Il 12, 14 e 17 ottobre 2025, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino è stato messo in scena il Macbeth di Giuseppe Verdi per la regia di Mario Martone (il quale aveva già messo in scena l’opera al Théâtre des Champs-Élysées di Parigi nel 2015). Nel riallestimento fiorentino, la lettura di Martone accentua le ombre – in primis psicologiche – dell’opera verdiana come messa in scena dello spazio claustrofobico e ossessivo che è la mente del generale Macbeth. In questa costruzione, si accentua però con particolare veemenza uno scarto, un’apertura: si tratta della scena in cui il coro canta Patria oppressa, mentre sul fondale sono proiettate le immagini di Gaza devastata. Abbiamo discusso con Martone di questa scelta e, più in generale, del compito che l’artista, e il teatro in generale, ha dinnanzi all’abisso umano dello sterminio.
* * *

La scena del coro di Patria oppressa, Macbeth in scena al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, ottobre 2025.
Filippo Perfetti, Giulia Zanon | Vorremmo partire dalle immagini. Quando il mese scorso allo Iuav ha presentato il libro in cui ripercorre i suoi primi lavori (Ritratto del regista da giovane, Maria Grazia Berlangieri, Venezia 2024), ci aveva colpito il modo in cui raccontava come, nel suo percorso, abbia sempre sentito la necessità di “tenere la porta aperta”: una metafora che ha attraversato sia il suo lavoro registico sia la sua direzione del Teatro Argentina. In questo senso, le immagini del terzo atto – forse una delle poche presenze visive in una scena per il resto spoglia – sembrano configurarsi come un’apertura sul mondo, come una porta che si spalanca verso l’esterno.
Mario Martone | Quando si fa teatro è fondamentale tenere la porta aperta. Bisogna essere consapevoli che il teatro è un sistema di segni, di linguaggi, di spazi: un sistema in qualche modo chiuso, perché dotato di codici propri. Ma, allo stesso tempo, questo sistema deve sempre avere la possibilità di guardare fuori, di aprirsi. È qualcosa che avevo già sperimentato, per esempio, quando misi in scena I Sette contro Tebe di Eschilo ai Quartieri Spagnoli di Napoli. In quel caso la porta aperta non dava soltanto sui Quartieri Spagnoli – che pure erano un territorio segnato dalla violenza – ma soprattutto su ciò che stava accadendo allora nell’ex Jugoslavia. Allo stesso modo, lavorando sul Macbeth di Verdi, questa apertura mi è sembrata inevitabile. L’opera, infatti, è costruita come uno spazio estremamente chiuso: l’azione si svolge quasi interamente all’interno del palazzo di Macbeth e di sua moglie, nel perimetro ristretto della corte. È un mondo claustrofobico, chiusissimo, in cui siamo costantemente immersi nella mente del protagonista.
E, solo a un certo punto del terzo atto, Verdi apre l’azione verso l’esterno, la sposta sul campo di battaglia e scrive questo coro. Lo spettatore vede un tiranno che è Macbeth e dopo essere stato dentro la sua testa per tutto il primo atto, il secondo e così via, improvvisamente si apre un paesaggio nuovo: non siamo più nella testa del tiranno, ma vediamo coloro che sono vittime della sua violenza. È vero che Verdi ha scritto molti cori di carattere patriottico – il più celebre è ovviamente il Va’, pensiero del Nabucco – ma in questo caso bisogna prestare molta attenzione alle parole. Qui si parla esplicitamente di genti sterminate, di bambini uccisi. Non si tratta, come spesso accade in Verdi, di un riferimento diretto alla situazione italiana dell’Ottocento, segnata dalla mancanza di indipendenza e dalla lotta per la libertà. Solitamente manca del tutto quella dimensione di strage indiscriminata che invece caratterizza questo coro.
Verdi introduce questi elementi perché sta parlando della Scozia medievale, del mondo di Macbeth. Ma proprio per questo il coro si allontana dal contesto politico italiano e apre verso la sofferenza di popoli altri, lontani, che non sono necessariamente quelli a lui più prossimi. È come se fosse Verdi stesso, per primo, ad aprire una porta e a guardare verso una tragedia che eccede il suo tempo e il suo luogo, verso la sofferenza di un popolo lontano, che non è necessariamente quello italiano a lui caro.
Per questo, nel momento in cui mi sono trovato a lavorare su questo spettacolo mentre Gaza era sotto la pressione più terribile, è stato per me del tutto naturale pensare di utilizzare quelle immagini.
GZ | Forse la cosa più forte – e il vero potere del teatro – sta proprio in questo: concedersi la possibilità di uno stravolgimento che permetta alla finestra di aprirsi dall’interno stesso delle stanze del tiranno. Ne abbiamo parlato a lungo, durante le nostre riunioni, cercando di capire che cosa fare, come reagire di fronte a Gaza. A un certo punto ci siamo detti che forse l’atto poietico è la forma più efficace di risposta, che forse scrivere un dramma potrebbe essere una reazione possibile per uscire dalla nostra paralisi. Ma subito dopo abbiamo anche capito che, perché il teatro possa esercitare davvero questo potere, l’unico modo sarebbe ambientare quel dramma nelle stanze di Netanyahu. In questo senso Macbeth è Netanyahu: è guardare il popolo oppresso dall’interno dello spazio del tiranno. Ed è forse proprio questo che rende così potente l’apertura di quella finestra.
MM | È una riflessione interessante, perché in effetti Macbeth è già in Shakespeare un testo interamente immerso nella dimensione del potere tirannico, ma in Verdi lo diventa in modo ancora più claustrofobico. Verdi chiude lo spazio drammatico più di quanto non faccia Shakespeare: siamo costantemente nelle stanze del tiranno. E queste stanze non sono soltanto una metafora del potere. Sono, piuttosto, la precipitazione della sua mente. Le stanze di Macbeth sono la proiezione della sua interiorità: uno spazio cupo, nero, ossessivo. Per questo ho scelto di lavorare senza una scenografia tradizionale, concentrandomi sulla luce e sullo spazio: non volevo entrare soltanto nelle stanze, ma direttamente nella mente del tiranno.
La domanda, in fondo, è sempre la stessa: come è possibile reggere tutto questo? Come è possibile sostenere una tale quantità di violenza? È una domanda che riguarda proprio la figura del tiranno.
C’è, naturalmente, un’ipotesi sadica – quella che potremmo definire pasoliniana, pensando a Salò – secondo cui tutto questo produce addirittura un godimento. È l’ipotesi più abietta, la più insostenibile: l’idea che qualcuno possa provare piacere di fronte a una sofferenza di queste proporzioni.
C’è poi un’altra ipotesi, che è quella dell’indifferenza. L’indifferenza come cecità, come sordità. Paradossalmente, il sadismo è quasi più umano: è un’aberrazione dell’umano, certo, ma resta dentro l’umano. L’indifferenza, invece, è il punto in cui l’umano si arrende del tutto, cancella ogni traccia di sé.
FP | Preparando questa conversazione, stavo sfogliando il libro che racconta la nascita e la lavorazione di Teatro di Guerra e mi ha colpito molto un’immagine evocata da enrico ghezzi nella sua prefazione, quando scrive che Teatro di guerra ci fa sentire “nel presente di cui non può rendere conto, nello spettacolo che è già un tremore, qualcosa di questo leggero non indifferente terremoto”. Ecco, con le immagini che lei ha introdotto nel Macbeth, si tratta anche di scuotere qualcosa, di produrre una scossa che renda percepibile ciò che ancora oggi lascia molti nell’indifferenza?
MM | Ho fatto un film che si intitola Noi credevamo, in cui c’è un’immagine che, ogni volta che appariva, suscitava una reazione molto forte nel pubblico. A un certo punto, i due protagonisti cercano rifugio durante un viaggio notturno per raggiungere i compagni con cui dovranno combattere: ho ambientato la scena all’interno di un manufatto incompiuto di cemento armato, di quelli che devastano le coste del Sud.
È stata una scelta deliberata, come un gesto di trafittura: avevo lavorato con estrema cura su una sorta di “tela ottocentesca”, con un’attenzione iconografica molto rigorosa, e a un certo punto è come se avessi preso una lama e l’avessi tagliata. Quel taglio faceva uscire i personaggi dalla continuità storica del racconto e li metteva in rapporto con un’altra immagine: quella di ciò che l’Italia – in particolare il Sud – sarebbe diventata dopo. Quindi si creava questo effetto discronico – un anacronismo che anticipava quello che sarebbe stato.
Nel Macbeth accade qualcosa di analogo. Gli spettatori sono immersi nelle stanze del tiranno, dentro la sua mente, in quello spazio chiuso e ossessivo. E a un certo punto, però, compaiono immagini di un altrove che è in realtà molto vicino, estremamente riconoscibile. E voi sapete che questa scelta ha provocato reazioni forti. Alla prima ci sono stati fischi, buu, reazioni molto accese. Insomma: non è mancata la provocazione, e questo mi è sembrato un bene.
FP, GZ | Volevamo capire se queste reazioni si sono percepite già durante lo spettacolo, all’interno della sala, oppure se sono arrivate soprattutto in seguito, attraverso commenti e prese di posizione.
MM | Durante lo spettacolo, in realtà, quella scena è stata lungamente applaudita, e lo è stata in tutte le repliche successive: un applauso che esprimeva chiaramente una condivisione. Alla fine dello spettacolo, però, una parte del pubblico ha manifestato il proprio dissenso, protestando. Inoltre, quella stessa sera, anche alcuni lavoratori del teatro sono usciti con degli striscioni, e questo ha ulteriormente accentuato la visibilità del conflitto. Mi sembra una cosa giusta: se tornassi indietro, rifarei esattamente la stessa scelta.
Per quanto riguarda le immagini, ho scelto quelle che tutti ormai conosciamo: immagini riprese dall’alto, spesso attraverso droni. Sono immagini che appartengono alla grammatica della guerra contemporanea da diversi decenni. La prima volta che abbiamo visto immagini di questo tipo è stata durante la guerra in Iraq: ricorderete quelle riprese notturne, con i sensori, tutte virate sul verde. Non erano ancora quelle dei droni, ma immagini quasi astratte, in cui improvvisamente l’essere umano colpito dagli ordigni veniva ridotto, minimizzato fino quasi a scomparire. A volte restava solo un insieme di pixel sgranati. Questa modalità di rappresentazione è continuata nel tempo e oggi, con l’uso dei droni, produce immagini dall’alto in cui vediamo le macerie, ma raramente le persone. Se guardate l’immagine del coro, a un certo punto la scena è dominata da queste riprese lontanissime dall’alto, mentre il coro entra uno a uno. Ho voluto una entrata del coro lunghissima: uomini e donne che attraversano il palcoscenico da destra a sinistra e si dispongono sotto l’immagine.
Si crea così un rapporto prospettico molto preciso: da un lato la distanza delle immagini di Gaza, dall’altro la presenza fisica, concreta degli esseri umani. L’intento era proprio quello di contrastare quella distanza, di rimettere in primo piano i corpi. Questo è forse l’unico momento del Macbeth in cui prende la parola il popolo: è il popolo che si mostra, e non più soltanto le fantasie cupe del potere di Macbeth. In quel punto volevo che fosse evidente lo scarto, la distanza prodotta da quelle immagini, e allo stesso tempo la necessità di opporvi una presenza umana che le attraversasse e le contraddicesse.
FP, GZ | Di fronte a Gaza, per capire quale possa essere la nostra postura, ci ha aiutato molto una suggestione che viene da Deleuze e Guattari, quando riprendono Artaud nel passaggio dove scrive che il pensatore deve parlare per gli afasici, e questo non significa parlare al posto degli afasici, ma vuole dire davanti a loro. Alla luce di questo, che cosa pensa debba fare oggi un intellettuale o un artista: che cosa significa stare davanti a Gaza, e non parlare al posto di Gaza o su Gaza?
MM | Per mia natura sono una persona piuttosto schiva. Non amo prendere la parola in ogni situazione e in ogni contesto, perché credo che anche le parole possano essere abusate. Bisogna cercare che siano esatte, necessarie. Un certo grado di essenzialità, secondo me, è fondamentale.
È interessante notare – e credo che questo sia il caso di dirlo – che questa idea dell’essenzialità appartiene profondamente anche alla cultura palestinese. La cultura palestinese è antichissima e, allo stesso tempo, estremamente contemporanea – è una cultura di grande profondità, ma anche di grande rigore. Lo si avverte negli intellettuali palestinesi, nella poesia palestinese: c’è una precisione, una sobrietà che colpisce.
Nel mio caso, per esempio, se mi fossi trovato a mettere in scena un’altra opera, non avrei inserito un riferimento a Gaza “a prescindere”. È stato l’ascolto di questa opera, del Macbeth, e in particolare delle parole del coro, a rendere inevitabile quella scelta. Se quelle parole fossero state diverse, probabilmente non l’avrei fatto. Credo molto nell’esattezza del gesto: non per difendersi – non c’è nulla da difendere, ed è giusto che un gesto venga anche attaccato da chi non è d’accordo – ma per rispetto verso se stessi e, soprattutto, per rispetto verso un popolo del quale dobbiamo prima di tutto ascoltare le parole.
Se devo dire ciò che sento mancare, talvolta, in questo grande e straordinario movimento di attenzione, azione e attivismo intorno a Gaza, è proprio l’ascolto. Vorrei sentire di più le voci palestinesi. Credo che dovremmo esercitare maggiormente una pratica di ascolto e di relazione con i palestinesi, prima ancora di prendere la parola su di loro.
FP, GZ | Forse ciò che dovremmo cercare di superare, liberandoci da una visione distorta del conflitto, è proprio il paradigma vittimario che vede i palestinesi come vittime da difendere.
MM | Esattamente quello che volevo dire. Anche nella scelta di far entrare i coristi uno a uno, in carne e ossa, davanti a quelle immagini, l’intenzione era proprio quella di restituire la presenza degli esseri umani e del loro pensiero.
I palestinesi non sono soltanto un popolo antico: sono un popolo che ha davanti a sé un futuro. Chi pensa che i palestinesi possano essere annientati si sbaglia profondamente. All’interno delle culture del Medio Oriente e del mondo arabo, la cultura palestinese ha una specificità straordinaria. È un popolo che non si arrende, e non si arrenderà. Non esiste genocidio che possa mettere a tacere una cultura. Proprio per questo è fondamentale dare parola ai palestinesi. Anche perché sappiamo che ciò che sta accadendo produrrà purtroppo altro dolore, altre azioni violente, altre ferite di cui tutti sentiremo il peso. A maggior ragione diventa necessario alzare il volume dell’ascolto delle parole e dei pensieri, e non lasciare che a parlare siano solo le armi.
C’è anche un altro aspetto importante: noi abbiamo moltissimo da imparare. Ho sentito spesso ripetere una riflessione che trovo molto forte, e che credo emerga anche nel Macbeth: che cosa Gaza può insegnare a noi, alla nostra cultura? Una cultura che deve molto alla Palestina e che, in fondo, ne condivide alcuni elementi fondativi.
Nel 1996 ho realizzato un breve film sui campi profughi sahrawi, Una storia Saharawi. I Sahrawi condividono con i palestinesi diverse condizioni: sono popoli sottoposti al dominio di tiranni, ma sono anche società estremamente evolute dal punto di vista sociale e politico. In entrambe le culture esiste una forte idea di educazione e di cultura, e le donne hanno un ruolo centrale nella vita sociale. Siamo molto lontani dall’immagine stereotipata che spesso si ha della cultura palestinese. È chiaro che il vero pericolo è che, anche in Palestina, possa farsi strada l’oscurantismo fondamentalista. Ma questo accade proprio quando viene messa a tacere la tradizione socialista e laica palestinese – una tradizione che esiste, così come è esistita in Libano, e come esisteva in Algeria prima di essere soffocata. Sono questioni estremamente complesse.
Tuttavia, tutto ciò che possiamo fare per ascoltare è fondamentale. Tornando a quel film del 1996: io sono andato nei campi sahrawi non per fare un documentario “dall’alto”, osservando e filmando. Ho fatto un film con loro. La sceneggiatura si costruiva insieme, giorno dopo giorno, man mano che ci si conosceva e si scoprivano le cose. In questo senso, ho aperto il mio cinema ad accogliere ciò che loro portavano. È stata una grande lezione, anche una grande lezione di cinema. Non lavorare in verticale, ma in orizzontale. Credo che questo sia il punto essenziale anche nel rapporto con i palestinesi: disporsi su un piano orizzontale, che è l’esatto opposto della verticalità disumana delle bombe che cadono dall’alto, cancellando i corpi e gli sguardi. Mettersi tutti sullo stesso piano, guardarsi negli occhi, ascoltare.
FP, GZ | Tornando a Teatro di Guerra, che è un film di più di 25 anni fa: i pensieri rispetto alla catastrofe nei Balcani, di Sarajevo, sono gli stessi che aveva allora oggi davanti alle rovine di Gaza? Le urgenze sono le stesse? Qualcosa è cambiato?
MM | Sono chiaramente situazioni diverse, ma resto convinto che nell’ex Jugoslavia sia iniziata la guerra nella quale, in un modo o nell’altro, siamo ancora oggi coinvolti. Una guerra disseminata, diffusa, che non ha più nulla a che fare con le guerre del passato, con eserciti che si fronteggiano. È una guerra che consiste nel bombardare dall’alto, nel fare strage di corpi inermi. In questo senso, la guerra in ex Jugoslavia è stata la prima a essere vista così: una guerra che entrava nelle case, che si guardava in televisione, al telegiornale. Non era mai accaduto prima. Eppure, il vedere di più non ha significato affatto capire di più. Anzi: come accade oggi con Gaza, l’eccesso di immagini si è rivelato pericolosissimo. La ridondanza, l’affastellamento, l’immediatezza delle immagini – oggi aggravate anche dall’intelligenza artificiale e dalla loro possibile falsificazione – fanno ormai parte della guerra a pieno titolo.
C’è poi un altro aspetto che mi colpisce molto, se torniamo all’ex Jugoslavia. Sappiamo che quella guerra nasce anche dal riemergere improvviso della spinta religiosa dopo la caduta del Muro. Quando sono stato a Sarajevo mi raccontavano che, prima della guerra, era del tutto normale che bambini musulmani, ebrei, cattolici e ortodossi convivessero: ognuno partecipava ai riti dell’altro, alle feste, ai battesimi. La religione aveva una dimensione più culturale e antropologica che fideistica.
A un certo punto, invece, è tornata con forza la religione come fede assoluta. È tornato Dio – un dio nel nome del quale, proprio perché assoluto, si giustifica il male. Anche oggi molti agiscono nel nome di dio. Gran parte di ciò che sta accadendo nel mondo avviene nel nome di Dio, e questo è estremamente grave. Dio ha molte facce, ma quella che oggi sembra dominare è quella dell’oscurantismo. Che tipo di confronto è possibile con chi afferma: “Le cose stanno così perché Dio lo ha deciso”, “Questa terra è mia perché Dio me l’ha data”? Quali argomenti possono opporsi a questo? Ovunque, da parti diverse, si invocano dei ‘Dio’ assoluti. È questo oscurantismo, secondo me, il vero male del nostro tempo, e affonda le sue radici proprio in quella stagione di guerre.
A questo si accompagna anche una crisi profonda della politica. E quando dico politica, intendo la polis. Ciò che vedo distrutto è proprio il concetto di polis: il luogo del confronto, anche duro, tra ragioni diverse. Mi manca la polis. Mi mancano gli spazi di incontro e di scontro. Le piazze. Tutto sembra essersi disgregato sotto il peso delle immagini, delle falsificazioni, della perdita di senso.
Abbiamo parlato della sparizione dell’umano: la proliferazione incontrollata delle immagini e la sparizione dell’umano procedono insieme. È una violenza diffusa, invasiva, che attraversa tutto.
Per questo penso che, se c’è qualcosa che dobbiamo fare oggi, è alimentare ovunque sia possibile l’articolazione del pensiero, la dialettica, la creazione di spazi di condivisione e di dialogo. Che sia il teatro, la piazza, un luogo di aggregazione, persino una chiesa. Non dimentichiamo che, paradossalmente, in tempi recenti parole molto forti sono arrivate anche da Papa Francesco.
Viviamo in un tempo pieno di contraddizioni. Ma proprio per questo dobbiamo evitare i paraocchi, cercare di essere rigorosi, severi, e allo stesso tempo capaci di ascolto. Anche perché questo fondamentalismo che invoca Dio è spesso soltanto la copertura di necessità e interessi molto terreni.
English abstract
The Teatro del Maggio Musicale Fiorentino staged Giuseppe Verdi’s Macbeth in a production directed by Mario Martone (first presented at Paris’s Théâtre des Champs-Élysées in 2015). In its Florentine production, Martone intensifies the opera’s psychological chiaroscuro, framing it as an immersion in the claustrophobic, obsessive space of Macbeth’s mind. A decisive rupture is introduced during the chorus Patria oppressa, when projections of a devastated Gaza appear on the backdrop. This interview with Mario Martone examines the rationale and stakes of that choice and, more broadly, considers the responsibilities of theater—and of artistic practice—when confronted with the human abyss of genocide.
keywords | Mario Martone; Macbeth; Giuseppe Verdi; William Shakespeare; Mimmo Paladino; Una storia Saharawi; Noi credevamo.
Per citare questo articolo / To cite this article: F. Perfetti, G. Zanon (a cura di), Macbeth a Gaza. Intervista a Mario Martone, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.