica, e la cura dedicata al dialogo, all’approccio poetico e al pensiero critico siano il nostro contributo possibile all’emancipazione, alla libertà.
English abstract
In Sessantasettemila, Cesare Pietroiusti reflects on Contare da uno a sessantasettemila, a durational performance developed for the sixteenth edition of Festa dei vivi (che riflettono sulla morte). Realised in Rome between 1 and 3 November 2025 and live-streamed online, the work consisted of counting aloud, without commentary or accompaniment, from one to 67,000—the official number of deaths in Gaza as of 22 October 2025, already destined to be surpassed. Over forty-six and a half hours, the counting became a collective action, with multiple participants taking turns, and a form of vigil in which each numeral functions as both abstraction and singular unit of life. The article foregrounds the ethical and aesthetic tensions generated by the procedure: errors and hesitations emerge as unavoidable, exposing the limits of representation and the discomfort of involuntary comic effects in proximity to mass death. By privileging numbers over names, Pietroiusti probes how media regimes “other” death and proposes a shared confrontation with finitude as a fragile basis for solidarity and community.
keywords | Gaza; Lu Cafausu; Cesare Pietroiusti; Emilio Fantin; Luigi Negro; Giancarlo Norese; Luigi Presicce; Festa dei vivi.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: C. Pietroiusti, Sessantasettemila, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.